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La pena, strumento irrinunciabile del controllo sociale, è considerata l'elemento garantista del nostro sistema giuridico. Sebbene non elimini la criminalità, come dimostrano gli elevati tassi di recidiva, tuttavia, la contiene, prima che per la sua forza intimidatrice, perché con la sua intrinseca disapprovazione sociale, mantiene e rafforza i valori di una società e stimola l'autocontrollo (Durkheim)[1].
Non possono essere abbandonati i tradizionali strumenti preventivi (istituti carcerari, psichiatrici, sanzioni penali,.) senza avere a disposizione alternative valide e di immediata attuazione.
L'affievolirsi della difesa statuale contro il crimine farebbe aumentare i fenomeni di autodifesa e di autogiustizia ritornando agli antichi sistemi di vendetta e ai delitti di reazione.
La pena, quale categoria logica, è inscindibilmente connessa all'idea della norma-comando. Nonostante pensatori e scienziati, nel passato e nel presente, ne abbiano contestato la fondatezza o profetizzato la scomparsa, la pena, come categoria statica, ha sempre rappresentato lo specchio più fedele delle faticose tappe della civiltà umana, registrandone i cosi ed i ricorsi, i progressi e le regressioni. E per la sua polivalenza, essa ha subito, e continua a subire, a seconda dei tempi, tipi di società e regimi, utilizzazioni diverse come pure strumentalizzazioni politico-ideologiche. Le sue origini sembrano ricollegarsi ad un superamento della vendetta privata per soddisfare non più un semplice istinto ma una esigenza di giustizia e di difesa sociale.
E attraverso i passaggi della Lex Talionis e delle forme più barbare e rozze, in cui trionfano forme di violenza dell'uomo sull'uomo, ma costituenti pur sempre un progresso rispetto all'incontrollata ed istintuale vendetta privata, è pervenuta alla moderna dosimetria dei mali, alle attuali fasi di razionalizzazione ed umanizzazione ed alle trasformazioni in atto, con tutti i passaggi, altresì, della sua esecuzione attraverso le diverse ritualità: dalla pubblicità ammonitrice dopo un processo segreto alla segregazione dopo un processo pubblico ai ricollegamenti con la realtà sociale esterna.
Sempre aperto è il problema di fondo della politica criminale: perché si punisce? A quali pene conviene fare ricorso? Quali sono quelle che meglio garantiscono il contenimento della criminalità?
Il problema del fondamento della pena è tra i più dibattuti della nostra disciplina.
Il dibattito non è limitato alla scienza penale ma viene affrontato, prima ancora, in ambito filosofico.
Le prime indagini di cui si abbia notizia sono quelle dei presocratici e da allora non c'è stato quasi pensatore che non si sia pronunciato al riguardo.
Le teorie sulla funzione della pena si distinguono tradizionalmente in teoria della retribuzione, teoria dell'emenda e teoria della prevenzione.
Per le teorie retribuzionistiche, compendiabili nell'assunto che il bene va ricompensato con il bene ed il male con il male, e per questo denominate anche "del corrispettivo", la pena è una ricompensa, è un valore che trova in sé la sua ragione e giustificazione.
Essa è il malum passionis quod infligitur ob malum actionis (U. Grosso), cioè il corrispettivo del male commesso, e viene applicata quia peccatum est, a cagione del reato commesso e come tale è affittiva, personale, proporzionale, determinata e inderogabile.
Questo criterio generale comprende due aspetti diversi: la retribuzione morale e la retribuzione giuridica.
Per i seguaci della retribuzione morale, il cui maggiore rappresentante può considerarsi Francesco Carrara, il cui frutto legislativo è rappresentato dal codice italiano del 1889 (il c.d. Codice Zanardelli, dal nome del Guardasigilli dell'epoca), la pena è un'esigenza etica ed inscindibile della coscienza umana da porre in essere per punire il reo. Una concezione, questa, che postula una sudditanza necessaria nei confronti del sistema giuridico, regolatore dei diritti penale e premiale.
Un imperativo categorico (Kant) che giustifica la pena realizzando un'idea di giustizia attuabile attraverso la retribuzione.
La sanzione si legittima nella concezione filosofico-illuministica dell'uomo come soggetto in grado di autodeterminarsi attraverso il libero arbitrio: allorché le sue condotte propendono verso atteggiamenti antisociali ed illeciti, deve essere adeguatamente punito.
Per la retribuzione giuridica la pena trova fondamento all'interno dell'ordinamento giuridico; il delitto è la ribellione del singolo alla volontà della legge e come tale esige una riparazione volta a riaffermare l'autorità statuale.
La teoria emendativa è frutto di una lunga tradizione. Già enunciata da Platone (per il quale la pena era "medicina dell'anima") ed affermata anche nel Digesto, ove è riportata la celebre massima del giureconsulto Paolo (poena constituitur in emendationem hominum), ha avuto non pochi fautori, tra i quali Roeder, apostolo appassionato, il quale ha vestito la pena di una funzione educativa e disciplinare, in grado di trasformare il reo, indisciplinato e sovversivo, in un elemento cooperante nella vita sociale.
Le dottrine dell'emenda partono dal presupposto che l'esecutore materiale di illeciti perseguibili penalmente, dimostra di essere proclive nella commissione di azioni criminose. Al fine di prevenire la ricaduta nel delitto occorre procurare il suo ravvedimento: è necessario migliorarlo, correggerlo (per questo la teoria dell'emenda viene anche denominata teoria correzionalista).
Conseguendo tale risultato, lo Stato assicura la conservazione ed il progresso del consorzio civile perché argina quel triste flagello sociale che è la criminalità.
L'ultima via della lotta contro il crimine si concentra sulla teoria della prevenzione, generale se incentrata nell'azione diretta a distogliere la generalità dei consociati dalla commissione di reati, speciale se diretta verso il singolo.
La teoria della prevenzione generale (o della intimidazione), sviluppatasi sulla scia dell'ideologia illuminista, attribuisce alla pena un fondamento utilitarista in quanto strumento per prevenire i delitti e distogliere i soggetti dal compiere atti criminosi mediante l'efficacia intimidatrice che è chiamata ad esercitare.
"Sia perché non si riconosce allo Stato il compito sovraumano, proprio della giustizia divina, di commisurare il castigo al male, sia perché la pena rappresenta un grave onere per la collettività, essa non può essere usata che per ragioni di "necessità pratica" attinenti alla conservazione ed allo sviluppo della vita associata. Consistendo in un male proporzionato al piacere conseguibile con il reato, la pena agisce psicologicamente come controspinta rispetto al desiderio di procurarsi quel piacere, che costituisce la spinta criminosa. E tale funzione essa svolge sia nel momento in cui è minacciata, sia nel momento in cui è applicata ed eseguita, in quanto perderebbe ogni efficacia intimidatrice per il futuro una pena minacciata ma non effettivamente applicata. L'inderogabilità della pena è, perciò, un corollario anche della prevenzione generale, come pure una certa adeguatezza della stessa. Si è, invero, obiettato che, assegnando alla pena uno scopo intimidivo, si dovrebbe giungere alla conclusione che le pene debbono esser il più possibile dure e crudeli. Ma in verità viene oggi respinta l'antica e grossolana teoria del castigo esemplare, per cui l'effetto di trattenere gli individui propensi al delitto si otterrebbe mediante pene severe ed anche crudeli, da eseguirsi per quanto possibile pubblicamente. E la stessa esperienza insegna che solo una pena equa ed umana, non terroristica e crudele, può assolvere il compito di prevenzione." [2]
La prevenzione speciale è una conquista relativamente recente che ha la funzione di neutralizzare il pericolo che il soggetto cada o ricada nel reato: si punisce ne peccetur.
Essa opera, essenzialmente, in previsione di un processo di riadattamento del soggetto alla vita comunitaria mediante l'eliminazione o l'attenuazione dei fattori che hanno determinato o favorito la commissione di illeciti.
"Le varie teorie peccano tutte di assolutezza. La retribuzione e la prevenzione generale ignorano la realtà dei soggetti che cadono o ricadono nel delitto nonostante la minaccia del castigo e la sua concreta esecuzione. La prevenzione speciale dimentica, a sua volta, i soggetti che non abbisognano di una vera e propria opera rieducativa, nei confronti dei quali la pena non può avere che una funzione retributivo-dissuasiva. La teoria della retribuzione morale trova, poi, il proprio limite nel fatto che l'imperativo morale di punire l'autore del male non vale rispetto ai reati che non possono ritenersi in contrasto coi postulati dell'etica. La teoria della prevenzione generale trova il proprio limite nell'effettività della pena, per cui, di fronte all'aumento della criminalità o della cifra oscura si dovrebbe pervenire o al terrorismo penale o alla rinuncia della pena."
Recentemente si è arrivati ad una posizione di compromesso: la polifunzionalità della sanzione penale, attesta la necessità di perseguire sia la funzione retributiva della pena che quella rieducativa, in adempimento all'art. 27 della Costituzione.
Le origini del finalismo rieducativo della pena, nonostante sia una conquista relativamente recente dell'ordinamento previgente, sono da rintracciare, quasi paradossalmente, nelle origini delle riflessioni proprie della natura dell'uomo.
L'indagine sul fondamento intrinseco del diritto punitivo, sulla giustizia del magistero penale, è fondamentale e ineliminabile, nonostante la varietà delle soluzioni, i contrasti, i dubbi e le oscillazioni cui dà luogo.
La prima soluzione apparsa al pensiero umano, la più ovvia per la mente primitiva, è quella teocratica. Il potere, sia esso statuale o meno, punisce per l'autorità conferita dal divino; se il delitto contrasta le legge celeste, il potere di Dio non può esimersi dal punire, per mano dello Stato, qualunque sia il suo rappresentante, l'audace violatore. Il diritto è la trasposizione del volere della divinità, il magistero penale eterno. E' questa la concezione che circola nelle primissime legislazioni, in quelle società autocostituentisi in cui il potere supremo dettava le sue leggi attraverso manifestazioni naturali con lo scopo di punire ma anche di emendare l'azione umana.
Il graduale abbandono delle premesse teologiche o divinatorie implica una profonda mutazione, la più ampia, della dottrina in senso umano e il frammentarsi in più teorie: da quelle fondate sull'identificazione di diritto e forza per cui lo stato punisce perché è il più forte, alle altre contrattualistiche che, presupponendo lo Stato fondato su un tacito o espresso accordo fra i consociati, sostengono che nei termini del patto viga un diritto da tutti concesso all'autorità costituita contro chi eventualmente viola le stesse leggi consentite. Ricorrono a tal proposito per le une il nome di Hobbes, per le altre i grandi giusnaturalisti, da Grozio a Thomasius.
Più strettamente giuridica e largamente diffusa è la dottrina che vuol vedere la ragione della pena nell'erroneità della posizione in cui si trova chi viola il diritto.
Se lo stato è il tutore dell'ordine giuridico, anzi secondo alcuni l'ordine giuridico stesso, se l'ordine esige la subordinazione dei soggetti, chiunque vi si opponga, violi l'ordine, non può non incontrare la restaurazione dell'ordine turbato, poiché ad esso incombe la custodia di questo. Qui la questione apparentemente s'inquadra nei termini del giure positivo. In realtà implica l'esame della sua intrinseca autorevolezza.
Solo dimostrando la giustizia dell'ordine giuridico, giusta ne appare altresì la tutela nel magistero penale.
Nella relazione al codice del 1889 del Ministro Guardasigilli Zanardelli il fine della rieducazione è più volte richiamato: "E' tutto ciò che si ispira sempre all'alto e vero concetto della legge penale.che non ha soltanto ufficio di intimidire e di reprimere, ma eziandio di correggere e di educare"; ".interessa che la giustizia penale sia più correttiva che coercitiva.".
Anche nel Regolamento generale per gli stabilimenti carcerari del 1° febbraio 1891, riecheggia questo motivo e lo puntualizza in alcune disposizioni che si rinvengono, per esempio, dove si menziona "la riforma orale dei detenuti" (art. 46) e dove a tale scopo è fatto "obbligo precipuo al direttore di mettere ogni suo studio nel conoscere il carattere morale dei detenuti." (art. 67).
Nonostante questa sincera preoccupazione rieducativa, però, gli istituti penitenziari continuarono a mantenere un ruolo squisitamente custodialistico, soprattutto per la mancanza di personale pedagogicamente preparato.
La relazione al Regolamento del 18 giugno 1931 sancisce che "l'Italia.ha consacrato nel suo codice penale un sistema dell'esecuzione delle pene detentive.che.segna altresì la necessità che il regime carcerario serva alla rigenerazione del condannato.". Coerentemente con la relazione, il testo riecheggia di continuo il fine rieducativo (es. artt. 227 e 228).
Con la promulgazione della costituente si vuole sottolineare i principi di umanizzazione delle pene e di rieducazione del reo. All'art. 27 si legge, infatti: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato".
Al di là dell'efficacia espressiva, il concetto di rieducazione è ancora fortemente connesso alle risultanti di azioni mosse nel campo dell'istruzione, del lavoro, .cui il detenuto è sottoposto in modo più o meno obbligatorio, nella convinzione che un'imposizione della regola di vita e di un complesso di abitudini di per sé "bonificanti" non mancherà di dare, con il passare del tempo, buoni frutti.[4] A ciò si accompagna un trattamento penitenziario basato sul c.d. "modello medico"; all'esperto in camice bianco viene affidato il compito di guidare operazione rieducativa dei detenuti con la finalità di ricercare le cause criminogenetiche collegate al comportamento delittuoso.
Gli anni che precedono l'ultima guerra ribaltano la situazione, affermando in modo massiccio il concetto di trattamento come terapia di riadattamento sociale; un lungo percorso culturale che svestirà il carcere della sua immagine custodialistico-manicomiale.
Si ravvisa, dunque, l'idea secondo cui nessuno può essere rieducato dal semplice contatto fisico con una serie di attività ed esperienze positive, ma tutto dipende dal modo in cui il soggetto è disposto a vivere ciò che gli viene proposto.
L'esercizio del potere e l'agire politico, in particolare, devono assoggettarsi ad un giudizio della coscienza morale di chi lo compie. Una sottomissione che non può limitarsi ad un atto personale ed interiore, data l'insuperabile fallibilità umana.
Se si delegasse questo giudizio alla sola coscienza umana di chi esercita il potere, questo diverrebbe assoluto. E' essenziale, invece, che il potere si sottometta ad un'istanza marcata da una valenza etica e morale che nell'esaltazione della sua pienezza, rimanga ancorata al senso di giustizia sociale che deve essere assicurato, per diritto, alla collettività.
Nell'attribuzione di castighi e pene, le istituzioni preposte a giudicare ed a punire gli uomini che si rendono colpevoli, macchiandosi con la commissione di azioni criminose, possono incorrere, consapevolmente o meno, in situazioni ritenute ingiuste. Le pene che una società infligge sono sofferenze e mali che vanno attentamente e sapientemente ponderati e commisurati al sistema di giustizia. In questo caso l'organo giurisdizionale non si limita alla considerazione del male commesso dal colpevole ma deve rispettare il bene che egli, in quanto uomo, continua ad essere.
Se è vero che nessuna società umana può rinunciare al male della sofferenza inflitta come strumento di difesa, punizione e correzione, è vero, però, che l'atto dell'infliggere una sofferenza deve essere rigidamente disciplinato ed umanamente moderato.
E' questo il percorso della civiltà occidentale che, eliminate le torture fisiche, le punizioni corporali e la pena di morte, si volge verso un'accezione legislativa umanizzante, su un sistema carcerario maggiormente attento ai bisogni psico-fisici di quell'individuo che vi permane per un periodo di tempo più o meno lungo e sulla possibilità di rientrare nel sistema collettivo.
Il sistema penale, dunque, si preoccupa non solo di punire, ma anche di offrire al reo la possibilità di reinserirsi nella società e di ripensarsi in termini nuovi come uomo e come cittadino.
Diversi modelli di applicazione della giustizia, dunque, si sono succeduti, influenzati non solo dal mutare degli orientamenti filosofici e di ricerca, ma anche dai cambiamenti politici che hanno contribuito alla loro affermazione o declino.
Il percorso di umanizzazione del diritto penale apre oggi le porte ad una nuova logica sanzionatoria improntata su un intervento che vuole coinvolgere, per la prima volta, le vittime del reato.
Il paradigma riparativo, per dirla con le parole di G. Mannozzi, si offre come la sfida del nuovo millennio. [5]
E. Durkheim (1858-1917) è considerato il padre della sociologia come scienza. Per D. oggetto della sociologia non è più la società intesa come un tutto o un sistema organico, ma "le società particolari che nascono, si sviluppano, muoiono indipendentemente l'una dall'altra". Di qui la preoccupazione di definire il "fatto sociale"in modo non metafisico, attraverso l'osservazione, la quale consente di concepire i fenomeni sociali come suis generis, essenzialmente perché sono irriducibili alla semplice interazione tra gli individui.
Si pensi al termine "bonifica umana", usato nel 1941 come titolo di un'opera documentaria ufficiale sulle attività dell'Amministrazione penitenziaria che appare, sotto questo profilo, esemplare. Cfr. DI GENNARO-BONOMO-BREDA, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Giuffrè Editore, Milano, 1984, pag. 398.
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