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"Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato"
Attorno al principio del finalismo rieducativo della pena si sono accese le più vive polemiche tra retribuzionisti e positivisti, i cui estremismi interpretativi hanno ostacolato la comprensione del dettato costituzionale.
I primi neutralizzano l'innovazione costituzionale considerandola una mera enunciazione politico-programmatica o comunque relegando la rieducazione alla sola fase esecutivo-penitenziaria ed identificandola con l'emenda, per altro non essenziale. I secondi, all'opposto, ne enfatizzano il significato, costituzionalizzando le istanze positivistiche della prevenzione speciale ed assegnando alla pena il compito precipuo della risocializzazione.
Lentamente ha preso piede l'opinione secondo cui, dal punto di vista costituzionale, la pena nella sua essenza e giustificazione etica e logica è, innanzitutto, retributivo-generalpreventiva.
A questa finalità si è addizionata anche quella utilitaristica di modifica, in senso sociale, della personalità del reo che si propone non tanto di eliminare quanto piuttosto di circoscrivere il fenomeno della recidiva, da sempre considerata il parametro, il metro di valutazione della bontà dei sistemi punitivi.
La norma penale rimane ancorata ad un sistema rigido e inflessibile; il carattere garantista della retribuzione (quale la proporzionalità edittale alla gravità del reato) consente, cioè, alla pena di conservare i propri caratteri di certezza ed effettività.
Numerose dispute si sono accese attorno all'equivoco concetto richiamato dalla Costituzione all'art. 27; la rieducazione non può essere mistificata, non può trovare correlazione ai concetti di pentimento, emenda morale e spirituale, astrattamente possibile a mezzo pena ed in qualsiasi condizione di espiazione. L'attività risocializzante non può concretarsi né attraverso l'applicazione di una correzione politica-ideologica, fatta propria dagli stati totalitari, né dal trattamento propugnato indiscriminatamente dalla Nuova Difesa Sociale, la cui ideologia e prassi appaiono avviate verso un inarrestabile declino per l'incapacità di far fronte al sistema criminale.
Tale movimento, che ricevette la sua prima consacrazione internazionale con l'istituzione, nel 1948, della Sezione di difesa sociale delle Nazioni Unite, è uno tra i più fecondi movimenti di pensiero del dopoguerra che ha configurato accanto al diritto della società di esser protetta contro la criminalità, il c.d. diritto del reo alla risocializzazione.
Questo indirizzo, pur ricollegandosi ad alcuni motivi caratteristici della Scuola Positiva, si muove su un piano di eclettico pragmatismo e di agnosticismo metafisico.
"Non sopprime la nozione di responsabilità, non nega la libertà dell'uomo, né rifiuta la possibilità della punizione. Ma fonda la politica criminale della difesa sociale sulla responsabilità individuale, la cui realtà esistenziale costituisce uno dei cardini del sistema, viene assunta come molla e motore essenziale del processo di risocializzazione e torna ad essere la giustificazione profonda della giustizia penale."[3]
La rieducazione viene, in tal modo, confinata all'offerta di opportunità presupponendo un ritorno del soggetto nella comunità, dandogli la possibilità di correggere la propria antisocialità e di adeguarsi al sistema delle regole sociali.
E' in quest'ambito solidaristico che si snoda il principio punitivo-premiale: la creazione di "motivazioni" ai comportamenti socialmente corretti ed il sistema della pena e del premio, dell'approvazione e della disapprovazione, sono un possente e storicamente ancorato strumento pedagogico.
Col sancire che la "responsabilità penale è personale", l'art. 27 Cost. ha statuito non solo la personalità dell'illecito penale ma anche la personalità della sanzione penale.
Per comprendere esattamente la presa di posizione della Costituzione non è corretto soffermarsi esclusivamente all'art. 27, in quanto si esaurisce nella funzione della pena relativamente la sua fase esecutiva.
L'art 25, Cost. afferma il principio della necessità della pena; considerata elemento garantista non eliminabile del nostro sistema giuridico e perciò non sostituibile con "misure di difesa sociale".
La distinzione, poi, tra misura di sicurezza e pena, di cui si riafferma il carattere punitivo, fa della afflittività, quale limitazione dei diritti del soggetto, un elemento ineliminabile della pena nella sua imprescindibile funzione retributivo-intimidatrice-pedagogica.
Il principio della responsabilità individuale consente di affidare alla competenza giuridica le tipologie di pene da applicare e le diverse forme di penalità. Una linea, questa, perseguita dal legislatore italiano che dal 1944 in poi, non ha mai messo in discussione il concetto di pena, pur ispirandosi a criteri indulgenziali, almeno fino ad una certa inversione di tendenza che, a decorrere dal 1973, ha portato ad accentuare il carattere deterrente della pena, nel momento della minaccia, ed il contenuto punitivo, nel momento applicativo.
Altro principio che si desume dalla correlazione responsabilità-pena come antitesi alla responsabilità sociale o legale, è la legalità della pena, realizzato con l'integrazione del nullum crimen sine lege con il nulla poena sine lege, principio cardine che domina la materia delle fonti nel nostro diritto e che si richiama implicitamente ma inequivocabilmente alla sanzione penale nella sua dimensione affittivo-punitiva e nella sua "tradizionale" funzione general preventiva e retributiva.
Il principio di legalità, sancito dall'art. 25, commi 2 e 3 Cost., si articola in tre sottoprincipi: la riserva di legge, la determinatezza-tassatività della fattispecie penale, la irretroattività della legge penale.
1 La riserva di legge
Tale principio ha inteso riservare il monopolio normativo penale al potere legislativo, circoscrivendo pertanto le fonti del diritto penale alla sola legge o agli atti aventi forza di legge.
La ratio della riserva di legge si sostanzia nell'attribuzione al Parlamento del diritto esclusivo della criminalizzazione con il duplice scopo di evitare l'arbitrio del potere giudiziario e del potere esecutivo.
2 La determinatezza-tassatività della fattispecie penale
Tale principio presiede alla tecnica di formulazione della legge penale. Indica il dovere del legislatore di procedere, al momento della creazione della norma, ad una precisa determinazione della fattispecie legale, affinché risulti tassativamente stabilito il confine tra lecito ed illecito penale.
3 La irretroattività della legge penale
Sancito all'art. 25 Cost. e disciplinato all'art. 2 c.p., tale principio si sostanzia nel divieto di applicare la legge penale a fatti anteriori alla sua entrata in vigore.
Enunciato dal pensiero illuministico, consacrato nella Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino (1789) e assurto a punto fermo nel moderno Stato di diritto, il principio di irretroattività costituisce il completamento logico dei principi della riserva di legge e soprattutto della tassatività, la cui funzione garantista sarebbe frustrata se si lasciassero i nuovi comportamenti esposti all'incognita di future incriminazioni.
La proporzionalità della pena rappresenta il ragionevole limite del potere punitivo nello Stato di diritto; insito nel concetto retributivo di pena, è costituzionalizzato dagli artt. 3 e 27/1,3, che impongono rispettivamente il trattamento differenziato e l'ineludibile giustizia della pena, intrinseca al carattere personale della responsabilità e presupposto fondante l'azione rieducativa della pena.
Gli elementi base che convergono alla determinazione della gravità fattuale sono i beni costituzionalmente significativi, il grado e la quantità dell'offesa ed il tipo di colpevolezza, che concorrono a loro volta alla definizione dell'inflessibile ed immanente criterio intimidativo della prevenzione generale.
Ultimo caposaldo costituzionale, ma non per questo meno rilevante, è il principio dell'umanizzazione della pena che ha inteso bandire ogni trattamento disumano, crudele e afflittivo, relegando alle epoche passate il ricordo dei supplizi, delle punizioni infamanti e corporali, considerati i segni delle barbarie di quei secoli e di quelle nazioni provati dalla debole influenza della ragione.
Tale principio si completa con quello del rispetto della personalità e della dignità del condannato.
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