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"Terra terra, là dove siamo e non abbiamo mai smesso di essere, è importante praticare una cultura abolizionista, esprimere ovunque l'importanza della libertà, battersi contro ogni forma di sopraffazione, di negazione, di morte annunciata e differita, nell'universale quanto nel particolare, e viceversa. Abolire il carcere è un processo nel quale l'astuzia, l'intelligenza, il realismo e l'utopismo vanno saviamente combinati, affinché siano un vero cocktail esplosivo.
(Riccardo d'Este[55])
1 LA DETENZIONE FEMMINILE: CARATTERISTICHE E PROBLEMI
DETENZIONE FEMMINILE
Considerando i risultati della ricerca sulla detenzione femminile[56] ci accorgiamo che l'immagine tracciata del fenomeno mette in luce come oggi le donne vadano in carcere prevalentemente per reati connessi agli stupefacenti; molte sono straniere; moltissime tossicodipendenti (le quali hanno in genere pene detentive brevi e sono recidive). Per quelle di nazionalità italiana i reati connessi agli stupefacenti e le rapine si accompagnano all'esperienza della tossicodipendenza e ai processi di marginalità che essa comporta. Le straniere in carcere per detenzione e spaccio sono in prevalenza corriere della droga, al primo impatto con la giustizia.
La maggioranza delle donne oggi in carcere vi passa periodi brevi, ma ripetuti. L'esperienze della detenzione contribuisce così a radicalizzare modalità di vita sempre al limite della legalità.
La popolazione carceraria dunque cambia costantemente ed è difficile programmare qualsiasi attività di recupero (bisogna ricordare a tal proposito che la possibilità di accedere a misure alternative per le detenute madri non è poi così immediata né di facile applicazione).
L'esistenza di pochi carceri penali femminili, inoltre, fa sì che molte detenute dopo il processo siano trasferite in penitenziari lontani dal luogo di residenza della famiglia, con gravi conseguenze per i figli, i quali rischiano di rappresentare una perdita reale e simbolica.
UNA LEGGE INAPPLICATA
Attualmente il carcere è lo stesso per entrambi i sessi sia per quanto riguarda la struttura sia per le sue regole e la questione femminile viene messa in gioco non perché si è pensato al soggetto femminile ma perché interviene la necessità di tutelare i loro figli piccoli.
La legge spesso non trova facile applicazione per le detenute a causa della frammentazione dell'universo carcerario femminile. I gruppi di detenute non sono numerosi, nella maggioranza dei casi non superano le 20 unità. Con numeri così esigui raramente è possibile fare programmi di recupero significativi che non riflettano un'immagine stereotipata e paternalista della donna (vedi l'onnipresente corso di taglio e cucito).
Anche le risorse lavorative, per lo più attività interne al carcere come la manutenzione e i servizi domestici, sono poche e di scarsa qualità. La mancanza di lavoro all'esterno rende ancora più difficile ottenere la concessione di misure alternative.
L'INFLUENZA DELLA DETENZIONE SUL CORPO E LA PSICHE
Per quanto riguarda l'influenza che la detenzione esercita sul rapporto tra i figli e le madri detenute, poche donne hanno accettato di parlare di questo problema nella già citata ricerca[58]; e ciò evidenzia il disagio e il dolore di fronte ad una comunicazione bloccata, ad un distacco, una perdita con la consapevolezza del disorientamento dei figli e con un grande senso di umiliazione e vergogna.
Il rapporto con il proprio corpo per le detenute e più in generale il problema della salute in carcere è una questione tutt'altro che secondaria. L'impatto con il carcere rende il corpo nudo, lo spoglia degli elementi che gli erano più familiari, lo costringe allo sguardo dell'altro, lo mette in contatto con tutto quanto possa esserci di più estraneo. Disagio della reclusione viene immediatamente registrato da tutti i sensi, dagli arti, dal corpo nel suo complesso. Lo stato di detenzione mantiene il corpo in bilico tra salute e malattia.
Da ultimo, come già più volte ribadito, la detenzione recidendo tutti i legami che la persona aveva prima di entrare nell'istituto di pena, non solo non offre il supporto necessario per l'inizio di una nuova vita da individuo libero ma recide anche qualsiasi tipo di aiuto che invece è assolutamente necessario a chi vuole ricostruire da capo la propria esistenza.
2 FIGLI: DETENUTI INNOCENTI
La presenza di bambini residenti anche temporaneamente in strutture penitenziarie per qualsiasi motivo, appare come una pratica contraria ai diritti umani sia nei riguardi dei bambini sia nei riguardi del/i genitore/i.
La rottura dell'unità familiare genitore-figlio-ambiente sociale è dannosa e può arrecare gravi e permanenti danni al bambino, specialmente se iniziata in età neonatale e protratta per più anni[59]. Per i bambini che vivono in carcere vi è un alto grado di deprivazione relazionale in una fase decisiva dello sviluppo, e tale deprivazione è a doppio livello, nel senso che non investe solo i bambini ma anche le madri.
La percentuale dei rientri in carcere, che tocca in 18 per cento dei casi, dimostra come ben poco venga fatto per evitare al bambino il ripetersi della negativa esperienza.[60]
3 IL FALLIMENTO DEL SISTEMA CARCERARIO
Il tasso di recidiva è molto alto,e ciò sta a indicare che e il ritorno in carcere è sintomatico del non aver interrotto il precedente modus vivendi, di essere ritornate nel medesimo ambiente e soprattutto è sintomatico del fatto che la pena, per queste persone, non ha svolto alcuna funzione se non una sofferenza fine a se stessa.
Anche le restrizioni imposte ai detenuti che godono di misure alternative e che quindi sono all'inizio del loro reinserimento nella comunità esterna e dovrebbero quindi essere aiutati in questo difficile percorso, in realtà non fanno altro che rendere più facile la violazione delle regole e di conseguenza il ritorno in carcere.
Che il carcere non rieduchi è implicito nelle riforme stesse, quando insistono sulla permeabilità del carcere all'esterno, sulla funzione "trattamentale"dei permessi e dei colloqui, del lavoro all'esterno, della semilibertà
La rieducazione presuppone una congrua permanenza in carcere, ma la maggioranza delle detenute, tuttavia, entra e esce dal carcere, e sono precisamente le detenute più giovani, tossicodipendenti, quelle che caratterizzano oggi la detenzione femminile. Appare chiaro che la "rieducazione" e tutte le misure "alternative" per loro non ci sono e non ci possono essere.
In Italia, dunque, un modello orientato alla rieducazione ed alla presa in carico che guarda all'etica della responsabilità di cui sarebbero portatrici le donne (il care model) ha sotteso le riforme penitenziarie ('75 ed '86), nel senso che ha favorito la logica dell'utilizzo dei permessi premio che dovrebbero essere diritti e sono elargiti solo per buona condotta. Questo regime premiale ha esteso agli uomini ciò che era stato costruito per donne, minori e matti, nel senso che ha prodotto un trattamento differenziale che tiene conto del sesso, dell'età, dello stato di salute, delle circostanze in cui è avvenuto il reato e, soprattutto, dell'adesione al trattamento da parte del/la detenuta ed è quindi discrezionale e poco garantista.
Le riforme attuali hanno lievemente attaccato la secolare separatezza del carcere dalla società, anche se la società è ancora restia a farsi carico delle resposnsabilità che ciò comporta.
Viviamo in una cultura che non riesce a pensare a una alternativa al carcere come pena . Tamar Pitch assume che il carcere sia visto dalla collettività come una punizione volta alla sicurezza in un luogo separato e sicuro ma afferma che dovremo disfarci della correzione e della sicurezza (che del resto, tutti lo sanno, sono pure illusioni) .
La politica penale e penitenziaria italiana oggi, secondo Tamar Pitch, oscillerebbe invece, purtroppo, verso un polo repressivo chiedendo più carcere, e carcere duro, come risposta all'allarme della criminalità organizzata.
Cosa ci possiamo attendere da una società che sempre più tende ad adottare sugli affari umani il punto di vista del poliziotto, che tende a liquidare la condizione stessa della pluralità (degli interessi, dei punti di vista, delle opinioni) quando è in gioco l'ordine sociale (come se ci fosse qualcosa che, da vicino o da lontano, non la riguardasse)?
Strano paradosso quello di una società sempre più portata ad abolire le linee di frattura e le forme di divisione tradizionali, attraversata da forme di fluidità (economica, sociale, culturale e ideologica) sempre più marcata, e che simultaneamente sembra sempre più indotta a indurire il decreto di espulsione e d'esclusione contro gli «altri» (ladri, delinquenti ), che essa sradica dall'umano concesso inviandoli in carcere[64].
Dovrà essere possibile riesaminare la funzione della pena e il relativo modello di reclusione in una visione che cerchi di rompere il ciclo "marginalità-stigamtizzazione-maggiore marginalità" .
Tutti gli elementi elencati, invece di sottrarre libertà, dovrebbero concretizzarla per tutti/e, se si ponesse effettivamente la questione alternativa al carcere, poiché ciò che finora d'alternativo ad esso è stato pensato, non l' ha sostituito ma si è solo aggiunto. Bisognerebbe cominciare a pensare a sentenze di condanna senza carcere[66], ossia a potenziare le offerte alternative sganciandole dalla logica premiale.
Rendere il carcere più vivibile oggi, significa renderlo più adeguato. Non più adeguato alle persone, si badi bene, ma più adeguato ad un'epoca. La modernizzazione della punizione si può realizzare solo perché delle anime caritatevoli e degli spiriti illuminati si prendono la briga di riflettere su un modo moderno di punire. Da cui discende l'idea che bisogna trovare una soluzione alternativa all'incarceramento.[67]
Enzo Campanelli, Franca Faccioli, Valeria Giordano, Tamar Pitch, "Donne in carcere Ricerca sulla detenzione femminile in Italia" op cit
Gli/le immigrati/e che si trovano in Italia sono inoltre vittime di altre misure repressive, ovvero di essere portati, se trovati privi di permesso di soggiorno, nei Centri di Accoglienza Temporanei, dove vivono una vera e propria detenzione privati dei più elementari diritti, in attesa di essere espulsi dall'Italia.
Sandro Libianchi "Madri e bambini in carcere" Centro Studi del Centro di documentazione Due Palazzi op. cit.
In Tristi tropici, Claude Lévi-Strauss racconta le pratiche di «polizia» e di giustizia degli indiani delle pianure nordamericane: «Se un indigeno contravveniva alle leggi della tribù, veniva punito con la distruzione di tutti i suoi beni: tenda e cavalli. Ma nello stesso tempo, la polizia contrattava un debito nei confronti del punito: alla polizia stessa toccava organizzare la riparazione collettiva del danno del quale il colpevole, per essere punito, era stato la vittima. La riparazione a sua volta faceva del punito il debitore del gruppo, al quale doveva dimostrare riconoscenza mediante regali offerti a tutta la collettività (compresa la stessa polizia), che lo aiutava a procurarseli in modo da invertire nuovamente i rapporti; e così di seguito fino a che, al termine di tutta una serie di regali e contro-regali, il disordine precedente fosse progressivamente eliminato e l'ordine iniziale restaurato».
Possiamo senz'altro prendere spunto da questi usi «primitivi» della polizia e della giustizia.
Pensiamo al superamento e alla estinzione del carcere non come forma universale e monolitica, ma delle forme articolate attraverso cui il carcere come istituzione si disloca nello spazio urbano e nel tempo storico. Se si vuole, questo processo lo si può qualificare come disaggregazione e disgregazione della forma carcere in tanti sistemi e sottosistemi da restituire progressivamente alla società e alla libertà sulla linea del possibile e del reale. È questo un problema nuovo, un problema dell'oggi. Per esso vanno trovate soluzioni nuove, le soluzioni dell'oggi: 'Qui fin da principio ad incognite, equazioni e possibilità di soluzione non v'è fine. Il compito è: scoprire sempre nuove soluzioni, connessioni, costellazioni, variabili'.
Fonte: Quaderni di 'Società e conflitto', numero 7, 1995 di Antonio Chiocchi e Claudio Toffolo - PASSAGGI. Scene dalla società italiana degli anni '70 e '80.
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