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L'affettività quale diritto inviolabile




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L'affettività quale diritto inviolabile       Il riconoscimento dell'affettività
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L'affettività quale diritto inviolabile


Il riconoscimento dell'affettività in carcere, nell' accezione inclusiva dell'esercizio della sessualità, va iscritto nel tema più generale dei diritti inviolabili della persona, ai sensi dell'art.2 della Costituzione: gli spazi di intrattenimento ed espressione delle relazioni sociali e affettive, vanno garantiti al detenuto quale fattore imprescindibile dell'identità di ognuno, ovvero quale diritto incomprimibile in quanto costitutivo della dignità umana.

La negazione di questo diritto, può certamente peggiorare le già precarie condizioni di vivibilità del carcere e disumanizzare la pena, contravvenendo allo stesso dettato costituzionale.

Ai sensi dell'art.27 comma 2 Cost. "le pene non possono consistere in trattamenti carcerari contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato".

La realtà è tuttavia diversa. La pena detentiva, nelle condizioni e nei luoghi in cui si svolge, è oggettivamente contraria al senso di umanità e finisce per ostacolare, invece che favorire, il reinserimento del detenuto.

Il carcere non comporta soltanto la perdita della libertà personale, ma altresì l'afflizione extra legem della sospensione dei rapporti umani: a lungo andare questa deprivazione si

ripercuote sul rapporto di coppia, sui figli, su ogni altra relazione affettiva.

Gli effetti sono pertanto rovesciati rispetto ai propositi costituzionali. La normativa penitenziaria, pur riconoscendo il valore dei rapporti affettivi sui quali dovrebbe fondarsi lo stesso trattamento rieducativo (art.15ord.penit.), in realtà non garantisce quel complesso di relazioni, spazi, opportunità per l'esercizio del diritto all'affettività che sono fondamentali per motivare, sostenere e responsabilizzare una persona.

La famiglia di un detenuto, soprattutto se appartenente ad una fascia economicamente disagiata, soffre un danno non soltanto relazionale: la detenzione di un congiunto significa spesso anche perdita dell'unica fonte di reddito, senza contare i disagi delle spese che tale situazione comporta tra avvocati, mantenimento del recluso e costi delle visite. Ancor più grave, tuttavia è il processo di stigmatizzazione che coinvolge il nucleo familiare, provocandone l'emarginazione sociale: "l'ansia e l'incertezza per il futuro caratterizzano la vita delle famiglie dei detenuti, anche a causa del rifiuto sociale di cui spesso sono vittime."

I legami affettivi costruiti all'interno di questi circuiti d'isolamento, sono molto labili e più esposti allo scioglimento, soprattutto quando il periodo di carcerazione è lungo.


L'unica possibilità di contatto con i familiari ammessa dal legislatore, è il colloquio in carcere. Tuttavia, considerando le modalità concrete in cui avviene, tale incontro non rappresenta di certo una soluzione sufficiente a mantenere una relazione affettiva.

Il quadro che si presenta al momento dei colloqui è, infatti, drammatico:

per incontrare un parente recluso, i familiari devono spesso percorrere l'Italia in lungo e in largo; il principio di vicinanza del luogo di detenzione alla residenza del nucleo familiare, sancito dall'art.30 ord.penit. è, in realtà, frequentemente disatteso per problemi strutturali ed

organizzativi. Seguono file interminabili all'ingresso del carcere, lunghe attese all' interno

dell' istituto - anche 2 o 3 ore - , e umilianti perquisizioni personali. L' incontro avviene

infine, per un'ora soltanto, in sale fredde e spoglie, gremite di gente e bambini stanchi e innervositi per i disagi subiti. In tali condizioni è già molto avere la forza di parlare, senza

contare l'emozione, la paura e il forte imbarazzo.


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