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La subcultura carceraria: definizione e cause




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LA SUBCULTURA CARCERARIA: definizione e cause


dott.ssa Ileana Barchi

Si è visto nel precedente capitolo che l'individuo è considerabile come un soggetto operante all'interno di un ambiente specifico; egli, trovandosi in un contesto di interazione con esso, avrà una sua rappresentazione della situazione, la quale influirà sulla sua risposta comportamentale[1]. Inoltre, il prodotto dell'adattamento del soggetto allo specifico contesto situazionale, come già detto, è definito come cultura.

Nello specifico, la subcultura carceraria[2] è dunque "l'insieme degli atteggiamenti, delle consuetudini, dei valori, dei comportamenti e delle rappresentazioni che contribuiscono a realizzare la realtà nella quale vivono ed operano gli attori sociali del carcere, siano essi detenuti o operatori" . Si analizzerà allora, e ciò sarà l'argomento trattato specificatamente in questo capitolo, il codice comportamentale dei detenuti, la loro cultura materiale, l'etica, le dinamiche relazionali che i detenuti intrecciano tra di loro e con l'istituzione carceraria, la comunicazione formale e informale, il significato che assumono i gesti e i rituali apparentemente insignificanti, i processi di esclusione e le gerarchie che si istaurano tra i reclusi, le regole non scritte vigenti all'interno di un penitenziario, le strategie e gli espedienti di sopravvivenza, i fenomeni della tossicodipendenza e dell'immigrazione visti nel loro rapporto con il carcere.

Lo studio della vita nelle istituzioni totali restrittive permette di vedere ciò che le persone fanno per sopravvivere, in quanto l'esistenza è scarnificata fino all'osso[4]. Come spiegato nel precedente paragrafo, infatti, nelle istituzioni totali - quale è la realtà carceraria - l'autonomia dell'azione viene violata ; a ciò si somma la realtà specifica del carcere, che di per sé comporta una serie di effetti collaterali, in quanto istituzione altamente destrutturante, tendente ad infantilizzare soggetti la cui personalità è già molto spesso caratterizzata da un io fragile: nelle parole di un detenuto , "(è) un processo all'interno del quale, in modo più o meno patologico, si rimane o si ritorna ad essere bambini. Lì c'è sempre chi decide per te: fai questo, fai quello, questo sì, questo no, questo si vedrà ".

Riassumendo, il carcere esercita un'azione deresponsabilizzante e spersonalizzante, frustra ogni iniziativa: tutto viene delegato all'istituzione.

Qual è la reazione dei detenuti a questo meccanismo? Come reagiscono essi a tali restrizioni? Costruendo una nuova realtà sociale, un proprio codice a difesa della propria soggettività violata, ma anche dell'identità di gruppo attraverso una funzione coesiva fra i detenuti. In questo modo, infatti, essi riescono a sentirsi padroni di se stessi[7]: "Per crescere, per non piegarsi a quell'infantilizzazione galoppante, a quella desocializzazione che rincorre e rincula a ogni standard di prisonizzazione, (il carcere) deve diventare uno spazio, sì, di privazione della libertà, ma anche e soprattutto un micro-gruppo ove tentare di ritrovare e ricostruire se stesso" . Imporre un'attività significa dunque imporre un mondo; evitare un'imposizione è evitare un'identità .

I primi studi sulla cultura della comunità carceraria, come già accennato nel precedente paragrafo, si fanno risalire al sociologo Clemmer[10], all'epoca dipendente della prigione in cui ebbe luogo la ricerca, il quale analizzò - attraverso interviste approfondite, questionari ed osservazioni - l'atteggiamento dei prigionieri verso la società rispettosa delle leggi; tuttavia il lavoro si interruppe con la guerra mondiale.

Con il dopoguerra, però, i lavori su questa tematica ripresero, soprattutto negli anni sessanta, e tutti convergevano su un punto: che le situazioni di sofferenza create dal carcere - la privazione della libertà personale, di beni e servizi usuali, delle relazioni eterosessuali, dell'autonomia e della sicurezza nei confronti degli altri detenuti - favorissero l'adozione di meccanismi di difesa contro il sistema: avere una cultura comune protegge dalle pressioni dell'ambiente.

Si crea così un'organizzazione informale all'interno di un'altra formale. La cultura dei detenuti diventa così una comprensibile reazione di difesa[11], difesa anche dalla società libera, oltre che dall'istituzione carceraria. I detenuti semplicemente reject their rejectors, rifiutano cioè coloro che li hanno rifiutati, piuttosto che se stessi . Il meccanismo di difesa sembra confermato da un detenuto , che lo considera una possibile causa della mancata risocializzazione che molto spesso accompagna la detenzione: "secondo me, se vogliamo cambiare in meglio il carcere, dobbiamo per prima cosa liberarci da una certa mentalità, che consiste nel sentirsi in contrapposizione con le istituzioni" .

Ovviamente il nuovo codice si mostra indifferente ai codici vigenti nella vita ordinaria, proprio in ragione della necessità del detenuto di escludersi dal tessuto di quel mondo che lo ha escluso e recluso[15]. Considerata in quest'ottica, la subcultura carceraria renderebbe quindi impossibile, o quanto meno estremamente difficoltoso, ogni tentativo di recupero sociale, in quanto anche la mitigata asprezza del regime detentivo non sarebbe sufficiente a placare l'ostilità . Il senso di ingiustizia e di amarezza verso il mondo esterno, infatti, fa sì che il detenuto possa cominciare a giustificare il reato compiuto , anche se prima della carcerazione non l'aveva mai fatto, decidendo allora di "far pagare caro l'ingiusto trattamento subìto in prigione, e alla prima occasione favorevole, di vendicarsi con nuovi crimini" . Un detenuto conferma questa dinamica: "La disciplina a questo fine non serve a nulla, le punizioni possono anche peggiorare chi le subisce: la vendetta genera vendetta". Si badi bene che non è "l'indignazione dell'innocente perseguitato . ma quella del colpevole il quale sente che la punizione che lo ha colpito va oltre ciò che merita, e che gli viene inflitta da chi non è certamente privo di colpe" : nelle inequivocabili parole di un detenuto , "loro avrebbero voluto fa' i delinquenti e invece se so' buttati dall'altra parte . So' tutti storti, e poi vonno fa' tutti quanti i puliti, i moralisti . Che significa che cor tesserino e co' la divisa, vai dentro lo sfascio a pigliatte lo sportello della macchina e nun lo paghi? Perché? Te chi . sei che nun lo paghi? Perché tu sai che quello taja le macchine e allora lo puoi ricatta'? E vai là pe' non pagallo? E allora sei un delinquente come me, anzi sei peggio, perché tu usi pure la divisa, perché nun c'hai er coraggio de fa' quello che faccio io. I delinquenti autorizzati . ".

L'ex direttore del carcere di San Vittore, a Milano[23], conosce bene queste dinamiche e le utilizza per relazionarsi meglio ai detenuti: "io parto dal discorso che molte volte è questione di fortuna non trovarsi dall'altra parte. Soltanto riuscendo a capire gli altri, non giudicando, non mettendosi sull'altare della moralità, capendo che in definitiva ognuno di noi un po' di trave nell'occhio ce l'ha, riesci ad avere un minimo di comunicazione empatica. Poi c'è l'aspetto professionale che ti deve far distaccare un po', per evitare di essere coinvolto".


Il codice di comportamento informale in carcere spesso è anche funzionale al soddisfacimento di bisogni immediati, oppure, caso frequentissimo, serve ad imporre un potere alternativo a quello esercitato dall'istituzione, per affermare una identità culturale contrapposta ad essa[24]: in questo caso allora il codice può diventare il mezzo per legittimare violenza e discriminazione.

Tali regole tendono comunque a essere difese dal substrato carcerario: "O le accetti, e sei integrato nella comunità, oppure le rifiuti, e sei il disturbatore, una persona da emarginare"[25]. È una dinamica evidenziata anche da un altro detenuto : rispettare le regole di questa cultura "ti porta alla qualifica di bravo ragazzo, che è un termine che vuol dire tutto e niente, ma se non sei ritenuto tale, sei tenuto fuori per precauzione da tutte le iniziative collettive, anche di socializzazione".

Dal momento in cui il processo di spoliazione dell'istituzione agisce sull'internato, indebolendo la relazione che egli ha con il proprio , dunque, è il sistema di privilegi che gli fornisce una struttura su cui fondare la propria riorganizzazione personale[27]. Si assume così un'identità di conversione, che può anche rappresentare la presa di distanza dalla precedente identità pubblica: una dissociazione dalle convinzioni etiche, morali, politiche, religiose o comunque ideologiche in precedenza acquisite .

È una risposta frequente nelle situazioni estreme[29], che fa organizzare la parte dissociata intorno ad un nuovo nucleo di credenze: il soggetto assume come proprio il giudizio che dà lo staff su di lui e su tutto l'ambiente circostante; si adatta alla vita istituzionale, che diventa, da quel momento, l'unica per lui possibile : "ti abitui a vivere in un modo che non è il tuo, ed è l'unico modo per sopravvivere ad un sistema che ti ha assorbito e non puoi fare a meno di essere parte di esso" .

Spesso l'assunzione della nuova identità è sottolineata dall'adozione di un nuovo nome - più spesso di un soprannome - con il quale si viene chiamati. Nel libro Radio Bugliolo[32] è riportato l'episodio di un agente di polizia penitenziaria che chiama per cognome un detenuto a colloquio con l'avvocato, il quale però, pur essendo presente, non risponde alla chiamata; un altro detenuto se ne accorge e lo avvisa: "A Braciola! . Nun te chiamavi te Maritto?! Maritto nun era er cognome tuo?". Da notare la coniugazione del verbo al tempo imperfetto, quasi che il cognome, dunque l'identità sociale predentiva, non appartesse più al soggetto.

Tutto ciò, come già visto[33], è diretta conseguenza della prisonizzazione: "il senso di appartenenza a questo mondo è sempre molto forte, soprattutto quando si parla di omertà, reati da disprezzare, rapporto con le istituzioni, ma il fatto che si riesca a parlarne sempre più liberamente e senza tanti pregiudizi è il segno che la situazione è viva, e che neanche il carcere, per quanto chiuso e isolato possa essere, riesce a congelare le capacità critiche", puntualizza ottimisticamente un detenuto .


Nell'impossibilità di una reale sottrazione a questa realtà mortificante, il detenuto crea così mondi di senso, universi di segni in cui proteggersi e tentare una riunificazione delle parti dissociate intorno ad una nuova identità. Questi altrove non sono totalmente creazioni ex novo: essi sono costruiti dai detenuti anche attingendo dai simboli pre-detentivi, e spesso coincidono con la cultura delinquenziale di provenienza. Il codice carcerario in questo caso ne mutua simboli e comportamenti: esso, in quest'ottica, sarebbe un fatto sociale che ha la sua origine nella società esterna - secondo quanto indicato da Sutherland con il principio dell'associazione differenziale[35] - ma che nel carcere assume forme particolari.

Tuttavia "ci sono elementi . che invece restano immutati: . nella cultura del carcere sono importantissime le strategie di sopravvivenza in generale, non quelle legate all'identificazione del detenuto con il suo ruolo nell'ambito criminale[36]".

"Molte di quelle norme svaniscono appena si è fuori dal carcere", "nascono dietro le sbarre e parzialmente lì restano", è l'opinione di altri detenuti[37], ma vi è il rischio non remoto che l'adattamento si trasformi in una dipendenza, nel senso che è probabile che il detenuto smarrisca il senso del sé anche in chiave futura, oltre che passata, e che quindi non riesca a progettare se stesso al di fuori dell'ottica carceraria. Egli infatti potrebbe non vedere che questa tecnica ha solo la funzione di alleviare la sofferenza, e la potrebbe assumere come risorsa nelle sue interazioni nella società libera: l'identità dissociata, costruita per far fronte alla reclusione, andrebbe a coincidere con l'identità tout-court. L'eventuale cambiamento di contesto verrebbe in questo modo rifiutato, poiché distrugge il mondo-rifugio in cui ci si è rinserrati . Infatti, una volta riacquistata la libertà, uno dei pericoli per il detenuto può essere quello di andare incontro al cosiddetto fenomeno di decompressione: Aleksàndr Solzenicyn ritiene che chi ha sopportato i lager come se fosse d'acciaio, si è poi disintegrato per l'incapacità di gestire, nel nuovo contesto di libertà, le dinamiche dissolutive delle operazioni di dissociazione compiute durante il periodo di compressione reclusiva .

La temporaneità dell'adozione della cultura detentiva è un aspetto affrontato anche dal sociologo americano Stanton Wheeler, il quale si occupò di confermare le affermazioni di Clemmer attraverso un questionario che sottopose ad alcuni detenuti. Dai dati emerse che i detenuti aderivano alla subcultura carceraria in maniera crescente dal momento della loro carcerazione, che poi gradualmente abbandonavano con l'approssimarsi del proprio rilascio. L'andamento a campana, o a curva di Gauss, è propria di ogni dinamica di adattamento all'ambiente, ma nel caso del carcere l'andamento non è mai perfetto: i detenuti non perdono mai completamente gli atteggiamenti, gli usi e i valori che condividevano con gli altri reclusi, e poiché molti vengono incarcerati più volte, si può forse descrivere la prigionizzazione come una sorta di spirale, seguendo la quale il detenuto resta sempre più invischiato nella cultura carceraria[40].





Il teorema di William Thomas enuncia: "L'individuo agisce in funzione dell'ambiente che percepisce, della situazione alla quale deve far fronte. Egli può definire ogni situazione della vita sociale attraverso la mediazione dei suoi atteggiamenti preliminari che l'informano su questo ambiente e gli permettono di interpretarlo". Alla considerazione si giunge anche alla luce della Field Theory di Kurt Lewin, secondo cui il comportamento è funzione della persona e del suo ambiente, in K. LEWIN, op. cit., 1972: " . il comportamento (C) è funzione della persona (P) e dell'ambiente (A), ovvero C = F (P,A).

Si adotta il prefisso in quanto la si intende subordinata alla cultura dominante, quella della cosiddetta società libera.

Così anche G. DI GABALLO, "Etnografia del carcere: il caso di Borgo San Nicola. Tra rappresentazione sociale ed estetica" ne Il Dubbio, rivista di critica sociale, pubblicata su internet all'indirizzo https:// www.spazioinwind.libero.it/ildubbio, n. 3, 2002.

cfr. E. GOFFMAN, op. cit, 1968.

ibidem.

Gianni Stoppelli, testimonianza raccolta da N. SANSONNA, per il "Centro Documentazione Due Palazzi", settembre 2004.Quest'ultimo nasce nella Casa di Reclusione di Padova alla fine degli anni novanta. Ne fanno parte la redazione di Ristretti Orizzonti, il gruppo di Rassegna Stampa, l'Ufficio Stampa - Centro Studi. Vi partecipano circa 60 detenuti di diverse etnie e culture. L'Ufficio Stampa - Centro Studi, nato nel 2000, è un punto di raccordo con le istituzioni e di informazione di servizio nel carcere e fuori, e redige mensilmente un Rapporto sulle proprie attività, che viene inviato agli enti locali ed agli uffici dell'amministrazione penitenziaria ed a è disposizione di quanti lo richiedano. Le ricerche realizzate dal centro sono state anche raccolte in un cd rom.

cfr. E. GOFFMAN, op. cit., 1968.

A. SOFRI, "Il dopo-partita nell'oria d'aria", in Repubblica.it del 9 giugno 2002.

cfr. E. GOFFMAN, op. cit., 1968.

D. CLEMMER, op. cit., 1940

T. MATHIESEN, Perchè il carcere, Torino 1996.

L.W. McCORKLE, R.R. KORN, "Resocialization within Walls", in The Annals, CCXCIII, 1954. I due sociologi appartenevano all'amministrazione penitenziaria della prigione di stato del New Jersey, uno con l'incarico di direttore dell'istituto, l'altro come direttore del programma di educazione e di counseling.

F. MORELLI, "Chi entra in carcere da emarginato uscirà da escluso", Ristretti Orizzonti, cit., gennaio 2002.

Questa motivazione si riflette poi nella tendenza, da parte dei detenuti ma anche dei malavitosi in generale, a risolvere determinati problemi attraverso mezzi che non siano conformi a quelli della società in generale: ad esempio, quasi nessun criminale denuncerà alle autorità l'autore di un altro reato, in quanto questo è in contrasto con il proprio sistema valoriale, ma magari lo denuncerà alle vittime di quel reato - se ignare - o ai malavitosi che hanno il controllo di quella zona - in quanto propri punti di riferimento - . È il classico concetto di giustizia fai da te.

R. CURCIO, cit., 1998.

L.W. McCORKLE, R.R. KORN, op. cit, 1954. L'argomentazione verrà ripresa nelle conclusioni.

Meccanismo di difesa chiamato intellettualizzazione o razionalizzazione - di cui si parlerà anche nel par. 3.4 - che consiste nel "parlare dei propri conflitti realisticamente, per evitare i sentimenti ad essi associati", quali ad esempio il senso di colpa o la vergogna.

E. GOFFMAN, op. cit, 1968.

Manlio F., in A. RIZZO, cit., 1995.

E. GOFFMAN, op. cit., 1968.

Roberto, testimonianza raccolta in via diretta il 30 ottobre 2004.

Leggasi: "smonta auto rubate per rivenderne i pezzi".

Luigi Pagano, direttore del carcere di S. Vittore, intervistato nell'ambito del programma di canale 5 Maurizio Costanzo Show, puntata "Il lavoro nobilita", maggio 2004.

Si può allora in questo senso parlare più di controcultura che di sottocultura carceraria, in quanto essa si contrappone alla cultura generale della società civile. Stefano Bentivogli, detenuto intervistato per il presente lavoro il 19 novembre 2004, parla invece di cultura vera e propria, "perché in questo caso l'ambiente a cui è riferito è talmente chiuso e diverso dagli altri da farne un mondo a sé: non bisogna dimenticare che in carcere c'è gente che ci ha trascorso o ci trascorre quasi tutta la vita; quello diventa il loro mondo ed al suo interno, col tempo, i bisogni creano una sovrastruttura che si può definire cultura a pieno titolo".

F. MORELLI, op. cit., 2002.

Nicola Sansonna, intervistato nell'ambito di questo lavoro il 19 novembre 2004.

E. GOFFMAN, op. cit., 1968.

R. CURCIO, cit., 1998.

N. VALENTINO, Ergastolo, Roma 1994.

E. GOFFMAN, op. cit., 1968.

Davide e Livio, "Ricomincio da zero, con l'articolo 21", in Uomini Liberi, mensile della casa circondariale di Lodi, pubblicato su internet all'indirizzo https://www.uominiliberi.org n. 1, luglio 2003. Dell'elemento maschera si parlerà nel par 3.7.

S. FERRARO, CHITO, Radio Bugliolo, Roma, 2002. Dal libro è stato tratto anche uno spettacolo teatrale.

cfr. par. 3.2.

Stefano Bentivogli, cit.

cfr. E.H. SUTHERLAND, D.R. CRESSEY, Criminologia, Milano 1996.

Stefano Bentivogli, cit.

Bianco, detenuto intervistato da G. DI GABALLO, op. cit., 2002; Stefano Bentivogli, cit.

R. CURCIO, cit, 1998.

A. SOLZENICYN, Arcipelago Gulag, 1918-1956: saggio di inchiesta narrativa, Milano, 1995.

cfr. T. MATHIESEN, op. cit., 1996.

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