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Alla spersonalizzazione dilagante nel carcere, molti detenuti oppongono atteggiamenti ed oggetti che connotino in maniera ben visibile ed inequivocabile la loro identità ed il loro background sociale, culturale, economico e geografico. Essi, per differenziarsi dai compagni di prigionia dunque, utilizzano capi di abbigliamento particolare, oppure ostentano gli interessi che coltivano, o più spesso utilizzano il proprio dialetto - ma anche il gergo della propria sottocultura deviante - per la propria comunicazione verbale: quest'ultimo espediente è utilizzato come mezzo di autoaffermazione, ma anche di supremazia nei confronti degli agenti di custodia che devono sforzarsi di interpretarli.
La comunicazione che avviene nel carcere è infatti prevalentemente quella simbolica e quella indiretta, come il linguaggio a gesti, in quanto quella verbale è fortemente limitata e comunque potenzialmente pericolosa. Una strategia per comunicare in un luogo sorvegliato senza destare sospetti, è quella di richiamare l'attenzione del destinatario del messaggio - solitamente un altro detenuto - con una frase banale detta ad alta voce: quando i sorveglianti abbassano l'attenzione per l'innocuità del messaggio, ecco che parte quello vero, di solito comunicato a gesti[1].
A volte basta un particolare movimento del capo, uno sguardo, una pacca fugace in una determinata parte del corpo per avvertirsi l'un l'altro dell'imminenza di certi avvenimenti, per mettersi d'accordo, per prendere decisioni: un operatore[2] descrive una serie di sguardi e di gesti appena abbozzati che i detenuti si stavano scambiando impercettibilmente mentre stava conferendo con loro: "Mi stavano mettendo alla prova in diversi modi e devo dire che riuscirono perfettamente a mettermi in difficoltà . era chiaro che stavano decidendo se scegliermi o no".
In questo modo i detenuti si assicurano un linguaggio più diretto, immediato, efficace e coinvolgente[3].
Come detto sopra, un altro modo per comunicare mettendo in difficoltà l'istituzione è usare il gergo, forte elemento di appartenenza[4], che serve anche a descrivere "gli eventi cruciali del proprio particolare mondo" ; un detenuto illustra bene la funzione e l'origine di questo tipo di linguaggio: "Fare un inventario dei termini appartenenti al linguaggio del carcere è una bella impresa e ci si accorge facilmente di come questo mondo viva un isolamento tale da essersi creato una cultura a parte . (Tale linguaggio) identifica chi il carcere lo conosce dagli altri; i vocaboli utilizzati sono esclusivi di questa realtà, ma non hanno solo riferimenti all'ambiente criminale e ed a questioni losche, come sarebbe più naturale immaginare".
Prosegue con degli esempi: "Liberante, permessante, lavorante od oziante, cellante, sono alcuni dei participi presenti classici con cui viene definito un detenuto secondo la sua posizione in carcere. Sono vocaboli presi dalla burocrazia e sono comprensibili nel loro significato solo se, a qualsiasi titolo, si è stati in carcere". Nella genesi di questo linguaggio ha il suo ruolo anche il livello di istruzione, in quanto "in carcere, . , al di là di quello certificato, è veramente basso, ed anche qui la sopravvivenza ha portato ad assimilare nel linguaggio scritto tanta sintassi, non in maniera sempre corretta, della burocrazia penitenziaria e giudiziaria".
Anche il personale, specialmente quello meno qualificato, conosce questo linguaggio e lo usa quando parla con gli internati, riprendendo il proprio modo di parlare quando si rivolge ad un superiore o a qualche visitatore[7].
"Era il sistema di sopravvivenza della mala", prosegue il detenuto[8], "ed era fatto di gesti, linguaggi verbali, ma anche segni e simboli come gli arcinoti tatuaggi con cui certi detenuti si tappezzavano i corpo. Se per alcuni di essi era possibile conoscerne il significato, per altri, a meno che non si fosse a pieno titolo dell'ambiente, questo era negato".
Altro mezzo di comunicazione e di espressione del sé, dunque, il tatuaggio è un attività molto valorizzata considerabile, talvolta, un rituale tangibile che attesta l'iniziazione carceraria e l'affiliazione alla cultura malavitosa o ad una particolare gang, "come pelle di scorta da esibire al tempo e ai nemici di una volta"[9]. Molti tatuaggi hanno infatti dei significati ben precisi: ad esempio i famosi cinque punti della malavita rappresentano, in modo molto stilizzato, la condizione dell'uomo recluso ; ma anche un solo punto tatuato in un determinato posto assume un significato particolare .
La pelle del detenuto è il luogo che raccoglie le tracce della propria storia: cicatrici, tagli, disegni tatuati narrano il malessere e la sofferenza di un uomo, ma anche quell'identità che nessuno potrà più sottrarre [12], oltre che un modo per distinguersi dalla folla di individui anonimi, quasi intercambiabili.
Il tatuaggio è un linguaggio intimo, un modo di comunicare e di riconoscersi, e anche la scelta del compagno a cui affidare la propria pelle per essere ricamata rientra in queste dinamiche[13]; ad esempio un detenuto afferma: "Io da 'n infame nun me li faccio fa'. Io in mano (sua) la pelle mia nun ce la metto". Come del resto neanche la sua vita.
È un fenomeno comunque in declino, in quanto il tatuaggio è ormai divenuto un fenomeno di massa e non più legato a particolari mestieri o percorsi di vita.
La pelle, come già detto, e più in generale il corpo, è uno dei mezzi di espressione e comunicazione più utilizzati in carcere, anche inconsapevolmente. Questa dinamica è evidentissima nei purtroppo frequenti gesti di autolesionismo e di tentati suicidi, che purtroppo troppo spesso riescono: "ci si suicida in molti modi: ci si tagliano i polsi con le lame dei rasoietti da barba, si ingoiano le molle dei letti o le pile, si inala il gas delle bombolette, si muore impiccandosi alle sbarre. In carcere se si decide di morire lo si tende a fare in modo vistoso, agghiacciante, altrimenti il suicidio è inutile, non serve neanche da protesta"[15].
È da chiarire subito che le condotte autolesionistiche[16], fantasiose nella loro attuazione con i mezzi più disparati, non hanno quasi mai l'obiettivo di perseguire la morte, come si può vedere dalle parti scelte per la lesione e dalla profondità del taglio: "la parte del corpo dove di solito si tagliano non giustifica infatti il taglio come un tentativo di suicidio, perché se uno vuole davvero suicidarsi dà un colpo secco alla gola o taglia le vene principali" riferisce un detenuto .
Sono molte le cause che sottostanno a questo fenomeno: innanzi tutto la sofferenza, il panico e il disagio del primo impatto con la drammatica realtà carceraria e il generale crollo delle certezze che consegue l'ingresso in carcere.
C'è poi il senso di impotenza di fronte alla lentezza e ai dinieghi della burocrazia, che può portare a scaricare la tensione sul proprio corpo, il bersaglio della propria aggressività, e ad attuare tramite esso una disperata richiesta di attenzione e di aiuto.
L'assenza di comunicazione con il mondo esterno e all'interno dell'istituto, è un'altra causa, ed è anche la principale per i detenuti magrebini, "ma l'esasperazione non conosce etnie o nazionalità, quindi ricorrono a questa pratica in tanti, alcune migliaia ogni anno, italiani, slavi, africani, sudamericani, albanesi, in questo campo l'integrazione multietnica è già cosa fatta"[18].
Può avere anche lo scopo di mettere in difficoltà l'istituzione, di suscitare la sua disapprovazione o il suo rimorso: in questo caso rappresenta un espressione di dissenso. Un detenuto[19] confessa che questo è un mezzo molto diffuso tra i detenuti "per nun fatte mena' dalle guardie"; (i tagli che vedi) so' perché noi stavamo a fa' 'no sciopero, loro entravano: io me tajo, pensavo, così nun me menano", perché "pure pe' loro so' rogne, poi lo devono giustifica' tutto 'sto sangue che nun so' stati loro . Ma poi pure perché tu poi prendi (fa il gesto di succhiarsi la ferita) e je sputi er sangue . Se sei malato, loro lo sanno . diventa 'na arma poi, er sangue" .
"Non fu una decisione impulsiva, certamente non servì a niente, ma quella mattina mi sembrò una cosa che potesse avere un senso, pur non avendolo", conclude un detenuto[21], mentre per un altro il senso è proprio nel tentativo "di riaffermare la proprietà sul proprio corpo e la propria esistenza, più che un grido di aiuto: . per certi versi il carcere è un luogo dove le urla non trovano nessuno che le raccolga" .
Il tatuaggio si compone infatti di quattro punti sistemati ai vertici di un ideale quadrato - stante a rappresentare la cella - e di un quinto posto al centro di questo: il detenuto.
Vicino alla bocca, alle orecchie o agli occhi sta ad indicare che il detenuto non farà la spia, mentre i punti posizionati nelle varie parti del corpo sono dei segni di riconoscimento, legati all'ambiente della mala.
I cui sinonimi sono parasuicidio, suicidio simulato, e - nell'ambito dell'amministrazione penitenziaria - suicidio manipolativo.
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