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Il sistema penitenziario italiano è basato sulla Legge 354 del 26 luglio 1975, cosiddetta 'Ordinamento penitenziario'. Con la riforma contenuta in tale Legge, l'Amministrazione penitenziaria acquisisce lo strumento normativo indispensabile per adeguarsi ai precetti costituzionali dell'umanizzazione delle pene e del trattamento rieducativo dei condannati (Art. 27, comma 3 Cost.)[1]. Ciò rappresenta il raggiungimento di una grande forma di civiltà per lo Stato italiano, il quale abbandona la concezione del deviante inteso come alienato mentale, dunque pericoloso per la società, e si assume la responsabilità e la presa in carico dello stesso attraverso un intervento di prevenzione secondaria e terziaria nei confronti dell'illecito.
Il sistema penitenziario diviene promotore di una funzione preventiva in grado di:
Rieducare gli autori del reato per essere reinseriti nella società;
Mostrare ai detenuti i loro errori al fine di scoraggiare le recidive ed educare alla legalità [2].
Poiché l'Articolo 27 comma 3 recita che "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, ma devono tendere alla rieducazione del condannato", la funzione svolta dal carcere diviene promozione di attività di studio, di riflessione e di sostegno per impedire il processo di deterrenza centrato sulla neutralizzazione della persona[3] e per ricercare, attraverso l'osservazione scientifica della personalità, un trattamento individualizzato del detenuto, che adegui la pena alla personalità socio-psichica dell'autore del reato e che permetta il suo reinserimento nella società .
Sarà compito del presente capitolo illustrare gli strumenti previsti dalla Legge per rendere effettivo l'esercizio di questi diritti e il percorso che questa problematica ha avuto nel corso degli anni, dal Regolamento per gli Istituti di prevenzione e pena del 1931 fino alle modifiche introdotte dal nuovo Regolamento esecutivo approvato con D.P.R. n. 230 del 2000.
La Legge n. 354 del 1975 in materia di "Ordinamento penitenziario ed esecuzione delle misure privative e preventive della libertà" rappresenta, nell'attuale sistema normativo, una delle fonti di maggiore importanza per l'applicazione di misure detentive finalizzate al trattamento rieducativo del condannato[5]. Questa Legge è il frutto di un lungo e tormentato lavoro legislativo, che ha evidenziato la necessità di rieducare e risocializzare il condannato attraverso un trattamento individualizzato, in cui la detenzione possa essere vista come un periodo di recupero e di apertura verso la società tramite l'istituzionalizzazione di una vasta serie di legami e di rapporti strutturali e funzionali con il territorio.
Già nel Regolamento del 1931 (Regolamento Rocco) si potevano leggere riferimenti in tema di recupero, che si ispiravano al principio per cui le privazioni e le sofferenze fisiche imposte dalla detenzione servissero come mezzo per favorire l'educazione ed il riconoscimento dell'errore da parte del reo e per determinare, attraverso il lavoro, l'istruzione e l'educazione religiosa, un miglioramento personale. Tale Regolamento, improntato sulla sofferenza intesa come strumento per indurre il condannato a ripiegarsi su se stesso per comprendere l'errore commesso e maturare il proposito di correggersi, concepiva il carcere come una realtà separata dalla società civile, in cui l'isolamento, la mortificazione fisica e la durezza avrebbero dovuto svolgere la funzione di rafforzare la capacità di pentimento e ravvedimento del reo.
Il carcere, così inteso, era chiuso a qualsiasi permeabilità verso l'esterno e lasciava ben poco spazio all'esigenza di mantenere relazioni umane valide.
La concezione della pena come "utile funzione eliminatrice", sebbene non si improntasse ancora sull'esecuzione di processi riabilitativi attraverso la risocializzazione, promulgava una visione allargata della personalità del reo, che andasse oltre la valutazione del fatto deviante, accogliendo così i concetti sviluppati sin dal XIX secolo ad opera della Scuola Positiva di Lombroso.
Principio fondamentale del pensiero positivistico è la non responsabilità del soggetto, che agisce determinato nelle sue azioni; il reato viene considerato come un fatto umano individuale che trova la sua causa nella struttura biopsicologica del reo. Occorre dunque guardare alla personalità del soggetto nei suoi condizionamenti e valutarne poi la pericolosità.
Con il Regolamento Rocco il soggetto pericoloso non veniva sottoposto ad una pena caratterizzata da brutalità fisica e degrado, ma ad una misura utilitaristica di difesa sociale, volta a prevenire, attraverso la neutralizzazione e l'isolamento dalla società, il compimento di ulteriori crimini e ad attuare la risoluzione di complesse problematiche individuali.
Per ottenere ciò il detenuto veniva emarginato in una struttura carceraria che difendeva la "parte sana" della società da quest'ultimo.
Negli anni a seguire numerosi furono gli incontri ed i dibattiti tra gli studiosi di diritto penitenziario al fine di aggiornare la materia penitenziaria.
Grazie a tali eventi si arrivò alla promulgazione della Legge 26 Aprile 1975 n. 354 "Norme sull'Ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure preventive e limitative della libertà", con cui si definì un corpus normativo ispirato ad una concezione della pena soprattutto rieducativa, contro la sterile impostazione punitiva e difensiva incentrata sulla neutralizzazione e sull'annullamento del soggetto recluso, predominante nell'Ordinamento penitenziario precedente[6]. Per la prima volta nella tradizione giuridica il detenuto veniva considerato come una persona dotata di bisogni ed esigenze specifiche, di cui far valere i diritti.
L'affermazione di una nuova filosofia della pena, non più afflittiva, ma tesa al recupero del reo, si strutturava a partire dal principio che le sanzioni dello Stato debbano essere educative e quindi che tutto il complesso regime di soggezione speciale del condannato trovi ragione e fondamento giuridico unicamente nella necessità di rieducarlo.
Altro aspetto di attenzione del nuovo Ordinamento penitenziario è il bisogno di individualizzazione del trattamento, con cui si abbandona l'antica logica della depersonalizzazione, puntando invece sugli elementi della personalità del detenuto ai fini del suo riadattamento sociale.
Individualizzazione vuol dire adeguare la pena alla personalità socio-psichica dell'autore del reato; si tratta cioè di individuare le cause del comportamento deviante e di definire le modalità di trattamento più idonee per il recupero del detenuto, che ne permettano il suo reinserimento in società[7]. Tale trattamento è preceduto da un'osservazione scientifica della personalità, diretta all'accertamento dei bisogni di ciascun soggetto connessi alle eventuali carenze psico-fisiche, affettive, educative e sociali (Art. 27, comma 1) .
Ulteriore novità nell'Ordinamento penitenziario del 1975 è la considerazione dei contatti con il mondo esterno come vere e proprie modalità di trattamento, a confermare che la risocializzazione del reo necessita di una partecipazione attiva del soggetto alla vita sociale, che deve essere facilitata e promossa attraverso l'utilizzo di una serie di stimoli culturali, umani e affettivi ( Art. 1, comma 6). In questo contesto la famiglia assume una valenza fortemente positiva ed un punto di riferimento a cui "dedicare particolare cura" (Art. 18), in quanto il mantenimento dei rapporti con essa rappresenta una favorevole modalità di trattamento ed un bene di alto valore umano che deve essere protetto dai danni derivanti dalla carcerazione, al punto che si richiede un preciso impegno, da parte dell'Amministrazione penitenziaria, ad intervenire adeguatamente a riguardo.
Sul piano operativo, si afferma che il principio del recupero del condannato non può prescindere dalla permanenza o dal ristabilimento di condizioni interiori di vita affettiva capaci di sostenerlo nella difficile situazione in cui si trova, dandogli immagini concrete di speranza di liberazione e di ritorno.
In ambito penitenziario, però, l'attenzione per la famiglia non implica né una forma di tutela del favor familiae e del ruolo genitoriale, inevitabilmente compromesso dalla detenzione né tanto meno la possibilità di limitare le ripercussioni della detenzione sui membri estranei al reato, che necessariamente risultano coinvolti in quanto facenti parte dello stesso nucleo familiare, ma rappresenta uno strumento dai fini estremamente educativi, poiché in grado di sviluppare le aspettative di vita futura dei detenuti. La famiglia è così considerata un'importante risorsa, sia attraverso l'assistenza affettiva e materiale al soggetto recluso, sia poiché costituisce il punto di maggiore, se non unico, contatto con la realtà esterna, che soprattutto nella fase immediatamente precedente alla liberazione potrà fornire una base da cui partire per il reinserimento sociale.
Queste considerazioni implicano il ricorso a provvedimenti che consentano, a livello regolamentare, di usufruire al massimo di questi contatti. Essi sono definiti da:
v Il principio di vicinanza, nella regione di residenza o, qualora non sia possibile, in località prossima alle residenze familiari (Art. 30; Art. 42, comma 1 e 2);
v La possibilità di possedere oggetti di particolare valore morale ed affettivo e, con le dovute precauzioni, di ricevere dall'esterno oggetti e generi alimentari (Art. 14);
v L'ammissione ad avere colloqui con congiunti e con altre persone, con particolare favore a quelli con familiari (Art. 18, comma 3).
Da qui emergono due principi fondamentali a cui il trattamento deve uniformarsi, l'uno attinente ai contatti con l'ambiente esterno (tra questi la famiglia), che entrano a far parte delle usuali modalità di trattamento; l'altro a quello dell'individualizzazione.
Ciò implica che il trattamento penitenziario debba aderire a criteri di assoluta imparzialità e debba essere conforme ad umanità ed assicurare il rispetto della dignità personale. Il trattamento rieducativo deve invece essere attuato secondo un processo di individualizzazione, in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti, secondo una strategia differenziata e flessibile, meglio rispondente alle esigenze del singolo detenuto (Art. 1, comma 3)[9].
Il nuovo Ordinamento penitenziario, delineato dalla Legge del 1975, aveva definitivamente messo in crisi il sistema sanzionatorio tradizionale, spostando l'asse dell'intervento dalla pena intesa come misura afflittivo-retributiva alla pena come mezzo di rieducazione e risocializzazione del reo.
Nonostante i principi ambiziosi, fin dalla sua entrata in vigore, numerosi furono i problemi ed i dubbi per attuare questi interventi ed il loro successo: il super affollamento delle carceri, la carenza di strutture adeguate, il cattivo coordinamento tra l'attività delle autorità carcerarie e giudiziarie con quelle degli esperti. Nello stesso periodo si assistette al diffondersi, negli Istituti penitenziari, di una serie di evasioni, rivolte e violenze, che richiesero il ricorso a significative modifiche nell'Ordinamento, che potessero far fronte a questi avvenimenti.
Nel decennio tra il 1975 ed 1986 vennero istituiti moltissimi interventi legislativi (1977: Istituzioni delle carceri di massima sicurezza; 1981: Sanzioni sostitutive alla detenzione; 1982: Istituzione del Tribunale della libertà; 1985: Legge sulle possibilità di recupero del tossicodipendente), che culminarono nella Legge 10 ottobre 1986, n. 663, dal titolo "Modifiche alla Legge sull'Ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure private e limitative della libertà". Essa rappresenta uno dei provvedimenti più innovativi in assoluto in materia di Ordinamento penitenziario, in quanto si muove in una duplice prospettiva: da una parte vengono proposte sanzioni sostitutive alla detenzione, finalizzate, nei limiti del possibile, ad evitare al condannato la carcerazione; dall'altra vengono introdotte soluzioni di tipo restrittivo, come le carceri di massima sicurezza.
La novità assoluta di tale provvedimento è la realtà fortemente extracarceraria che lo caratterizza; la Legge 663/86 (Legge Gozzini), infatti, accentua il ricorso al territorio ed all'immediato reinserimento e promuove la rieducazione tramite una forma di contatto più diretta che i detenuti possono avere con i familiari, permettendo l'uscita dalle strutture carcerarie in specifiche condizioni. Pertanto, essa si basa sulla cooperazione, partecipazione e consapevolezza collettiva[10].
Tale obiettivo è messo in atto innanzitutto attraverso l'istituto dei permessi premio (Art. 30 ter), volto da una parte al mantenimento degli interessi affettivi, dall'altra alla possibilità che i detenuti modifichino considerevolmente la propria sorte con determinati atteggiamenti collaborativi.
Questi permessi vengono concessi a soggetti che abbiano tenuto una condotta regolare e che non risultino di particolare pericolosità sociale. La condotta dei condannati si considera regolare quando i soggetti, durante la detenzione, manifestano costante senso di responsabilità e correttezza nel comportamento personale, nelle attività organizzate negli Istituti e nelle eventuali attività lavorative e culturali. Il magistrato di sorveglianza, sentito il direttore dell'Istituto, può concedere tali permessi, finalizzati a coltivare interessi affettivi, culturali e di lavoro. Essi sono concessi:
v Per condanna a pena non superiore ai tre anni;
v Per l'espiazione di almeno un quarto della pena (per l'ergastolo dopo 10 anni);
v Nei confronti di soggetti che, durante l'espiazione della pena o delle misure restrittive, abbiano riportato condanna o siano imputati per delitto doloso commesso durante l'espiazione della pena o l'esecuzione di una misura restrittiva alla libertà personale; la concessione è ammessa soltanto decorsi due anni dalla commissione del fatto.
I permessi premio non possono essere superiori a 15 giorni e non possono superare complessivamente i 45 giorni annui.
L'elemento premiale svolge un'ineccepibile funzione di controllo sia all'interno che all'esterno del carcere; al suo interno si riscontra una maggiore governabilità che si manifesta sia attraverso un'estensione del potere discrezionale degli operatori che valutano il comportamento, sia attraverso un meticoloso controllo tra i detenuti stessi che cercano di contenere e dissuadere quei comportamenti che possono nuocere a tutta la popolazione detenuta. Si verifica un maggiore controllo anche dall'esterno, poiché il detenuto sa che la valutazione di un comportamento non adeguato può significare una sospensione della misura alternativa e quindi, ripristinare la condizione detentiva.
Rientra in questa situazione premiale l'Art. 47-ter, con cui si introduce la nuova misura della detenzione domiciliare: essa prevede, limitatamente ad alcune condizioni, la possibilità di "espiare la pena nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora, ovvero in un luogo pubblico di cura o di assistenza". In specifico essa viene concessa:
v Come alternativa a pene detentive non superiori a due anni o comunque negli ultimi due anni di una pena di più lunga durata;
v A donne incinte o nel periodo di allattamento o conviventi con figli con meno di tre anni di età, a persone in gravi condizioni di salute, a soggetti superiori ai 65 anni se inabili anche solo parzialmente;
v Ai ragazzi di età inferiore ai 21 anni per motivi di salute, lavoro, studio, famiglia.
Sebbene la Legge Gozzini introduca da un lato l'applicazione delle misure alternative e la diminuzione del periodo di pena da scontare in carcere, dall'altro propone un doppio regime carcerario; in un particolare Istituto in cui si riscontrino casi eccezionali di rivolte o gravi situazioni di emergenza, il Ministro di Grazia e Giustizia può sospendere l'applicazione delle normali regole di trattamento al fine di ristabilire l'ordine e la sicurezza. Tale restrizione deve avere la durata strettamente necessaria per il raggiungimento del fine suddetto. Ciò implica l'inserimento di un regime detentivo molto rigido ed una forte limitazione dei diritti del carcerato, con conseguente improbabilità di risocializzazione; tale regime speciale, può durare fino a sei mesi, è prorogabile di tre mesi in tre mesi e può svolgersi in appositi Istituti (Art. 41-bis, ter, quater).
Questo provvedimento annulla l'Articolo 90 della Legge 354/75 relativo alle carceri di massima sicurezza[11].
Sebbene la Legge 663/86 sia andata ad incidere sulle misure alternative alla detenzione, sulle forme di flessibilizzazione e sulle modalità di esecuzione della pena, proprio come la Legge 354/75 non ha istituito le opportune strutture che permettano agli Istituti di realizzare effettivamente i programmi alternativi di reinserimento sociale. Questo rappresenta una chiara mancanza, che costituisce un impedimento alla buona riuscita del programma normativo, e non risponde al principio extracarcerario di tale Legge, il quale richiede una molteplicità di adeguate strutture territoriali.
Per mettere in atto dei provvedimenti legislativi, che operino per concretizzare un allargamento dei confini carcerari ed una maggiore distribuzione dei servizi esterni agli Istituti in cui i detenuti possano scontare le loro pene, si è cercato di effettuare una integrazione reale tra il Regolamento normativo 354/75 e la Legge 663/86; le Leggi 381/91, 165/98, 193/00 ed il D.P.R. 30 giugno 2000 n. 230 rappresentano dei chiari esempi di tale sforzo e la consapevolezza del bisogno di una sempre maggiore sensibilità nei confronti delle persone recluse.
La Legge n. 381 del 1991 'Disciplina delle cooperative sociali', introduce agevolazioni contributive per incentivare le cooperative all'inserimento lavorativo delle persone svantaggiate, includendo in questa categoria però solo i condannati ammessi alle misure alternative alla detenzione (Art. 4).
La Legge 165/98 (Legge Simeoni-Saraceni) "Modifiche all'Articolo 656 del C.P.P. ed alla Legge 26 luglio 1975 n. 354, e successive modificazioni" si pone come soluzione alla disparità di trattamento per i soggetti privi di una difesa adeguata ed alla possibilità di risolvere il sovraffollamento carcerario (Legge svuotacarceri). Questo avviene attraverso la sospensione dell'ordine di carcerazione nel caso di pene non superiori a tre anni, quattro per i tossicodipendenti, con il relativo affidamento in prova al servizio sociale o in alternativa la detenzione domiciliare, o ancora l'ammissione al regime della semilibertà. Ciò può essere richiesto entro la notificazione di un avviso specifico a cura del Pubblico Ministero procedente; l'obiettivo della legge è quello di evitare l'ingresso in carcere a soggetti condannati a pene detentive brevi.
Altri due interventi legislativi completano il quadro delle riforme in tema di lavoro penitenziario e rieducazione sociale: la Legge 22 giugno 2000 n. 193 (Legge Smuraglia) ed il nuovo Regolamento di esecuzione approvato con D.P.R. 30 giugno 2000 n. 230.
La Legge n. 193 "Norme per favorire l'attività lavorativa dei detenuti", meglio nota come Legge Smuraglia, allarga la platea dei soggetti svantaggiati che possono beneficiare delle agevolazioni introdotte dalla Legge 381/91, in quanto include anche "le persone detenute o internate negli Istituti penitenziari, i condannati e gli internati ammessi alle misure alternative alla detenzione e al lavoro esterno". Tale Legge ha come scopo quello di favorire il lavoro dei detenuti, incentivando le offerte provenienti dalle cooperative sociali e dalle imprese private, tramite agevolazioni contributive. Sono infatti proprio le cooperative sociali gli istituti più interessati a fornire lavoro ai detenuti.
Questi incentivi sono estesi anche alle aziende pubbliche o private che assumano lavoratori detenuti per un periodo di tempo non inferiore a trenta giorni o che svolgano nei loro confronti attività formative che portino poi all'assunzione del lavoratore o al suo impiego in attività gestite in proprio dall'amministrazione penitenziaria. In tal modo le cooperative sociali consentono "il perseguimento dell'interesse generale della comunità alla promozione umana e all'integrazione dei cittadini"(Art. 1); il lavoro diventa uno degli elementi cardine del trattamento penitenziario diretto a promuovere il reinserimento sociale del detenuto.
La Legge Smuraglia riconosce l'importante opera svolta dalla cooperazione sociale per il reinserimento lavorativo dei detenuti e la necessità di rafforzare le possibilità di azione delle cooperative sociali rimuovendo alcuni vincoli da cui la loro opera è attualmente limitata. Essa rappresenta uno sforzo apprezzabile, perlomeno dal punto di vista normativo, per rendere appetibile alle imprese esterne l'utilizzo della manodopera detenuta; uno sforzo che, però, ha bisogno di risorse finanziarie adeguate per poter produrre dei risultati in termini di aumento del numero dei detenuti complessivamente impiegati.
Nonostante i miglioramenti ottenuti, la Legge Smuraglia continua a privilegiare lo sviluppo delle cooperative sociali in area premiale esterna. Permane infatti il limite legislativo al maggior sviluppo dell'esperienza cooperativistica in carcere, rappresentato dall'impossibilità di qualificare come sociali, ai sensi della Legge 381/1991, le cooperative nate all'interno del penitenziario e nelle quali lavorino solo detenuti in attività intramurarie. Contrariamente non sono state sufficientemente valutate le potenzialità di promozione del lavoro carcerario offerte dalle imprese private. Sono proprio queste ultime infatti quelle maggiormente in grado di fornire ai detenuti una formazione professionale ed un impegno lavorativo adeguato al livello di sviluppo tecnologico proprio del mondo del lavoro. Difficilmente le cooperative sociali no-profit offrono adeguati livelli di sviluppo tecnologico, tali da rendere il lavoro dei detenuti produttivo e competitivo rispetto a quello dei lavoratori liberi.
Se la Legge Smuraglia adempie al principio carcerario del trattamento inteso come strumento per il reinserimento sociale, il D.P.R 30 giugno 2000, n. 230, di cui la Legge 193/2000 fa parte integrante, ingloba l'altro obiettivo che l'intervento penitenziario si propone, ovvero la possibilità di rieducazione del reo attraverso il mantenimento di contatti umani interpersonali significativi. Tale Decreto rappresenta un concreto tentativo di rendere più umano il volto del carcere, e pone l'accento sull'attenzione e la cura con cui si debbano trattare tutte quelle situazioni familiari e relazionali che, pur fisicamente fuori dal carcere, continuano ad incidere sulla condizione dei detenuti e sulle loro aspettative di vita futura. Nello specifico il D.P.R. prevede delle norme regolamentari che ampliano gli spazi in materia dei colloqui e delle telefonate, che non vengono più considerati in un'ottica premiale, ma inseriti a pieno titolo nel percorso trattamentale di ricostruzione delle relazioni familiari.
E' questa una novità molto rilevante poiché costituisce un'importante affermazione della possibilità di ogni detenuto di mantenere relazioni naturali fondamentali per la realizzazione del proprio diritto di vita.
L'attuale Regolamento penitenziario si basa sulla considerazione che la reclusione detentiva possa sviluppare, attraverso il mantenimento di legami affettivi importanti ed attività di rieducazione culturale, lavorativa e sociale, una maggiore consapevolezza nel reo ed un cambiamento di prospettiva nei riguardi della propria condotta. Questo si può ottenere in specifico con tutte quelle procedure che rispecchiano il principio per cui "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, ma devono tendere alla rieducazione del condannato", il quale, pur adeguandosi a delle regole standard imposte, ha il diritto di esprimere delle esigenze e delle richieste che sono fortemente legate alla sua struttura psicofisica ed alla sua storia personale. Questa nuova concezione deriva direttamente dalle affermazioni della Scuola positiva di Lombroso, secondo cui bisogna guardare non solo al reato inteso come fatto, ma anche come espressione di una azione umana. Ciò ha delineato il bisogno di analizzare l'uomo delinquente utilizzando conoscenze quanto più allargate provenienti dall'antropologia, dalla sociologia, dalla fisiopatologia, dalla psicopatologia, dalla psicologia e dalla psichiatria, che riconducessero all'individuazione del motivo della commissione del reato ed al significato che tale reato ha per il soggetto stesso. Riuscire a capire ciò significa poter intervenire adeguatamente per favorire il "processo di modificazione degli atteggiamenti che sono di ostacolo ad una costruttiva partecipazione sociale" (Art. 1, comma 2 Reg. Esec.), in modo da raggiungere l'obiettivo finale, ovvero il reinserimento nella società.
La funzione educativa della pena può avvenire soltanto attraverso un'individualizzazione dell'intervento, che diviene terapeutico ed i cui punti fondamentali si strutturano tramite un'osservazione sistematica e scientifica della personalità del soggetto, che individua i seguenti aspetti:
v Valutazione delle carenze del soggetto e delle cause del suo disadattamento sociale;
v Individualizzazione negli interventi, in modo che rispondano "ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto" (Art. 13, comma 1 Ord. Penit.);
v Strutturazione di un trattamento che tenda al reinserimento sociale.
L'osservazione scientifica della personalità rappresenta così la condicio sine qua non per attuare un intervento efficace per quel particolare detenuto, e deve avvenire grazie alla presenza di professionisti che lavorano in equipe al fine di fornire ognuno uno specifico contributo per conseguire finalità educative e di riabilitazione sociale. Nello specifico essi sono:
v Il Direttore dell'Istituto, che presiede il gruppo e sotto la cui responsabilità e coordinamento si svolgono le attività;
v L'Educatore, che indaga la qualità degli atteggiamenti umani fondamentali che orientano la vita del soggetto e l'insieme delle sue aspettative e delle speranze che incidono in modo sensibile sulle possibilità pratiche di realizzazione dell'intervento rieducativo;
v L'Assistente sociale, che svolge un ruolo primario nel mantenere i contatti con la famiglia.
In questo contesto si colloca l'opera dello Psichiatra/Psicologo, che accerta aspetti salienti della struttura e del funzionamento psichico del soggetto, la capacità di intendere e di volere di un imputato, le carenze fisiopsichiche e le altre cause del disadattamento sociale, sia per formulare indicazioni in merito al trattamento rieducativo che per assegnare l'idoneità o meno per fruire di misure alternative e di benefici, ed infine nell'attività di trattamento e di cura, in un ruolo più precisamente terapeutico.
Il riconoscimento della specifica importanza della figura dello Psicologo è di fatto avvenuta con la Circolare Amato del 30 dicembre 1987, dal titolo "Tutela della vita e della incolumità fisica e psichica dei detenuti e degli internati. Istituzione e organizzazione del Servizio Nuovi Giunti", che rappresenta un provvedimento strutturato a fronte della constatazione dei numerosi episodi di violenza etero ed auto diretta all'interno dell'Istituzione carceraria. Il Servizio Nuovi Giunti è un presidio psicologico il cui obiettivo è quello di combattere tali fenomeni di violenza e fa riferimento a tutte le attività che bisogna svolgere quando un soggetto entra per la prima volta in carcere, sia che provenga dalla libertà che da un altro Istituto, per trasferimento temporaneo o assegnazione definitiva per gravi motivi. Tale presidio prevede che accanto alle attività normative classiche (colloquio di primo ingresso, visita medica) sia svolto un colloquio preventivo con l'obiettivo di mettere in atto tutti i provvedimenti utili per individuare eventuali ideazioni suicide o atti aggressivi che mettano a repentaglio la sicurezza dei detenuti, degli internati e del personale dell'Istituto[12]. Il Servizio Nuovi Giunti enfatizza le caratteristiche specialistico-predittive dello Psicologo e gli conferisce un ruolo diagnostico fondamentale, che tenga conto della realtà fortemente traumatica e del processo di spersonalizzazione a cui un soggetto va incontro nel momento di entrata nel carcere. Lo Psicologo dunque ha, in ambito penitenziario, un ruolo unico e complementare ai contributi degli altri specialisti che si occupano del detenuto.
Possono poi essere chiamati a partecipare alle attività di osservazione anche operatori in grado di portare un contributo significativo alla conoscenza del soggetto ed altre figure non espressamente indicate nella normativa, quali il medico ed un rappresentante del personale di polizia penitenziaria.
L'insieme delle conoscenze ottenute attraverso queste figure professionali consente di raccogliere informazioni che indaghino la realtà bio-psico-sociale del soggetto, individuata tramite tre momenti importanti in ogni osservazione scientifica. Essi sono:
v L'Inchiesta sociale, che consiste in una indagine rivolta all'ambiente del soggetto esaminato, ossia la famiglia, le amicizie, il contesto sociale in cui ha vissuto: in questo modo è possibile raccogliere gli elementi utili e conoscere le influenze dell'ambiente sulla personalità del reo;
v L'Esame medico e psichiatrico, con cui si analizzano gli eventuali disturbi di natura fisica o mentale che possono aver avuto un qualche ruolo nell'insorgenza della condotta deviante;
v L'Osservazione comportamentale, il cui fine è quello di studiare gli atteggiamenti ed i comportamenti che il soggetto assume a contatto con la realtà penitenziaria[13].
Poiché l'osservazione della personalità, secondo quanto riportato dalla normativa, deve essere scientifica, è importante utilizzare strumenti psicodiagnostici standardizzati ed i colloqui clinici. Tali accertamenti devono avvenire in maniera continuativa per almeno un mese[14].
Una valutazione così approfondita, che tenga conto di tutti questi aspetti in un tempo stabilito e necessario per ottenere dei dati che siano reali e non attribuibili ad un comportamento sporadico del soggetto, consentirà l'elaborazione della "Scheda personale". Essa verrà redatta grazie ai contributi di tutti i membri dell'equipe e definirà una visione olistica del soggetto che fornisce informazioni riguardo:
v La comprensione del vissuto del soggetto relativamente al suo passato, gli avvenimenti che lo hanno condotto nella situazione attuale, i problemi personali e familiari che costituiscono lo sfondo affettivo e sociale del suo presente;
v La comprensione di come il soggetto si percepisce oggi, e come giudica se stesso, le sue capacità e come vede gli altri;
v La comprensione delle intenzioni e delle disponibilità del soggetto nei confronti del futuro e delle possibilità concrete che il sistema penitenziario è in grado di fornirgli.
In questo modo si può giungere alla formulazione di un programma di trattamento in cui le esigenze del soggetto siano confrontate con le diverse opportunità disponibili nell'ambito del sistema, e si delinea un profilo di intervento con riferimento a ciò che è veramente possibile attuare. In termini pratici la Relazione di sintesi fornisce gli elementi necessari per decidere sull'ammissione alle varie misure premiali e per la predisposizione del programma trattamentale individualizzato. Sulla base di ciò viene disposta l'assegnazione definitiva del condannato ad un Istituto.
Nonostante queste disposizioni siano fortemente orientate in senso positivo, nella realtà fattuale odierna si riscontrano degli impedimenti innanzitutto nella bassissima numerosità di figure professionali penitenziarie, al punto che si parla di rapporto di 1:250 tra numero di esperti e numero di detenuti. Vi sono dunque dei limiti pratici nella possibilità di attuare una efficace attività da parte degli esperti. Anche con le migliori intenzioni teoriche,i limiti ferrei di queste proporzioni numeriche non consentono che vengano applicate in maniera corretta le procedure di osservazione, la formulazione dei programmi di trattamento e l'applicazione di questi, la valutazione e correzione dei medesimi, la raccolta dei dati per l'applicazione delle misure alternative.
Inoltre, va anche osservato come la realtà stessa del carcere rappresenti un impedimento reale al concetto di educazione: la perdita di status, di indipendenza, di libertà di scelta, di responsabilità, di relazioni sociali, e ancora, la perdita di interessi, la regressione psicologica e culturale, la crescita della frustrazione congiurano tutte contro il successo del tentativo di rieducazione. Ci sono anche problemi quali il contagio criminale e l'etichettamento negativo; l'estrema difficoltà a realizzare, all'interno dell'istituzione detentiva, strutture efficaci per l'addestramento al lavoro dei reclusi e per la loro istruzione, aspetti non secondari di qualsiasi trattamento rieducativo. Riemerge, insomma, la contraddizione tra le prospettive della rieducazione, espresse a livello formale, e la realtà di strutture materiali e organizzative che ostacolano l'applicazione di quelle.
Il ruolo degli esperti, tra cui in particolare lo psicologo, deve strutturare la detenzione verso il recupero sociale ed incentivare quelle attività con cui il soggetto possa sfruttare il tempo trascorso in carcere per modificare le sue convinzioni, potenziare la propria autostima ed improntare il suo comportamento in un'ottica più orientata alla partecipazione sociale ed alla legalità. In realtà i due aspetti osservazione-trattamento risultano piuttosto diretti ad un'osservazione burocratizzata che si esaurisce in sé, senza dar luogo a nient'altro che un trattamento di carta rappresentato da indicazioni ed ipotesi a cui segue assai poco, se non addirittura il silenzio.
In questo modo viene dimostrata l'inutilità dell'osservazione proprio perché non risponde ai bisogni dei detenuti, ma solo alle esigenze burocratico-amministrative dell'istituzione. Tali cartelle, infatti, non vengono utilizzate in alcun modo, nonostante quasi sempre terminino con consigli o suggerimenti che risultano irrealizzabili a causa delle carenze delle strutture e del personale. Così l'osservazione finisce per essere utile solo al Magistrato al fine di valutare l'opportunità della concessione di una misura alternativa e il detenuto, ancora una volta, sperimenta la via più facile privandosi di quegli aspetti educativi fondamentali per il suo riscatto.
Cappai, E.,La funzione del carcere secondo l'opinione pubblica: una ricerca.
https://www.psicologiagiuridica.com/numero%20003/cappai.it
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