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Negli anni ottanta, nei paesi di common law - i quali prima degli altri, e in maniera più estrema, applicarono i principi della pena utile - si cominciò ad incrinare la fede nel mito risocializzativo. Si era infatti posta eccessiva fiducia nelle possibilità delle scienze umane di modificare le personalità anti-sociali e di formulare attendibili previsioni del comportamento futuro; si verificarono molti casi di estrema discrezionalità degli organi amministrativi; si notò che i nuovi istituti - i quali, tra l'altro comportavano costi alti per il finanziamento degli operatori - fallirono il loro obiettivo di positiva risocializzazione, mentre, per contro, si era impossibilitati a utilizzare la pena come efficace strumento di neutralizzazione per fini di difesa sociale. La politica penale fu ovviamente influenzata da tutto ciò, con il risultato che si abbandonarono i principi della pena utile e si inasprì il sistema delle pene: inizia l'epoca della cosiddetta zero tolerance.
L'Italia invece - nella quale si introdussero i nuovi criteri quando già negli altri paesi era subentrata la crisi dell'ideologia del trattamento - attuò le riforme in maniera più attenuata nelle realizzazioni pratiche: questo è anche uno dei motivi per cui non si giunse alle estremizzazioni che furono all'origine di tale crisi. Nel nostro paese gli indirizzi di politica penitenziaria fluttueranno in continuazione, a seconda dei momenti, tra spinte liberalizzanti - a tratti indulgenzialistiche - e pressioni restrittive, "tra riforme ed emergenza"[2], contribuendo a togliere al sistema sanzionatorio ogni residuo di certezza del diritto.
La l. 26 luglio 1975 n. 354 fu la base di una riforma in itinere che vide nella legge Gozzini un significativo momento di approdo. In riferimento alla prima legge, in essa si può ravvisare il carattere anticipatorio, trainante, nei riguardi di una realtà penitenziaria impreparata a recepire i nuovi indirizzi politico-legislativi ed istituti completamente inediti. Il legislatore del 1986 cercò di completare e di integrare quell'intelaiatura normativa.
La l. 10 ottobre 1986 n. 663 si sforza di trovare un punto di equilibrio tra due diverse esigenze: quella della sicurezza e quella della progressiva proiezione del trattamento individualizzato oltre le mura del carcere, collocandosi - nello scenario dei tre grandi filoni di intervento nel settore della giustizia penale (depenalizzazione, degiurisdizionalizzazione, decarcerizzazione) - nella prospettiva della decarcerizzazione.
Il riduttivismo carcerario, ispirato non solo da esigenze di deflazione della popolazione detenuta, si realizzerà con le innovazioni introdotte dalle modifiche dell'Ordinamento seguendo la logica del meno carcere durante l'esecuzione penitenziaria (attuata tramite le misure del lavoro all'esterno, dei permessi premio e della semilibertà), del non ingresso in carcere (mediante gli istituti dell'affidamento in prova in casi particolari senza osservazione, di semilibertà senza espiazione e di detenzione domiciliare ab origine) e della uscita anticipata dal carcere (affidamento in prova, detenzione domiciliare residuale, liberazione anticipata, liberazione condizionale). Tutti questi istituti, alcuni nelle loro modifiche, verranno analizzati specificamente più avanti.
Possiamo individuare all'interno della legge del 1986 due anime: quella che aspira ad una maggiore apertura verso l'esterno, oltre che ad un parziale sfoltimento della popolazione detenuta, e accanto ad essa, quasi una sorta di contrappeso in chiave restrittiva, quella collegata alle esigenze dell'ordine e della sicurezza interna degli istituti, inquadrabile tuttavia ancora nella logica della rieducazione. Si faceva pressante, infatti, la preoccupazione di difesa sociale relativa ai rapporti interpersonali tra detenuti e, soprattutto, una più generale istanza di neutralizzazione dei detenuti maggiormente pericolosi, la cui condotta era potenzialmente nociva agli equilibri interni e alla qualità della vita di ogni singolo istituto[3]. Di qui la previsione, come si vedrà in seguito, di un particolare tipo di sorveglianza.
Nella versione originaria, le misure alternative alla detenzione si svolgevano soprattutto in ambiente extracarcerario, ma il condannato doveva aver sofferto almeno un periodo di carcerazione; la legge Gozzini inaugurò invece un ulteriore circuito di alternatività rispondente ad una logica più sensibile a ragioni premiali e di deflazione carceraria: si previde che in alcune ipotesi le misure alternative alla detenzione potessero essere applicate al condannato direttamente dallo stato di libertà, senza che si richiedesse un periodo di espiazione della pena.
Si passerà ora ad analizzare la legge 10 ottobre 1986 n.663, ossia gli istituti che essa ha introdotto e quelli che ha modificato.
La legge Gozzini aggiunse al sistema delle misure alternative i seguenti istituti:
detenzione domiciliare tipica : consiste nell'obbligo da parte del detenuto, una volta uscito dal carcere, di risiedere nella propria abitazione o luogo di pubblica cura, assistenza o accoglienza[5].
Detta misura non ha alcuna valenza risocializzante o rieducativa, a meno che non si consideri il fatto di scontare la pena in un luogo che non sia il carcere - sottraendo il condannato agli effetti deleteri dell'ambiente carcerario - una circostanza di per sé non desocializzante; oppure quando applicata nei confronti di condannati minori di ventuno anni, in quanto si da risalto a comprovate esigenze non solo di salute, ma anche di studio, di lavoro e di famiglia.
Le ragioni ispiratrici del nuovo istituto appaiono essenzialmente ricollegabili ad istanze di natura umanitaria nei confronti della particolare situazione fisica o psicofisica del condannato: la misura viene applicata infatti anche a donne incinte o con prole di età inferiore ai dieci anni con loro conviventi, ma anche al padre in possesso di tali requisiti ove la madre sia impossibilitata ad accudire la prole o deceduta; a soggetti di età superiore ai sessanta anni se inabili anche parzialmente;
permessi premio : è una tra le più significative innovazioni della legge Gozzini sul versante degli strumenti tesi a differenziare il regime del trattamento penitenziario, mediante progressive aperture verso l'esterno, al fine del graduale reinserimento del detenuto nella società esterna, e del mantenimento e lo sviluppo dei rapporti familiari durante la fase di esecuzione penale. Consistono nella facoltà accordata ai condannati di allontanarsi dall'istituto di pena anche senza scorta: il detenuto trascorre così un breve periodo di tempo nell'ambiente libero, con l'obbligo di rientro in carcere alla scadenza del termine. Precedentemente alla legge Gozzini, la legge di riforma penitenziaria contemplava solamente i permessi di necessità, che rappresentavamo sostanzialmente una misura rispondente a finalità umanitarie e destinata a soddisfare esigenze straordinarie. Suddetta legge introdusse invece l'art. 30-ter nell'ordinamento penitenziario, un tipo di permesso qualitativamente diverso da quello disciplinato dall'art. 30. Il detenuto potrà trascorre periodi di quindici giorni fuori dal carcere - anche le notti - per un massimo di quarantacinque giorni l'anno, in modo da poter curare i rapporti familiari, interessi affettivi, culturali e di lavoro (e, ovviamente, per poter soddisfare, almeno i parte, le proprie esigenze sessuali[7]).
La legge Gozzini ha, inoltre, contribuito a modificare alcuni istituti già esistenti, quali:
liberazione anticipata : non si tratta di una misura alternativa alla detenzione, è piuttosto il mero sconto di pena per chi partecipa all'opera rieducativa. Per ogni singolo semestre di pena scontata[9] si concede una detrazione di quarantacinque giorni.
Si è optato per la semestralizzazione della valutazione[10] per incentivare il condannato ad aderire periodicamente al programma risocializzativo, in modo da abituarlo a collaborare attivamente alla buona riuscita del proprio trattamento. La liberazione anticipata diviene così strumentale alla politica gestionale delle strutture, contribuendo a rendere più governabili le gli istituti di pena;
affidamento in prova al servizio sociale : nell'ottica del legislatore del 1975, tale misura alternativa era destinata ad una categoria di condannati - quelli della piccola e media criminalità - per i quali la risposta carceraria si rivelava inadeguata, quindi la cui risocializzazione appariva più fondatamente realizzabile con il supporto del servizio sociale. Si ritenevano infatti tali soggetti come portatori di disadattamento sociale, ed eliminando la situazione di detenzione - che ne avrebbe perpetuato l'emarginazione - si riteneva di avvantaggiare il condannato.
La legge Gozzini invece, equiparando pena detentiva inflitta e pena residua da espiare, estese la fruibilità dell'affidamento in prova agli autori di reati ad elevato tasso di gravità, nella ottimistica convinzione che, trascorso in prigione un certo numero di anni, il condannato abbia perduto, grazie all'ipotetico trattamento carcerario, quella capacità a delinquere che era insita nella gravità del reato commesso[12].
Da quando, poi, la concessione del beneficio si basa sulla conseguita affidabilità del condannato pericoloso socialmente, quindi sull'estinzione della sua originaria pericolosità, essa diventa il premio per la collaborazione fornita[13].
La legge 663/86, inoltre, concesse la misura alternativa anche al soggetto sottoposto a misura di custodia cautelare, ma solo se durante un periodo di libertà abbia mantenuto un comportamento tale da far ritenere l'affidamento in prova una misura idonea alla sua rieducazione: detta legge - come farà anche la cosiddetta legge Simeoni-Saraceni[14], ha introdotto la possibilità di affidamento senza osservazione;
regime di sorveglianza particolare: istituto introdotto relativamente alla disciplina interna degli istituti penitenziari, caratterizzato da severe norme di sicurezza. La legge del 1986 abolì le carceri speciali - istituti ad alta sicurezza, nati all'epoca del terrorismo per i soggetti più pericolosi - e prescrisse un regime particolare da applicarsi alle singole persone all'interno di carceri normali[15].
L'ordinamento penitenziario individua le tipologie di soggetti pericolosi destinatari del regime di sorveglianza particolare[16]: tale regime è riservato a detenuti che presentino pericolosità penitenziaria , i quali, cioè, nella vita penitenziaria tengono comportamenti che compromettono la sicurezza o l'ordine degli istituti, o che con violenza o minaccia impediscono le attività degli altri detenuti o internati, o che esercitano azione di soggezione nei loro confronti . Tuttavia la pericolosità è determinata sulla base di parametri non legislativamente predeterminati, quindi tale valutazione è ampiamente discrezionale.
La legge identifica e cerca di contrastare - quale elemento sintomatico di pericolosità - la formazione, all'interno del carcere, di una gerarchia parallela fondata sulla soggezione di alcuni detenuti, sia che essa derivi dalla comune appartenenza ad organizzazioni criminose, sia che essa dipenda dal prestigio goduto da un soggetto per il clamore - o imposto per l'efferatezza - delle sue gesta delinquenziali. Non è tuttavia sufficiente che tale posizione di rispetto esista di fatto: è necessario, infatti, che di essa il detenuto si avvalga, strumentalizzandola per ottenere prestazioni e servizi, per intimidire altri detenuti, o per esercitare pressioni sugli organi dell'istituto[19]. Si può vedere quindi il carattere preventivo-cautelare della misura, l'esigenza di autodifesa dell'istituto rispetto al pericolo di turbative provenienti dall'interno della stessa comunità carceraria, in quanto taluni comportamenti sono antitetici alle "condizioni minime per la realizzazione delle finalità del trattamento dei detenuti e degli internati" .
Le restrizioni disposte dal regime di sorveglianza particolare[21], tuttavia, non possono riguardare materie concernenti diritti costituzionalmente garantiti e protetti - quali il vitto, l'igiene, il vestiario, il corredo, la salute, le pratiche di culto - la quale compressione inciderebbe sul senso di umanità cui ogni trattamento penitenziario deve uniformarsi .
Tuttavia il legislatore si è posto il problema delle difficoltà organizzative che si sarebbero potute profilare, e conferì all'amministrazione penitenziaria il potere di disporre il trasferimento del detenuto pericoloso, salvo esigenze difensive e familiari del detenuto stesso, "in altro istituto idoneo" [23]. In questo modo si riconobbe di fatto il potere di concentrare i detenuti sottoposti a sorveglianza particolare negli istituti maggiormente idonei ad ospitarli, premessa per la legittimazione di un circuito di istituti differenziati dagli altri sotto il profilo dei livelli di sicurezza.
Tale circuito si è di fatto istituzionalizzato nel 2002[24]: il legislatore ha dato definitività al regime di massima sicurezza e ha adeguato la disposizione ai dettami costituzionali. Infatti il legislatore del 1992 aveva posto un vincolo temporale all'irrigidimento del regime carcerario, il quale era fissato a tre anni di vigenza, ma interventi legislativi hanno via via posticipato il termine finale al 31 dicembre del 2002, finché con l'ultima riforma di questo anno la disciplina divenne permanente. Il c.d. carcere duro divenne così applicabile ai detenuti autori dei delitti di cui all'art. 4-bis, 1° comma, quando vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di rapporti con la criminalità organizzata terroristica o eversiva. L'esecuzione di tale regime non può avere durata inferiore ad un anno e superiore ai due anni, ma può essere prorogata .
Si tratteranno ora le modifiche al sistema penitenziario, in senso di apertura[26], poste in opera successivamente alla legge 10 ottobre 1986 n. 663 attraverso l'introduzione o la variazione di istituti.
affidamento in prova al servizio sociale "in casi particolari : misura alternativa alla detenzione caratterizzata dalla specificità dei destinatari, che sono solamente i tossicodipendenti e gli alcoldipendenti con in corso un programma terapeutico di recupero, previo certificato di status dalla struttura sanitaria pubblica. Non si pongono particolari vincoli temporali, così da consentire loro di proseguire la necessaria terapia sulla base di un programma concordato con una delle strutture a ciò autorizzate.
Gli elementi che hanno convinto il legislatore a individuare una soluzione particolare operante in sede penitenziaria e ritagliata sullo schema dell'affidamento in prova ordinario sono stati[28]: il dilatarsi delle presenze in carcere di soggetti tossicomani; la consapevolezza che la promiscuità della convivenza carceraria - da sempre occasione propizia di diffusione, piuttosto che di contenimento, dell'uso di sostanze alcoliche o stupefacenti - provochi nel dipendente effetti deleteri; il verificarsi di episodi in cui il sopraggiungere di una sentenza definitiva di condanna abbia pregiudicato il cammino riabilitativo autonomamente avviato dal tossicodipendente; la presa d'atto che il carcere può comportare la solo disintossicazione fisica, in quanto il soggetto è isolato e lontano dalle sostanze psicotrope da cui dipende , ma non favorisce quella psicologica, l'unica che può garantire risultati duraturi .
La legge Gozzini apportò dei cambiamenti anche a questo istituto, estendendo il medesimo regime di affidamento anche al tossicodipendente che "intenda sottoporsi ad un programma di recupero" non ancora iniziato; in tal modo la misura alternativa acquisirà anche la funzione di stimolare il tossicodipendente ad intraprendere un particolare percorso, finalizzato al superamento dello stato di dipendenza.
In realtà, però, tale normativa non si è rivelata un valido strumento di prevenzione e di recupero della tossicodipendenza, come dimostrano il dilagare di tale fenomeno criminale e i dati relativi all'aumento del numero di questa tipologia di detenuti[31];
detenzione domiciliare c.d. "biennale : misura alternativa alla detenzione introdotta dalla legge 27 maggio 1998 n. 165, la cosiddetta legge Simeone-Saraceni, trae origine dall'assunto che sia preferibile evitare l'esperienza carceraria, di per sé criminogenetica e stigmatizzante, a soggetti di modesta caratura delinquenziale. Le caratteristiche peculiari della detenzione domiciliare biennale conducono ad individuare la platea dei potenziali destinatari soprattutto in quei soggetti appartenenti alla criminalità dei cosiddetti colletti bianchi.
È una misura che non risponde né ad esigenze di rieducazione del reo, né a finalità umanitarie e assistenziali, ma ad esigenze politico-criminali di deflazione carceraria.
detenzione domiciliare "speciale : misura alternativa alla detenzione, destinata esclusivamente a detenute madri di prole di età non superiore ai dieci anni, nonché al padre detenuto, se la madre è deceduta o impossibilitata e non vi è modo di affidare i figli ad altri che a lui. Tale provvedimento è in linea con la prospettiva di valorizzare le situazioni utili a ristabilire positive relazioni del detenuto con la propria famiglia, e di abolire la cosiddetta carcerizzazione dell'infante; a tal fine viene anche introdotto l'istituto dell'assistenza all'esterno dei figli minori, il quale prevede che "le condannate e le internate possono essere ammesse alla cura e all'assistenza all'esterno dei figli di età non superiore a dieci anni"[34]. È una misura, quindi, che risponde più alle esigenze dei figli, che del soggetto condannato.
Purtroppo l'applicazione della nuova legge non ha portato a risultati significativi. Sono infatti pochissime le detenute che ne hanno potuto usufruire in quanto, innanzitutto, detta legge non è applicabile alle imputate, che sono la metà sul totale delle recluse; secondariamente c'è il problema della casa: sono previsti infatti meccanismi di controllo sulla possibilità di instaurare una reale convivenza con i figli, ma sia le straniere che le nomadi - ovvero la maggioranza delle detenute madri - difficilmente possono soddisfare tale requisito.
Nel primo triennio degli anni novanta, la società italiana fu sconvolta dalla recrudescenza di efferate manifestazioni di criminalità organizzata la quale, da ordinario fenomeno endemico, si manifestò in modo qualitativamente e quantitativamente acuto. Sull'onda delle istanze di difesa sociale, provocate da episodi molto contingenti ma anche di facile presa emotiva[35], il clima generale intorno alle tematiche penitenziarie si deteriorò fino a sconvolgere la filosofia di fondo che aveva ispirato le scelte della riforma del 1986.
Al di là del contenuto delle critiche, spesso poco razionali, si assistette ad una inversione di tendenza, ad un mutamento di sensibilità, condizionata dai timori legati al diffondersi di allarmanti forme di criminalità ed alla scarsa fiducia del sistema di farvi fronte: questa non poteva che trasferirsi dal piano dell'opinione pubblica a quello politico-parlamentare, per poi tradursi in interventi legislativi di irrigidimento delle norme.
Il legislatore è intervenuto con provvedimenti restrittivi, il cui punto di arrivo sarà l'introduzione dell'art. 4-bis della legge di riforma[36], il quale prevede un regime di rigore nei confronti di persone condannate per taluni delitti ritenuti di particolare allarme sociale. Tale articolo, poiché detta le regole fondamentali che devono presiedere all'accertamento della pericolosità sociale dei condannati per determinati delitti, diventa così la disposizione cardine della più recente normativa penitenziaria.
La norma, nella versione originaria, stabiliva che l'assegnazione del lavoro all'esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione, ad eccezione della liberazione anticipata, non potessero essere concessi ai detenuti ed internati per i reati di cui all'art. 416-bis c.p., ovvero reati di mafia, terrorismo, sequestro per estorsione, produzione e traffico di sostanze stupefacenti; ad essi, con decreto legge, si aggiunsero i reati di associazione finalizzata a riduzione in schiavitù, alla violenza sessuale, all'abuso e sfruttamento sessuale dei minori o al traffico di materiale pornografico raffigurante minori ed il contrabbando aggravato di tabacchi lavorati esteri[37].
Il primo passo in tale direzione furono le modifiche apportate alla disciplina dei permessi premio[38], misura che negli ultimi anni era stata all'origine delle più acute manifestazioni di allarme sociale, nella direzione di rendere più strette le maglie dell'ordinamento penitenziario ai condannati per i reati particolarmente gravi. Si stabilì che per i condannati per i reati di cui agli artt. 416-bis dell'ordinamento penitenziario e 630 del codice penale, per la concessione dei permessi si dovessero acquisire elementi tali da escludere la attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata.
Si introdusse così una regola probatoria che sarebbe stata centrale nei successivi interventi legislativi, aventi portata assai più larga rispetto all'area dei permessi premio: con questa si consentiva, infatti, che le misure potessero essere applicate anche nei riguardi dei condannati per i più gravi delitti, purché si escludessero attuali i collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva[39].
L'ulteriore passo fu il consolidamento dell'indirizzo legislativo volto ad istituire un doppio regime penitenziario, cioè un regime differenziato in base alla natura del reato, nei confronti dei condannati per delitti tipici della criminalità organizzata od eversiva. La soluzione[40] fu di discriminare due fasce nell'area dei delitti riconducibili a tale specie di criminalità: si stabilì che ai condannati per i delitti della prima fascia (ritenuti di certa riferibilità al crimine organizzato), le misure penitenziarie rieducative potessero applicarsi solo se il reo avesse collaborato con la giustizia a norma dell'ex art. 58-ter, e se siano stati acquisiti elementi tali da escludere l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva - quando vi sia l'oggettiva impossibilità di un'utile collaborazione - ; i condannati per i delitti della seconda fascia , invece, ritenuti di per sé non direttamente riferibili a quell'area criminosa, sarebbero stati ammessi ai benefici penitenziari solo quando fossero accertati "elementi tali da far ritenere la non sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva".
L'art. 4-bis della legge di riforma, come già detto, divenne il testo di riferimento per una serie di altre disposizioni funzionali alla costruzione di un regime penitenziario differenziato, in rapporto alla natura del reato commesso dal condannato. La fase successiva, nella strada dell'inasprimento dell'esecuzione di pena, fu caratterizzata dalle modifiche apportate agli istituti dell'assegnazione del lavoro all'esterno, dei permessi premio, della liberazione condizionale e della semilibertà[43], posticipando la possibilità di fruizione di dette misure da parte dei condannati per tali delitti.
Un'apertura di stampo premiale nei confronti dei condannati per i delitti di cui all'art. 4-bis[44] ci fu quando si stabilì che gli inasprimenti non si sarebbero dovuti applicare nei confronti di tali condannati se avessero collaborato con la giustizia. A seguito dell'uccisione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, sarebbe stato quasi inevitabile che, tra gli interventi legislativi operati sull'intero sistema penale per fronteggiare il riacutizzarsi dell'emergenza criminalità, ve ne fossero anche di quelli diretti ad incidere nell'ambito penitenziario. Invece la nuova normativa antimafia varata nell'estate 1992 ebbe la finalità di impiegare le misure rieducative come strumento diretto a favorire condotte di collaborazione con la giustizia da parte dei medesimi condannati. Non ci si accontentava ormai più della prova circa l'insussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, ma si esigeva che i medesimi avessero tenuto, o tenessero in sede di esecuzione, una delle condotte collaborative . In altri termini, si pretendeva che la rottura di ogni collegamento con le organizzazioni criminali si sarebbe potuta dimostrare soltanto attraverso una esplicita scelta di collaborazione con la giustizia.
La ratio politico-legislativa dell'art. 4-bis ne risultò così modificata: da norma diretta precludere l'accesso alle misure penitenziarie rieducative ai condannati per i più gravi delitti di cui non fosse dimostrata l'assenza di collegamenti con la criminalità organizzata, si trasformò in una norma di incentivazione verso i comportamenti di collaborazione con la giustizia. L'intento legislativo sottostante a queste ultime innovazioni è quindi quello - almeno quando si tratti dei condannati per i più gravi delitti criminalità organizzata - di volersi servire del sistema penitenziario non solo come strumento di neutralizzazione, ma anche come strumento di natura processuale, finalizzato ad acquisire elementi decisivi per lo svolgimento delle indagini.
Le prime collaborazioni nel settore del crimine organizzato furono dovute essenzialmente all'alta conflittualità interna: il numero di omicidi perpetrati all'interno dei clan esponeva chiunque fosse arrestato alle vendette della fazione rivale. Dunque alcuni appartenenti alla mafia cominciarono a sentirsi estremamente vulnerabili, una volta arrestati. Era inoltre estremamente difficile garantire l'incolumità dei soggetti appartenenti a bande diverse, anche perché il più delle volte l'ostilità fra le fazioni non era nota all'autorità di polizia o all'autorità giudiziaria. Dunque si aprì la stagione del pentitismo, e ciò era in linea con il disegno politico legislativo generale, volto a favorire tale fenomeno all'interno della criminalità organizzata: la figura del pentito divenne lo strumento principale per scardinare le organizzazioni criminali, datasi l'estrema difficoltà del reperimento delle informazioni. Questi mitigamenti della disciplina rigoristica, comunque, si andarono a combinare con il sistema di garanzie e di protezione a favore dei collaboratori di giustizia[46]: si consentì infatti che tali persone - se detenute e in attesa della definizione dello speciale programma di protezione - venissero custodite in luoghi diversi dagli istituti penitenziari, e che potessero fruire delle misure alternative alla detenzione, secondo specifiche modalità esecutive. Un problema sorgeva però dalla considerazione che non tutti i condannati per i delitti ivi elencati - pur volendolo - sarebbero stati in grado, di collaborare con la giustizia, ad esempio per mancanza di informazioni. Per controbilanciare, almeno in parte, questa obiezione, si stabilì allora che alle misure potessero accedere anche tali condannati, anche se la collaborazione da loro offerta risulti oggettivamente irrilevante od oggettivamente impossibile, sempre che si dimostrassero comunque elementi idonei ad escludere l'attualità dei collegamenti di tali rei con la criminalità organizzata.
Fu un'apertura che lasciò presto il posto a un nuovo e più accentuato irrigidimento dell'ordinamento penitenziario nei confronti dei condannati socialmente pericolosi: si decretò infatti, che i condannati in questione non potessero fruire delle misure di trattamento extramurario[48], se non avendo espiato i due terzi della pena irrogata o, nel caso dell'ergastolo, almeno ventisei anni . Tale previsione non prese in nessun modo in considerazione gli eventuali cambiamenti verificabili nella personalità di un condannato, specie in relazione a lunghi periodi di detenzione.
Infine, per concludere il discorso sulla legislazione del rigore, va menzionata l'attuale versione dell'art. 4-bis della legge 354 del 1975.
Si nota, tra gli altri, un cambiamento relativo alla ripartizione delle due categorie che individuò il legislatore del 1991: i delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordinamento costituzionale vengono fatti slittare nel secondo elenco, ossia tra i delitti relativamente ai quali la condizione ostativa continua ad essere quella della sussistenza dei collegamenti con la criminalità. Una simile scelta fu dettata da una serie di considerazioni: innanzitutto si constatò che molti condannati, dopo lunghe vicende detentive caratterizzate spesso da un processo di revisione critica dell'originaria ideologia, risultavano idonei ad essere anticipatamente recuperati alle regole della convivenza democratica; inoltre si prese atto che un'eventuale collaborazione non avrebbe recato apporti significativi alla ricostruzione di fatti dai contorni ormai definiti. Bisogna però sottolineare che all'epoca si riteneva il terrorismo come un fenomeno ormai definitivamente superato: nel 2002[50], infatti, il terrorismo fu reinserito tra i reati di prima fascia e, come già detto in precedenza, si stabilizzò il regime del c.d. carcere duro. La classe politica riconobbe infatti che l'emergenza ispirante la legislatura di primi anni novanta, doveva essere considerata strutturale, fisiologica, e non temporanea, dunque la sua disciplina non poteva mantenere carattere temporaneo, quale era quella dell'art. 41-bis della legge di riforma.
Sempre in riferimento alla legislazione dei primi anni novanta, si operò una distinzione relativa all'approccio relazionale del detenuto verso l'istituzione carceraria: mentre il condannato per episodi di terrorismo si contrappone al sistema, auto-escludendosi dalla fruizione delle misure premiali, il condannato appartenente alla criminalità organizzata si colloca sul versante opposto, non dichiarandosi antagonista all'istituzione carceraria, e cercando invece di strumentalizzarne le carenze, per conseguire il maggior numero possibile di vantaggi.
Alla luce degli interventi operati in questo primo scorcio degli anni novanta possiamo così dire che la pena detentiva ha recuperato, per certi versi, una funzione neutralizzatrice e che i poteri della magistratura di sorveglianza e del tribunale di sorveglianza sono stati ridimensionati.
Art. 47-ter della l. 354/1975. La condanna inflitta deve essere inferiore ai quattro anni, anche se consistono residuo di pena, tranne nel caso in cui sussista uno stato di salute incompatibile con il carcere.
L'istituto non si deve confondere con quello degli arresti domiciliari, misura cautelare introdotta nel sistema processuale penale nel 1984.
Art. 30-ter della l. 354/1975. Per poter beneficiare di tale istituto il condannato non deve essere socialmente pericoloso, deve essere stato condannato ad una pena inferiore ai tre anni, o ne deve aver espiato almeno un quarto, aver tenuto una buona condotta. Possono beneficiare di tale istituto, quindi, anche gli ergastolani. Il condannato dovrà dimostrare inoltre di aderire in maniera consapevole e non occasionale alle attività organizzate all'interno dell'istituto. Solo per questa via si riscatta il significato premiale di tale istituto.
Cfr. G. DI GENNARO, M. BONOMO, R. BREDA, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, 4° ed., Milano, 1987.
Tale legge ha previsto la concessione dell'affidamento a prescindere dalla detenzione in carcere quando il condannato, dopo la commissione del reato, abbia serbato in libertà un comportamento tale da consentire quel giudizio prognostico favorevole richiesto dalla norma.
Dunque è una riedizione del vecchio art. 90 della legge di riforma, con la differenza che la sospensione delle ordinarie modalità di trattamento riguardano solo quei detenuti ed internati che si sono macchiati di determinati reati, e non interi istituti. Sull'argomento cfr. G. NEPPI MODONA, Ordinamento penitenziario, in AA. VV., Giustizia penale e poteri dello Stato, Milano, 2002.
Da non confondersi con la pericolosità sociale. Sull'argomento anche G. Di GENNARO, M. BONOMO, R. BREDA, op. cit., 1987.
Il regime di sorveglianza speciale può essere il frutto della condotta attuale, ma anche conseguenza - nel caso di nuovo ingresso - di precedenti comportamenti penitenziari o di comportamenti tenuti in stato di libertà.
Attraverso la legge 23 dicembre 2002, n. 279. Si dispose che in caso di gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, le regole di trattamento penitenziario e gli istituti previsti dalla legge potessero essere sospesi; dunque si disposero misure di sicurezza esterna ed interna, al fine di impedire i collegamenti con l'associazione criminale, terroristica o eversiva di appartenenza o di attuale riferimento, per prevenire i contrasti con elementi di organizzazioni contrapposte e le interazioni con altri detenuti appartenenti alla stessa organizzazione criminale o ad altre ad essa attinenti. Tali misure consistono essenzialmente nella restrizione dei colloqui - massimo due al mese, e solo con familiari o conviventi - da effettuarsi in locali attrezzati ad impedire il passaggio di oggetti, sottoponibili a registrazione e controllo auditivo; nella limitazione di somme e beni ricevibili dall'esterno, nella sottoposizione a visto di censura della corrispondenza; nella limitazione della permanenza all'aperto. Per ulteriori considerazioni cfr. anche par. 1.2.
Sull'argomento cfr. anche "Video processi e carcere duro. A regime il trattamento penitenziario di rigore", in Diritto penale e processo, n. 4, 2003 (contributi di G. FRIGO, "L'eccezione che diventa regola", e di G. LA GRECA, "Una stabilizzazione per uscire dall'emergenza").
La legislazione subirà infatti una brusca restrizione nel biennio '91/92, come si analizzerà nel par. 1.2.
Istituto introdotto dalla legge 21 giugno 1985 n. 297, prima contemplato dall'art. 47-bis della legge di riforma e ora disciplinato dall'art. 94 del Testo unico in materia di sostanze stupefacenti, di cui al D.P.R 9 ottobre 1990 n. 309. Per usufruirne, la condanna deve essere inferiore ai quattro anni, anche se costituisce pena residua. L'esecuzione della cura viene controllata, altrimenti il beneficio viene revocato; esso non viene concesso per più di due volte, in quanto il programma non risulterebbe idoneo per il soggetto: la ripetuta revoca è la prova che egli non vuole ad uscire dalla tossicodipendenza e risocializzarsi, o non vi riesce attraverso tale istituto.
Tuttavia, in questi ultimi anni, alcuni istituti penitenziari hanno messo in atto tipologie di trattamento per detenuti, da effettuare all'interno del carcere, che vanno ad intervenire su aspetti psicologici, sociali ed educativi.
Causata anche dall'eccessiva severità delle pene previste per alcuni tipi di reato, cfr. A. PRESUTTI, Affidamento in prova al servizio sociale e affidamento con finalità terapeutiche, in V. GREVI, op. cit., 1994.
Art. 54-ter, comma 1-bis della l. 354/1975. Riservata ai condannati a pena inferiore ai due anni, anche residuale, viene solitamente applicata quando non ci siano i presupposti per l'applicazione delle altre misure alternative. Non ne possono però beneficiare i condannati per i reati di cui all'art. 416-bis c.p.
Art. 47-quinquies della l. 354/1975., introdotto dall'art. 5 della legge 8 marzo 2001 n. 40, c.d. legge Finocchiaro.
Art. 21 della l. 354/1975. La concessione della nuova misura - applicabile solo se ci sono le condizioni per ripristinare una convivenza con i figli - deve avvenire secondo le modalità e le condizioni previste dal lavoro all'esterno: ai fini della concessione del beneficio si deve tener conto dei parametri indicati dall'art. 48 reg. esec., ovvero il tipo di reato commesso, la non sussistenza della pericolosità sociale, e la parte residua della condanna scontata, che deve essere pari alla misura di un terzo di quella inflitta. Il legislatore ha voluto attribuire ai compiti di cura e di assistenza dei figli lo stesso valore sociale e la stessa potenzialità risocializzante dell'attività lavorativa.
Alcuni degli eventi rilevanti del 1992, base emotiva e razionale delle scelte legislative di politica criminale, furono il rapimento di Farouk Kassam da parte dell'Anonima Sarda; la conclusione dell'inchiesta Gladio e la denuncia da parte dell'allora presidente della Commissione Stragi, Gualtieri, sul ruolo chiave della loggia nella strategia della tensione; l'arresto di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio, con l'accusa di concussione, il quale con le sue dichiarazioni inaugurò la stagione dei processi per Tangentopoli; la condanna di Pietro Maso per il barbaro assassinio dei suoi genitori; l'uccisione di Salvo Lima, ex sindaco di Palermo e uomo di primo piano all'interno della D.C.; i tragici attentati, a nemmeno due mesi di distanza, in cui persero la vita i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino; l'apertura del processo alla loggia massonica P2, con la pioggia di avvisi di garanzia a personaggi politici e dell'informazione coinvolti; le ripetute evasioni in occasione dei permessi premio. Per importanti considerazioni, cfr. anche B. VESPA, Dieci anni che hanno sconvolto l'Italia: 1989-2000, 6° ed., Milano, 2000.
Introdotto dall'art. 1 del d.l. 13 maggio 1991 n. 152, convertito in legge 12 luglio 1991 n. 203 e successivamente modificato dal d.l. 8 giugno 1992 n.306, convertito in legge 7 agosto 1992 n. 356.
Con il d.l. 24 novembre 2000 n. 341 convertito in legge 19 gennaio 2001 n.4, e dalla legge 19 marzo 2001 n. 92.
Attraverso l'approvazione della legge 19 marzo 1990 n. 55, il cui art. 13 introduce un comma aggiuntivo, il comma 1°-bis nel corpo dell'art. 30-ter della l. 354/1975.
Vi rientrano i delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico mediante violenza, i delitti di associazione di stampo mafioso o finalizzata al contrabbando di tabacchi e lavorati esteri, di riduzione in schiavitù, di sequestro di persona a scopo di estorsione, di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti, i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416-bis c.p.
Vi rientrano i reati di omicidio doloso, rapina aggravata ex art. 628 comma 3° c.p., estorsione aggravata ex art. 629 comma 2° c.p., produzione e traffico - in quantità ingente - di stupefacenti e sostanze psicotrope.
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