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Risorse, carenze, bisogni degli educatori presso la casa circondariale di padova: analisi di una esperienza




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RISORSE, CARENZE, BISOGNI DEGLI EDUCATORI PRESSO LA CASA CIRCONDARIALE DI PADOVA: ANALISI DI UNA ESPERIENZA


1 - Considerazioni sulla Casa Circondariale di Padova.


In una mattinata di sole, scesa dall'autobus 11 (l'unico che dal centro di Padova percorre quei 10 chilometri che separano dalla destinazione), mi sono ritrovata per la prima volta di fronte alla Casa Circondariale di Padova, sita in via Due Palazzi 25/A, sulla stessa via in cui sorge un altro carcere, dieci numeri civici più in là, comunemente conosciuto come "Il Due Palazzi", che altro non è se non la Casa di Reclusione. Una delle prime differenze fra questi due carceri, sta proprio nello scarto fra la notorietà del secondo contrastante con l'ignota esistenza del primo, tanto che spesso nel sentirmi dire che stavo svolgendo il tirocinio in carcere a Padova, la risposta più frequente datami da amici o conoscenti, pure se residenti in città, suonava all'incirca così "Ah, al Due Palazzi?", modo di dire con cui si identifica proprio la Casa di Reclusione.

Altrettanto sconosciuto è di solito ciò che distingue da un punto di vista giuridico una Casa di Reclusione da una Circondariale: lo scarto fondamentale risiede nella tipologia di detenuti che vi si trova ristretta, suddivisa sostanzialmente per la durata di pena, la quale rimanda alla gravità del reato ed alla capacità di delinquere del colpevole (art. 133 c.p.). In entrambe vengono ristretti uomini e/o donne maggiori di età nel momento in cui hanno commesso il fatto costituente reato: mentre però alla Casa di Reclusione si trovano generalmente persone condannate alla pena della reclusione superiore ai cinque anni (a meno che non ci sia un'area a parte per detenuti "giudicabili", come ad esempio alla C.R. di Padova), alla Casa Circondariale invece i detenuti possono essere in attesa di giudizio (status di imputabile), oppure condannati alla pena dell'arresto o della reclusione fino a cinque anni, a partire da un minimo di cinque giorni - per l'arresto, di quindici - per la reclusione.




1.1 - La struttura esterna ed interna della casa circondariale.


Effettuare in via preliminare una descrizione dell'ambiente fisico in cui ho svolto il tirocinio si rivela opportuno perché permette di collocare entro una dimensione spazio - temporale sia le persone che ci trascorrono una parte più o meno consistente della loro vita (i ristretti), sia coloro che ci svolgono il proprio lavoro; ciò in considerazione della nota reciproca influenza sussistente fra ambiente di vita, costituito anche dai luoghi, e individui che lo abitano e che ivi interagiscono, compresi gli educatori.

La Casa Circondariale e la Casa di Reclusione si differenziano non solo per la tipologia di utenti, ma anche rispetto alla struttura esterna: il "Due palazzi" è un complesso imponente, di colore grigio, ben visibile sin dalla strada che corre parallela alla via dalla quale ha preso il nome. La Casa Circondariale invece non si vedrebbe nemmeno se non fosse per il cartello su cui sta scritto "Casa Circondariale. Proprietà demaniale". Esso è posto all'incrocio fra via Due Palazzi ed una strada "chiusa", rientrante rispetto alla principale di circa cento - centocinquanta metri oltrepassati i quali finalmente l'edificio diviene visibile. D'estate infatti, questa strada è costeggiata da entrambe le parti da un campo di grano le cui spighe divengono abbastanza alte da ostacolare lo sguardo, sicché la Casa Circondariale risulta praticamente invisibile. E comunque anche quando, da settembre a maggio circa non ci sono le piante di frumento, non sembrerebbe di star passando a fianco di un carcere. L'unico indizio è il filo spinato che circonda il perimetro di tutto il campo sul fronte strada. La Casa Circondariale non è di certo una struttura appariscente, soprattutto non si sviluppa verticalmente al pari della Casa di Reclusione. Non credo superi i quindici metri di altezza nei suoi punti più alti. Si tratta di un edificio costruito negli anni sessanta - quindi ante riforma penitenziaria[1] - progettato per contenere fino ad un massimo di cento unità circa (e con capienza tollerabile di 160 unità): di norma le persone ospitate si aggirano fra le duecento - duecentocinquanta. Quando sono arrivata io il sovraffollamento era alle stelle, tanto che alcuni detenuti nuovi giunti (ovvero che avevano fatto il loro ingresso in carcere da non più di 24 ore) sono stati costretti a dormire nelle celle di isolamento per mancanza di spazio nelle celle comuni .

A separare "l'al di qua dall'al di là", delle porte blindate color verde: ciascuna di esse è posta sotto il controllo di un membro del Corpo di Polizia Penitenziaria e di varie videocamere che silenziose osservano ogni movimento. Il carcere infatti è un mondo fatto di piccoli, impercettibili movimenti, tali da dare la sensazione che su tutto prevalga l'immobilità. Ma è solo una impressione superficiale. Profondo invece, è l'effetto del passaggio della prima porta blindata, quella che immette all'interno: la penombra avvolgente anche se in pieno giorno, l'odore di muschio rinsecchito, la sensazione di umido e di freddo insieme, mi hanno fatto percepire di essere entrata in un mondo da esplorare in apnea, in punta di piedi.

Oltrepassata la prima porta, ci si trova di fronte ad altre tre porte, anch'esse blindate. Una ha, come la prima, funzione di passaggio da fuori a dentro (e viceversa): di solito ci transitavano i detenuti addetti al servizio di lavanderia. La seconda conduce agli uffici del personale "amministrativo" (ragioneria e segreteria), a quello del direttore ed all'unico servizio igienico decente, presente in tutto il penitenziario; l'ultima immette su un piazzale a cielo aperto, al cui centro si trova una aiuola, la cui presenza torna utile a qualche gatto. Sulla destra un'ala dell'edificio interno ospita lo "spaccio" (il bar in cui si ritrova il personale nei momenti di veloce pausa o al termine del proprio turno - tra cui i cosiddetti "smontanti" - o, al contrario, prima di iniziare a lavorare), la mensa per il personale e la caserma in cui vivono gli agenti. Sulla sinistra si intravede la sala adibita ai "colloqui" dei detenuti con i propri familiari e di fianco ad essa la strada prosegue portando dritti verso le celle di isolamento, ad una distanza di trecento metri circa. Per arrivare alle celle isolate si passa la cosiddetta "area verde", ovvero il luogo in cui i detenuti possono, se autorizzati, incontrare i propri familiari in uno spazio aperto, con panchine e dell'erba in cui i bambini possono correre, tempo permettendo; un magazzino in cui vengono depositati materiali catalogati come "fuori uso" (ad esempio, le coperte per dormire). Si intravedono i "passeggi", ovvero i due campi (uno di cemento, l'altro d'erba, adatto per giocare a calcio) in cui i detenuti possono trascorrere le cinque ore d'aria al giorno concesse loro. La parete centrale raggiungibile aggirando l'aiuola, è interrotta alla sua sinistra da una porta a comando elettronico, che un agente - chiuso all'interno di un box visibile al di là dei vetri della porta - apre - mai totalmente - e richiude prontamente, non appena la si oltrepassa. Sotto il suo occhio vigile ci stanno altre tre porte. La prima alla propria sinistra apre ad un corridoio lungo il quale vi sono due o tre stanze. Una di esse è adibita a sala "interrogatorio", per consentire al Giudice per le indagini preliminari di incontrare la persona ristretta poiché indiziata di delitto o in seguito di arresto in flagranza del reato, o in quanto sottoposta a custodia cautelare[3]. Di fatto non viene utilizzata perché di prassi sono i reclusi ad essere condotti davanti al Giudice, in Tribunale. Questo si è verificato per tutto il periodo del mio tirocinio. La seconda porta conduce alla "sede" di lavoro del Direttore dell'Area Pedagogica, del Comandante, degli Educatori, degli Agenti della Matricola, per un totale di quattro uffici, cui bisogna aggiungere l'Ufficio conti correnti, la stanzetta per le perquisizioni dei nuovi arrivati (e dei "partenti" per un'udienza in Tribunale o perché trasferiti in altro carcere.), la stanza costituente l'archivio "storico" di tutti gli uomini che hanno fatto il loro ingresso in questo istituto, una stanza in cui gli agenti timbrano il cartellino (con un piccolo "bagno" al suo interno), un bagno per i detenuti (di fronte all'ufficio educatori); la terza porta, invece, dà su un corridoio che ad un certo punto si biforca portando all'Infermeria, se si prosegue dritti, al cuore del carcere, se si devia a destra.

Il cuore del carcere è costituito dalle sezioni (dette anche reparti, padiglioni, raggi) in cui vivono i detenuti. Alla Casa Circondariale ce ne sono due, divise per piani. Al primo piano, la sezione detta "la prima", al secondo "la seconda". I detenuti sono distribuiti esclusivamente secondo il criterio della provenienza-etnia: nella prima sezione ci sono prevalentemente maghrebini, anche se non mancano centro-africani, alcuni cittadini dell'est Europa e anche qualche italiano; nella seconda sezione prevalgono gli italiani, che condividono la sezione con detenuti originari da tutto il resto del mondo, ma non le celle, a meno che per motivi di posti non ci si debba adattare. Altri tipi di suddivisione non ce ne sono: né per età, né per condizione fisica, né per posizione giuridica, né tanto meno per tipologie di reati, eccettuato il caso di persone accusate di aver usato violenza a donne e soprattutto bambini. Per loro vi è vita separata dal resto della popolazione detenuta, per ragioni di incolumità, di salvaguardia dai possibili attacchi provenienti dagli altri detenuti. Quindi anche se vivono in sezione sono comunque isolati. Lo stesso accade alle persone ritenute "infami", dette anche delatori. L'infame è, per le persone recluse, un uomo che "mercanteggia le sua libertà contro quella degli altri"[4]. Per la subcultura carceraria non c'è peggior reato dell'abuso su minore o su una donna, e maggior onta della delazione: e le ritorsioni nei confronti del sospetto abusante o "pentito" variano dallo sputo in faccia o dalla privazione del cibo (sono due detenuti a distribuire il pasto a tutti gli altri) fino ad arrivare all'omicidio .

Ciascuna sezione è suddivisa in due braccia (il braccio uno ed il braccio due) consistenti in due lunghi corridoi paralleli l'uno all'altro e diametralmente opposti (proprio come due braccia distese), lungo i quali da entrambe i lati sono ubicate le celle.

"Le celle sono appendici di corridoio"[6]. Le celle hanno una capienza che varia da un minimo per una persona ad un massimo per quattro. Quelle da uno, con la tazza del water al centro, arrivano ad ospitare fino a tre - quattro persone, mentre quelle da tre ne possono accogliere anche dodici. La media dei coabitanti si aggira sulle nove dieci unità per cella. Niente frigorifero, niente doccia, niente acqua calda. I letti sono a castello. C'è la televisione, qualche sedia ed un tavolino su cui si può mangiare e fare delle partite a carte. È permesso l'uso del forellino a gas per cuocersi da mangiare, se si ha modo di procurarsi il cibo . Le persone abitanti nelle celle di una delle braccia non possono andare nell'altro braccio, sempre per ovvi motivi di ordine e di sicurezza.

Come dicevo le braccia corrono su binari paralleli con direzione opposta: a fare da spartiacque c'è una specie di "atrio" abbastanza ampio, sul quale si affacciano la sala polivalente (nella quale vi si svolgono sia le attività sportive permesse ai detenuti - dalla palestra ai giochi da tavolo come calcetto e ping-pong - sia attività più genericamente culturali - dallo "shiatsu" alla consegna di attestati di partecipazione al tale o talaltro corso); la stanzetta adibita al taglio dei capelli (il barbiere è sempre uno fra i detenuti); e su lati opposti, i cancelli che permettono di entrare in sezione: sono due perché due sono i percorsi per accedervi. Da una parte, quella con l'ascensore, salgono gli "addetti ai lavori", ossia il personale penitenziario in genere, il cappellano, i volontari che vanno a fare colloquio con i detenuti, ed i detenuti addetti alla dispensa del cibo, in quanto il carrello su cui si trasportano le pentole è troppo pesante per poter essere issato su per le scale; dall'altra parte, costituita da scale appunto, salgono o scendono i reclusi. E ci sono due rampe di scale distinte per le due sezioni (anch'esse precedute da un cancello, in questo caso automatico), di modo da evitare incontri/scontri fra i detenuti della "prima" con quelli della "seconda". Tanto le celle quanto i cancelli della sezione vengono aperti dagli agenti, muniti di pesanti chiavi color ottone, tintinnanti ad ogni loro movimento. Niente aperture chiusure automatiche: ci vogliono le mani, le gambe ed anche le orecchie dell'Agente di Polizia Penitenziaria per eseguire questo compito. Le orecchie servono per sentire l'operatore o il detenuto di turno che grida "Agente", onde farsi aprire. Normalmente gli agenti durante la giornata sono due per sezione, spartendosi così il controllo di un braccio a testa; la sera e la notte invece, da due passano ad uno per sezione, il che rende la gestione della sorveglianza ancora più dura. Come è possibile riuscire a dare un occhio a circa cento - centoventi persone distribuite lungo uno spazio così ampio? Ampio rispetto al compito della sorveglianza, della custodia, che significa non solo vigilanza ma anche presa in carico della salute delle persone e dei loro corpi: custodire delle vite, cioè fare il possibile affinché le persone ristrette non commettano atti di auto/etero lesionismo - i primi vanno dalla ingestione di lamette a quella delle molle dei materassi, ai tagli di cui ogni corpo dei detenuti è segnato - fino ad arrivare ai veri e propri tentativi di suicidio, che non sempre rimangono soltanto tali.

Non ho ancora menzionato la stanza in cui l'educatore svolge parte del suo lavoro. Ce ne sono due per sezione, appena prima del cancello che porta al braccio sinistro di entrambe le sezioni: sono piccole, circa due metri e mezzo per tre, disadorne, direi spoglie ed abbastanza squallide, molto simili in questo ad alcune celle (ve ne sono di più personalizzate). Pavimento rosso cupo, piastrelle regolari, mura bianche, qualche ragnatela. Un tavolo di plastica quadrato, sedie di plastica (di quelle che si usano per stare in giardino d'estate) e, dall'anno scorso, un freezer. A cosa serve il freezer? A tentare di mantenere fresche le bevande che i detenuti hanno in cella. In che modo? Attraverso l'utilizzo dei contenitori di acqua - quelli che si usano per andare a fare i pic-nic - che una volta che l'acqua si è trasformata in ghiaccio, vengono portati in cella. Due contenitori per cella, da usare alternativamente. Infine una finestra, ovviamente con sbarre, che dà sui "passeggi". Questo l'ambiente che accoglie educatori e detenuti durante i colloqui che si svolgono giornalmente, solitamente su richiesta dei detenuti stessi. La stanza più carina in sezione è costituita da quella del cappellano, figura presente nella realtà carceraria da molto prima che si sentisse parlare di educatori[8]. A volte capitava di fare i colloqui lì dentro perché magari, la stanza "osservazione e trattamento" era occupata da una volontaria.

Le docce sono comuni, alla fine del corridoio delle braccia. Io non le ho viste perché per arrivarci bisognava attraversare tutto il corridoio, cosa che si è ritenuto inopportuno farmi fare, dal momento che ciò significava dover passare davanti a tutte le celle, e quindi a tutti coloro che ci stanno dentro. Questo non mi è stato mai detto esplicitamente, ma se già nel mondo esterno accade spesso che il silenzio su di un argomento ne significhi il suo "divieto", questo è ancor più vero all'interno del carcere. D'altra parte non sono mai entrata nemmeno in una cella, e francamente trovavo imbarazzante guardare da quelle grate i detenuti stipati dentro, mi sembrava di invadere il loro esiguo spazio, di fare la parte del visitatore di uno zoo. Ne avrei avuto la possibilità perché la prima cella che si incontrava era al di qua del cancello che conduceva a tutte le altre, posizionata quasi dirimpetto alla stanza in cui si svolgono i colloqui: in origine era una "sala studio". Infatti, a differenza di tutte le altre, al di fuori, sopra lo stipite della seconda porta che rinchiude i detenuti dentro[9] c'è l'insegna "SS" anziché un numero. Ma non ho mai tentato di sbirciare più di quanto non mi venisse da loro - i detenuti - tacitamente consentito. Il disagio che avvertivo era troppo forte e non ho cercato di superarlo, trovavo giusto conservarlo.

Sempre nell'atrio vi è, su di un angolo "protetto" da una colonna, un tavolo con un telefono ed un posto a sedere per gli operatori della sicurezza, i quali tengono un registro, riportante per ogni detenuto, il loro cognome, nome e il numero di cella in cui sono. Ciò serve anche all'educatore nel momento in cui viene a fare colloqui: è l'Agente infatti che va a "prelevare" i detenuti dalle loro celle, a meno che non siano all'aria o in qualsiasi altro posto che non sia la sezione (ad esempio, in matricola, nell'ufficio del direttore o del comandante, all'ufficio conti correnti.).

In questo caso telefono e numeri diretti risultano indispensabili per il risparmio di tempo nel rintracciare ed avvisare il detenuto. Il detenuto è ai passeggi? Si telefona all'agente del "box" relativo e gli si comunica "Mandami su Tizio o Caio". A quel punto si sente una voce metallica che da un'altoparlante dice "Tizio o Caio si rechi in Sezione". Quando Tizio o Caio ha compreso che il nome pronunciato da quell'aggeggio distorcente voce e parole, è proprio il suo, viene di sopra a colloquio. Ma ci vogliono sempre dei minuti buoni prima che arrivi, così intanto si fa colloquio (non, si colloquia) con qualcun altro.

Fanno parte della struttura anche le "aule trattamentali"[10] - più spicciamente denominate "le aule" - che attualmente sono sei, ma quando ho fatto il tirocinio io erano cinque. Anche per accedere ad esse vi sono cancello e corridoio, forse il più lungo di tutto il carcere. Percorrendo il corridoio si incontrano prima la lavanderia, poi il magazzino dei generi alimentari per i detenuti e per il personale penitenziario, la cucina e il magazzino della M.O.F. (Manutenzione Ordinaria Fabbricati).

Una delle aule invece, è proprio un corridoio che, poiché conduce ad una zona relativamente morta del carcere, viene sfruttato in questo modo: per svolgerci, allora come probabilmente anche quest'anno, il corso di origami ed anche per permettere a qualche detenuto con particolare attitudine, di esercitarsi alla chitarra. Ho parlato di zona morta perché quel corridoio conduce ad un'ala dell'istituto che attualmente è praticamente inagibile, eccezion fatta per la piccola chiesetta, che comunque viene utilizzata solo alla domenica, durante la celebrazione della messa. In quella zona ci sono tre grandi stanze, una precedentemente adibita a falegnameria, l'altra a biblioteca, e l'ultima a "sala cinema", in quanto vi si proietterebbero dei film, se funzionasse. A causa di problemi al tetto (non ho ancora capito se perché pericolante o se perché costruito con l'amianto) quest'area è chiusa da almeno dieci anni. Di conseguenza al posto di una biblioteca vera e propria, intesa come luogo in cui ci si può fermare a leggere o consultare libri, è stato ricavato un punto consegna libri da una stanzetta non più grande di due metri per tre: tavolo con computer (per la catalogazione dei libri e per raccogliere i dati relativi al prestito, mansioni esercitate da un detenuto, il "bibliotecario"), scaffali di ferro (quelli montabili, viti e bulloni, per capirsi) su cui sono depositati libri di vario genere, dai testi religiosi ai romanzi di Paulo Coehlo, ad un libricino informativo sulle regole dell'istituto penitenziario e sui gradi del processo penale scritto in varie lingue, intitolato "Guida per i detenuti. Istruzioni per orientarsi nella vita carceraria",[11]che purtroppo, non viene letto quasi da nessuno. L'unico spazio che rimane per leggere è la cella.

Accanto alla pseudo biblioteca c'è una stanza in cui vengono raccolti i vestiti provenienti dall'esterno per mezzo di una associazione di volontariato che si occupa della loro raccolta e della loro consegna ai detenuti che non possiedono alcun vestito al di fuori di quelli indossati al momento dell'entrata in istituto. La distribuzione - sempre col contagocce, data la sproporzione fra domanda ed offerta - avveniva l'anno scorso al giovedì pomeriggio, dalle 14.00 alle 15.30 circa. Molto richieste mutande, scarpe, ciabatte, asciugamani, calzini. Non è insolito vedere i detenuti vestiti in maniera assolutamente inadatta rispetto alla stagione ed alla "temperatura" del carcere. In sezione infatti, dopo un'ora di colloquio, sentivo che i piedi mi si erano gelati anche se era pieno agosto. Ai primi di ottobre ero già con la giacca di pelle, quando ancora - fuori - non sembrava di essere in autunno. Eppure non pochi detenuti si presentavano in ciabatte, pantaloncini corti e canottiera o camicia a maniche corte, come se fosse stata la cosa più naturale del mondo. In verità, il più delle volte, non avevano altro da indossare; o magari, cominciavano a non avere o già non avevano più interesse per la cura della propria persona.


1.2 - I colori.


La Casa Circondariale è un luogo in cui domina l'assenza di colore. Perfino il bianco delle pareti sembra smorto. Nonostante ci siano gli scopini, detenuti addetti alla pulizia dei vari ambienti, non ci si riesce a togliere di dosso la sensazione di consunto che traspira da ogni parete. I corridoi sono vuoti, senza calore né vivacità: dei lunghi cubicoli impersonali, tubi digerenti che inghiottono lo sguardo, la prospettiva, la fantasia[12]. È un luogo che sa essere tetro anche in pieno giorno, con il sole a picco. Può essere mezzogiorno ma non lo si percepisce, perché lì dentro la luce trova poco spazio per entrare.


1.3 - Gli odori.


In carcere ci sono vari odori che si frammischiano l'un con l'altro dandogli così un aroma inconfondibile. C'è l'odore pungente delle mura stantie mescolato all'olezzo lasciato dal prodotto utilizzato per lavare i pavimenti; c'è quello proveniente dall'infermeria (che ricorda il cloroformio degli ospedali), confuso a sua volta con il profumo proveniente dalla cucina, un mix al sugo di pomodoro ed all'odore più penetrante del pesce bollito[13]. Poi c'è l'odore dei corpi. Odore di pelli ammassate - nel caso dei detenuti - o costrette nelle divise - per quanto riguarda gli agenti, - di dopobarba, di profumi che ritenevo talvolta versati a litri dai detenuti; odore di terra e sudore. L'aria che si respira alla Casa Circondariale è intensa, pregnante e pesante. Da restare senza fiato.


1.4 - I suoni ed i rumori.


Premetto che io ho potuto ascoltare e fare miei i suoni ed i rumori della prima parte della giornata, dalle 8.30 circa fino al massimo alle 17.30: non conosco perciò quelli tipici della sera e della notte. Comunque, di giorno su tutto domina lo sbattere dei cancelli, lo stridente rigirare delle chiavi nella toppa, il continuo apri e chiudi apri e chiudi di portoni, porte, cancelli e celle. Questo è il sound del carcere, il suo "ritmo" cadenzato dal passo degli agenti e del resto del personale. Tip-tap, tip-tap. Oppure, in caso di emergenze, tap-tap-tap, (anche se gli "spauracchi" erano abbastanza facili a verificarsi, poiché la sirena dell'allarme non funzionava bene: chi può riconoscere un falso allarme da uno vero?): il tempo si accelerava. E poi le grida dei detenuti (a volte di disperazione, altre di rabbia, altre semplicemente "di routine"), risate tuonanti dal sapore quasi sempre amaro, - a prescindere da quali bocche fuoriuscissero - gli schiamazzi, le bestemmie e, specialmente nella prima sezione, qualche radiolina da cui fuoriusciva della musica dal sapore medio orientale. Il venerdì era una giornata particolare: si sentiva infatti il canto dei detenuti maghrebini in preghiera che si levava dalla sala polivalente limpido e dolce, quasi aspirato, in contrasto con la onnipresente durezza, ruvidezza del ruggito della Casa Circondariale.

Tutto quanto ho appena descritto è racchiuso e nascosto dalle mura di cinta esterne che segnano il perimetro del carcere, sotto la sorveglianza di una sentinella che osserva dall'alto il flusso di arrivi e dipartite dall'istituto[14].

Nei paragrafi successivi tratterò propriamente delle figure che maggiormente interessano lo sviluppo di questo scritto: i detenuti e gli operatori penitenziari - e loro rapporto -, concentrandomi specialmente sulla figura professionale degli educatori, dei quali tenterò di effettuare un ritratto che designi il ruolo[15] da loro esercitato all'interno della vita della Casa Circondariale, le modalità operative, i compiti e le attività seguite, le modalità relazionali con i detenuti e con i colleghi, le risorse di cui dispongono e le difficoltà che incontrano nello svolgimento di quelle che considerano le loro mansioni.


2 - I detenuti.


Durante la mia permanenza alla Casa Circondariale, il numero delle persone incarcerate è oscillato dalle 210 alle 250 unità. Per quanto riguarda la loro posizione giuridica, erano prevalenti i detenuti in carcerazione preventiva: divisi in coloro che attendevano il primo giudizio (la maggioranza), in appellanti (ovvero persone che condannate in primo grado, ricorrono in Appello) ed in ricorrenti (coloro che ricorrono in Cassazione, in seguito a condanna in sezione d'Appello). Pochissimi i detenuti definitivi. Vi era anche una parte di detenuti che presentavano doppia posizione giuridica, ad esempio imputabili in primo grado per "un fatto" e ricorrenti per un altro fatto[16]. Oppure definitivi rispetto ad un procedimento giudiziario levato a proprio carico, imputabili rispetto ad un altro. Ricordo il caso di un detenuto in attesa di giudizio per cinque imputazioni di reato tutte connesse alla violazione della legge sugli stupefacenti. Il quadro, quindi, cui ci si trova normalmente di fronte, è abbastanza variegato, sotto il profilo giuridico: tra la sentenza in primo grado e quella definitiva di condanna o - non dimentichiamolo - di assoluzione, di strade possibili da percorrere ce ne sono tante, e con tempi più o meno dilatati . A ciascuna delle strade percorse corrisponde un modo di percorrerle, di viverle, riconducibile alla persona che la sta percorrendo e attraversando, ovvero il singolo attore detenuto - il suo stile, i suoi atteggiamenti, le sue emozioni, i suoi affetti, le sue convinzioni, ciò in cui crede, ciò in cui spera, ciò che lo lega o meno al mondo "di fuori" - ed all'ambito in cui è inserito, con le sue leggi formali e non, con i sui tempi, con le persone che, oltre a lui, vi sono inserite.

In che misura l'età abbia importanza nella modalità con cui si affronta l'impatto prima, la quotidianità poi, della vita della Casa Circondariale, non lo si può dire con certezza: certo è che una certa differenza fra un neodiciottenne - al primo arresto magari - e il recidivo incallito, sussiste. È da tenere ben presente, ad ogni modo, che si ha a che fare con persone, il che rende difficile riuscire a catalogare i vissuti unici ed irripetibili di ciascuna entro parametri cosiddetti oggettivi, entro variabili indipendenti come può essere considerata l'età[18]. Ciò che ho potuto constatare con maggior certezza è che, quanto all'età, ci sono carcerati giovani, giovanissimi da non sembrare neppure maggiorenni, ma non mancano nemmeno veri e propri anziani, anche se sono sicuramente in quantità minore. Per lo più la media oscilla tra i venticinque ed i trentacinque anni.

Vi è un'alta percentuale di persone immigrate, la Casa circondariale ha stabilito quasi un primato a livello nazionale in rapporto all'incidenza dei detenuti stranieri presenti: costituiscono all'incirca l'80% della popolazione detenuta. Persone provenienti dal Marocco, dalla Tunisia, dall'Algeria, dalla Nigeria, dallo Zaire, dalla Palestina, dall'Iraq, dall'ex-Jugoslavia, dalla Romania, dalla Moldavia, dall'Albania, dalla Grecia, dall'Ungheria. Un detenuto proveniva dal Perù, un altro dalle Filippine. Vi erano anche dei membri appartenenti alla comunità zingara dei ROM, fra di loro in rapporto di parentela. I detenuti italiani provengono soprattutto dall'entro terra veneto - sia dalle città che dalle periferie o dai paesini di provincia -, ma anche da aree meridionali (napoletani, romani, siciliani, uno era di Palermo). In alcuni casi provenivano da zone più a Nord, come ad esempio le città di Udine o Sondrio.

Sul totale dei detenuti, più del 50% fa uso di droghe[19].

C'erano quattro persone con patologie a livello psichiatrico, due delle quali, sono state trasferite per un certo periodo all'O.P.G., sigla che significa Ospedale Psichiatrico Giudiziario, altra istituzione in cui può capitare di andare quando si è detenuti[20]. Uno di loro era soggetto a deliri psicotici, anche se non schizofrenici, ed in quanto nulla facente e senza fissa dimora - oltre che sprovvisto di una famiglia che se ne prendesse cura - la principale preoccupazione che si nutriva nei sui confronti era: "Dove andrà a finire una volta scontata la pena?". Non c'erano strutture disponibili ad accoglierlo, perché "non rientrava nei canoni", ovvero gli mancava tanto un referente che se ne assumesse la responsabilità quanto i soldi per poter essere ricoverato in qualche clinica psichiatrica. Certo, a ben vedere, i detenuti che una volta fuori, una volta rimessi in libertà, "rientrano nei canoni" dell'immaginario cosiddetto civile, sono pochi. Chi mai assumerebbe a lavorare presso il proprio esercizio uno che è stato in galera? Che il più delle volte non ha alcuna credenziale da presentare se non il suo passato di ex-galeotto? Queste domande fanno emergere l'importanza rivestita dalla questione dell'ambito post-penitenziario, delle prospettive future offerte a queste persone, del legame fra istituzione carceraria ed Enti dislocati sul territorio e reciproche responsabilità.

La tipologia di reato maggiormente diffusa è quella relativa allo spaccio di droga, a partire da quantità minime per finire a quantitativi più cospicui[21]. Altri reati frequenti, quelli legati alla induzione ed allo sfruttamento della prostituzione. Un caso di pedofilia - non definitivo - alcuni arresti per truffa, alcuni per furto - ma anche in questo caso, molti degli accusati erano fruitori di sostanze stupefacenti o persone indigenti. Quando sono arrivata c'era un detenuto in attesa di giudizio per omicidio, che poco tempo dopo, a sentenza passata in giudicato, è stato trasferito al "penale" (altro modo di identificare la Casa di Reclusione). Un caso di aggressione intrafamiliare.

Molti sono i detenuti in terapia metadonica o a cui vengono forniti dei calmanti; abbastanza frequenti malattie come le Epatite A unite a problemi dentari di vario genere. Un caso o due di persone con il diabete, e non più di tre persone risultanti positive all'esame dell'HIV[22]. Altro problema igenico-sanitario è costituito, all'entrata di detenuti stranieri, dalla presenza di malattie come la scabbia. I casi di scabbia e altre malattie simili vengono immediatamente isolati fino a guarigione. Un detenuto aveva difficoltà di deambulazione a causa degli effetti della poliomielite avuta da piccolo: girava con le stampelle ed aveva sviluppato una forza impressionante sulle braccia: anche lui dipendente da sostanze stupefacenti, eroina per l'esattezza.

Una popolazione, quindi, eterogenea sotto diversi punti di vista, riunita in uno spazio limitato e limitante, immersa in un contesto in cui ogni passo ogni mossa è già stata stabilita prima da qualcun altro. Infatti la giornata degli uomini sottoposti a privazione di libertà è scandita e decisa fin nei più piccoli particolari, sin dal momento del loro ingresso. Dal passaggio all'ufficio matricola, alla sala perquisizioni, al colloquio di primo ingresso con l'educatore, il medico e lo psicologo, - devono accertarsi della sua condizione psicofisica onde sventare (o provarci almeno) possibili impulsi suicidi - all'approdo in magazzino dove saranno custoditi i beni personali e dove si fornirà la persona neoristretta dello stretto necessario: un materasso - se quelli che ci sono nelle celle non bastano più - ed un fagottino con dentro lenzuola, un ricambio, uno spazzolino. A bagagli pronti, vengono accompagnati nella loro nuova casa.

Da quel momento le regole della vita saranno totalmente ribaltate. Non avranno più alcuna facoltà decisionale, potranno esclusivamente chiedere - attraverso la domandina o istanze varie[23] - sperando gli sia concesso, saranno in balia della valutazione altrui, monitorati sotto ogni punto di vista: sanitario, mentale, psicologico, comportamentale. I tempi della giornata saranno scanditi dalla "conta" del mattino - una specie di appello - dalle attività trattamentali - se ce ne sono - dalle ore di lavoro - a chi tocca - dalle ore d'aria del mattino e del primo pomeriggio, ai colloqui con i familiari - mercoledì e sabato mattina , sempre che sia arrivata l'autorizzazione da parte del giudice - dai colloqui con l'educatore - che va in sezione di solito verso le 11.00 del mattino, momento in cui le attività o l'aria vanno verso conclusione - al pranzo - ore 12.30 - e la cena - ore 18.30. Poi la notte, il momento peggiore .

Per andare ai passeggi la divisione fra sezioni era ed è tuttora rigorosamente mantenuta: perciò, i due campi vengono utilizzati alternativamente dall'una o dall'altra sezione. Quando la "prima" era sul campo da calcio - quello "sterrato" - la seconda passeggiava avanti indietro avanti indietro sull'altro. Durante l'estate è l'unica attività che resta da fare, dal momento che le attività trattamentali sono sospese da fine giugno a settembre circa. A volte li osservavo mentre se ne stavano immobili come lucertole a rosolarsi al sole: sembrava volessero prosciugarne i raggi. Al rientro dai passeggi, come all'andata, controllo al metal detector per rilevare la presenza di eventuali oggetti pericolosi o comunque non ammessi, e poi, su in sezione.

Dei colloqui con i propri famigliari non posso dire molto. L'unico appunto riguarda il forte vociare che proveniva dalla sala colloqui quando le si passava accanto sul piazzale esterno. Lì dentro più che parlare gridano tutti, perché si svolgono più colloqui nello stesso momento. Chissà che frastuono. Il giorno dedicato ai colloqui gli armadietti posti subito all'entrata del carcere, nei quali gli agenti depongono le armi ed io la mia borsa, vengono lasciati liberi perché dentro ci andranno borse e quant'altro posseduto dai familiari dei detenuti. Altra regola: proibiti i cellulari dentro la struttura. Devono essere depositati in portineria, se per caso si dovesse averli con sé.

Quali sono le attività trattamentali che i detenuti della Casa Circondariale potevano espletare in concreto? Le possiamo dividere in aree distinte, relative rispettivamente alle attività culturali, sportive, (inter)religiose, lavorative e quelle connesse alla promozione ed allo stimolo al contatto con il mondo esterno, a partire dai propri familiari.

Nell'accezione di attività culturali, se intesa in senso stretto, vi si può far rientrare lo svolgimento delle attività scolastiche (sia il corso di alfabetizzazione, ovvero la scolarizzazione elementare, sia le scuole medie inferiori), che iniziano a Settembre e finiscono a Giugno, seguendo in ciò i tempi dell'istituzione scolastica nel suo genere. Ho anche avuto modo di parteciparvi all'inizio dell'anno scolastico 2002-2003, coincidente con l'ultimo periodo della mia presenza alla Casa Circondariale. Sono stata presente tanto alle lezioni di italiano (corso di alfabetizzazione) quanto a quelle di matematica e francese (prima media inferiore). I partecipanti non superavano la quindicina; arrivavano sempre qualche minuto dopo l'effettivo orario di inizio previsto per le nove, a causa dei controlli di routine. Gli insegnanti erano accompagnati da un agente tanto all'andata quanto al ritorno dalle aule. Poi si iniziava: matite, quaderno e attenzione. L'entusiasmo che ho colto fra di loro non garantisce nulla riguardo all'esito dell'anno scolastico: poteva essere dovuta a molti fattori, primo fra tutti la possibilità di essere fuori dalla cella, poi perché si stava facendo qualcosa di nuovo - nemmeno i detenuti sono immuni al fascino della novità - e forse anche a causa della mia presenza. Non lo posso e non lo voglio sapere in fondo: faccio mie le parole di Sergio Tramma secondo il quale la "formatività" delle esperienze è solo parzialmente sondabile e "quantificabile" nel corso del loro realizzarsi o nelle immediate vicinanze della loro conclusione, anche per quanto riguarda quelle esplicitamente pensate e impostate come educative (compresa la scuola)[27] Sicuramente come inizio direi che c'era quanto meno da sperare. Tra gli "studenti" del corso per la licenza elementare si avvertiva un clima disteso, gli scambi di sorrisi erano frequenti, il professore li ha conquistati sin dalla prima lezione.

Interpretando invece il termine attività culturali in senso più lato, durante l'anno si sono svolti anche il corso per elettricisti (l'anno scorso della durata di 150 ore), il corso di videofotografia, il corso di teatro, il corso di origami, il corso di percussioni (entrambi con successive esibizioni fuori dal carcere), quello sui valori interreligiosi. Ovviamente il numero di posti disponibili è sempre ridotto alle quindici unità massime. Inoltre alcuni detenuti frequentavano più di un corso, sicché a beneficiare in qualche modo di questi spazi espressivi è sempre una minoranza esigua. Il fatto poi che sui detenuti delle Case Circondariali penda un maggior grado di incertezza riguardo al proprio futuro, ed una minor stabilità di permanenza in uno stesso carcere (a differenza di quanto avviene nelle Case di Reclusione) non garantisce affatto una costanza nella frequenza delle attività. I trasferimenti sono abbastanza frequenti. In sei mesi ne ho visti almeno tre-quattro. Si tratta quasi sempre di trasferimenti per ragioni di "sfollamento". Di "sfollati" ne partono una cinquantina alla volta. La frequentazione di questi corsi viene poi ostacolata dal suo sovrapporsi con l'attività lavorativa. I detenuti potendo scegliere fra i "corsi" ed il mese di lavoro, solitamente optano per il secondo, se non altro per motivi economici.

Due di loro avevano un talento innato per il disegno. Anzi tre. Dopo aver ottenuto l'autorizzazione di poter utilizzare dei colori a pastello, uno dei tre mi mostrò i disegni che aveva fatto nel giro di due giorni. Due fogli A4 con sopra disegnate - a memoria - immagini del suo paese natale. Bellissime. Un altro una mattina - l'ultima - mi chiamò dalla sua cella per mostrarmi un disegno rappresentante un drago: lo aveva fatto con due biro, una nera e una rossa. I disegni del terzo non li ho mai visti, ma spero che il fatto di poter disegnare gli sia stato di aiuto. Amava il disegno astratto ed anche il suo sguardo spesso si perdeva chissà dove.

La solarità e i sorrisi dispensati in queste ore, in questi attimi, non devono trarre in inganno: costituiscono infatti l'eccezione che conferma la regola.

A quale regola mi sto riferendo? Alla regola della "ravvicinata distanza". Quella regola cioè, non scritta, che si insinuerà sempre di più, a partire dal primo impatto con il mondo del carcere, per la quale sarà sempre più difficile realizzare un rapporto fra detenuti e personale che possa dirsi realmente tale. Alla Casa Circondariale ci sono molte persone accostate fisicamente, l'una accanto all'altra, vicine ma lontane: emotivamente, affettivamente, cognitivamente, esperenzialmente.

Le persone recluse (ma non sono le sole), infatti, hanno il dono, o forse è un'arte che si impara stando fra queste mura, del "camaleontismo": con questo termine indico la capacità delle persone ristrette di rendersi invisibili, quasi delle ombre. In effetti ho notato che è una delle caratteristiche che differenzia i "nuovi giunti" dai "veterani" o dagli uomini che del carcere sono ormai tristemente parte. Di un veterano è difficile conoscere l'esistenza, a meno che non sia lui a deciderlo. Comunque, generalmente, se li si incrocia in corridoio, riescono ad essere immobili e sfuggenti ad un tempo. Li si può incontrare, a gruppi di cinque sei o anche da soli, al di qua di un cancello automatico in attesa che l'agente "portinaio" prema il pulsante per farli passare. Possono attendere anche delle mezz'ore, aspettando il loro turno, o semplicemente aspettando. A volte sono accasciati sulle loro ginocchia. In piedi o accasciati, un aspetto rimane invariato: è difficile incrociare lo sguardo di un detenuto. Tendono a stare con la testa bassa, a sussurrare "buongiorno", a prescindere dal fatto che gli verrà risposto o meno. Ciò che conta è che loro salutino. Assomigliano ad ombre che leggere passano, camminando accanto ad uno dei lati del corridoio, dandomi talvolta la sensazione di volerci scomparire dentro. Eppure mi è capitato di incontrare qualche sguardo, di scambiarmi delle occhiate, ed ho compreso che molti di loro comunicano molto di più con gli occhi che con la bocca: il che li rende vulnerabili e forse lo sanno, per questo evitano il contatto diretto. Nei loro occhi si legge soprattutto diffidenza; spazio ne rimane abbastanza anche per la sofferenza, la durezza, la rabbia, la mancanza, la privazione, la vita, la morte, l'esaltazione, la rassegnazione, lo smarrimento. A volte questi stati d'animo sono racchiusi lì dietro tutti insieme, altre volte uno prevale su tutti gli altri. Un modo diverso di vivere la propria situazione tanti quanti sono gli uomini detenuti. Un modo di cui non sono riuscita quasi mai ad essere partecipe.


3 - Il personale penitenziario.


Il personale della Casa Circondariale di Padova, nel periodo in cui ho potuto frequentarla, era numericamente carente. Ma tale situazione è grave soprattutto perché cronica e perché non risparmia le figure professionali che sono maggiormente a contatto con i detenuti : gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria e gli operatori penitenziari dell'Area Pedagogica[28].


1 - Il direttore.


Poco dopo il mio arrivo, a causa del trasferimento del Direttore della Casa di Reclusione presso un altro istituto, l'allora Direttore della Casa Circondariale ha avuto sotto la sua direzione entrambe gli istituti per circa un mese e mezzo, nella fase di "transizione" da un Direttore all'altro. Da circa sei mesi il Direttore della C. Circondariale è stato trasferito alla C. Circondariale di Verona. L'attuale Direttrice dell'istituto è una donna e come a tutti i direttori presenti negli istituti penitenziari del territorio italiano, le responsabilità cui deve far fronte sono notevoli. Esse costitutiscono diversi aspetti della funzione essenziale del Direttore quale centro di guida e di governo nell'esecuzione delle sanzioni penali nonché nell'attuazione della custodia cautelare. Quali sono le mansioni cui deve rispondere per mandato? Si possono suddividere in sei categorie:

1) funzione di organizzazione funzionale

2) funzione di governo disciplinare

3) funzione di supervisione contabile-amministrativa

4) funzioni di organizzazione e di coordinamento dell'osservazione e del tratamento dei detenuti

5) funzione di riferimento della gestione con l'attività della magistratura di sorveglianza

6) funzione di collegamento con l'ambiente esterno[29].


Questo significa, nel caso concreto preso in esame, che all'attuale direzione della Casa Circondariale è preposta la responsabilità della gestione di un "capitale umano", fra staff penitenziario e detenuti, di circa 450 persone, per non pensare alle responsabilità connesse alla gestione ed ai legami con l'ambiente esterno. Pertanto, la legge prevede che il direttore si avvalga della collaborazione dei responsabili delle varie Aree con cui si costruisce la vita entro l'istituto. Sottolineo il termine si costruisce, perché è bene avere coscienza che se la varie mansioni cui si deve far fronte nella gestione di un istituto penitenziario sono state suddivise per Aree, lo si è deciso in vista di una maggiore funzionalità e di una maggiore organizzazione, che si è ritenuto opportuno realizzare attraverso la valorizzazione delle differenze e peculiarità di cui ciascuna Area è portatrice, ma che può comportare un reale miglioramento della vita in carcere dei detenuti ma anche del personale penitenziario, solo se fra le persone rappresentanti le Aree vi sia una reale collaborazione e sinergia[30]. Poiché uguale deve essere il fine cui tendere, le Aree che tendono al suo raggiungimento, sono da considerarsi aspetti di una stessa medaglia: ". tutti gli operatori penitenziari sono, insieme, operatori della sicurezza e operatori del trattamento, essendo tutti operatoti e rappresentanti dello Stato" .


2 - Gli Agenti del Corpo di Polizia Penitenziaria.


Gli Agenti Penitenziari da 180 che dovrebbero essere, erano e sono all'incirca 125, perennemente al di sotto del numero necessario a garantire uno svolgimento pieno della complessa funzione che è loro richiesto svolgere[32]. Il contatto più ravvicinato ho potuto instaurarlo con gli Agenti dell'Ufficio Matricola, e con il Comandante, ovvero il responsabile dell'Area della Sicurezza, il principale referente di tutto lo staff degli Agenti Penitenziari. Ciò nonostante, sono riuscita ad instaurare un buon rapporto anche con buona parte degli Agenti in servizio in sezione, grazie anche al fatto che svolgendo i colloqui proprio lì, di norma, ci si vedeva ogni giorno. Ed in sei mesi, grazie anche al meccanismo dei turni che regola il lavoro degli Agenti (a differenza degli Educatori), ho potuto conoscerne parecchi. La maggioranza è costituita da persone trasferitesi al Nord nel tentativo di costruirsi un futuro che nei loro paesi natii pare molto difficile, se non impossibile; solo tre o quattro Agenti da me conosciuti erano originari del Veneto. Ne ho potuti incontrare e conoscere di giovanissimi. Ho conosciuto delle persone ligie al dovere, e per quanto riguarda le modalità lavorative, sono giunta alla conclusione che non si può fare un discorso generale né tanto meno categorico e categorizzante nei loro confronti. Ci sono Agenti che si pongono in un atteggiamento di contrasto o quanto meno di opposizione allo stesso concetto di trattamento e a quello di rieducazione: mi ricordo di un Agente che durante una delle "riunioni di sintesi" , essendo presente in quanto rappresentante del Corpo di Polizia Penitenziaria, manifestava il suo dissenso nei confronti di ciò che si stava facendo o degli interventi dei colleghi appartenenti all'Area educativa, scotendo la testa ad ogni loro affermazione. Non diceva nulla: eppure il suo dissenso era chiarissimo. D'altra parte il fatto che un Agente sia scettico nei confronti della finalità "rieducativa" del carcere, vuol dire tutto ed il suo contrario - cioè niente -, se non se ne conoscono le motivazioni.

Ci sono molte persone appartenenti al Corpo che riescono ad equilibrare le tensioni opposte scaturite dalla domanda di sicurezza da un lato, di rieducazione dall'altro. O meglio, che cominciano a concepire una sicurezza basata sulla forza della ragione più che sulle ragioni della forza[34]. Per altri Agenti è meno facile cambiare mentalità e punto di vista sul detenuto, considerando che per moltissimi anni (fino agli anni '90) è stato loro chiesto solo di svolgere compiti di vigilanza e di sicurezza, sulla delineazione di un ritratto di custode, così come sbozzato nel regolamento del '37 (rimasto sostanzialmente invariato fino alla riforma 1990, e ancora in vigore per le parti non abrogate), modellato sul dispregio per la figura del colpevole . In un solo caso, tuttavia, ho assistito ad un episodio di "eccessivo zelo" da parte di un Agente di turno in sezione: il suddetto Agente ha ricordato ad un giovane detenuto che "Tanto fuori non ti pensa nessuno". Glielo ha detto in modo cattivo, acido, voltato di spalle, senza nemmeno guardarlo in faccia. Io invece ho potuto ben vedere lo sguardo di quel detenuto: era al dir poco sgomento.

Personalmente io mi sono sentita bene accolta, essendo stata anche la prima tirocinante a varcare la soglia del carcere. Si sono instaurati dei rapporti di reciproco rispetto. Posso dire che il loro lavoro è veramente complesso, necessita di una formazione ben specifica, non solo in termini di operatività, bensì di forma mentis. Soprattutto considerando il fatto che, con l'introduzione dell'Ordinamento del Corpo degli Agenti di polizia penitenziaria del 1990, essi sono tenuti a compartecipare alle attività di osservazione e di trattamento dei detenuti all'interno dell'equipe preposta a tale mandato. Questo significa che si rende necessario anche per loro l'acquisizione di competenze relative non solo al sapere e al saper fare (ovvero sia conoscenze in senso di un accumulo culturale quantitativo, sia quell'insieme di capacità tecniche utili e necessarie allo svolgimento di un determinato lavoro), bensì anche al saper essere, relative invece ad un cambiamento inerente aspetti sostanziali del comportamento umano, alla luce di un cambiamento verificatosi a livello mentale (inteso in senso lato)[36]. Inoltre non si deve dimenticare quanto poco sia riconosciuta l'importante funzione sociale esercitata da questi operatori di giustizia, cui corrisponde una mancanza di riconoscimento e di integrazione nel tessuto sociale, cosa che se invece si verificasse, permetterebbe loro di non vivere la quasi totalità della giornata rinchiusi in carcere. Qui alla Casa Circondariale, come ho detto prima, la maggior parte degli agenti penitenziari è di origine meridionale, spesso con le famiglie rimaste nella terra di provenienza. Si ritrovano così a dover vivere in caserma, cosa che finisce con l'allontanarli dal più vasto contesto dell'entroterra padovano, contribuendo così a rendere il carcere il loro unico punto di riferimento . Il forte senso di frustrazione che coglievo quando li ascoltavo nelle occasioni di pausa allo spaccio, il bisogno che dimostravano di raccontarsi ed anche di sapere cosa pensavo di loro, mi ha fatto capire quanto anche gli agenti di polizia penitenziaria, avvertono un senso di abbandono e di solitudine da parte del mondo esterno, tanto che non era raro sentirli esprimersi, riferendosi a se stessi, in questi termini: "Noi siamo detenuti". Non è facile svolgere una mansione così delicata: hanno bisogno di attenzione e di aiuto e sostegno nel loro percorso, anche in considerazione del fatto che poi le frustrazioni, le arrabbiature, le amarezze, vengono sfogate in qualche modo proprio su chi è più a loro stretto contatto (in un senso come nell'altro). E chi altri, più di un Agente, specialmente se su in sezione, è a contatto con i detenuti? Nessuno.


3 - Il personale dell'Area Educativa.


Gli operatori penitenziari appartenenti all'Area Pedagogica erano tre di cui due in servizio a tempo pieno ed uno a tempo parziale. In particolare si trattava di un Direttore Coordinatore di Area Pedagogica, un Educatore Coordinatore e di un'altra Educatrice coordinatrice, divisa però tra il lavoro alla Casa Circondariale e la Casa di Reclusione: veniva due massimo tre volte alla settimana[38]. Attualmente sono rimasti i primi due. La terza è presente una volta alla settimana: appena il tempo di assolvere parte delle incombenze burocratiche. L'educatore con cui sono stata a più stretto contatto è stato Mirco, il mio "mentore" a livello pratico ed intellettuale. Con lui ho svolto la quasi totalità dei colloqui con i detenuti, sia quelli di primo ingresso, si quelli richiesti dai detenuti di giorno in giorno, sia i colloqui esplicitamente finalizzati ad osservare la personalità del detenuto, onde pervenire ad ipotizzare un trattamento possibile. Supervisore da un punto di vista formale ma anche "spirituale" è stato invece il Direttore coordinatore. La prima cosa che mi ha detto, in occasione delle presentazioni, è stata: "Diamoci del tu, se ti va bene". Con il Direttore coordinatore è stata svolta una parte molto più ristretta di colloqui. Con Mirco inoltre ho trascorso tutto il mese di Agosto "in duetto", perché tanto il Direttore coordinatore tanto l'operatore dell'Area Amministrativo-contabile erano in ferie. Quest'ultimo, appartenendo all'Area amministrativa, per quanto previsto dalla già citata circolare n. 3337/5787 del 7 febbraio 1992 , poneva le sue competenze a servizio dell'Ufficio Educatori. Gestiva praticamente tutte le liste attorno alle quali si struttura una buona fetta della quotidianità del carcere: la lista degli ingressi, delle presenze e delle uscite dei detenuti, quella dei lavoranti, quella della palestra - che va rinnovata all'incirca ogni due settimane - quella dei richiedenti il vestiario. Inoltre archiviava i fogli di "primo ingresso" - anche i primi ingressi dei detenuti sono rigorosamente registrati - , svolgeva una buona parte delle incombenze burocratiche: battitura delle relazioni comportamentali, catalogazione delle richieste del Tribunale di Sorveglianza, preparazione delle Minute (copie di uno stesso atto che va poi firmato da chi di competenza) e loro trasporto alla e ritiro dalla (una volta firmate) Segreteria ed altro ancora. Era lui che preparava gli ordini di servizio, era lui che catalogava ed archiviava le liste dei detenuti partecipanti alle varie attività trattamentali. Immaginate cosa poteva significare rimanere senza quest'uomo per venti giorni. Non c'era nessuno in grado di sostituirlo. Anche perché oramai tutto il lavoro di catalogazione-archiviazione interna ed invio di informazioni all'esterno si svolge sempre più solo ed esclusivamente attraverso i mezzi di telecomunicazione. Quindi PC, Fax, telefono, mezzi - specialmente il primo - per il cui corretto uso ci si deve preparare. E non tutti lo sono.

In realtà ciascun operatore dell'Area Pedagogica è strettamente necessario, non solo per un'evidente carenza numerica (fattore determinante), ma anche perché ciascuno di loro è portatore di una sua sapiente esperienza, di un suo "punto forte".

Mirco ad esempio, è una persona molto concreta, pragmatica, con i "piedi per terra", in grado di trarre insegnamento dai propri errori e dalle esperienze passate, cosa che lo ha reso particolarmente abile nel perseguire gli obiettivi prefissati con il minor dispendio di tempo possibile, movendosi in modo sciolto fra i meandri della macchina burocratica penitenziaria. È abile a tessere dei rapporti di collaborazione, anche amichevole, con gli Agenti. Il fatto poi di essere uomo lo avvantaggia almeno sotto un aspetto. C'è infatti un argomento che accomuna tutti gli uomini presenti alla Casa Circondariale, passando dai detenuti fino ad arrivare al Direttore dell'istituto: il calcio. Il calcio, oltre e forse più dell'argomento "femmine", unifica, o quanto minimo rappresenta un comune territorio di discussione "neutra", in cui è possibile riconoscersi semplicemente come uomini, senza divisioni di ruolo di sorta[40].

Il punto di forza di Elisa, invece, stava nel suo incrollabile ottimismo, che non vuol dire mancanza di realismo, bensì capacità di cogliere gli spunti positivi a partire dalla situazione in cui si è, per quanto possa sembrare ed essere effettivamente difficile. A titolo di esempio basta la considerazione che se non fosse stato per il Direttore Coordinatore, io - o chiunque altro al mio posto - probabilmente non sarei mai andata a fare il tirocinio alla Casa Circondariale, dal momento che per Mirco la presenza di un tirocinante significava essenzialmente potenziali guai da gestire in un contesto già di per sé problematico. Tra i due inoltre, la prima ha maggior pazienza quando si tratta di ascoltare[41] i detenuti. La capacità di ascolto è una delle competenze essenziali, forse la prima e più importante di tutte, relativa alla sfera del "saper essere", che un educatore penitenziario (ma forse ciascun operatore penitenziario) deve riuscire ad acquisire. Mirco forse non se ne accorge nemmeno, ma tende ad avere un atteggiamento aggressivo - N.B: non ho detto che è aggressivo - che non facilita la comunicazione e l'abbassamento delle linee di difesa da parte delle persone recluse. Certo, il setting in cui si svolgono i colloqui non può dirsi "terapeutico" o semplicemente "accogliente" in alcun modo . Ci si ritrova ad urlare durante un colloquio, o comunque ad usare un tono di voce molto elevato, anche soltanto per sentirsi, dal momento che in sezione c'è sempre molto rumore. Il fatto è che c'erano altri elementi, oltre alla comunicazione prettamente verbale, da cui si poteva avvertire la sua aggressività, come ad esempio la tensione del suo corpo, o l'arrossamento delle guance. In questo modo la sua fermezza rischiava di essere scambiata per intransigenza, cosa che poteva creare delle tensioni . Questo tipo di comportamento tendeva ad essere proporzionale al livello di autenticità o meno che lui avvertiva nella persona detenuta: se il detenuto gli sembrava un simulatore, o uno che "gliela raccontava", allora era lui il primo a stare sulle difensive, dando così inizio ad una catena senza fine, fatta di reciproche diffidenze, di teatralizzazioni avvertite da entrambe le parti come "di comodo". Sicché, più che di colloqui, si potrebbe parlare per certi casi, di reciproci esami, come a dire che ognuno cercava di capire cosa l'altro aveva da nascondere, alla ricerca di significati anche dove forse non ce ne erano, per di più in un tempo limitatissimo.

Si trattava però di "dialoghi" un po' al di fuori della normale amministrazione, che, se possibile, erano anche più scarni: gli ordinari colloqui erano quasi tutti uguali, tendevano ad essere per lo più spersonalizzati e circoscritti alle strette esigenze dell'immediato. L'immediato era di volta in volta: la richiesta di lavorare, la possibilità di fare istanza al magistrato per poter scontare la pena in comunità anziché in istituto - se si è dipendenti da sostanze stupefacenti - informazioni sul gratuito patrocinio, "i giorni", i permessi premio - dove, come, quando -, lamentele per il vitto, richiesta dei giornali, specialmente la Gazzetta dello Sport, la possibilità di rinnovare o meno il permesso di soggiorno - in caso di detenuti stranieri -, informazioni relative alla propria personale "sintesi"[44]. La domanda più frequente: "Come mi sono comportato?" e alla contro domanda "Secondo lei?", arriva la risposta: "Bene" - pausa di sospensione e "O no?" oppure "Vero educatore?".

Si trattava quindi più che di veri colloqui, di incontri a titolo informativo. D'altra parte non è facile gestire un "rapporto" - vogliamo ancora continuare a chiamarlo così? - fra persone che stanno fra loro in una proporzione di due e mezzo a duecentoventi. Significa un educatore per centodieci detenuti.

Non mancavano le occasioni per scambiarsi delle battute, che di solito riguardavano o il mondo dello sport o l'ottenimento di questo o quell'altro beneficio, o l'intersezione dei due ambiti ("Per cosa tifa, signor?" "Juve", sapendo che Mirco tifa Inter; "Signor x, mi aveva chiesto cosa scriverò sulla sua relazione,vero?" - risata).

Il lavoro svolto dai due educatori alla Casa Circondariale non si risolveva nel mero svolgimento dei colloqui con i detenuti (di cui prevalentemente si occupava Mirco): a cadenza settimanale o al massimo bisettimanale c'era la riunione di equipe (G.O.T, Gruppo di Osservazione e Trattamento), il cui compito di segreteria è affidato di norma all'educatore e che alla Casa Circondariale svolgeva soprattutto Mirco[45]. Al lato pratico, questo significava innanzitutto, confrontarsi con i colleghi - ovvero l'assistente sociale, la psicologa, il rappresentante degli Agenti e, se il caso necessitava, con lo psichiatra e/o il medico e/o l'assistente volontario - a riguardo del percorso di evoluzione o al contrario di involuzione che un detenuto - definitivo - stava compiendo . In che modo? Ciascun operatore si doveva impegnare a preparare una relazione scritta al computer relativa all'idea che si era fatto del tal detenuto , per poi registrarla su un floppy disk che veniva portato in riunione e letto a turno ad alta voce. Una volta lette ed ascoltate tutte le relazioni si trattava di formulare tutti insieme un'ipotesi trattamentale, un'indicazione di cosa - secondo l'equipe - potrebbe essere stato utile e necessario al detenuto esperire - o non - per tentare di pervenire ad una sua risocializzazione . Tutto ciò veniva amalgamato in un unico documento - la relazione di sintesi, per l'appunto -, che da una parte non doveva omettere nulla dei singoli apporti pervenuti, e dall'altra doveva riuscire a risultare omogeneo nella presentazione finale che sarebbe stata fatta poi visionare al Magistrato di Sorveglianza. Una volta stampato il tutto - prima lo si doveva "sistemare" al computer, cosa che faceva l'educatore - ciascun operatore firmava. La durata di tutto questo processo non era fissa: dipendeva dalla puntualità dei colleghi - ed in sei mesi non siamo stati mai in grado di iniziare in orario, con scarti anche di quasi un'ora dai tempi previsti -, dipendeva dal fatto che avessero o meno preparato il dischetto, dal livello di accordo che si riusciva a raggiungere sul "quadro" di un detenuto e sul conseguente "intervento" auspicato. Ci si poteva riuscire in mezzora come essere in stallo dopo due ore di discussione.

Era l'educatore che preparava anche il "calendario di sintesi", ovvero la mappa delle riunioni che si sarebbero svolte in futuro, con chi si sarebbero effettuate, da che ora a che ora, e riguardo a quale detenuto. Era sempre l'educatore il principale referente per i volontari che venivano a dare aiuto. Era l'educatore il principale coordinatore di tutte le attività trattamentali che si svolgevano nell'istituto. In base al bisogno, ci si poteva ritrovare a distribuire il vestiario o a trasportare pacchi e carrelli. Il numero di telefonate era incalcolabile: i contatti con i vari Ser.t cui faceva riferimento il tal detenuto, il Provveditorato, le telefonate al e dal C.S.S.A di Padova, solitamente, - ma non mancavano chiamate da e verso altre sedi - facevano sì che l'educatore potesse stare al telefono ore. L'educatore, inoltre, per lo meno qui alla Casa circondariale, collaborava anche alla preparazione delle liste per gli sfollamenti. E ci voleva tempo anche per fare questo. Tempo per i colloqui di primo ingresso, tempo per controllare posizioni giuridiche di questo o di quell'altro detenuto, - i fascicoli personali sono all'ufficio Matricola - tempo per controllare la qualità del vitto. L'educatore infatti, qui ha anche il compito di controllare qualità e prezzi dei generi alimentari venduti nell'istituto. Tempo per il brek - cinque massimo dieci minuti alle 11.00, prima di andare in sezione o di fare quello che c'era da fare - o per mangiare un panino. A volte non si mangiava proprio. Si tirava di filato dalle 8.30 circa fino alle 16.30. Eppure spesso si tornava a casa con la sensazione di essersi lasciati alle spalle ancora qualcosa di incompiuto.

Nonostante si lavorasse sempre ai limiti delle proprie possibilità, tanto da dare la sensazione di essere sempre o quasi in stato di emergenza, il livello di cooperazione fra colleghi mi è sembrato essere abbastanza buono, sia all'interno della stessa area sia fra aree diverse. I tempi ristretti rispetto alle incombenze, burocratiche e non, cui si doveva far fronte, facevano sì che - per lo meno gli educatori - non riuscissero a dare corso ad una giornata "tipo". Le possibilità di organizzazione erano scarse.

Non era infrequente sentir dire, da parte del mio mentore, questa espressione: "Com'è che corro corro e mi sembra di non aver concluso niente? Mi dici che ho fatto stamattina?". Il senso di frustrazione era palpabile.


4 - Un evento speciale.


In data 18 settembre 2002 si è tenuta presso la casa Circondariale la manifestazione "Tutti in galera", che ha visto coinvolta la maggior parte dei detenuti, degli Agenti e degli operatori penitenziari in genere, in un confronto con persone provenienti dal mondo di fuori, tra cui l'Assessore Provinciale della Cultura, il presidente dell'Osservatorio Regionale delle Carceri, un Magistrato di Corte d'Appello, un ex-detenuto rinchiuso per 62 giorni, attualmente presidente del Vicenza calcio ed imprenditore; due scrittori ed un inviato rispettivamente del Mattino di Padova, di TV Serenissima e del TG

Questa giornata è stata suddivisa in due tempi, il primo dei quali si è svolto ai passeggi (l'atrio che porta "all'aria") e che ha impegnato all'incirca metà mattinata (dalle 10.30 alle 100 circa). Si è trattato di un momento di confronto fra il mondo dei detenuti ed il mondo esterno, rappresentato dalle persone sopra menzionate. Hanno preso la parola anche il Direttore e il Direttore Coordinatore dell'Area Pedagogica. Al di là di un tavolo posto a due o tre metri dalle sedie - poche - in cui sedevano i detenuti, parte dello staff e i giornalisti, stavano le persone sopra menzionate, che a turno hanno fatto le loro considerazioni sul rapporto esistente fra il periodo della vita vissuto da reclusi e quello successivo alla scarcerazione. In quell'occasione il Direttore Coordinatore ha sottolineato la sua posizione di SOLITUDINE vissuta nell'esercizio della sua professionalità rispetto alle altre istituzioni responsabili delle attività trattamentali dei detenuti; senso di solitudine reso particolarmente forte quando si tenta di attuare un allacciamento con i canali che collegano all'esterno.

Pausa pranzo, con buffet per gli ospiti preparato in sala mensa, mentre i detenuti sono dovuti tornare a mangiare in cella. Purtroppo l'idea di attuare un buffet interetnico, mangiando tutti insieme, non è stata realizzabile.

Pomeriggio: partite di calcio tra la squadra dei detenuti, la squadra dei giornalisti e quella composta da ragazzi di scuola media superiore.

È stata una giornata insolita. Mi sono accorta che anche il momento della competizione sportiva unifica membri del personale e detenuti (ed anche detenuti fra di loro) dal fatto che si tifava per loro, per i detenuti: erano loro "i nostri giocatori".

In queste occasioni anche i membri dell'Area pedagogica possono parlare ed avvicinare i detenuti in una situazione un po' meno formale.

Il difetto principale di questo tipo di eventi: avvengono con il contagocce[49].


5 - Quando un detenuto diventa un ex-detenuto.


Chi ne sapeva più qualcosa? Non se ne sapeva più nulla, era come se non ci fosse mai stato. Uscito significava inesistente, o quasi. Fino al prossimo rientro.


6 - Da una pagina del mio diario.


Avviandomi alla conclusione di questa prima parte del lavoro, voglio riportare quello che ho scritto sul mio diario il giorno diciannove agosto 2002, nella fase centrale del mio tirocinio:


Di questa esperienza ricorderò i volti contriti, le espressioni adombrate, le risate forzate o amare, i taciti mutui sguardi d'intesa, il senso di pesantezza, i sospiri, le tensioni, ma anche la ricerca dello sguardo altrui, le strette di mano, la disperazione di alcuni visi, la rinuncia di altri, la rabbia, la sconfitta la durezza, la solitudine.

Ho ascoltato storie difficili da ritenere vere. Eppure quei volti, quei corpi stanno lì a raccontarle in tutta la loro crudezza


Una domanda mi continuava a ronzare dentro, un tarlo che ancora sto cercando di risolvere. Perché, perché tutto questo?, mi chiedevo e mi chiedo tuttora.

Perché tutto quello che si desume dalle testimonianze delle persone recluse, perché tutto quello che ho potuto constatare con i miei occhi e che mi ha fatto piangere, facendomi sentire come inaridita, stretta in una morsa invisibile che ostacolava la possibilità di relazionarmi con le persone detenute nel modo in cui mi relaziono di solito con tutte le altre persone? Facendomi sentire fuori luogo se scambiavo un sorriso, se mi dimostravo felice di vederle di giorno in giorno? Perché sentivo così freddo là dentro? Perché mi sentivo diversa da come sono fuori? Perché sentivo di non poter essere quella che sono né con le persone detenute, né con il personale di servizio? Perché tornavo a casa irrimediabilmente tesa come una corda di violino? Cos'era che mi rendeva così difficile stare dentro a quell'ambiente, pur non avendo chissà quali responsabilità cui fare fronte, essendo nient'altro che una tirocinante cui spetta soprattutto di osservare e di imparare dagli altri, pur potendo dire di non avere avvertito atteggiamenti di rifiuto nei miei confronti da parte di nessuno? Non riuscivo a capire.

Riflettendo a distanza di tempo e grazie alla lettura delle testimonianze costituenti materiale per questa tesi, ho sviluppato alcune considerazioni.

Alcune relative al trattamento dei detenuti, altre relative all'ambiente carcere in sé.

Per quanto riguarda il primo aspetto, posso dire che il trattamento cui sono sottoposte le persone private della libertà (che spero abbiano potuto emergere dalle trattazioni precedenti) è ancora più impressionante se lo si confronta con quanto la Legge, e non il buon cuore dei cittadini, prevede e detta. Tenendo sempre ben presente il principio costituzionale che impone il rispetto della dignità della persona reclusa ("Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità"), l'ordinamento penitenziario prima ed il regolamento di esecuzione poi, declinano questo dettato costituzionale anche in relazione alle caratteristiche degli edifici penitenziari, celle comprese. E così all'art. 5 dell'O.P., comma 1, leggiamo che "Gli istituti penitenziari devono essere realizzati in modo tale da accogliere un numero non elevato di detenuti o internati" e all'art. 6, dedicato ai locali di soggiorno (le varie o eventuali aule trattamentali, gli spazio per fare sport o eventualmente lavorare.) e di pernottamento (le celle) si impone che tali locali debbano avere ampiezza sufficiente, debbano essere illuminati con luce naturale e artificiale in modo da permettere il lavoro e la lettura; debbano essere areati, riscaldati in base alle condizioni climatiche, e dotati di servizi igienici riservati e decenti. Si sottolinea l'obbligo di mantenerli in stato di conservazione e di pulizia (1° co.). Al 2° comma si esplicita che i locali in cui si dorme "consistono in camere dotate di uno o più posti" e al 3° che si impiega - non che si può impiegare - particolare cura nella scelta di quei soggetti collocati in camere a più posti. L'art. 8. invece, si occupa di garantire ai detenuti ed agli internati l'uso adeguato e sufficiente di lavabi bagni o docce.

Inoltre, prerogativa esplicitata dall'Ordinamento Penitenziario è quella di favorire i rapporti con la famiglia e con il mondo esterno, in quanto elementi del trattamento (inteso nel senso di "modo di trattare" le persone in quanto tali, ben al di qua di qualsiasi intento rieducativo[50]), assieme all'istruzione, al lavoro, alla religione, alle attività culturali, ricreative e sportive (art. 15). I rapporti con i famigliari, all'interno del carcere, vengono di fatto mantenuti - se lo sono - attraverso gli strumenti del colloquio, delle telefonate e della corrispondenza, di cui il primo è comunque il più importante per ragioni di completezza che gli altri due non hanno. I colloqui con i familiari, cui viene accordato particolare favore, a norma dell'articolo 18 O.P, si dovrebbero effettuare in "appositi locali", ovvero locali interni senza mezzi divisori o in spazi all'aperto, e solo per ragioni sanitarie o di sicurezza, in locali interni comuni muniti di mezzi divisori (art. 37, 5° co. del reg. esec.) . Anche il diritto di telefonare e di fare corrispondenza è indicato dall'articolo 18 dell'O.P., in cui si afferma a riguardo delle telefonate che esse possono essere autorizzate nei rapporti con i familiari, secondo le modalità previste dall'articolo 39 del regolamento.

Per quanto riguarda le perquisizioni, esse possono essere effettuate per motivi di sicurezza e comunque nel pieno rispetto della personalità (art. 34 O.P) da parte del personale del Corpo di Polizia penitenziaria, che deve essere dello stesso sesso del soggetto da perquisire (art. 74, 1° co. reg. esec.). Viene da chiedersi in che modo si possa manifestare il rispetto per una persona nel momento in cui la si sottopone a perquisizione, soprattutto quando fisica e comportante il denudamento. Sta tutto nel modo in cui lo si fa, credo. Resta comunque il fatto che il rispetto sostanziale nei confronti di una persona - non quello formale nei confronti di una divisa o di un ruolo - è un atteggiamento che non si può porre sotto controllo, e della cui mancanza è difficile dare dimostrazione, specialmente da parte di una persona detenuta. "Cerchi una risposta a questa prima violenza, non ti verrà data", diceva Cozzolino nella sua testimonianza relativa alla prima perquisizione subita all'arrivo in carcere. Ecco un modo per mancare di rispetto: non tanto - o meglio - non solo il fatto di essere spogliati, ma il fatto che oltre alla spoliazione fisica (che può, anzi, deve non essere fatta quando è possibile compiere l'accertamento con strumenti di controllo, ex art. 74, 2°co. reg. esec.) si sia privati della parola, della comunicazione, della fondamentale, vitale componente relazionale che ci rende umani in senso pieno, al pari della tanto decantata dimensione razionale[52]. E questo - ovvero il vuoto relazionale e comunicazionale fra personale e persone detenute - nessun articolo dell'Ordinamento Penitenziario né del relativo regolamento di esecuzione lo prevede.

Per quanto riguarda poi la fase di enorme cambiamento che comporta il passaggio dallo stato di detenzione a quello di libertà, al Capo V, titolato Assistenza[53], l'articolo 46 prevede venga dato ai detenuti ed agli internati, nel periodo di tempo che immediatamente precede la dimissione del detenuto e per congruo periodo ad essa successivo, un particolare aiuto (1° co.), agevolando il definitivo reinserimento nella vita libera attraverso interventi di servizio sociale in collaborazione con gli Enti pubblici o privati qualificati all'Assistenza sociale (2° co.). L'articolo 88 del regolamento di esecuzione discute il trattamento del dimittendo, precisando che nel periodo precedente la dimissione (auspicabile a partire da sei mesi prima), il condannato e l'internato vanno a beneficiare di un particolare programma di trattamento, orientato alla soluzione di problemi specifici connessi alle condizioni di vita familiare, di lavoro e di ambiente a cui essi dovranno andare incontro. Addirittura, nel secondo comma parla di "particolare cura dedicata a discutere con loro [i "dimittendi"] le varie questioni che si prospettano e ad esaminare le possibilità che si offrono per il loro superamento anche trasferendo gli interessati in un istituto prossimo al luogo di residenza, salvo che ostino motivate ragioni contrarie". Anche questo il più delle volte non accade. Accade invece - e non di rado - che i trasferimenti siano soprattutto imposti ai - più che proposti dai - detenuti, per ragioni di sfollamento.

Riflettendo sulla questione relativa ai suicidi tentati e realizzati in carcere, si solleva una contraddizione che potrei definire, facendo mie le parole di Buffa Pietro[54], di estremismo di tutela, nel senso che pur di garantire l'incolumità personale delle persone recluse, si assumono decisioni con conseguenze che al di fuori dell'ambito penitenziario sarebbero considerate assurde, ma tale estremismo, spiega Buffa "consente di poter affermare un domani, di aver provveduto per quanto umanamente possibile" . Cosa vuol dire con questo? Che di fronte a persone che mostrano volontà di morire o comunque di auto procurarsi lesioni fisiche, le procedure per garantire (o almeno tentare, visto che i suicidi si verificano comunque, come d'altra parte gli atti di autolesionismo) la loro incolumità, possono diventare paradossalmente fonte di ulteriori disagi per chi già vive uno stato di crisi. Ci sono casi in cui si arriva "a togliere anche gli abiti e a piantonare a vista il soggetto, sottoponendolo a un ulteriore stress" . Estremismo che, come accennavo, non riesce come vorrebbe ad impedire l'attuazione del gesto, estremo anch'esso, di togliersi la vita, dal momento che "nelle carceri italiane i detenuti si tolgono la vita con una frequenza 19 volte maggiore rispetto alle persone libere" e che "spesso, lo fanno negli istituti dove le condizioni di vita sono peggiori, quindi in strutture particolarmente fatiscenti, con poche attività trattamentali, con una scarsa presenza del volontariato" . Paradossalmente quindi, la stessa concezione di una funzione di controllo basata sulla rigidità, sulla carenza di fiducia, su di un'attenzione meramente rivolta all'aspetto della sussistenza fisica e corporea della persona detenuta, che contribuisce al generarsi di crisi, di depressione, di rabbia, diviene la prevalente modalità di prevenzione della commissione di possibili suicidi, quando se ne subodori il rischio. Il circolo vizioso cui si va incontro perseguendo su questa strada è evidente, e rende evidente che una funzione di controllo - che pure è necessaria - così gestita, non serve a nessuno. Non serve al personale, che comunque facendone parte, ne viene influenzato, spesso con gravi conseguenze dal punto di vista della tenuta fisica ma anche - se non soprattutto - mentale; non serve ai detenuti, se non ad imbelvirli e a renderli compartecipi, magari pure compiaciuti, di un gioco meschino in cui anche loro recitano la propria parte, limitandosi a dare - o a fare finta di dare - ciò che viene loro richiesto, e intanto, accumulando "tutto", fuorché "buoni propositi"; non serve alla società e a chi dell'atto offensivo è stato la vittima; non serve allo Stato, che non viene rappresentato nei termini in cui dovrebbe, ovvero come "uno Stato di diritto, ispirato e sostanziato da principi e ideali di democrazia, giustizia, progresso nella civiltà (contribuendo così al formarsi - se prima non c'era - o all'allargarsi della frattura e della separatezza - se c'era già - fra "i cattivi" da una parte, ed "i buoni" dall'altra).

Constatando le condizioni reali in cui vive la maggioranza della popolazione detenuta nella carceri qui in Italia, mi chiedo quale sia il livello di civiltà raggiunto dalla nostra cultura, se è vero che lo si può valutare dalle carceri che vi sono istituite. Suddetta condizione infatti è, attualmente, indegna di uno Stato di diritto, visto il surplus di sofferenza che comporta. La privazione della libertà è, anzi dovrebbe essere, l'unica pena, e dovrebbe esserlo nella minor misura possibile. Beccaria diceva che si va in carcere perché puniti, non per essere puniti. Eppure siamo a fronte di una istituzione penitenziaria che non solo priva della libertà (il che è già di per sé sofferenza), ma priva del diritto di opinione, del diritto ad intessere coltivare dei legami affettivi, del diritto di amare ed essere amati, del diritto alla comunicazione ed allo scambio, del diritto all'espressione di sé e dei propri pensieri, tutti diritti fondamentali che la Costituzione garantisce e per i quali non prevede differenziazioni tra cittadini liberi e cittadini reclusi[59]. Questo è quanto ho potuto dedurre leggendo le testimonianze di coloro che ci vivono o - come direbbe Andraous - dal carcere sono vissuti. Questo è quanto ho potuto osservare all'interno della Casa Circondariale. Non mancano le eccezioni, alle quali purtroppo spetta il triste compito di confermare la regola.

La regola vede il carcere protagonista - e con esso, chi ci lavora e chi è destinatario, spesso passivo, di tale lavoro - di una intrinseca contraddizione che ne fa vacillare la ragione d'essere, per lo meno per come esso è allo stato attuale. Mi riferisco allo scarto esistente fra obiettivi ufficialmente perseguiti e risultati obiettivamente ed effettivamente raggiunti. Li uni fondatesi sull'idea che sulla scorta di una illuminata ed illuminante guida, la persona che abbia commesso un reato possa cambiare se "trattata", intendendo così il carcere come luogo in cui divenga possibile un percorso di emancipazione delle persone detenute da un trascorso di vita illegale e contra iurem/legem; li altri presentanti fatti di ugual forza ma di opposto segno, che contraddicono sia durante che nel post stato di detenzione le finalità perseguite, il più delle volte. L'istituzione non può fare altrimenti che dichiarare la propria sconfitta rispetto al fine ultimo che parrebbe perseguire, ovvero quello del ritorno del reo al rispetto del patto sociale da egli leso e spezzato, in seguito alla commissione di un fatto che non avrebbe dovuto commettere o alla omissione di un fatto che avrebbe potuto e/o dovuto compiere. A fronte di questa, di volta in volta, auspicata funzione, sulla cui validità e legittimità mi riservo di discutere poi, resta comunque un dato incontrovertibile: chi esce dal carcere vi rientra, nella maggior parte dei casi. Quindi lo scopo dell'emenda, perseguita "per amore o per forza", fallisce. Eppure, pare quasi in ragione di ciò, continua a sussistere ed, anzi, rinvigorire, un carcere della sfiducia e del sospetto, della diffidenza e della simulazione, della forza temuta, minacciata, e talvolta agita (da parte di entrambe, custodi e custoditi), costituenti a loro volta la regola non scritta e non prevista della vita in carcere[60]. Luogo di disperazione, di emarginazione e deformazione, contorto e torcente volontà e speranze. Eppure, si continua a credere che da un trattamento rivelatesi nei fatti indegno di un essere umano, possa scaturire un qualsivoglia miglioramento proprio di colui che da non-persona è stato trattato. Perché questo sembra essere il tratto costante dell'esperienza della maggior parte delle detenzioni (con conseguenze che si riflettono nella successiva scarcerazione): la progressiva e devastante spersonalizzazione dell'individuo che si ritrova entro il circuito penitenziario; il suo percorso in discesa, da individuo privato della libertà a uomo-detenuto fino a giungere ad essere e a riconoscersi in quanto detenuto-uomo . Processo che sembra sortire non tanto dalla volontà del singolo - il quale anzi tenta di opporvisi in vari modi -, ma dalle dinamiche che si instaurano all'interno di questo luogo , ruotanti essenzialmente attorno ad una esigenza di efficienza dell'istituzione "che, trasmodando, diventa tirannia dell'efficienza, dell'ordine, della sicurezza, come unici parametri e punti di riferimento" , costituendone l'ossessionante ed ossessivo pilastro portante: sicurezza e disciplina. In cui la prima è concepita come visceralmente dipendente e legata soprattutto, se non esclusivamente, alla seconda. Sicurezza e ordine/disciplina non altrimenti specificate, e che a causa della aleatorietà della loro definizione permettono margini di discrezionalità operativa da parte degli gli operatori penitenziari, e questo a prescindere dal ruolo da essi ricoperto. Discrezionalità operativa basata o quanto meno influenzata dalle personali convinzioni, idee, opinioni, giudizi o pregiudizi del personale stesso, e ciò tanto più quanto meno si definisca che cosa si intenda e con quali modalità ha da essere perseguita tale disciplina . Ed è così che all'interno di una stessa struttura possono coesistere l'Agente "umano" e l'"Aguzzino", che ci sono più o meno contatti con il mondo esterno in relazione alla presenza di un Direttore "padre" o viceversa "padrone" , che ci sono operatori del trattamento rieducativo attenti alle persone oltre che alle carte ed altri solerti solamente nell'esercizio del carteggio burocratico; ed è così che diviene quasi un luogo comune, viaggiando sulla bocca di esperti e non, l'affermazione che ogni carcere di Italia costituisce un mondo a sé stante.

Comunque, è bene tenere presente che esistono quelle che abbiamo definito delle esperienze eccezionali, sia perché ancora troppo limitate, specialmente entro il circuito penale adulto, sia in quanto profondamente alternative rispetto alla modalità tradizionale e prevalente di vivere il carcere ed entro il carcere, poiché realmente operanti un'attenzione alla persona, in quanto fiduciose nella possibilità di dare vita ad un carcere della speranza, in cui la sicurezza non sia madre di prassi rigide e ispirate a diffidenza, sospetto, bensì sulla fiducia, sull'autonomia, sulle opportunità offerte alle persone detenute[68]. A queste si farà riferimento nella parte finale del lavoro, a conclusione di un percorso che vuole portare all'individuazione di un'utopia possibile a fronte delle utopie impossibili che ancor oggi dominano tanto la realtà penitenziaria quanto la cultura che la circonda e la riverbera nelle sue aporie.

A fronte di tutto ciò, unito agli altri endemici problemi del carcere, che paiono quasi funzionali onde giustificare lo stato attuale di cose - il sovraffollamento, la carenza di personale che non permetterebbe il concreto effettuarsi di quanto previsto per legge, le strutture inadeguate - cosa compete fare all'educatore? Quale funzione deve svolgere? Sulla scorta di quale finalità? E come? Alla risposta a tali domande sono dedicati i successivi capitoli.



Con Riforma Penitenziaria si fa riferimento al cambiamento di prospettiva introdotto dall'emissione della legge n. 354 del 26 luglio 1975.

Come evidenziato sin dal primo capitolo, uno dei problemi caratteristici delle carceri italiane è lo stato di perenne sovraffollamento, tale da poter ritenere che questa sia forse l'unica caratteristica equamente distribuita fra i 204 carceri sparsi lungo la penisola. Vorrei proporre all'attenzione del lettore, quanto es­presso dalla Camera Penale di Napoli a riguardo delle carceri campane in generale e di Poggioreale (una Casa Circondariale) in particolare, dall'avvocato Riccardo Polidoro (https://www.ristretti.it, sezione testimonianze): "Le cifre relative ai detenuti presenti negli istituti della Campania confermano un sovraffollamento non più tollerabile. Ne soffrono più della metà delle strutture e alcune di esse con cifre spaventose. Poggioreale rappresenta poi un caso a parte. Un vero inferno. Risulta difficile credere che si possa reggere una situazione del genere. Alla dirigenza del carcere in queste condizioni nulla può essere chiesto, perché ogni risultato ottenuto, e ve ne sono, costituisce un vero e proprio miracolo [].

La mancanza di spazi sufficienti, una sola ora di aria la mattina e una al pomeriggio, la vita comune in stanze anguste per il numero di occupanti, i servizi igienici precari condivisi con un numero elevato di persone, la ridotta possibilità di usufruire di docce, costituiscono un grave pregiudizio per la salute. I detenuti costretti per l'intera giornata nelle celle, o comunque in spazi angusti, assumono con il passar del tempo abitudini da animali in gabbia. Passeggiano velocemente, si voltano automaticamente e riprendono a camminare, tutto ciò in un brevissimo arco temporale. La visita medica è effettuata al momento dell'ingresso. Successivamente ogni qualvolta sia ritenuta necessaria dal sanitario o richiesta dal detenuto. Manca una frequenza di visite sanitarie di controllo. In pratica. Dopo il controllo iniziale, s'interviene solo per necessità.

Dal punto di vista igienico-sanitario va poi rilevato che riteniamo difficile garantire un sufficiente grado d'igiene e la non-nocività dei cibi, se gli stessi vengono conservati e cucinati in un unico ambiente dove convivono anche 16 persone. Se nello stesso luogo vi è poi un unico servizio igienico, che servirà per i bisogni corporali, per lavare il corpo e necessariamente anche le stoviglie.

Il rapporto con la famiglia è, poi, fortemente penalizzato. Da un calcolo effettuato sui dati acquisiti è emerso che, con riferimento a un affollamento medio, vengono effettuati 500 colloqui al giorno. Per poter organizzare tale attività è istituita un enorme stanza dove i detenuti, in media 20 alla volta, parlano o meglio urlano, ai familiari, posti dall'altro lato di un tavolo, i loro affetti e le loro esigenze, per un tempo che è di circa un'ora. La riservatezza è garantita dall'enorme frastuono".

Entro 96 ore il GIP è tenuto ad incontrare la persona indiziata o arrestata in flagranza, per confermare l'arresto o il fermo, o per rimetterla in libertà. In caso di restrizione dovuta ad Ordinanza di custodia cautelare (crf. infra, Premessa) emessa dal Giudice, il giudice è tenuto ad interrogare il sottoposto a misura di custodia cautelare entro cinque giorni dalla data della sua incarcerazione.

Cozzolino C., In stato di detenzione., op. cit, p. 50.

La massima espansione del fenomeno dei regolamenti di conti fra detenuti all'interno delle carceri, si è verificata fra il 1974 ed il 1982-inizio 1983 (vd. cap. 1.2, nota n. ): 12 omicidi nel 1974, 12 nel 1975, 5 nel 1976, 16 nel 1977, 6 nel 1978, 7 nel 1979, 13 nel 1980, 27 nel 1981, 20 nel 1982 (Fonte: Amato N., Oltre le sbarre, op. cit., p. 60).

La Casa Circondariale rispecchia i tratti di altre strutture analoghe, sicché per descriverla si possono, talora, usare le parole che sono servite a descrivere altri contesti appartenenti alla realtà italiana ma, ugualmente, non troppo distanti da altre situazioni presenti in ambito Europeo. In questo caso, la citazione è stata ripersa dal testo scritto da un medico penitenziario lavorante in ambito francese, per la precisione alla Casa Circondariale di Lione: Gonin Daniel, Il corpo incarcerato, Gruppo Abele, Torino 1994, p. 19.

La possibilità di procurarsi del cibo diverso dal vitto (detto "casanza" in gergo carcerario) fornito dalla cucina dell'istituto è direttamente proporzionale al fatto di ricevere o meno visite dai propri familiari, i quali possono portare fino a quattro pacchi al mese contenenti i generi e gli oggetti - a patto che rientrino fra quelli consentiti, motivo questo della loro previa sottoposizione a controllo da parte degli agenti - utili per la cura della persona e attinenti alle attività trattamentali (vd. art. 14 reg. esec.). Altra possibilità è costituita dall'avere del denaro "caricato"sul proprio "libretto" presso l'ufficio conti correnti - il possesso del denaro liquido è vietato - , con il quale si possono comperare i generi alimentari - previa richiesta scritta -, la cui vendita è di regola affidata a spacci gestiti direttamente dall'Amministrazione Penitenziaria oppure da imprese i cui prezzi di vendita sono controllati dall'autorità comunale (art. 9, comma 7, O.P).

La figura professionale dell'educatore penitenziario è nata con la legge n. 354 del 26 luglio 1975. Sull'argomento si veda Canepa Mario, Merlo Sergio, op. cit., e Bortolotto Tatiana, L'educatore penitenziario: compiti, competenze e iter formativo. Proposta per un'innovazione, Franco Angeli, Milano 2002.

C'è infatti un cancello interno, quello con le sbarre, attraverso le quali i detenuti possono far uscire le braccia e c'è quello più esterno - il "blindato" -, che si chiude sul primo, con un punto luce all'altezza degli occhi per permettere agli agenti di controllare quello che accade dentro la cella.

Dicasi aula trattamentale l'aula adibita all'espletazione di attività considerate facenti parte del cosiddetto "trattamento" del condannato, dell'internato e, per quanto compatibile, all'imputato. Per delucidazioni su cosa siano il trattamento, il trattamento rieducativo ed i loro elementi, rimando al cap. 1 di questo libro, ed alla nota n. 39, p. 27 in particolare.

La "Guida per i detenuti delle carceri del Veneto" nasce da un progetto avviato da Ristretti Orizzonti a partire dal 1999, che nel tempo ha raccolto l'adesione degli Enti Locali e delle organizzazioni di volontariato. Per riscontro vd. CD- Rom Storie e testimonianze dal carcere, sezione Lettere dal carcere, scritto del 14.12.2001.

Crf. Gonin D., op. cit., p. 17.

C'è da dire che la cucina del carcere rispetta le abitudini alimentari delle diverse etnie e religioni, per quanto possibile.

Sono interessanti, onde comprendere il rapporto esistente fra carcere ed i sensi di cui siamo provvisti, sia lo scritto precedentemente citato di Gonin D., sia le testimonianze di Giulia (detenuta alla Giudecca, C.R:F. di Venezia) e di Di Stefano Ciro (detenuto al carcere S. Vittore di Milano), che, nelle loro lettere inviate alla Redazione di Ristretti Orizzonti del 27.06.2003 e del 18.07.2003, scrivono: "[.] La vista é più che mai penalizzata: muri, muri, porte, cancelli. Gli spazi dove viaggiare con la vista sono sempre immancabilmente limitari da ostacoli murari.

L'udito, che diventa 'pigro' e si disabitua a qualsiasi tipo di suono. Finisce che ti manca perfino il rumore delle macchine nel traffico delle città. L'olfatto; stessi odori, stessa puzza. Hai nostalgia soprattutto degli odori della vita, le piante, la terra. Il gusto: è come l'olfatto, i sapori si assomigliano tutti, il cibo è come se avesse un unico 'gusto universale', un disgustoso 'non gusto'.

Il tatto: limitato anche quello o forse eliminato, o anche 'auto eliminato'". Ciro racconta: "In carcere le giornate si sentono dall'odore. Del resto, basta pensare a questo muro che ci chiude da ogni parte e ci impedisce di guardare oltre, per capire come il senso dell'odorato possa ben sostituire quello della vista".

Per ruolo intendo oltre che i compiti specifici cui devono attendere, anche le differenti aspettative che ad essi vengono rivolte dagli altri membri dell'istiutzione penitenziaria. Sulla tematica della differenziazione di ruolo si legga il testo di Adriano Zamperini e Ines Testoni, Psicologia Sociale, Giulio Einaudi, Torino 2002.

Abbreviazione del più esteso concetto di "fatto espressamente preveduto come reato dalla legge", come da art. 1 del C.P.

La scelta della strada percorribile e la dilatazione dei tempi dipendono anche dalla bravura degli avvocati, e quindi, in massima parte, dai soldi che ci si può permettere di spendere.

Anche l'età è un costrutto sociale e culturale, quindi utilizzabile entro certi contesti e non altri. Consiste in un tentativo di immobilizzazione della realtà e, perciò, se può risultare utile a fini classificatori, ugualmente tende ad irrigidire la fluidità e complessità della realtà entro parametri che di "oggettiva" hanno solamente la pretesa. In che cosa consiste la sua caratteristica di "variabile indipendente"?

Da notare la differenza di interpretazione che del concetto di "tossicodipendente" danno l'Amministrazione Penitenziaria da una parte ed il Ser.t dall'altra: per la prima una persona è tossicodipendente solo colui che effettua terapie con farmaci sostitutivi, per il Ser.t è tossicodipendente anche chi effettua un programma socioriabilitativo successivo. La stessa difficoltà permane nella definizione di "alcolista". In proposito vd. Concato Giorgio (a cura di), Educatori in carcere. Ruolo, percezione di sé e supervisione degli educatori penitenziari, Unicopli, Milano 2002.

L'ospedale psichiatrico giudiziario ospita sia internati (soggetti sottoposti a misure di sicurezza), sia detenuti mandati in "osservazione" per motivi psichiatrici. Crf. Canepa M., Merlo S., op. cit., p. 411 ss.

Anche in questo istituto penitenziario le violazioni maggiori si verificano in relazione all'art. 73 e 74 del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, perfettamente in linea con la tendenza nazionale delineata nel primo capitolo.

Bisogna tenere presente che la sottoposizione al test dell'HIV è volontaria. Pertanto il numero effettivo di persone infette potrebbe essere maggiore.

La domandina è il mezzo principale per avanzare richieste a livello "intramurale", ovvero riguardo tutto ciò che si svolge entro le mura e che abbisogna del consenso dell'educatore, del direttore, del comandante, del medico - dipende dall'oggetto della domanda - : si tratta di un foglio prestampato su cui il soggetto detenuto deve scrivere nome cognome numero di cella e sezione, per poi inoltrare la richiesta, che varia dalla possibilità di effettuare il colloquio con i propri cari "nell'area verde" alla domanda di poter fare palestra (attività non effettuabile senza l'autorizzazione da parte del medico dell'istituto). L'istanza invece solitamente si rivolge a figure esterne dal carcere ma ad esso strettamente legate, in particolar modo il Magistrato di Sorveglianza, dal momento che è suo compito valutare le richieste - istanze appunto -, di beneficio e sempre a lui spetta l'ultima parola sulla concessione o meno di un permesso premio o di un permesso ordinario (artt. 30 e 30-ter O.P.). Si può scrivere su foglio di carta semplice: ciò che non va dimenticato di segnare è, oltre il proprio nome e cognome, il destinatario, la propria firma e la data. Solitamente i detenuti tendono a far scrivere le istanze dagli educatori).

I posti di lavoro disponibili all'interno del carcere non erano più di una quindicina per una media di 230 detenuti. I tempi di attesa per poter lavorare un mese, a rotazione, erano di circa sei - sette mesi. I posti di lavoro fissi erano quello di cuoco, di barbiere, di bibliotecario, di lavoratori della MOF ed alla lavanderia. I restanti lavori - dallo scopino al carrello mensa (quello che porta il cibo in sezione) - erano a turno di un mese cadauno. Data la sproporzione fra offerta e domanda, il criterio di immissione al lavoro era la data di ingresso. Ciascun detenuto aveva il suo posto nella lista di attesa dei "lavoranti".

Arrivando alla mattina presto, verso le otto e un quarto, già si vedevano i primi familiari davanti al portone d'entrata. Stavano lì anche due ore aspettando di entrare: donne più o meno giovani, con talvolta dei bambini appresso. Madri mogli, qualche padre o fratello, qualche fidanzata, tanta desolazione.

Nel definirlo il "momento peggiore" faccio affidamento a quanto raccontatomi dagli agenti che vivono la sezione nella sua fase notturna.

Tramma Sergio, L'educatore imperfetto: senso e complessità del lavoro educativo, Carrocci Faber, Roma 2003, p. 21

Vd. cap. 1, nota n. 13, p. 15.

Canepa M., Merlo S., op. cit., pp 86-87.

Crf. AA.VV., Le aree operative, op. cit., pp. 35-41.

Ibidem., p. 39.

Vd. cap. 1, nota n. 12, p. 15.

Vd. più avanti, § Il personale dell'Area educativa, p. 27 ss.

Crf. Amato N., Diritto, op. cit., pp. 159-160. In realtà tutto il testo tende a mostrare che le sorti del carcere si giocano propriamente attorno a questi due nuclei.

Crf. Cerrato Silvia, Analisi della domanda di formazione degli operatori di polizia penitenziaria. Ricerca esplorativa presso la scuola di formazione del Ministero di Grazia e Giustizia, in Di Leo Gaetano, Patrizi Patrizia (a cura di), La formazione psicosociale per gli operatori della giustizia, Giuffrè, Milano 1995, p. 19 Il mutamento del quadro normativo e delle relative funzioni cui l'Agente penitenziario deve rispondere sono

Ibidem, p. 199.

Crf. con l'esperienza analoga testimoniata da Buffa P, Se il carcere è anche del territorio, in Animazione sociale, n. 149/2001.

D'ora in poi, in osservanza della legge sulla privacy  denominerò con nomi fittizi i due Operatori dell'Area educativa, rispettivamente Elisa per il Direttore Coordinatore di Area, Mirco per l'Educatore Coordinatore. La categoria nel suo genere sarà denominata con il termine"educatori". È bene comunque ricordare che appartengono all'Area Educativa anche gli Operatori del CSSA e gli psicologi.

La suddetta circolare stabilisce che i profili professionali appartenenti a quest'area "non hanno un riferimento univoco ad una o più aree determinate, ma possono essere riferiti, indifferentemente, a tutte la aree", dal momento che "essi definiscono professionalità con contenuti generali o con caratteri di complementarietà". Vd. AA.VV., Le aree operative., op. cit., p. 35.

L'argomento donne invece è maggiormente discusso fra gli operatori, mentre con i detenuti lo si evita: si tratta di una forma di rispetto. Meglio evitare di parlare di un tasto così dolente per gli uomini in stato di detenzione, proprio di fronte a loro.

L'ascolto attivo si rivela essere uno dei punti chiave nella realizzazione di una relazione che sappia veramente divenire relazione d'aiuto. Sul tema rimando al capitolo 5.

Vd. infra § 1.1.

Il tipo di relazione fra educatore e detenuto è già complicato da quello che l'educatore è, a causa dell'ambiguità della sua posizione istituzionale che lo vuole guida e controllore ad un tempo, accompagnatore e giudice della persona che accompagna.

L'espressione "i giorni" si riferisce al beneficio della Liberazione Anticipata, disciplinato dall'articolo 54 dell'O.P, consistente nella concessione al condannato a pena detentiva che abbia dato prova di partecipazione all'opera di rieducazione di una diminuzione di pena di quarantacinque giorni ogni sei mesi. Questo, nel suo aspetto pratico, significa innanzitutto non ricevere "rapporto" - i rapporti disciplinari -.

La possibilità di leggere in carcere, e ancor più leggere i quotidiani, è stata introdotta con la Legge di Riforma del 1975. I quotidiani su in sezione vanno a ruba.

Art. 29, 4° comma reg.esec.

La relazione di sintesi è prevista solamente nel qual caso la sentenza di colpevolezza sia passata in giudicato. Solo di fronte ad una colpevolezza certa, secondo l'Ordinamento Penitenziario, si può pensare di attuare un trattamento rieducativo tendente al reinserimento sociale dei condannati. In caso di imputabilità, questo trattamento è precluso perché considerato in contrasto con il principio della presunta innocenza fino a prova contraria.

Il mezzo disponibile per la conoscenza di un detenuto sono per le assistenti sociali e per le psicologhe - quelle che seguono i detenuti dipendenti da sostanze, lavoranti in convenzione con l'A.P. ma facenti riferimento al Ser.t - il monte ore mensile di cui dispongono per effettuare colloqui con i detenuti; per gli Agenti la quotidianità della vita insieme, unita all'osservazione del loro comportamento e occasionalmente - dipende dal modo di porsi dell'Agente - alla comunicazione diretta; per l'educatore il colloquio giornaliero, e la possibilità di poter osservare il comportamento del soggetto in circostanze diverse, nella quotidianità, anche se in tempi più limitati rispetto a quelli degli Agenti.

Mi riferisco in special modo ai cosiddetti benefici, ovvero le misure alternative alla detenzione (cui è dedicato il Capo VI dell'O.P - dall'articolo 47 all'articolo 58-quarter - ed il Capo VI del reg. esec.), la liberazione condizionale, la cui nozione e i cui presupposti di concessione sono decritti all'art. 176 del C.P., le modalità di attuazione all'articolo 104 reg. esec. Vd. per un esame oculato dei due istituti, Canepa M., Merlo S., op. cit., cap. 1 della Parte terza.

Sento di dover sottolineare un aspetto: che dispongano di poche ore alla settimana o di giornate intere, i componenti dell'equipe osservano e conoscono (o ci provano) le persone recluse, "oggetto" del loro lavoro, all'interno del contesto penitenziario. Un contesto che presenta delle dinamiche affatto diverse da quelle che esistono esternamente alla struttura, se non proprio tutte a livello qualitativo, sicuramente tutte a livello quantitativo, il che rende le previsioni trattamentali un doppio terno al lotto: primo perché si riferiscono ad una ipotetico comportamento futuro che il detenuto dovrebbe tenere, tale da renderlo abbastanza "affidabile" alla concessione di un beneficio; secondo perché essendo l'osservazione del comportamento della persona reclusa effettuata in un contesto chiuso (con le caratteristiche individuabili nelle testimonianze precedenti), ciò nulla o poco dirà di come egli si condurrà esternamente a tale contesto.

Questo evento fa parte delle cosiddette cerimonie istituzionali, ben analizzate nel lavoro di Goffman (cit.), ovvero una serie di pratiche istituzionalizzate attraverso le quali staff ed internati si avvicinano fra di loro, concorrenti ed esprimenti unità, solidarietà ed un impegno univoco nei confronti dell'istituzione, piuttosto che differenze fra i due livelli.

C'è da dire comunque che i due aspetti sono fortemente correlati. Infatti, una delle modalità tipiche dell'azione educativa in generale e rieducativa in particolare (sul senso o nonsenso della nozione di rieducazione tratterò nei capitoli successivi), cui viene attribuita importanza fondamentale, è l'esempio, che Bertolini P. definisce come "la forma più completa e convincente di linguaggio pedagogico, anche perché essa rinvia alla corporeità dell'educatore e si rivolge alla corporeità dell'educando" (op. cit., p. 222). Ora, ponendoci nell'ottica di una presunta finalità rieducativa della pena e della pena carcere in particolare, in ragione di ciò, il trattamento penitenziario, costituisce il principale tramite per pervenire a quello, giocato essenzialmente sul valore dell'esempio e della testimonianza (l'essere testimoni con l'esempio, nella quotidianità dell'esistenza, dei valori cui si afferma di credere). Ove non vi sia adesione allo spirito che informa il trattamento penitenziario al rispetto della dignità della persona detenuta, si realizza una profonda scissione fra fine e mezzi utilizzati per perseguirlo.

Al comma 4 dispone poi che si deve mantenere un comportamento corretto e tale da non recare disturbo ad altri e che il personale preposto al controllo deve sospendere dal colloquio "le persone che tengono comportamento scorretto o molesto", non specificando cosa si intenda per molesto e per scorretto. Come d'altra parte non vengono specificate le ragioni sanitarie o di sicurezza che comportano lo svolgimento dei colloqui in locali interni comuni con mezzi divisori.

Lo dimostra, per paradosso, anche la vicenda estrema di Victor (nome assegnatoli dal giovane medico francese Itard cui fu affidato), il ragazzo "selvaggio" preso nelle foreste dell'Aveyron tra la fine del 1799 e l'inizio del 1800: detto sauvage poiché cresciuto e vissuto al di fuori di un contesto sociale umano fino all'età di dodici anni (questa l'età assegnatoli al momento del ritrovamento, o meglio, della cattura). Egli si esprimeva con acute grida, non parlava, non aveva alcun senso dell'igiene personale né di se stesso, poiché, posto di fronte ad uno specchio (durante un esame medico accurato), mostrò di vedervi l'immagine riflessa, ma di non riconoscersi in essa. Questo dà l'idea di che cosa comporti l'essere deprivati della parola, della dimensione relazionale ed affettiva, esperienza che, pur variando a livello quantitativo rispetto al caso del ragazzo selvaggio, raramente non vive chi è recluso in carcere. Sulla storia di Victor e del suo rapporto con Itard e M.me Guérin - governante del giovane chirurgo - vd. Caldin Pupulin Roberta, op. cit, pp. 27-41.

Secondo Serra Carlo (op. cit, p. 52) le persone ristrette temono la comunicazione verbale, considerandola rischiosa e fortemente condizionata dall'asimmetria caratterizzante il loro rapporto con lo staff: per questa ragione si avvarrebbero maggiormente della comunicazione non verbale, intesa come canale necessitato in quanto, essendo l'uso del linguaggio più o meno problematico, torna utile fare ricorso a modalità espressive alternative.

Questo Capo è costituito da due soli articoli: l'art. 46 (vd. sopra nel testo) e l'articolo 45 concernente l'assistenza alle famiglie, considerata integrativa al trattamento dei detenuti e degli internati, onde conservare e migliorare le relazioni dei soggetti con i familiari e rimuovere le difficoltà che possono ostacolare il reinserimento sociale.

Buffa Pietro, La giustizia quotidiana in carcere, in Animazione sociale, n. 153/2001, p. 86. Pietro Buffa è direttore del carcere "Le vallette" di Torino.

Ibidem

Ibidem, p. 87.

Tratto dall'Introduzione al Dossier "Morire di carcere": agosto settembre 200 Suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti per cause non chiare, episodi di overdose, presentato ufficialmente il 21 settembre 2003 a Venezia, nel corso del dibattito "Carcere: progetti e percorsi di recupero", curato dalla Redazione di Ristretti Orizzonti, disponibile sul sito www.ristretti.it Continua poi spiegando che "Il numero maggiore di suicidi avviene al sud e nelle isole, soprattutto in Sardegna (14 casi), mentre al nord i suicidi sono concentrati in istituti come la Casa Circondariale di Marassi (GE) e quella di San Vittore (MI), notoriamente tra i più degradati d'Italia, oltre che nell'Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Reggio Emilia".

AA.VV., Le aree operative., op.cit., p. 40.

Basti pensare agli articoli 2 e 3 della stessa, rispettivamente in tema di riconoscimento di diritti inviolabili dell'uomo (e non lo è forse il diritto a ricevere e a dare amore?), sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità - di cui la Repubblica si dichiara garante -, ed in tema di dignità sociale e di uguaglianza davanti alla legge; al diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione, a norma dell'articolo 21; il riconoscimento dei diritti della famiglia e la presa di responsabilità da parte della Repubblica di agevolare, attraverso misure di tipo economico e altre provvidenze, la formazione della famiglia stessa e l'adempimento dei relativi compiti (articoli 29 e 31).

Si legga in proposito, oltre ai già citati Gonin D., op. cit., Amato N., op. cit., Goffman E., op. cit., Curcio R., Valentino R., op. cit., Andraous V., op. cit., Serra C., op. cit., di Gallo Ermanno e Ruggiero Vincenzo, Il carcere immateriale, Sonda, Milano 1989.

Termine che deriva da torsione, a sua volta apparentata nell'etimo alla parola tortura, che secondo l'opinione di Curcio R. e di Valentino N., metaforizza nel modo migliore "l'esperienza del corpo recluso nelle istituzioni totali involontarie" (cit., p. 41), di cui le istituzioni penitenziarie fanno parte. Questo nel differenziarla dalla parola deprivazione, la quale "non dice l'essenziale, e cioè che ad un recluso si arriva a togliere tutto, ma non la reclusione" (ibidem). Ciò, secondo gli autori, renderebbe il termine deprivazione maggiormente adatto a descrivere le esperienze del corpo nelle istituzioni totali volontarie, come ad esempio i conventi di clausura o gli eremi.

Amato N., Diritto, op. cit., pp. 196-197.

Così Serra Carlo, op. cit., pp. 58-65,quando individua specialmente in certe pratiche di comunicazione non verbale il tentativo di salvaguardare e/o riacquistare l'identità, come ad esempio il modo di vestirsi in particolari situazioni o il fatto di volersi cucinare il cibo (come forma di rifiuto di quanto fornito dall'istituzione).

Cui fanno da contraltare le cosiddette dinamiche di adattamento all'istituzione messe in atto dai ristretti, analizzate da Goffman E., op. cit., pp. 88-90 e da Curcio R., Valentino N., op. cit, pp. 67-82. Esse sono essenzialmente quattro: il ritiro dalla situazione, attraverso la quale ci si fa scivolare addosso quanto succede, come se non stesse accadendo; la linea intransigente, attraverso la quale ci si pone in costante, intenzionale atteggiamento di sfida e di rifiuto nei confronti dell'istituzione; la colonizzazione, per effetto della quale la parte di realtà offerta dall'istituzione ai suoi "utenti" viene vissuta dai reclusi come la realtà in toto; infine la conversione, che vede la persona ristretta applicare a se stessa il giudizio che su di essa danno i membri dello staff.

Amato N., Diritto., op. cit., p. 189.

Infatti l'Ordinamento Penitenziario afferma (art. 1, 3° co.) che "negli istituti devono essere mantenuti l'ordine e la disciplina" e che "non possono essere adottate restrizioni non giustificabili con le esigenze predette o, nei confronti degli imputati, non indispensabili ai fini giudiziari". Il regolamento di esecuzione all'articolo 2 rincara la dose, ponendo la sicurezza quale condizione sine qua non è impossibile realizzare le finalità del trattamento dei detenuti e degli internati, e quali mezzi per garantirla l'ordine e la disciplina. Me nulla dice di come realizzare tali ordine e tale disciplina, sottintendendo però che essi siano cosa altra dal trattamento e che, anziché essere il trattamento stesso fonte di sicurezza e di disciplina (se osservato), esso abbisogni di qualcosa d'altro da sé per essere realizzato. Cioè i non meglio specificati ordine e disciplina. Da qui al potere discrezionale lasciato ai singoli istituti e a coloro che li gestiscono, il passo è abbastanza breve.

Si veda la descrizione che ne da Cozzolino Ciro nel suo libro, alle pp. 25-32 e 90-94.

Crf. Amato N., Oltre le sbarre, op. cit., pp. 171-205, ovvero l'ultimo capitolo intitolato per l'appunto Il carcere della speranza.

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