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Il lento percorso evolutivo della pena detentiva, da mero strumento punitivo a cardine rieducativo del sistema sanzionatorio, ha conosciuto una tappa fondamentale nella nascita della figura dell'educatore per adulti, affermatasi, nel panorama penitenziario, con la legge di riforma dell'Ordinamento Penitenziario del 26 luglio 1975, n. 354, in particolare con l'art. 82, come diretta conseguenza della nuova concezione di trattamento in ambito carcerario.
In realtà, alcune testimonianze[1] documentano la presenza di una componente educativa in tempi più remoti, tracciandone un profilo operativo e attitudinale: "Essere educatori è la vocazione di ogni uomo, è una funzione che fa parte di ogni individuo, come un mezzo di pienezza di vita. Ma naturalmente non tutti sono adatti, per motivi diversi, a divenire degli educatori efficaci, soprattutto nel campo penitenziario, uno dei più difficili e meno conosciuti".
Appare quanto mai evidente che il possesso di adeguati atteggiamenti sovrasti la professionalità basata su competenze e conoscenze specifiche. Il "funzionario delle carceri" non è dunque un mestiere ma una vocazione che guida ad occuparsi dell'altro.
E' quanto mai essenziale sottolineare che l'organo deputato alla ricostruzione di un'identità sociale ed al graduale percorso di risocializzazione della persona ristretta nella comunità, non rappresenta un soverchiante strumento di giudizio, metro probo ed infallibile assunto al ruolo di fustigatore che percuote i corpi quanto più fonte di peccato. In realtà le professionalità coinvolte lavorano per la promozione del soggetto, per il suo rientro in società attuando la moderna concezione di trattamento promossa dalla riforma.
Il primo titolo della legge sull'ordinamento penitenziario e la prima parte del regolamento di esecuzione sono dedicati al "trattamento penitenziario" (che rientra nella prospettiva della rieducazione essendo diretto a promuovere un processo di modifica degli atteggiamenti ostativi ad una costruttiva partecipazione sociale) ed alle sue modalità: attorno al concetto di trattamento si è costituita una vastissima letteratura che ne ha fatto punto di partenza di ogni ipotesi rieducativa, arricchendo la formula usata dalla Costituzione all'art. 27. Qui, infatti, si manifesta soprattutto la volontà di respingere ogni tipo di violenza, fisica o psichica, che possa essere inflitta al detenuto, anche attraverso condizioni generali di vita penitenziaria non rispettose della dignità umana, mentre la legge di riforma intende il termine trattamento, al di là di questa accezione, anche in riferimento all'insieme di interventi rieducativi necessari al fine del reinserimento sociale dei detenuti e degli internati. In questo senso era già interpretata la nozione di trattamento nelle regole minime dell'ONU e del Consiglio d'Europa, dove, accanto all'indicazione delle condizioni di vita penitenziaria necessarie per assicurare il rispetto della dignità e dell'uguaglianza tra i detenuti, si sottolineava l'esigenza che il trattamento fosse finalizzato a creare nel condannato e nell'internato la capacità di autodeterminarsi ad agire e ad operare nel rispetto della legge.
Ispirandosi a tali precetti la legge di riforma dell'ordinamento penitenziario fa del trattamento lo strumento cardine per la rieducazione dei detenuti.
Il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria (D.A.P.), dopo l'istituzione delle aree educative o del trattamento negli Istituti Penitenziari, ha avvertito la necessità di elaborare un bilancio sulla situazione previgente, definendone complessivamente l'organizzazione ed il funzionamento.
Già nel maggio del 2001, con una circolare amministrativa, si era dato impulso al rilancio e all'istituzione di dette aree educative constatando la loro mancata istituzione o un funzionamento inefficace ed inefficiente o comunque disgiunte ad un'ottica progettuale e spesso affidate all'iniziativa estemporanea ed alla professionalità dei singoli educatori.
L'ampio panorama penitenziario sottolinea la vasta gamma di realtà vigenti che, fatta eccezione per alcuni poli di eccellenza o, al contrario, di grave impasse, denotano la sofferenza che grava sulle aree educative nazionali. Una molteplicità di motivazioni stanno alla base di tale situazione.
Da dieci anni a questa parte la realtà penitenziaria ha subito notevoli e profonde modifiche, la cui rapidità ha impedito l'istituzione di sistemi in grado di fronteggiare la situazione e di offrire risposte palpabili alle nuove esigenze.
All'incremento della popolazione carceraria, si è associata una mutazione della tipologia di afferenti: è aumentata la percentuale dei detenuti provenienti dalle fasce più basse della popolazione, le c.d. nuove povertà, come gli stranieri, i tossicodipendenti, i soggetti con problematiche di tipo psicologico e gli appartenenti alla criminalità organizzata.[2]
Relativamente l'area educativa va sottolineato che se l'obiettivo istituzionale dell'Amministrazione è il trattamento rieducativo di ogni singolo detenuto in vista della reintegrazione sociale, non si può certamente non convenire sulla complessità delle azioni istituzionali che vengono poste in essere prima, durante e dopo l'osservazione e la definizione di un piano di trattamento individualizzato, azioni, generalmente, situate nel retroscena.
Il trattamento, riconosciuto quale cardine fondamentale della riforma penitenziaria del '75, finalizzato alla rieducazione ed alla reintegrazione sociale del reo, si fonda nell'adesione consapevole e responsabile del condannato. L'obiettivo della rieducazione non può, infatti, prescindere dall'acquisizione, da parte del singolo, di una volontà di cambiamento, nonché di una coscienza critica sulle condotte giuridiche poste in essere e sulle conseguenze che il reato ha prodotto, e, tra queste, il danno arrecato alla persona offesa.
Parlare di un rilancio del trattamento, significa restituire ad ogni singolo detenuto una propria soggettività all'interno degli istituti penitenziari e offrire delle risorse rispetto alle quali poter ricostruire, seppur lentamente, il patto di cittadinanza rotto con la commissione del reato.
Le dimensioni operative dell'area educativa sono:
lo sviluppo delle attività e dei progetti trattamentali ed il coordinamento con le risorse della Comunità esterna: l'area si struttura su due assi portanti che di fatto si intersecano vicendevolmente. Il primo riguarda la definizione, la gestione, il coordinamento e la verifica del Progetto Pedagogico dell'Istituto, che tenuto conto degli elementi del trattamento indicati dall'art. 15 O.P. (istruzione, lavoro, religione, attività culturali, ricreative e sportive), promuove lo sviluppo di attività trattamentali. Il secondo asse riguarda, invece, l'organizzazione ed il coordinamento operativo delle attività di osservazione e trattamento individualizzato. L'osservazione della personalità è predisposta per tutti i condannati ed internati, fin dall'inizio dell'esecuzione e prosegue, nel corso di essa mediante necessari aggiornamenti del programma di trattamento da attuare secondo criteri di individuazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti.
l'osservazione ed il trattamento individualizzato: il trattamento, cardine della riforma del '75, presume la definizione di un'ipotesi individualizzata per ogni condannato ed internato, il cui presupposto non può prescindere dall'adesione consapevole e responsabile del condannato stesso. Di fondamentale importanza è l'espletamento, con il sostegno degli operatori, di una riflessione critica che ogni ristretto deve sviluppare sulle condotte antigiuridiche poste in essere, sulle motivazioni e sulle conseguenze negative delle stesse per l'interessato medesimo e sulle possibili azioni di riparazione delle conseguenze del reato, incluso il risarcimento dovuto alla persona offesa.
Nell'osservazione, accanto alla componente educativa, sono chiamati tutti coloro che interagiscono o collaborano al trattamento dello stesso (gli operatori di Polizia Penitenziaria, l'Assistente Sociale, l'esperto psicologo, l'insegnante, il volontario,.) e che concorrono alla formazione del G.O.T. (Gruppo di Osservazione e Trattamento).
Distruggere senza costruire, eliminare senza sostituire, rimettere in circolazione delinquenti pericolosi in virtù di pene mitigate, di misure clemenziali, senza essere stati oggetto di trattamento terapeutico o rieducativo, senza essere sottoposti a servizi e controlli sociali, significa riformare su carta. E' il trionfo del recidivismo che si gioca in termini di tempo brevissimi.
Tutto ciò presuppone un'attenta e obiettiva valutazione della realtà e dei miti della prevenzione speciale e, in particolare, del trattamento. Se le illusioni e le delusioni dell'ideologia trattamentale hanno in gran parte disarmato le scienze criminologiche, non hanno però minato l'esigenza special-preventiva ed il solidarismo da essa espresso che non ha smesso di ricercare nuove vie in grado di sanare la situazione accidentata e di soddisfare le emergenti esigenze ad essa connesse.
Accanto al diritto della società di essere tutelata, infatti, la Nuova difesa sociale configura il diritto alla risocializzazione del reo, incentrandosi sul trattamento individualizzato, disegnato dai seguenti principi riformatori:
La constatazione che il trattamento umanizzante e risocializzante ha fallito il suo scopo di prevenzione e rieducazione (ne sono una valida giustificazione i tassi di recidiva che si registrano soprattutto negli ultimi anni) giustifica la sua crisi in un sistema plurale di ragioni.
Gli interventi di socializzazione sembrano risentire di una crisi di principi che si giustifica in una forte carenza di basi scientifiche e metodologiche, in quanto le scienze antropologiche non offrono basi sicure in ordine alla diagnosi criminologica, alla prognosi sulla pericolosità, all'individualizzazione del trattamento idoneo; la presenza di una certa quota di individui soggetti a certe anomalie della personalità spesso influenzate dalle situazioni ambientali e familiari, scarsamente modificabili, ricadranno, presumibilmente, in condotte criminali anche quando gli ordinamenti penali si ispireranno ai più moderni criteri di trattamento. Previge, inoltre, una categoria di soggetti devianti che non hanno bisogno di un trattamento risocializzante e rieducativo, in quanto l'adesione a determinati sistemi criminali è una ribellione nei confronti della legge, il cui valore è pari a quello offeso dal reato. Alcuni indirizzi contestatori giocano sul diritto dell'individuo di poter giocare il ruolo sociale che più gli aggrada, anche quello del delinquente; in questo caso la rieducazione si profilerebbe come un disvalore nei confronti della libertà individuale.
Si rende necessario rilevare anche la crisi dello stato assistenziale, della carenza di organico deputato all'adempimento della funzione rieducativa della pena. La diminuzione e/o mancato incremento delle presenze degli educatori palesa lo stato di deficit che incombe nell'area educativa; appare, così, evidente come la componente educativa sia numericamente del tutto inadeguata a fronteggiare lo stato di sofferenza vigente nelle carceri italiane, in cui la popolazione detenuta raggiunge, se non addirittura supera, le 56.000 unità.
Una rimeditazione critica del paradigma rieducativo, che salvi ciò che di personalisticamente e solidaristicamente valido resta dell'idea di prevenzione speciale, deve dissipare il controproducente equivoco semantico, che identifica la sanzione penale con il trattamento (il quale non va generalizzato ma circoscritto a determinate categorie di soggetti, quali i casi psichiatrici ed i recidivi reiterati) da un lato, e la risocializzazione con l'umanizzazione (in quanto questa è necessaria alla prima ma non la esaurisce) dall'altro.
A ciò si associa una non meno importante crisi di attuazione pratica dal momento che la risocializzazione su larga scala richiede non solo l'impegno finanziario, organizzativo, sociale-solidaristico e scientifico ma presuppone una società consensuale, di solida moralità e coesione collettiva, solidamente ancorata a fondamentali valori, fortemente organizzata ed efficiente.
La giustificazione della risocializzazione è, infatti, direttamente proporzionale al carattere consensuale ed inversamente proporzionale a quello conflittuale della società che, in quest'ultima accezione, tende a rinunciare ai principi umanizzanti e risocializzanti del trattamento, tornando a ristabilire, quale unica alternativa, la pura repressione e quindi il castigo ed il carcere afflittivo.
La collaborazione fra le parti sembra costituire oggi la dimensione ontologica che spinge al miglioramento.
Si lavora per raggiungere il reinserimento sociale di detenuti ed internati; si lavora per modificare la personalità del reo in senso eticamente valido e socialmente congruo, per rimuovere tutto ciò che ha contribuito a causare il comportamento criminoso, per dotare il reo della capacità di adeguarsi al minimum etico-giuridico-sociale, per rendere favorevole la prognosi di un suo reinserimento nella società. E ciò nel rispetto della sua dignità ed individualità.[3]
L'universo policromatico che popola, assieme ai soggetti detenuti, l'istituzione carceraria, ha contribuito a sfatare il mito della galera come luogo angusto e impietoso, dimostrando che, gli strumenti offerti dall'area trattamentale (scuola, lavoro, attività ricreative e culturali, .) non solo sono in grado di incentivare la creatività e le abilità del singolo ma anche di dimostrare a chi sta fuori che le persone ristrette riescono a servirsi della loro originalità per essere artigiani di se stessi.
"La rieducazione. Esiste davvero. Davvero il carcere a volte la favorisce. Nonostante se stesso, nonostante l'assenza o la superficialità imbelle o la viltà dei suoi programmi.
Grazie all'orrore, alla tracotanza, all'assurdità, alla sofferenza, alla meschinità, alla disperazione che infligge metodicamente. La verità è che i prigionieri sono i soli rieducatori di se stessi, quando ne trovano la forza, quando ne portano già in se la forza. Quella rieducazione riguarda solo loro, l'anima di ciascuno. La società, parola solenne e usurpata, ed i suoi incaricati, hanno, in realtà, un solo diritto: riconoscere o ne se colui che è stato impegnato costituisca ancora una minaccia attuale per il proprio prossimo (.).
Monitoraggio effettuato con la collaborazione dei Provveditorati regionali (nota DGDT n. 206626 del 13.05.2003).
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