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Depressione femminile: premessa
«1 Je suis le ténébreux, - le veuf, - l'insonsolé,
2 Le prince d'Aaquitaine à la tour abolie;
3 Ma seule étile est morte, - et mon luth constellé
4 Porte le Soleil noir de la Mélancolie.»[1]
La depressione, è una malattia riscontrata spesso in ambito detentivo: durante le interviste somministrate alle detenute semi-libere, leggendo articoli online e ricerche di testi, tra cui l'Inchiesta sulle carceri italiane e Donne in carcere, è emerso che non è solo il corpo che si ammala, ma anche la persona.
La costrizione dei sensi, l'immobilità, l'isolamento, la mancanza di spazi propri e di una continuità socio-affettiva, creano disturbi psico-somatici.
In questa tesi non si vuole fare una ricerca sulla depressione, argomento molto corposo che meriterebbe uno sviluppo a parte, ma cercare di spiegare le sensazioni, i disagi, le difficoltà che questa malattia, crea nelle donne detenute, e il suo manifestarsi all'interno dell'ambiente carcerario.
1. Cos'è la depressione?
«Mi sveglio sempre in forma
E mi deformo attraverso gli altri »
(Alda Merini, Aforismi)
Secondo lo psicologo Pierre Daco, la depressione è da intendersi come caduta di pressione, ossia essa è l'abbandono della tensione nervosa e psicologica.
La depressione comunque è un termine molto generale, una label da poter attribuire a vari stati che a loro volta possono portare all'astenia , alla neurastenia, alla psicoastenia, alle ossessioni, alla schizofrenia, alle psicosi maniaco-depressive, una serie di stati che si possono gerarchizzare dal meno grave al più intenso.
La depressione non ha solo una base organica e fisica ma può averne anche una legata alla sfera familiare, psicologica o religiosa e può insorgere quando paura, tensione, incertezze o stati d'ansia si manifestano nell'individuo portandolo prima all'esaurimento e poi all'abbandono delle pressione e quindi ad uno stato depressivo.
Nelle donne poi ci sono certi periodi in cui lo stato depressivo può comparire poiché legato a certi passaggi fisiologici, come dopo la gravidanza o nel periodo della menopausa .
La persona depressa appare malinconica, taciturna, inerte inoltre il movimento diminuisce, giunge al minimo, anche le più piccole azioni compiute possono provocare stati di stanchezza.
C'è una perdita più o meno sensibile di peso, spesso insonnia, inoltre tra gli altri sintomi possono comparire tremiti oppure cefalee, ipo-tensione arteriosa, difficoltà nel concentrarsi, tristezza senza una ragione precisa, manie, problemi alla vista, esitazioni e incertezze, grande stanchezza.
L'autore individua inoltre tre disturbi molto frequenti:
v abulia o mancanza di volontà
v malinconia
v paura d'impazzire
I primi due aspetti, sono quelli più frequenti e lamentati dalle detenute in carcere, ossia il lasciarsi andare senza curare la propria persona o impegnarsi in attività lavorative o scolastiche interne al carcere e un senso di tristezza e senso di colpa molto diffuso, riscontrato anche in alcune detenute intervistate.
L'abulia è descritta come mancanza di volontà ossia, per il depresso il volere è una difficoltà di proporzioni gigantesche.
Realizzare le cose che si pensano, mettere in atto un'idea diventa così un problema oneroso per il depresso che è sommerso dalla mancanza d'azione frantumando la volontà in numerosi piccoli pezzi.
Chi soffre di un'abulia non grave avrà ancora la capacità di compiere azioni, ma esse saranno comunque frammentate e dispersive, eseguite con difficoltà ed enorme lentezza, e non con continuità e costanza.
Quando la malattia diventa più grave la persona malata si rintana nel letto, in balia di stati psichici che in certi casi possono provocargli dolori acuti a livello psicologico.
Per quanto riguarda invece l'aspetto della malinconia, esso si può vedere palesemente dalla tristezza e dallo stato pessimistico dei soggetti che ne sono afflitti.
Per il malinconico ogni cosa perde sapore diventando indifferente, e per questo si sente in colpa, prova rimorso, si accusa e continua a pensare e ripensare al suo stato fino a provocargli un'inerzia e un'inappetenza gravi.
A volte chi soffre di questa patologia è spinto anche al suicidio perché ricerca un modo per punirsi, per poter espiare i suoi sensi di colpa e i rimorsi che lo attanagliano continuamente.
Quando si parla di stati depressivi bisogna evidenziare anche le cause che possono scatenarlo e Daco, parla tra gli altri fattori, delle azioni faticose, intese come stati di adattamento da parte del soggetto che agisce in un certo modo all' interno di un contesto preciso.
Adattare le proprie azioni alle situazioni implica anche disperdere energie.
Cercando di trasferire con le dovute cautele questo modello alla situazione detentiva si può vedere come anche all'interno del carcere vi debba essere un adattamento alla nuova situazione di privazione della libertà e di condizionamento della propria vita da agenti esterni che la regolano e controllano.
Anche il crearsi di urti, evidenzia come all'interno di questo contesto ci si debba adattare di continuo poiché le persone possiedono caratteri diversi e quindi c'è necessità di flessibilità e comprensione
Ma quando ci sono urti cosa succede? Se questi vengono subito scaricati allora la situazione può risolversi in quanto sia tramite lo sfogo di rabbia oppure con l'equilibrio usato dal soggetto, si possono superare le situazioni di tensione, ma se ciò non possibile, gli urti creano disadattamenti che possono aumentare con il tempo e inoltre creano una sorgente di stanchezza dovuta al carico emotivo non liberato.
Si pensi quindi, in una situazione restrittiva come il carcere, soprattutto alle sezioni aperte come quelle del carcere Giudecca di Venezia: il continuo contatto con gli altri, con razze, culture, religioni diverse, e senza il confronto con il sesso opposto, il vincolo degli spazi predeterminati e una totale mancanza di privacy, crea le basi per degli urti. In questi ambienti per, le tensioni difficilmente potranno essere risolte con un'esplosione di rabbia, ma verranno più che altro represse al fine di non compromettere la propria condotta rischiando per altro di perdere la possibilità di usufruire di permessi oppure dello sconto dei giorni nel fine pena.
La rabbia diviene spesso frustrazione e la sua elaborazione dipende strettamente dal carattere e dalla personalità del soggetto che la prova, con la possibilità di ripercussioni negative prostranti verso coloro che sono più fragili e meno propositivi.
2 La depressione in carcere
«Sono caduta in un profondo tranello
Come dentro ad un pozzo acquitrinoso».
(Alda Merini-Terra Santa)
«Nel momento in cui l'altro non c'è, non capisce o non ascolta, si tenta infatti di allontanare dalla coscienza ciò che fa troppo soffrire e di cui non si riesce a parlare. Il rifiuto di cui ci si sente oggetto, la solitudine e la paura che a esso si collegano, vengono però rimossi anch'essi e si trasformano in una rabbia impotente e dolorosa» (Luigi Cancrini, 1996).
Durante il mio lavoro sulla devianza femminile e in specifico sulle detenute semi-libere del carcere della Giudecca, mi sono imbattuta sulla frequente risposta di disagio psico-fisico che tende a formarsi in carcere, quando la mancanza di stimoli esterni, e la monotonia delle giornate incide profondamente sul vissuto quotidiano delle detenute che reagiscono a questa prostrazione cercando di trovare varie attività in cui impegnare il corpo e quindi la mente, o lasciandosi andare, e spesso deprimendosi.
Facendo una ricerca sulla depressione in carcere ho trovato una lettera di un detenuto esplicativa sul senso di disagio e tristezza che si impadronisce di chi vive la propria esistenza in carcere, e a seguito della sua richiesta di aiuto, una risposta di un psicoterapeuta dialettico che evidenzia l'effetto negativo del carcere e spiega con parole sintetiche il significato dell'essere escluso dal mondo esterno e quindi anche dagli affetti.
«Caro dottor Ghezzani , mi chiamo A. e sono un detenuto dal 2002 nel carcere di. Sono sposato felicemente e ho tre bambini, di anni compresi tra i dieci e i cinque. Poi ho anche altre due figlie di mia moglie, che lei ha avuto da un precedente matrimonio; di queste una vive con noi, l'altra invece è lontana. Purtroppo, in quest'anno e mezzo di carcerazione, con la famiglia, che c'é sempre stata un'unione che a me è sembrata solida, ci sono stati anche momenti in cui mi sembrava che tutto crollasse. Insomma, io da carcerato soffrendo le pene dell'inferno, o per gelosia o per paura di perdere la famiglia, mi sto ammalando di una strana malattia. A poco a poco mi sento il fisico e le forze mentali abbandonarmi; ho voglia di morire, ma mi manca il coraggio per suicidarmi, forse penso ai figli e alla speranza delle cose lasciate, ma gli anni che devo trascorrere in carcere sono ancora molti, dunque la paura di perdere tutto è impressionante, e vorrei morire.
Sono innamorato pazzo di mia moglie, la paura di perderla è insopportabile. Avendo letto un suo articolo, dove spiega che di amore si può morire, io ci credo, perché sono in un baratro altissimo, la sofferenza d'amore, per la mancanza d'amore, di tutte le cose che con mia moglie noi facevamo con simbiosi, erano sublimi, ed adesso mi mancano. La prego di mandarmi due parole per comprendere meglio quello che mista accadendo».
Di seguito riporto la risposta del Dottor Ghezzani:
«Gentile sig. A., penso che la nostalgia sia una delle passioni più dolorose che si possano sperimentare. Quando poi è unita a un sincero e profondo sentimento d'amore, la nostalgia può diventare un'esperienza rovinosa, nella quale ci si sente tagliati via da se stessi, amputati delle proprie membra, divisi nella profondità del cuore. Ci si sente privati della parte migliore di sé la quale, in fin dei conti, sono gli altri, e per l'esattezza coloro che più amiamo. Separati da loro, ci sentiamo infine condannati a esistere solo con noi stessi, proprio con quella parte di noi che ci appare la più insignificante e persino negativa.
Perché, a lei che mi parla di prigione, io rispondo con l'evocazione del sentimento della nostalgia? Lo faccio perché, come psicoterapeuta, sono arrivato alla conclusione che la nostalgia, in quanto faccia nascosta della separazione e dell'abbandono, è il rovescio della medaglia anche del senso di colpa.
Credo pertanto che il dramma che lei mi segnala nella sua bella lettera sia proprio questo. Il suo io è una realtà ampia, piena di affetti, che abbraccia, assieme a se stesso, sua moglie e i suoi figli (comprese le due figlie di sua moglie): sono loro che rappresentano per lei la vera totalità del suo io, quella che lei stesso sente come la sua parte migliore. E proprio da questa parte, che lei ama più di se stesso perché le rappresenta la parte migliore della sua vita, lei è stato separato.
Credo che una delle cose più terribili che accadano in carcere sia proprio questa: l'essere imprigionati coincide con l'essere esclusi da ogni beneficio della vita sociale, innanzi tutto dagli affetti che ci fanno sentire esseri umani. Senza quegli affetti ci sentiamo degradati al livello infimo della vita umana. Dunque, se un giorno è la nostra stessa famiglia ad arrivare a rifiutarci, allora il sentimento d'indegnità già presente per via della pena detentiva si aggrava fino alla sensazione d'essere colpevoli in senso assoluto, dunque meritevoli d'ogni disprezzo.
Il carcere, purtroppo, ottiene questo risultato, di far sentire l'individuo peggiore di quello che è.
Talvolta, l'individuo incarcerato, per non sentire il dolore morale, si ostina nella durezza e nel crimine, rischiando di peggiorare ulteriormente la qualità della sua psiche e della sua vita. A questo, purtroppo, contribuisce la stessa struttura ideologica della pena (così come è ancora concepita), che impedisce al detenuto i normali rapporti affettivi e dunque la continuità col suo io precedente la carcerazione.
Le consiglio, dunque, di far il possibile per riallacciare il rapporto con sua moglie e con i figli. In questo dramma della separazione tutti sono importanti.
Non si arrenda al sentimento autodistruttivo da cui si è lasciato invadere.
Secondo Ghezzani, la depressione è un malessere che soggioga la persona che ne è afflitta, la investe in pieno e si insinua nella sua personalità.
La persona che soffre di depressione sente ora con angoscia ora con disperazione che la vita è assolutamente negativa.
Egli dice che: «In alcuni casi il sentimento di negatività riguarda la propria singola esistenza personale, e allora il depresso è schiacciato da sentimenti persecutori di esclusione, minorità, inferiorità, indegnità, colpevolezza. In altri, è la vita stessa, la vita di tutti, ad essere avvertita come impossibile; e allora tutto appare negativo: il mondo può essere avvertito come un luogo di bassezze e di cattiverie, o essere percepito sotto la luce nera di una vera e propria metafisica del dolore o del male. Tutto appare terribile, e, soprattutto, irrimediabile.»
L'origine etimologica della parola depressione affonda le sue radici nel tempo della medicina greco-romana, epoca in cui veniva chiamata melanconia con il significato di umor nero, ed è formata da mélan (neutro di mélas) che significa nero e cholè che significa bile.
Ecco come il nostro modo di dire essere o avere "l'umore nero", una volta non era una metafora ma aveva alle basi una descrizioni medica che vedeva la melanconia come una discrasia, ossia uno squilibrio umorale i cui flussi si pensava regolassero le emozioni e le relazioni sociali della persona.
Come dice Ghezzani:«Si parlava pertanto di 'umor nero', nel senso della circolazione nell'organismo di una bile nera o atrabile, il cui stato, fluttuante dal ghiacciato al bollente, produceva lo squilibrio del melanconico (la 'melanconia', divenuta poi 'malinconia' per assonanza e analogia con il termine e il concetto di 'male')».
Ghezzani afferma anche che in questa visione della melanconia è già da vedersi un'intuizione dialettica, perché secondo anche gli studi di Jean-Didier Vincent, è fornito un esempio primigenio della connessione causale tra disordine psichico e anomalia psichica..
Nel passato, nel secolo ottocentesco si è parlato spesso di "degenerazione nervosa" e la psichiatria dell'epoca ha condotto studi su questo concetto volendo intendere uno stato che non solo era degenerativo ma anche non reversibile e che coinvolgeva i tessuti nervosi, cominciando dai neuroni
Si sosteneva quindi che la malattia fosse attribuibile all'organo e perciò che fosse implicita l'esistenza di un'anomalia biologica scatenante la malattia, e per questo si credeva che prima o poi si sarebbe trovato il virus colpevole della malattia.
Posizione diversa da quella che poi nel Novecento si seguì e che vide intenta a concentrarsi sugli umori che con i loro equilibri e squilibri sarebbero da porsi come radice oltre che della psicogenesi delle emozioni, anche della psicopatologia.
Secondo l'Autore, tenendo in considerazione la neurobiologia l'accento di questa disciplina viene posato su ormoni e neuro-trasmettitori o meglio sulla loro dinamica da cui deriverebbero gli stati emotivi di base oltre che le fluttuazioni e discontinuità dei "cicli umorali".
Ghezzani dice:«La nozione di squilibrio umorale implica una dialettica fra mente e corpo che consente di formulare, a proposito della depressione, una ricca ipotesi psicogenetica.
Prima fase: fatti esterni negativi inducono emozioni che sono stati psicosomatici complessi, costituiti simultaneamente a) nella coscienza, da un sentimento e b) nel corpo, da fenomeni biochimici.
Seconda fase: tali fatti sono 'trattenuti' nella memoria come struttura neurologica, con i flussi biochimici correlati.
Terza fase: la memoria mantiene costante l'emozione dolorosa, per scopi inerenti la struttura della personalità (sensi di colpa, di condivisione del dolore, bisogni auto-punitivi ecc.)».
Secondo quindi gli studi di quest'Autore si giunge alla conclusione che la depressione così come anche la ciclicità maniaco-depressiva risieda in una causa psicologica negativa, conservata nella memoria, e utilizzata per mantenere attivi processi dolorifici di tipo biologico.
L'io desidera volontariamente rimanere nel dolore annullando così il bisogno originario di vivere nel piacere e nella gioia.
Ghezzani sottolinea l'importanza dei sensi di colpa (determinante anche nelle donne detenute le quali sono più sensibili alla depressione e agli stati d'ansia perchè in apprensione costante per la famiglia abbandonata, i figli incustoditi, la casa e la routine casalinga spezzata a causa del loro comportamento deviante) e li divide in espliciti o sottili, e impliciti e aggiunge che ci si sente in «[.] colpa nei confronti di qualcuno o qualcosa di cui si è violata l'esistenza, o nei confronti dei quali non si è nel diritto di condurre una vita più felice. La depressione, in questo senso, si rivela come una 'malattia morale', densa di significati umanistici, filosofici e persino metafisici. Ha una soluzione psicologica, dunque, che non può prescindere dalla sua raffinata complessità.»
3. Le donne detenute e la depressione
In un dialogo tra due direttrici di carceri femminili (Gabriella Straffi di Venezia-Giudecca e Lucia Zainaghi di Rebibbia) insieme a Donatella Zoia, è emerso come le donne non mettano in conto (come accade agli uomini) che a seguito di un'azione fuori-legge possa esserci la carcerazione, la quale, arriva inaspettata.
La perdita degli
affetti, sottolinea
Inoltre ansia e depressione sono le malattie più comuni nelle donne detenute, le quali sentono il peso delle responsabilità e soffrono così in modo maggiore rispetto agli uomini, certo però hanno anche la tendenza a porsi delle domande esaminando il proprio reato e traendo la forza e la determinazione di riscatto proprio perchè desiderose di ritornare in famiglia.
Il rapporto con il medico è costante e quotidiano per le donne, perchè c'è un acutizzarsi delle patologie che già esistevano prima del carcere, e così le donne vengono colte da attacchi d'ansia appena le celle si chiudono la sera, richiedo spesso la terapia ossi la somministrazione di pillole per dormire.
Pillole utilizzate anche nell'attesa di sapere se il sospirato permesso di uscita, sarà firmato potendo così essere a casa per le feste o per riabbracciare i propri cari o per cominciare il lavoro all'esterno.
Inoltre molto spesso le detenute cercano di superare l'attesa pulendo la cella, o guardando la tv, ma altre si lasciano andare al punto da mettersi in malattia non appena riescono a trovare lavoro, ricadendo così in una spirale che le deresponsabilizza e le degrada.
«Il carcere provoca l'infantilizzazione delle persone, de-responsabilizza perché tu non hai nessun libero arbitrio, non hai nessun potere decisionale, anche il fatto di avere un mal di testa e prendere una pastiglia, da qualunque parte anche se sei a casa e non ce l'hai scendi un attimo in farmacia mentre in carcere vai dall'agente e dici ho mal di testa posso prendere una pastiglia?se il dottore non c'è bisogna aspettare per cui se tu in questo momento hai mal di testa la pastiglia magari ti arriverà tra due ore .
«[.ci sono persone che] cercano di prendere terapia al mattino, al mezzogiorno e alla sera, non vuol dire che ci siano solo tossici però, ci sono persone che vanno in depressione e si fanno dare psico-farmaci che li mantengano in uno stato di non so come definirlo.Ci sono persone invece che magari hanno già le loro problematiche, e il carcere non è il posto giusto per loro e allora fai fatica anche a coinvolgerle»
La donna in carcere vive quindi un rapporto conflittuale con il proprio stato di salute, interessante a questo proposito è ciò che scrive Laura Astarita nell'Inchiesta sulle carceri italiane a proposito delle donne e della salute, in un capitolo che parla di nessun tempo in nessuno spazio : «Il tempo. chissà addirittura se possiamo parlare di 'tempo' relativamente al carcere, relativamente ad un'istituzione che per sua stessa natura lo congela, lo ferma al momento del reato, momento per il quale si paga per anni un debito e una colpa.
Il tempo, che per un certo numero di anni-e chi può dire se un solo anno sia poco- viene scandito, si riavvolge su se stesso, si ripete e si ripete, si allunga ripetendosi fino ad annullarsi completamente».
Anche Goffman in Asylum, parla del tempo vissuto dagli internati, un tempo che viene messo tra parentesi, un tempo che si cristallizza, in cui colui che lo subisce (perché alla fine si subisce non si agisce e non si può gestire il tempo in carcere come attivo, come deciso da chi lo vive, perché ci sono degli altri che lo organizzano e predispongono per noi) e che trascorre lento e inesorabile, poiché i detenuti sanno che è tempo perso e irrecuperabile, tempo che non si sa come occupare per rendere produttivo e utile, un tempo talmente persistente e comunque infinito da diventare pesante, soffocante, difficile da vivere.
La donna vive la prigione del corpo e il trascorrere del tempo in modo particolare anche per via della propria fisicità e quindi non solo del ciclo mestruale ma anche della maternità e della menopausa.
Uno dei primi disturbi che lamentano le detenute è quello della perdita del ciclo durante il primo anno di carcere, con le conseguenze che esso comporta a livello ormonale e emotivo, le donne quindi vivono di più il tempo sulla propria pelle, la privazione della femminilità, la separazione affettiva e la mancanza di maternità.
«Beh il ciclo ad esempio sparisce per il trauma nel primo anno e non solo, anche dopo ci sono delle difficoltà in quanto, credo, le donne siano dei soggetti che somatizzano molto [] Questo (la situazione detentiva) scombussola l'equilibrio psicofisico di una donna: sei più nervosa, stressata Prima dell'ultima licenza ho avuto un blocco: ero preoccupata e agitata per questa licenza, poi dopo due giorni in licenza, mi sono rilassata e tutto è tornato normale»
Ecco perché depressione e ansia sono due tra le malattie che colpiscono di più le donne in carcere.
Alcune detenute dicono: «A me capita di mangiare moltissimo, soprattutto dolci, ma più che latro è un fattore nervoso. Sono ingrassata più di quindici kili in un anno e mezzo, da quando sono entrata in carcere. So che devo dimagrire, però so anche che quando mangio ho una sensazione di contentezza»
Stipsi, anoressia, bulimia, gastriti, cefalea, irritabilità, depressione e stati d'ansia sono tra i fattori più riscontrati nel settore della detenzione femminile.
La donna vive in un contesto maschile e questo provoca delle difficoltà ulteriori alla gestione della propria identità femminile. L'ambiente è connotato di rapporti e relazioni maschili, basate sul potere, e quindi anche entrando da non detenuta la sensazione che si percepisce è questa (Zoia 2001
Crisi d'ansia e disturbi respiratori insorgono spesso la sera al momento della chiusura delle celle: le donne risentono in modo maggiore rispetto agli uomini della lontananza e dell'interruzione dei rapporti affettivi che rimangono fuori dal carcere: la detenuta si cristallizza in un universo chiuso, protetto, che tende a togliere la capacità di essere autonome e responsabili delle proprie azioni, e il mondo fuori invece continua ad andare avanti, a crescere a muoversi e questa discrepanza è vivida e pulsante quando si scontra con i tempi rarefatti della prigione.
Nelle risposte degli operatori raccolta nell'Inchiesta sulle carceri italiane, alla domanda fatta di spiegare come la donna vive la detenzione, questi hanno risposto dicendo che le donne vivono la carcerazione con più aggressività e ansia, si chiudono in loro stesse e risentono della mancanza di intimità e affetto in modo più ampio. Si riscontrano problemi psico-somatici in quantità maggiore e tensioni emotive inerenti la lontana dai figli e dalle famiglie, a causa del senso di responsabilità che investe la figura femminile in generale.
La donna perduti i suoi punti di riferimento diventa fragile anche perchè la struttura carceraria crea insofferenza nelle donne, la cui pericolosità è spesso minore rispetto a quella maschile.
Il modo di rapportarsi degli uomini in carcere è comunque privo della ricerca di affetto tra detenuti perché ne andrebbe in gioco la virilità e lo stereotipo della forza affettiva che investe l'essere uomo e il doversi comportare come tale.
Per le donne è diverso così la ricerca di carezze, parole affettuose o calore emotivo tra altre compagne non è una cosa inusuale o rara, anzi alcuni di questi rapporti a volta sfociano in una omosessualità (vera o presunta) che non ha nulla di fisico e molto di affettivo e curativo.
«[.] l'istituzione è sessofobica. Allora le donne, rispetto ai maschi, hanno una maggiore capacità di interagire a livello epidermico: si abbracciano più facilmente ad esempio. Ecco si deve fare molta attenzione quando ti rapporti perché può essere travisato, soprattutto in primavera! In realtà, nonostante il tanto parlarne, la sessualità viene sublimata nei modi più diversi, scrivendo delle lettere o d'altra parte è una cosa naturale no? Certo ci sono anche dei rapporti omosessuali ma sono tenuti ben nascosti, si sanno non si sanno, si fa fintala si vive un po' così: di certo il sesso quale istinto carnale non lo puoi soddisfare a meno che non fai da te, ma in un posto con dieci o quindici persone anche questo non è affatto semplice!»
Ci sono delle differenze notevoli anche nei rapporti tra agenti donne e detenute rispetto a quelli tra agenti uomini e detenuti in quanto il modo di relazionarsi tra donne è diverso, è basato più sulla mediazione verbale e il dialogo che sui rapporti di esercizio di potere e rispetto.
Le agenti devono tra l'altro equilibrare il loro ruolo tra l'esempio maschile usato come termine di paragone e l'uso di un approccio tipicamente femminile con le detenute.
4. Testimonianze
Le detenute intervistate sul tema della depressione in carcere hanno commentato in questo modo la domanda sulla presenza di donne con questa problematica e dell'uso eventuale di farmaci psicotropi o dell'uso di sonniferi: «[.] la maggior parte delle persone a volte non hanno voglia, il carcere è come uno specchio della società per cui dentro ci sono persone che, come quelle fuori non hanno voglia di fare niente, e allora questi si impasticcano e cercano di prendere terapia al mattino, al mezzogiorno e alla sera, non vuol dire che ci siano solo tossici però, ci sono persone che vanno in depressione e si fanno dare psico-farmaci che li mantengano in uno stato di non so come definirlo.Ci sono persone invece che magari hanno già le loro problematiche, e il carcere non è il posto giusto per loro e allora fai fatica anche a coinvolgerle» (Soggetto A).
«Non avrei mai creduto che ci potessero essere così tante persone in depressione, anche io avevo delle crisi prima ogni mese, crisi causate da situazioni temporanee, malessere e mezzo anno, ogni anno, e col tempo sono riuscita quasi a non avere queste crisi, ma proprio ci sono tante persone, vanno in marasma, non credono nella vita, ho avuto anche compagne di stanze che apparentemente non sembravano star male, perchè ridevano, scherzavano, e invece queste persone erano depresse, non vedevano nessuno scopo nella vita, nessuna strada, e non si fanno nemmeno aiutare, non ti fanno entrare in contatto con loro, queste persone non credono di poter essere aiutate con un buon risultato» (Soggetto D).
Anche il personale volontario ha espresso un suo parere riguardo la problematica della depressione, e della mancanza di vitalità di alcune detenute: «Io ricordo che una volta non c'era niente in carcere e qualsiasi proposta facevi rispondevano perchè avevano questo grande bisogno di restare vive, allora si faceva per esempio entrare il consultorio per le conferenze sulla donna e partecipavano in massa, entravano anche con cose organizzate dal comune i primi corsi di lavoro in carcere, partecipavano un po' perché avevano un compenso quotidiano ma anche interessava loro, corsi di ceramica, di parrucchiera, di taglio e cucito partecipavano in una buona parte.
Queste cose che sono state conquistate con una certa fatica facendo pressione sulle istituzioni esterne, quelle che entrano adesso se le trovano già fatte e sfornate e non interessa loro niente, non partecipano, comincia magari un gruppo in 15 e poi rimangono in due o in cinque.
Adesso hanno tantissime possibilità, di corsi, scuola elementare corsi 150 ore delle medie, volendo anche corsi superiori, attività loro dicono ma che me ne faccio io di un diploma tanto poi nessuno mi prende a lavorare, hanno l'attività nell'orto, frequentato dalle straniere, le italiane proprio non vanno, quindi c'è una demotivazione, un po' perché diranno beh ma dopo cosa me ne faccio io di questo diploma, ma anche perché non hanno vissuto la fatica del conquistarsi certe cose.
Hanno di tutto, quando vado lì mi viene una rabbia quando le vedo a letto che non fanno niente, perché veramente invece all'epoca c'era un grande desiderio, ma forse è cambiata anche la società perché sono passati anche trent'anni».
Queste testimonianze sono indicative dello stato di salute psicologica all'interno del carcere: la depressione, è un malessere che è presente, esiste e colpisce le donne più fragili, persone che probabilmente, anche all'esterno del carcere in situazioni di difficoltà avrebbero reagito in modo più negativo e meno forte e ottimistico agli eventi subiti. Alcune detenute intervistate ammettono di aver avuto problemi per brevi periodi, ma poi di essersi riprese, di aver superato la fase critica e aver interrotto la terapia. Altre negano in tono sicuro e deciso di aver mai sofferto di questi problemi, sono combattive nell'ammetterlo e sostengono che alle difficoltà bisogna reagire, a volte anche non curandosi più di tanto delle difficoltà, che possono far scaturire sensi di scontentezza o frustrazione.
L'unico modo per sopravvivere alla pena, quella psicologica e affettiva, è la cura di sé, la ricerca di stimoli, il lavoro, l'occupazione mentale, la capacità di cercarsi degli spazi propri anche quando questi non esistono, e la convivenza democratica all'interno della struttura con le figure di riferimento, come operatori e agenti, ma anche tra detenute.
«Ce ne sono tanti casi, magari se c'è una condanna un po' più lunga, magari all'inizio dici. soprattutto quando sei imputabile perché non sia quello che ti aspetta e magari speri di uscire e poi non esci e ti arriva il definitivo e allora ti metti il cuore in pace perchè tanto devi stare dentro.
Quando sei dentro cerchi di stare il meglio possibile, però magari ci sono dei periodi in cui tu stai lì- stai lì, provi a scherzare ma arrivano dei brutti momenti in cui pensi a tutto quello che hai buttato via e così queste persone stanno per conto loro e non parlano.
In questo periodo ho sentito che ce ne sono tante che vanno in crisi e sono giù.
Lì poi c'è il Dottore lo psicologo che li tengono sotto controllo e sono preparati, ci mancherebbe altro che cominciassero a tagliarsi» (Soggetto E).
«Sì ci sono,io prima per esempio avevo molti problemi e prendevo la terapia per questioni personali.
Poi ho lasciato per consiglio del dottore e delle suore però quando sono agitata prendo qualcosa per calmarmi» (Soggetto C).
«Persone che prima erano attive anche fuori dentro riescono a stare, però persone che anche fuori appena hanno qualcosa si buttano giù.vivono solo per gli psico-farmaci, dose-pigiama-letto, ci sono persone così in carcere, cambiano solo il pigiama, fanno solo quello» (Soggetto B).
L'ingresso in carcere, causa delle crisi, delle difficoltà molto forti: si entra in un ambiente nuovo, in cui le regole e i comportamenti sono imposti da fuori, ci sono dei margini di movimento preciso, delle azioni obbligatorie da fare, inoltre col passare del tempo si comincia a realizzare di aver "buttato via" come dicono alcune detenute, qualcosa di importante di aver lasciato fuori una vita, un marito o compagno, dei genitori, i figli e questo, incide sul rimorso e il senso di colpa che causano spesso stati di ansia, e malesseri psico-affettivi forti.
Quando si è imputabili, la situazione è di tensione emotiva elevata, non si sa se si verrà accusati o meno, non si sa se e quando si potrà uscire dal carcere, inoltre si è comunque rinchiuse e private già delle libertà, si viene a contato con un mondo diverso, si comincia a soffrire della mancanza di libertà già prima della pena definitiva.
Questo stato di disagio e dolore permane anche dopo, in quanto le detenute definitive, devono a loro volta sentire la sofferenza delle imputabili, ri-vivendo sulla pelle di un'altra persona le sensazioni e il dolore che già hanno provato e superato.
Questo modus vivendi non è facile e quindi le crisi depressive, sono la risposta ad uno stato di adattamento mancato all'interno della struttura penitenziaria.
«Una volta erano solo le tossicodipendenti che prendevano i farmaci, a me non mi risulta che altre prendessero valium o farmaci simili, però anche questo è un fenomeno attuale, cioè la depressione, questo vedere tutto nero c'è fuori anche, c'è più fragilità anche delle persone non tossicodipendenti, in carcere questo si accentua, perchè se tu hai dei problemi già da fuori magari poi entri e non sai come va a finire cerchi, ti rompi improvvisamente tute le relazioni esterne, insomma è un grosso trauma la carcerazione, anche se in Italia dicono che la nostra sia molto meglio di tanti altri Paesi europei.
Ora si prendono terapie per non pensare, ma anche perchè ad un certo punto tu devi affrontare la cosa, se il carcere ti piomba addosso per vari motivi per colpa o non colpa tua, se si accetta la realtà e si vive in un certo modo si va avanti, se no ti lasci vivere» (volontaria A).
«In tutte le carceri i farmaci sono usati e molte di loro si aggrappano ad essi, per passare la giornata e non vivere, i farmaci sono davvero tanti.
Poi ci sono casi in cui gente che fuori non li prendeva dentro li prende, succede.
Per esempio una ragazza che conosco a cui hanno cambiato cella per vari motivi nella quale non si trova e non si c'è la possibilità di spostarla da un'altra parte, e quindi per dormire ha cominciato a prendere sonniferi.
Tanti iniziano a prendere psico-farmaci in carcere, poi cosa vuoi la carcerazione ha un peso più profondo in una donna, tanto che alcune perdono il ciclo mestruale.
Una donna è più emotiva e in carcere è in uno stress continuo, una donna perde immediatamente il suo equilibrio psico-fisico, siamo più forte su un certo lato ma più fragili dall'altro.
Una donna si deprime meno di un uomo in carcere perché trova mille cose da fare, si trucca, si fa la messa in piega, pulisce la stanza, un uomo si lascia andare molto di più, però una donna paga di più dal punto di vista psico-fisico». (religiosa B
A conclusione di questo paragrafo sulla depressione ho posto anche dei commenti di persone che lavorano nel carcere come volontarie e che quindi hanno visto la situazione interna pur non vivendola, dando quindi un parere oggettivo al fenomeno discusso.
Le donne sono più fragili per la somatizzazione degli eventi, la rottura delle relazioni affettive, soprattutto del rapporto madre-figlio, diventa un peso da portare, un senso di frustrazione incolmabile che fa cedere anche fisicamente le donne e comporta uno stress notevole, il quale incide sull'aspetto organico (interruzione del ciclo mestruale) ma anche su quello psicologico comportando psico-patologie frequenti come mancanza o aumento della fame, cefalee, depressione e altre malattie di origine spesso psicologica.
Nerval, FiEl Desdichando, cit.
pag.
Traduzione: «
Io sono il Tenebroso, - Vedovo, - Inconsolabile/Principe d'Aquitania, cui
Daco, Che cos'è la psicologia?, 1997 (ed. originale 1982), Bur, Mi; descrive le malattie qui indicate, ne riporto in sintesi i concetti principali presi direttamente dal suo testo
«Astenia: mancanza di forza, grande fatica al risveglio e difficoltà di lavorare, comparsa dell' abulia.
Neurastenia: astenia permanente, il sistema neuro-vegetativo è in squilibrio.
Psicoastenia: riguarda la concatenazione delle idee, passano pensieri disparati nella mente senza che il soggetto possa mandarli via. E' una debolezza psichica.
Ossessione: sentimento o idea estremamente penosa, è presente nella mente dell'individuo in modo continuo e spesso atroce. Provoca angoscia.
Schizofrenia: grave malattia mentale che causa la perdita del contatto con la realtà, (.) lo schizofrenico è un "estraneo mentale" con il quale non si può avere contatto, è separato dalla realtà, (.) vive un sogno interiore.
Psicosi maniaco-depressiva: la mania in psicologia è intesa come uno stato di folle eccitazione psichica e motoria. I soggetti passano da un periodo euforico di mania ad uno di completa prostrazione e depressione, possono insorgere nel periodo depressivo anche allucinazioni.»
Passaggi questi che in carcere vengono vissuti con una tensione e uno stress maggiore rispetto allo stato di libertà, non solo per lo stare chiuse all'interno di una cella, ma anche perché certi passaggi come la menopausa implicano il diventare non più fertile della donna, e quindi la mancata possibilità di fare figli una volta uscite del carcere e contata la pena.
Daco parla di liquidare le azioni, nel senso di far avvenire l'adattamento nella situazione specifica in corso. Quando l'adattamento non avviene non si liquida l'azione (quindi non la si elabora perché non la si affronta), la persona rimane cristallizzata nella situazione che l'ha sconvolta e si comporta nel presente secondo emozioni passate. Nella persona depressa vanno ricercate tutte quelle situazioni ce non sono state liquidate, anche se lontane nel tempo. Il serbatoio della personalità, come lo definisce Daco, deve riuscire a diluire i nuovi adattamenti in modo da incorporali e unificarli presso di sé per poter raggiungere i nuovi equilibri necessari a fronteggiare le situazioni.
Stanchezza qui considerata come privazione di energie, stanchezza emotiva, ossia dovuta dalla presenza di agenti esterni che da Daco (rifacendosi alle teorie di Janet) vengono anche chiamati "mangiatori" di energia. Questi individui hanno la capacità di dominare i soggetti e di renderli ansiosi e incapaci di avere nei loro riguardi qual si voglia abitudine di vita. I soggetti dominatori sono soggetti nevrotici, insicuri che con il loro atteggiamento creano non solo stati d'ansia in coloro che condividono i loro spazi ma anche una sensazione di incapacità di adattarsi alla situazione posta in atto in quanto il loro atteggiamento è imprevedibile e scostante. Ecco che essere soggetti a queste persone provoca nell'individuo un senso di inferiorità, uno stress e un esaurimento oltre che ad una frustrazione e una mancanza di responsabilità che vengono accentuate durante il corso degli anni. Pierre Janet psicologo francese (1859/1947) parla e studia l'adattamento giungendo alla conclusione che questo dipenda dallo stato psichico e fisico del soggetto, c sono azioni che richiedono una condotta nuova e non abituale, ma non tutti i soggetti decidono di attuarla. Le azioni, per Janet vanno differenziate in azioni a bassa e alta tensione, e queste tensioni sono in un rapporto direttamente proporzionale alla difficoltà delle condotte da attuare. Ci sono quindi degli atti che costano degli sforzi maggiori e quindi affaticano di più l'individuo, inoltre le condotte che devono essere intraprese per poter adattarsi alla situazioni posta in essere devono anche essere armonizzate con l'Io dell'individuo che deve rimanere in uno stato di equilibrio. Vi sono azioni però, che avvengono dal punto di vista riflessivo, che possono provocare più di altri stati depressivi in quanto richiedono una perdita e utilizzo di energia molto forti da parte del soggetto. Tra le azioni che costano fatica e che provocano stanchezza nell'individuo ci sono: la fatica emotiva soprattutto se prolungata, il surmenage mentale (ossia si verifica quando il dispendio di energie supera le possibilità dell'individuo), tutte le emozioni depressive. Nelle persone che soffrono di depressione l'azione rimane allo stato di desiderio, si fanno degli sforzi ma senza ottenere risultati, il soggetto non riesce a finire le cose le lascia a metà, rispetto agli altri i suoi sforzi sono sempre dispersi. Ecco quindi come subentrino emozione, l'esitazione, lo sforzo inutile, il dubbio, il rimuginare del pensiero, lo scontento di se stessi e l'esaurimento. Per risolvere questi stati bisognerebbe conoscere quelle azioni che ci portano a esaurire le nostre forze, ma a volte ci sono delle nevrosi alla base di questi comportamenti, ci sono a volte situazioni che per alcune persone diventano insostenibili benché siano per la maggior parte delle persone naturali o normali (Janet fa l'esempio di un pranzo in famiglia che per alcuni può significare un'elevata tensione emotiva con conseguente dispendio energetico).Ecco perché anche lo studio sui mangiatori di energia è utile al fine della risoluzioni di queste nevrosi. (In ambito carcerario si pensi al rapporto detenuto/agente o anche detenuto/detenuto, le relazioni sono importanti in quanto la coabitazione porta al contatto onnipresente e quindi se ci sono figure dominatrici lo stress con conseguente esaurimento di energia può essere molto elevato, così come il fatto di vedere i propri sforzi cadere nel nulla, si pensi alla richiesta di permessi e alla lentezza della burocrazia).
Testo presente in Donne allo specchio, pagina online su www.ristretti.it,
Saggio di Astarita L., Femminile, Detenzione presente in Inchiesta sulle carceri italiane a cura di Anastasia e Gonnella, 2001, Gruppo Abele, paragrafo 3.4, pag. 74.
Cfr. anche Giordano V. Donne in carcere, di Campelli E., Ptch T., Faccioli F. e Giordano V., 1992, Feltrinelli , Mi., e Zoia Donatella nel numero speciale dedicato alle donne di Ristretti Orizzonti. E Astarita L. in Femminile, Detenzione, saggio presente in Inchiesta sulle carceri italiane, op. cit.
Questa ed altre testimonianze si trovano nel testo Donne in sospeso, scritto dalle detenute del carcere della Giudecca di Venezia. In questo capitolo si parla di corporeità intesa come cura-trascuratezza-annullamento, in quanto l'essere donna in carcere crea difficoltà angosce e ansie che colpiscono anche la voglia di essere donne e ricoltivare la propria femminilità con tutto quello che può comportare il trascurarla.
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