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Il carcere è diviso in padiglioni e/o sezioni, che raggruppano i detenuti, generalmente per separarne alcune categorie, ad esempio quelli in attesa di giudizio, gli appellanti, i definitivi, i tossicodipendenti con in corso un programma di disintossicazione, i protetti[1].
Al momento del suo ingresso in carcere, il detenuto passa per l'Ufficio Matricola, nel quale viene perquisito: gli vengono tolti i soldi e tutti gli oggetti di valore, l'orologio, la cintura[2] e gli abiti imbottiti, i quali possono essere poi richiesti al momento della scarcerazione con una domanda scritta al direttore dell'istituto. Vengono poi rilevate le impronte digitali, effettuate le foto, acquisiti i dati anagrafici. Riceve quindi in dotazione piatti, una ciotola di alluminio, una forchetta, un coltello di plastica, lenzuola.
Il detenuto viene poi portato in una cella di transito, nella quale solitamente rimane massimo un paio di giorni, ma anche di più nel caso in cui il magistrato disponga l'isolamento dell'imputato. Sarà poi portato nella cella definitiva, della quale sarà responsabile - anche sotto il profilo pecuniario - fino alla fine della sua permanenza in essa.
Il momento dell'ingresso in carcere, soprattutto se si tratta della prima volta, può essere molto drammatico, per la vergogna, per il dolore di aver lasciato fuori i propri cari, ma soprattutto per l'alto numero di incognite che si presentano al detenuto: "Ci fermiamo davanti alla cella e vedo quattro volti che si affacciano Chi sono questi? Da dove vengono? Che carattere avranno?" sono le domande che si pose un detenuto[3] posto per la prima volta dinnanzi ad una cella. La sua.
E un altro[4]: "C'avevo paura . io ero un pischello, capirai, c'avevo diciannov'anni . Me se so' presentati tutti st'omaccioni: brutti, tatuaggiati ."
Per questo, è stato istituito il cosiddetto Servizio Nuovi Giunti[5], al fine di umanizzare l'impatto con il carcere ed anche di prevenire i gesti frequentissimi di autolesionismo e di tentativi di suicidio, dei quali si parlerà nel paragrafo 3.7. Il detenuto può avvisare i familiari della sua reclusione attraverso un telegramma o con una lettera a busta aperta, e nominare un difensore.
Le infrazioni del regolamento comportano una sanzione disciplinare, che può consistere nell'isolamento, fino a un massimo di dieci giorni, la quale può precludere la possibilità di beneficiare della liberazione anticipata, ovvero lo sconto di pena, previsto per la buona condotta, di quarantacinque giorni ogni semestre. I comportamenti scorretti sanzionati sono, ad esempio, la negligenza nella pulizia e nell'ordine della persona, e ciò include l'autolesionismo; gli schiamazzi e linguaggio blasfemo; il possesso o il traffico di oggetti non consentiti, quindi anche di denaro[6]; l'intimidazione o sopraffazione verso i compagni; il possesso o il traffico di strumenti atti ad offendere; l'atteggiamento offensivo nei confronti degli operatori penitenziari o dei visitatori; la promozione o la partecipazione a disordini e sommosse.
Attraverso la cosiddetta domandina[7], che è un modulo di richiesta prestampato richiedibile all'agente di polizia penitenziaria presente nella sezione - da imbucare poi nella cassetta della posta - i detenuti possono chiedere molte cose: i colloqui, ad esempio, con il Direttore, l'Ispettore Capo, ma anche con le varie figure trattamentali; vestiario o prodotti per la pulizia, ma anche un lavoro interno e la partecipazione a corsi ed attività varie. Tuttavia le domandine spesso "cadono nel nulla, si perdono misteriosamente, scompaiono. Allora bisogna ritentare, sperando nella fortuna" . Oltre alle domandine sono disponibili altri moduli, da presentare all'Ufficio Matricola, con i quali si possono chiedere: colloqui con i familiari e conviventi, telefonate con familiari, conviventi, con il Magistrato, oltre a tutti i benefici previsti dall'Ordinamento Penitenziario .
La maggior parte del tempo i detenuti la passano in cella, il primo spazio condiviso[10], spesso troppo piccola per il numero dei detenuti che ospita, "nella staticità, nella noia, distesi su una brandina a meditare, a sperare che qualcosa possa cambiare". L'unico modo per evadere dalla monotonia è di svolgere attività lavorative "che permettono di uscire dalla propria cella e d'allontanare per un po' i pensieri che occupano la mente" . Generalmente le giornate passano tutte allo stesso modo, e, poiché i detenuti passano in media in cella circa ventidue ore, subendo in tal modo la cosiddetta dilatazione del tempo . "In questo arco temporale ogni individuo può fare quello che vuole, anche lasciarsi andare completamente, magari saltando la colazione, il pranzo o la cena ".
Le giornate sono scandite da attività e da piccoli eventi. Tra questi vi è la distribuzione della posta, vissuta dai detenuti con comprensibile felicità: "vorresti che potesse arrivare in continuazione, non ti fa sentire solo, dimenticato, ma ancora più legato agli affetti che hai dovuto lasciare e ai quali, a volte non hai dato il giusto valore"[14]. E ancora: "La vera valvola di sfogo . la cosa più bella in assoluto! Infatti non hanno orari, impedimenti, nessuno può interromperle. A loro puoi affidare tutto, desideri, emozioni, paure, lacrime. Tramite la carta puoi confessare, scoprire, farti scoprire, giocare, litigare, far pace, far compagnia, voler bene, conquistare, amare, soffrire. In una lettera ti puoi raccontare, inventare, fantasticare, volare . evadere! Tornar qui e sorridere" , sono alcune delle tante affermazioni dei detenuti su questo tema.
Un altro mezzo di comunicazione con l'ambiente esterno sono inoltre i colloqui con i familiari: in occasione di ognuno di esso, i detenuti possono ricevere un pacco, contenente generi alimentari, vestiario e lenzuola personali, fino a un peso di 5 Kg, mentre libri, riviste e altro materiale didattico possono essere ricevuti anche in eccesso al peso previsto.
I colloqui "volano in un batter d'occhio, ma cancellano anche per un'ora soltanto la malinconia, la tristezza, il tormento che seppur mascherati vivono dentro ciascuno di noi. Ogni volta al termine del colloquio il distacco si fa più forte, intenso, pungente, lasciandoti smarrito, attonito"[16]. I contatti con la famiglia - che assumono anche la valenza di ponte con l'esterno - sono mantenuti proprio dai colloqui e dalle lettere, canali che i reclusi ricoprono di importanza, ma che a volte generano frustrazioni per la difficoltà di gestirli: "(durate il colloquio) in quell'ora devo creare tutto: devo creare l'affettività nei riguardi di mia moglie, devo creare amore, devo capire quello che succede fuori" afferma un detenuto, ma anche dividere il tempo tra i figli, o gestire i colloqui in modo da rimanere in contatto sia con la famiglia di origine che con quella acquisita può diventare problematico e generare ulteriori conflitti.
Il momento del colloquio è vissuto quindi dai ristretti con trepidazione, ansia e senso di colpa: "lo vedi che je stai a fa' un torto. Ecco, vedi lei (la compagna)? La vedi durante i colloqui che sta male . Certo tu sei contento de vedella, perché t'assicuro, quando vedi che ar colloquio nun viene nessuno . T'assicuro che stai veramente male. Ecco: vedi?, pensavo Ormai, te la stanno a accolla' tutta a te 'sta faccenda[18]. Te senti abbandonato, trascurato. Passi 'na settimana (da schifo), finché nun arriva er prossimo, se arriva". Sono le amare considerazioni di un detenuto .
C'è la possibilità di partecipare a corsi professionali e scolastici, ma la giornata è scandita soprattutto dalle ore d'aria, "punto d´incontro, di socializzazione, di svago, di sogni ad occhi aperti, d'illusioni. Ti ritrovi a passeggiare avanti, indietro, come vedi spesso nei film, in una grande piscina vuota. Come bestie feroci in gabbia andiamo avanti e indietro macinando chilometri senza andare da nessuna parte in compagnia di persone, a volte sconosciute, che condividono lo stesso dramma, gli stessi pensieri, gli stessi turbamenti"[20].
Un detenuto[21] parla di questo appuntamento come della cosa che più lo colpì al momento del proprio ingresso in carcere, a diciotto anni; in particolare il modo di camminare dei detenuti, con movimenti "quasi disumani . meccanicamente perfetti . ad una velocità quasi folle . con disinvoltura, continuando a chiacchierare tra loro . È stato un shock, credevo fossero tutti pazzi . Oggi ho trentotto anni e sono tra quelli che vanno più veloci".
Oltre alle ore d'aria, tutti i pomeriggi è prevista un'ora di socializzazione, o socialità, durante la quale i detenuti possono uscire dalla cella e restare nel corridoio della sezione a parlare con gli altri, oppure "ritrovarsi, nella propria cella o in quella di qualche compagno, per consumare un pasto insieme, discutere, scherzare o giocare a carte. Un periodo di non carcere in carcere, non socialità semplicemente, ma un momento terapeutico che, finché dura, ti permette di viaggiare attraverso i sapori e profumi dei cibi, con i sensi e, attraverso i racconti della memoria, con lo spirito. Un paio d'ore d'evasione totale", racconta un detenuto[22].
I reclusi possono tenere in cella, a proprie spese, un fornelletto a gas tipo quelli da campeggio, anche se l'amministrazione penitenziaria serve tre pasti al giorno, insieme ad altre cibarie che dovranno bastare per tutto il giorno; c'è tuttavia la possibilità di comprare - senza superare un tetto di spesa - il cosiddetto sopravvitto - comprendente anche sigarette, giornali, detersivi, carta da lettere e altro - così che generalmente chi può cucina in cella.
Questo è un rito molto significativo per i detenuti: "Il pranzare insieme, qui, acquista un significato ben più importante che quello di nutrirsi in piacevole compagnia", spiega un detenuto[23], in quanto "le pietanze di nostra preparazione diventano, per chi le fa, un riavvicinarsi, nei profumi e sapori conosciuti, alla propria terra d'origine e, attraverso l'offerta del cibo di casa nostra ai nostri ospiti, il desiderio di portarli con noi in questo viaggio di riavvicinamento . (Significa) far partecipare i compagni, con i quali questi si dividono, all'attenzione e all'affetto dei nostri familiari che li hanno preparati, includere l'altro nella propria sfera affettiva". Come conclude argutamente, "il carcere si può considerare una grande matrice simbolica, dove ogni gesto d'attenzione acquista un significato che va al di là del gesto stesso".
Si tratta di un vero e proprio cerimoniale, con le sue regole su come cucinare, mangiare, invitare e contraccambiare, un "galateo, fatto di gesti e sottigliezze a cui bisogna sapersi accostare per non provocare un'offesa alla tavola, irritando il boss di turno"[24]. Il rito di preparare il cibo in cella può assumere anche il valore simbolico di atto creativo ed espressivo-comunicativo, che si contrappone alla spersonalizzazione istituzionale. Ne sono testimoni alcuni detenuti del carcere milanese di S. Vittore hanno realizzato un cd rom intitolato proprio "Avanzi di galera. Le ricette della cucina in carcere" , nel quale descrivono, oltre alle ricette , frammenti di vita nel penitenziario e invenzioni messe a punto per supplire alla mancanza di posate, pentole e utensili vari.
Ogni cella generalmente è inoltre dotata di un televisore in bianco e nero, e i detenuti possono tenere con sé anche una radiolina regolamentare.
Due volte al giorno c'è poi il rito della battitura che consiste nel passaggio di un agente in ogni cella che ne batte le inferiate delle finestre con un ferro per verificarne l'integrità. Di notte, infine, gli agenti di polizia penitenziaria possono aprire la porta blindata, controllare attraverso le sbarre con una torcia, e perquisire senza preavviso.
Tre detenuti, infine, raccontano in modi diversi la percezione complessiva della vita in carcere: "l''immagine che si ha di una prigione è uno schema freddo e sintetico. Uno spazio essenziale, spogliato di ogni riferimento, ove l'anima urla davvero, e potrebbe non esser udita, perché soffocata dalle sue stesse grida, dall'imprecare, sanguinare, chiedere. Uno spazio ove al suo interno non esiste principio né fine, né prima né dopo, alcun tempo. Né sopra né sotto, alcuno spazio. Una dimensione di assoluto e di niente, di vuoto e di pieno. Un movimento presente, passato, futuro; un punto di contatto, di aggregazione, di disgregante follia. Linee e arredi spogli, poveri, insignificanti, ma a ben guardare, nel lungo tempo, divengono segni importanti: presenza viva nonostante tutto. In questa prigione così oscura, tetra e dura, tanto da divenire un incubo, fino a farti ammuffire più del suo tetto-cratere corroso dal tempo: esiste un'umanità che sopravvive e infine chiede di vivere. Questa cella, questo recinto stretto, questo carcere a distanza siderale dall'essere, difficilmente si impara ad accettarlo come intorno, a colorarlo con il lavoro, la poesia, il teatro, la meditazione, i rapporti umani finalmente nati, mantenuti e custoditi". È l'appassionata dichiarazione di Adriano Sofri[27].
La capacità di adattamento a tale contesto - nel quale "è tutto accentuato: da così diventa tutto così", come spiega un detenuto[28] - , sarà comunque superiore in un soggetto con esperienza di precedenti carcerazioni, o nel ristretto che riesca a trovare nel carcere punti di riferimento, come ad esempio detenuti che appartengono alla stessa zona o alla stessa banda criminale . "Non tutti viviamo il carcere nello stesso modo", spiega un detenuto . "Ho visto personalmente alcuni compagni di pena impazzire solo dopo pochi giorni e tentare il suicidio. Ho visto altri vivere a proprio agio in cattività, quasi la galera fosse un rifugio per difendersi dal mondo che scorreva all'esterno. Personalmente penso che la cosa peggiore lì dentro non sia la coercizione, la segregazione, a questo prima o poi ci si abitua. Quello che più mi ha segnato nei lunghi anni del carcere è l'assoluta mancanza della possibilità di riversare sul prossimo il bisogno di affetto che ognuno di noi ha dentro. In carcere non esistono rapporti affettivi, ed è questo che col tempo imbruttisce e incattivisce l'individuo. Alcuni riversano sul compagno tali affetti, a volte scambiati per omosessualità, ma i rapporti omosessuali sono rari, al contrario di quanto crede la gente . Da questo mondo è bandita ogni forma esteriore di affetto", è la sua percezione, che rende chiaramente visibile la necessità, nell'ottica risocializzativa, di evitare quanto possibile l'eccessiva separazione con il mondo affettivo esterno .
"Non credo che a rendere la vita di noi reclusi tanto diversa da quella di chi sta al di là del muro possa essere qualche singolo episodio", conclude infatti un terzo[32], "ma quell'insieme di tante piccole cose che, come nella tortura della goccia, ti piovono sulla testa l'una dopo l'altra, fino a non farti più accorgere dell'assurdità delle cose stesse, ottenendo quel devastante effetto di ridurti a considerare normale quel che normale non è affatto . Questo mi ha colpito del sistema carcerario, l'assurdo che diventa quotidiano". Dinamica a cui la fidanzata di un recluso ha sentito l'obbligo di sottrarsi: "Me rifiuto da entra' ancora là dentro, perché ho iniziato a vive il carcere come una cosa normale, e alla fine il carcere non è una cosa normale".
Tra le attività che scandiscono le giornate dei detenuti, grande importanza riveste la sfera sportiva, che qui verrà trattata per la sua potenziale valenza rieducativa: l'attività sportiva è utile infatti all'interiorizzazione di norme collettive, insegna la convivenza con gli altri e la capacità di sapersi sacrificare per il raggiungimento di un obiettivo individuale o collettivo; lo sport di squadra implica costanza, intelligenza, abilità, collaborazione, senso dell'onore: tutte qualità che fanno uscire dallo stereotipo dell'internato[34] "Lo scopo di queste sfide calcistiche tra noi ed alcune squadre del mondo esterno non sarà mai legato al risultato finale delle partite", afferma infatti un detenuto , "ma piuttosto ad una vera voglia di socializzazione con l'esterno. Non è solo calcio". "Di colpo ti senti ancora utile, vivo, accettato, ti passa tutto", gli fa idealmente eco un altro recluso .
Nel carcere di Opera, a Milano, è stata formata con trenta ristretti una squadra di calcio chiamata Free Opera Brera, la quale nel giugno di quest'anno è stata promossa in seconda categoria e ha cominciato a settembre il campionato. La partita d'esordio è stata giocata nel settembre del 2003 contro la squadra della Polizia Penitenziaria, e gli incontri della squadra che hanno portato alla promozione sono state seguite da Sfide, trasmissione di Rai Tre: "È stata una delle esperienze più coinvolgenti della mia vita: ho visto detenuti impazziti di gioia per un goal, correre verso il pubblico e abbracciare per la prima volta i figli, la moglie, senza una guardia di mezzo", racconta la regista Simona Ercolani[37]. Le fa eco Alberto Fragomeni, direttore del carcere di Opera, il quale sottolinea il valore risocializzativo dell'iniziativa: "La squadra ha cambiato molti di loro nel profondo. Hanno scoperto cos'è un obiettivo comune, l'orgoglio di riuscire. In campo si sentono uomini liberi, con dignità. Persino il rapporto con gli agenti di custodia è migliorato". "Nessuno, prima che nascesse Free Opera, mi aveva offerto un'opportunità. Ho due bambine, voglio cambiare", si propone Carlo Z., capitano della squadra, mentre a Christian L. , attaccante, "il pallone ha dato il coraggio di rivedere il figlio: per due anni gli ha raccontato bugie, dicendo di essere all'estero per lavoro. Poi l'ha invitato all'ultima partita, il 13 giugno, e gli ha fatto vedere quant'è bravo il suo papà. Anche se è in galera".
E ancora un detenuto[39], sul ruolo della comunità esterna: "Per noi è un momento anche di incontro con l'esterno, perché ogni domenica vengono quaranta, cinquanta persone che accompagnano le squadre esterne. Poi il direttore ci permette di portare dentro le famiglie, quindi è un momento importante".
Lo sport diviene inoltre un mezzo di dialogo tra i detenuti, ma anche tra i componenti dell'istituzione, in quanto è coinvolgente, universale, e tende ad annullare le differenze sociali, "soprattutto ora che il mondo carcerario è cosmopolita, quanto il mondo fuori"[40]. "Ufficialmente si sta in galera per rifarsi una vita. In realtà la vita si disfa, a vista d'occhio. Ci sono due sole possibilità: il teatro e il calcio. A teatro si può essere un altro, sia pure per un paio d'ore Agamennone, o Amleto, o l'Ispettore Generale. A pallone si può essere un altro: Ronaldo, Del Piero, Matusalem", sono le considerazioni di Sofri, che prosegue: "In galera le metafore diventano reali. In galera è successa la cosa che si paventa come un incubo fuori: che gli stranieri siano già maggioranza, o quasi. Questo non riduce il tifo per l'Italia, al contrario: nessuno è più patriota dei nuovi arrivati. Per desiderio di essere accolti, si votano a una squadra locale, e tanto più alla Nazionale. L'impero romano l'aveva capito, e affidava ai coloni i suoi confini " .
"Ciascun detenuto è un Robinson che fa tesoro delle poche cianfrusaglie strappate al naufragio" [42]. Questa sorta di aforisma rende bene l'idea delle dinamiche di sopravvivenza messe in atto all'interno della realtà penitenziaria: ovvio che le cianfrusaglie cui si fa riferimento sono anche i mezzi mentali del soggetto.
Fu Goffman[43] a studiare queste dinamiche all'interno delle istituzioni totali; nelle sue parole "l'adattamento primario all'organizzazione si ha quando al detenuto viene ufficialmente richiesto di essere né più ne meno di ciò che è preparato ad essere". Nelle istituzioni totali, tuttavia, esiste anche un sistema parallelo, fatto di quelli che possono definirsi adattamenti secondari, insieme di pratiche per mezzo delle quali i membri di un'organizzazione usano mezzi ed ottengono fini non autorizzati, oppure usano ed ottengono entrambi: in tal modo essi sfuggono a ciò che l'organizzazione presume dovrebbero fare ed ottenere, quindi a ciò che essi dovrebbero essere.
Gli adattamenti secondari rappresentano il modo in cui l'individuo riesce ad evitare il ruolo e il sé che l'istituzione ha progettato per lui, ma anche qualche soddisfazione proibita.
Un tipo di adattamento secondario è per esempio quello messo in atto dai detenuti che frequentano i corsi scolastici non per un'effettiva voglia di istruirsi, ma per poter usufruire dei benefici premiali, come anche tutti quegli espedienti pratici messi in atto dai detenuti per far fronte alle limitazioni di movimento e di possedimento.
Tali invenzioni vanno dalle ricette[44] alla costruzione di suppellettili varie, realizzate talvolta con i materiali di scarto dell'amministrazione penitenziaria, "con vari oggetti che fuori potrebbero servire solo da buttare nel cestino: con le scatole vuote di sigarette facciamo le mensoline, il nostro portacenere con una scatola di tonno . qualche cassetta della frutta (può) diventare un piccolo armadietto . semplici graffette possono diventare appese al muro dei piccoli appendini, ed anche con gli stuzzicadenti creiamo dei portafotografie, barche e tante altre cose" .
La costruzione di piccoli ma efficienti macchinari rientra sempre in questa dinamica: ad esempio un detenuto[46] spiega che per disegnare i tatuaggi, attualmente, "se sistema la penna bic, l'ago, le batterie" e con il motorino di un walkman "fai tipo 'na macchinetta". Il figlio di un ex detenuto racconta invece di come i compagni di cella di suo padre avessero costruito un forno utilizzando "uno scaffaletto di legno con lo sportello . L'avevano tutto rivestito dentro con la carta argentata, poi hanno usato il fornelletto a gas. Non me chiede come funzionava che non lo so, però so che funzionava!".
Questa operosa e fantasiosa attività ha, come già detto, la funzione di supplire alla condizione di privazione nella quale i detenuti versano[48], ma rappresenta anche un diversivo alla monotonia e all'appiattimento cerebrale dei ristretti: "così ci passa il tempo", confessa un detenuto , "quest'attività ci distoglie dai pensieri".
Anche l'utilizzo di canali informali di comunicazione e di trasmissione rientrano in queste invenzioni: materiale illecito, come droga e armi, viene quotidianamente fatto entrare e passato in carcere. "Quando un coltello entra in carcere, il nascondiglio più comune è l'ano, con la lama avvolta nella plastica. C'è chi ha inghiottito persino degli esplosivi" [50]. Tuttavia "le armi pure se fanno . Se tu prendi er tappo der tonno, te faccio vede': te apro", spiega un detenuto .
Ci si ingegna per trovare nuove ed efficienti forme di comunicazione - una strategia per conversare in determinate parti dell'istituto, ad esempio, è utilizzare le condotte fognarie del gabinetto - e l'errore contribuisce ad affinare tali espedienti: "all'interno del carcere nascono anche le storie d'amore tra i due padiglioni femminili e maschili. Ci si scrive con gli accendini di notte, ma l'accendino brucia le dita, allora si usa il giornale ma proprio uno di questi giornali, alcuni anni fa, appiccò il fuoco e nell'incendio morirono diverse donne ed anche alcune agenti", ricorda un detenuto[52].
A volte l'adattamento è funzionale al miglioramento delle condizioni detentive; a tal proposito Silvia Tortora, figlia di Enzo[53], riferisce: "(Mio padre) metteva delle bottiglie di plastica tagliate nelle zampe del letto (della) brandina, piene d'acqua, affinché queste bestie - scarafaggi, pidocchi, piattole - non potessero saltargli addosso".
Un altro tipo di adattamento è il surrogato creato dai tossicodipendenti per le proprie iniezioni: essi infatti a volte usano siringhe di fortuna fatte con cartucce di penne, cannucce o corde di chitarra. Anche i tatuaggi, poiché illegali in prigione, sono fatti clandestinamente e con mezzi di fortuna. Un detenuto[54] racconta del suo primo tatuaggio eseguito in carcere: una volta "fatto il disegno co' la penna, con la lametta (il tatuatore) me tagliava . Però devi sape' adopera' la lametta, ovviamente . M'è venuta uguale 'na gamba così, eh . E dopo, passi l'inchiostro". Chiare le scarse condizioni d'igiene in cui avveniva, e avviene tuttora, il tutto; inoltre, a causa dello scarso reperimento degli aghi e dei loro surrogati, questi ultimi sono conservati e condivisi tra i detenuti, con il conseguente frequentissimo contagio da epatite C e da AIDS.
Anche i modi per far circolare oggetti materiali ed informazioni è un tipo di adattamento secondario. Una volta che il sistema di trasmissione è stato individuato, c'è a possibilità, per coloro che lo usano, di trasmettere più di un oggetto[55]; generalmente si utilizza come mezzo di trasporto una persona che ha più libertà di movimento all'interno dell'istituto. Spesso sono proprio queste persone a proporsi come corrieri, e di solito sono i detenuti che fanno le pulizie nella sezione; chiuse a chiave le celle, un detenuto del carcere romano di Rebibbia, usa affacciarvisi durante il suo orario di lavoro per essere utile a chi dalla cella non può uscire: "Tutto a posto, Albe'? Te serve quarcosa Rocco?"; spesso viene chiamato: "Felice! Me senti?" e lui: "Nummero?", per individuare da quale cella proviene la voce, "Ha detto Umberto se c'hai cinque-sei olive verdi", e lui comincia a girare per le celle: "Cristia', che c'hai 'na decina de olive verdi pe' Umberto?". E così anche per sigarette, vino, vestiti e cibo.
Anche in caso di mancanza di corrieri si possono passare oggetti da una cella all'altra. Un detenuto[57] riferisce: "Strappammo strisce di lenzuolo dell'Amministrazione, ne facemmo una corda annodando i capi, e all'estremità legai un sacchetto di plastica, dove misi due mele per fare da peso e poterlo lanciare". È il carrello.
Questa categoria di detenuti ha minori possibilità di movimento, al fine di evitare forme di giustizia sommaria.
Proprio tale restrizione fu l'origine, negli USA, della moda di portare i calzoni calati: iniziale peculiarità del carcerato statunitense, in seguito divenne tendenza.
Attraverso la circolare n. 3233/5683 del 30/12/1987, c.d. Circolare Amato. "Deve considerarsi nuovo giunto, da avviare al servizio in oggetto, il detenuto o l'internato che proviene dalla libertà, e non invece il soggetto che giunge in istituto per trasferimento o temporanea assegnazione o si trova semplicemente in transito", cfr. circolare n. 3245/5695: "Chiarimenti relativi all'applicazione della circolare 3233/5683 del 30 dicembre 1987 Istituzione organizzazione del Servizio Nuovi Giunti". dell'istituto si parlerà in seguito.
Ai detenuti viene consegnato un libretto di conto corrente, sul quale è riportato quello di cui dispone e sul quale verranno segnati tutti i successivi carichi e scarichi.
Il termine, nel suo diminutivo, "deprezzando la forma svuota anche di dignità la sostanza", cfr. C. SERRA: Istituzione e comunicazione: segni e simboli della rappresentazione sociale del carcere, II ed., Roma,1998. Considerazioni analoghe valgono per i termini spesino, saletta, scopino.
Dall'opuscolo informativo prodotto dai detenuti del carcere Due palazzi di Padova "Carcere: istruzioni per l'uso", pubblicato sul sito di Ristretti Orizzonti, cit., 2004.
Nelle parole di G. DI GABALLO, op. cit., 2002: "per spazio condiviso si intendono tutti i momenti in cui i diversi attori sociali occupano un medesimo luogo e la disposizione dinamica con cui lo occupano, in interazione comunicativa o interpersonale in genere. Esso rappresenta un fenomeno complesso, implicante la natura dei rapporti sociali tra le varie categorie, e capace di svelare le trame del potere di controllo, talvolta reprimente quei movimenti che sarebbero naturali in qualsiasi altro contesto".
Christine, "Figlie, mogli, madri: l'affettività è donna", Dentro, inserto realizzato dai detenuti del carcere di Rovereto, di Oltre il muro, la rivista dell'Associazione Provinciale Aiuto Sociale, che si occupa di reinserimento e alternative al carcere di Trento, agosto 2004.
Il cd rom è stato anche vincitore, il 15 novembre 2004, della V edizione del Premio Cenacolo Editoria e Innovazione, convegno promosso dalle più importanti case editrici italiane, presieduto da Umberto Eco, volto alla promozione di progetti editoriali e di campagne di comunicazione.
Caratterizzate da ingredienti poveri ma da nomi fantasiosi, quali "Spaghetti alla disgraziata", "Zucchine in salsa dell'ergastolano", "Braciole ricicciate", "Pomodori alla vigliacca", e così via.
Atti del seminario La vita in carcere. Tavola rotonda, svoltosi a Torino, il 4 ottobre 1999, nell'ambito della manifestazione Identità e Differenza, pubblicati su internet all'indirizzo https://www.comune.torino.it/cultura/intercultura/8/carcere.
Testimonianza raccolta dallo speciale "Il mestiere di vivere. Rebibbia G8", puntata del 20 settembre 2004.
E. GOFFMAN, op. cit., 1968. Molto interessante è l'analisi del cerimoniale messo in scena durante le manifestazioni sportive aperte all'esterno.
A. SOFRI, "La nostra lotta dietro le sbarre: rinunciamo anche all'ora d'aria", La Repubblica, 17 settembre 2002.
Luigi Pagano, ex direttore del carcere San Vittore di Milano, in C. CANNAVO', Libertà dietro le sbarre, Milano, 2004.
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