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"È possibile parlare di moralità con riferimento a chi ha inflitto - ma anche subìto - violenze e umiliazioni di ogni tipo?" si chiede un detenuto[1].
Quella che nell'ambito della malavita è chiamata morale, è spesso la difesa di una particolare cultura che distingue tra reati accettabili e reati inaccettabili, tra persone degne di rispetto e persone da disprezzare[2]. In carcere la pratica criminale è sostituita dalla sua spiegazione e giustificazione, il crimine viene teorizzato . Questo fenomeno assume diverse forme: se non ci si considera colpevole del proprio reato, di chi sarà la colpa? "Ci si commuove (per le storie raccontate) e si scopre che tutti i detenuti non sono colpevoli ma che il vero colpevole è il giudice" , ma anche il sistema, la famiglia che si ha alle spalle, gli infami senza moralità che hanno tradito: "la filosofia malavitosa trova nel carcere uno spazio privilegiato per svilupparsi in tutte le sue sfumature" .
Succede quindi che nel carcere si crei una gerarchia di valori, in base alla quale i detenuti sono suddivisi in una serie di sottocategorie, e che alcuni crimini provochino sentimenti di rifiuto anche tra i criminali stessi, detenuti o meno.
Tale dinamica si può spiegare grazie ad alcune teorie: il detenuto tende a valutarsi positivamente per difendere la propria autostima[7], e tale favoritismo può anche riguardare l'intero gruppo di appartenenza . Ciò accade anche perché generalmente quando un soggetto pensa di far parte di un gruppo, ritiene che i membri condividano le sue stesse caratteristiche , e, poiché sono a lui simili, non possono che essere migliori degli altri", migliori cioè di una massa "anonima con delle determinate caratteristiche" . Tale meccanismo consente di far derivare ai soggetti, dal confronto quotidiano tra i gruppi, la propria autostima per luce riflessa .
Questo fenomeno sembra dunque accomunare detenuti e società libera: alcune delle dinamiche discriminatorie, proprie dei liberi, che si cerca di combattere, sono infine comuni anche tra i ristretti.
Un'altra spiegazione plausibile è il sentimento di rivalsa, in quanto "è umanamente difficile accettare di essere gli ultimi" [12]: i detenuti percepiscono di appartenere, infatti, ad una delle ultime categorie sociali, anche perché molti di loro la occupavano anche prima della detenzione. A ciò si addiziona la percezione di non padroneggiare completamente il proprio corpo, il proprio destino e le proprie scelte.
Per compensare queste auto-percezioni, i detenuti creano dunque delle categorie di reato e assegnano ad esse dei giudizi di valore in base a determinate caratteristiche personali e sociali: "questo dà modo, ad ognuno, di farsi una propria graduatoria di candidati alla forca: nulla a che vedere con la giustizia, ma tanto basta per sentirsi migliori, distinguendoci da chi riteniamo peggiore di noi"[13].
Una sequenza dello speciale "Il mestiere di vivere. Rebibbia G8" mostra a tal proposito due detenuti che, riferendosi ai vari reati, stilano una sorta di classifica, adducendo le motivazioni più varie: "(Hai commesso) un furto? E me dici niente?! . Hai fatto un furto ad un poveraccio, che ha lavorato un'intera settimana, per i figli, e tu per andare a rubare gli hai tolto ai figli", e l'altro, tra lo scocciato e l'incredulo: "Io ho preso un motorino per andare a giocare avanti e indietro con i ragazzi, ma ch'hai capito?! Un motorino, mi sono preso! Io mi sembrava che facessi a 'e giostre, nella mia mente, per fare la passeggiata . Quella è una cosa che tutti i ragazzi c'avevano il motorino e io non ce l'avevo, stavo sempre a piedi" [14]. E ancora: "(In riferimento al gioco delle tre carte) Però io non faccio male a nisciuno: sono loro che vengono da me".
Sempre riguardo alla vittimizzazione, un detenuto[15] specializzato in rapina a mano armata in banche, uffici postali ed autoblindi, si giustifica così: "Io personalmente me so' andato a prende i sordi dello Stato, nun ho danneggiato nessuno", mentre "il sequestro . è brutto come reato . vatteli a prende a 'n artro modo, i sordi . Nun me piace che te te vai a prende 'na persona, la privi della libertà, te la leghi, la incateni, e la tieni 'n anno, poi se la vendono . a 'n'artra batteria . nun è bello".
E ancora un altro[16]: "Non ho mai ammazzato, ferito, colpito un innocente, una persona fuori del nostro giro. Sarebbe stata un'infamia. Tutto è avvenuto all'interno del mondo che avevo scelto, secondo le regole che ci eravamo dati".
Una dichiarazione di Renato Vallanzasca[17] conferma il meccanismo: "non c'è più rispetto, non c'è più senso dell'onore . Noi avevamo un codice deontologico: per esempio non ho mai sparato per primo. Non mi aspetto che la gente mi dica bravo e mi stringa la mano, perché comunque ho ammazzato, ma almeno c'erano delle regole".
Ciò accade anche perché qualsiasi attore sociale, per la propria commissione di atti spregevoli, tende a dare più peso alle circostanze esterne - le situazioni che si vengono a creare, il background socio-culturale, il comportamento degli altri, la causa di forza maggiore - , mentre attribuisce motivazioni interne alla genesi delle azioni degli altri - la cattiveria, la meschinità, la stupidità, la vigliaccheria - [18].
La differenziazione tra detenuti, per quanto governata da regole discutibili, è comunque la base del codice, che si analizzerà in alcuni dei suoi punti più salienti nei vari paragrafi.
Uno dei criteri di classificazione dei detenuti, ad esempio, è quello giuridico: i criminali professionisti godono di una certa rispettabilità, mentre i dilettanti e ancor più i delinquenti casuali sono tenuti poco in considerazione. In base a questo criterio di classificazione, dunque, si trattano i diversi reati: alcuni godono di maggiore considerazione, mentre altri vengono stigmatizzati.
A tal proposito, un detenuto riferisce ad esempio che "se tu hai fatto 'na rapina a un tabaccaro sei 'no scemo . Io facevo 'e rapine all'uffici postali, ai furgoni blindati, contavo insomma, no? Tu sei 'no scemo. Ma io dentro al carcere nun è che nun te considero, eh . Se sei un bravo ragazzetto, parlo co' te, mangio co' te, però so' più considerati i professionisti". Questo fenomeno, come si vedrà nel par. 3.11, è la base del fenomeno di emulazione che rende il carcere una palestra del crimine.
Altri criteri di separazione sono invece le condizioni personali, come la zona di provenienza, la cultura, lo stato di salute, le preferenze sessuali[19].
"Bisognerebbe guardare avanti", propone un detenuto, "senza necessariamente cercare, consolandosi, di scorgere indietro qualcuno peggiore di noi". Effettivamente si instaurano dinamiche per cui "in alcune situazioni lo straniero è considerato inferiore all'italiano e lo zingaro inferiore a tutti, il tossicodipendente inferiore a chi non lo è, l'omosessuale al transessuale e questo all'eterosessuale, e così via, all'infinito, in modo ci sia sempre qualcuno inferiore ed ognuno possa costruirsi una sua personale classifica", conclude un detenuto[20].
Per quanto riguarda il criterio di discriminazione morale, lo stupro è il reato che incontra la totale e unanime riprovazione della comunità detenuta, ma anche "i magnaccia e altri simili personaggi"[22], sono ugualmente ghettizzati : ciò determina a volte situazioni paradossali, "per cui succede, ad esempio, che un detenuto responsabile dell'uccisione dell'ex fidanzata sia accettato dai compagni, mentre se l'avesse soltanto violentata sarebbe considerato un infame, da relegare nelle sezioni protette. Ciò dipende forse dal fatto che nelle vittime di questi reati ognuno identifica i propri cari, o vi vede le persone più deboli e indifese come donne e bambini": tra i delinquenti comuni e tra quelli appartenenti alla criminalità organizzata, infatti, c'è una forte attenzione per la famiglia , ora ancora più importante in quanto sostegno nella detenzione, "però, se ci pensiamo, ogni tipo di reato potrebbe colpire le persone a noi vicine, o noi stessi, dall'omicidio, alla rapina, al furto, al ricatto, e allora perché questi non provocano la stessa reazione?" è la coerente domanda che si pone un detenuto .
C'è infatti sempre come una nota stonata in questi commi del codice carcerario.
A questa tentazione di giudicare senza appello non sfugge nessuno, "e in questo agenti della polizia penitenziaria e detenuti sono in pieno accordo"[26]. Ovviamente questi soggetti saranno difesi dai primi, perché la legge non consente linciaggi o discriminazioni, ma saranno altrettanto detestati: alle motivazioni emotive bisogna infatti aggiungere che gli agenti del custodiale in servizio nelle sezioni differenziate, percepiscono l'assegnazione di tale sezione come "atto punitivo nei loro confronti, e sminuente la propria professionalità" .
Oggi le strutture sono diverse e negli istituti penitenziari, si comincia ad imporre una nuova mentalità di legalità, mentre un tempo queste persone subivano ogni tipo di violenza, a volte addirittura pagavano con la stessa vita il proprio reato. "Io me ricordo, 'na vorta", racconta un detenuto[28], "'e guardie, te lo dicevano loro Guarda, quello ha fatto così e così. Io vado giù e me vado a fa' er caffè . Fate voi", "in una sommaria quanto sacrosanta giustizia", prosegue idealmente un altro detenuto in una lunga dichiarazione: "la violenza sui pedofili è l'unica forma di violenza che ci verrebbe perdonata in nome di una pericolosa cultura della vendetta. Questa concezione vendicativa è prerogativa, in assoluto, dei familiari delle vittime, che nella loro disperazione hanno il diritto sia di perdonare sia di chiedere vendetta . Non so perché tale diritto alla vendetta spesso deve impropriamente acquisirlo chi non è in questa condizione di emotività particolare, e addirittura persone che hanno, nella loro vita, lasciato una scia di sangue nel commettere i loro delitti e fatto precipitare nella disperazione tante famiglie. È un atteggiamento molto ipocrita, sbagliato, pericoloso, un modo per nascondere le loro miserie e contraddizioni", commenta argutamente, "si potrebbe affermare che spesso, anche in carcere, i più accaniti sostenitori di verità assolute e di particolari valori, si sono poi, nella prova dei fatti, dimostrati esattamente il contrario: ho visto colpire e ferire tante persone da parte di quei bravi ragazzi che successivamente hanno con opportunismo e freddo calcolo tradito per convenienza, loro sì infami.
Attualmente le cose sono un po' cambiate, ma il disprezzo nei confronti di persone accusate di reati infamanti è rimasto immutato. Forse sono mutate le risposte di vendetta, considerate le varie convenienze legate ai benefici carcerari che condizionano il comportamento di tante persone in carcere".
Probabilmente in questi giudizi entra in ballo anche la percezione del detenuto che ha di sé come un soggetto forte e virile[31], dunque il sex offender è visto come un soggetto debole che non è capace ad intrecciare una relazione sana - cioè con una donna - e di non essere in grado di avere rapporti sessuali consenzienti: in sostanza non è ritenuto un soggetto capace di misurarsi con gli altri uomini .
Un'altra spiegazione potrebbe essere il meccanismo messo in atto da ogni gruppo sociale: quello dell'emarginazione delle cosiddette pecore nere[33], comportamento che consente alla comunità di sottolineare agli altri gruppi - in questo caso la società esterna o, più in generale, quella onesta - la positività dell'ingroup dei detenuti .
Comunque, quale che sia la dinamica sottostante al processo di esclusione di questa categoria di reclusi da parte della comunità carceraria, al fine di evitare una sorta di giustizia sommaria tra detenuti[35], quasi sempre ispirata alla pena del contrappasso, nella maggior parte degli istituti di pena vi sono delle particolari sezioni destinate alla reclusione dei soggetti cosiddetti protetti: tra questi, oltre ai sex offenders, vi sono anche i collaboratori e gli ex collaboratori di giustizia, gli ex appartenenti alle forze dell'ordine - i quali, tra l'altro, non si ritengono simili agli altri detenuti - , e a volte i transessuali.
Tutti questi soggetti non hanno momenti in comune con altri detenuti, non prendono parte alle iniziative e manifestazioni istituzionali, hanno una ridotta libertà di movimento rispetto agli altri - non vi è possibilità, per esempio, di frequentare la biblioteca, di trovare un lavoro - . Si preferisce isolarli, soprattutto per la salvaguardia della loro incolumità, ma anche perché, nel caso degli autori dei delitti a sfondo sessuale, per essi non sono predisposti adeguati strumenti trattamentali, quali cure psichiatriche e psicologiche mirate; ciò invece si renderebbe necessario, visto che l'origine del loro reato è patologica per la maggior parte dei casi: il rischio di recidiva è molto forte e la probabilità che dopo l'esperienza carceraria tali reati siano perpetrati con maggior aggressività non è remota.
C'è dunque una fitta schiera di ghettizzati i quali che vivono un rapporto con la detenzione ancora più problematico e senza nessuna concreta possibilità di avere un reale percorso di reinserimento sociale.
La moralità è anche il motore del fenomeno della solidarietà carceraria: manifesta o sotterranea, a volte è l'unico modo per mitigare le sofferenze della detenzione, in quanto spesso supplisce alla mancanza di reti di solidarietà familiari. La famiglia di origine, o quella acquisita, è il faro del detenuto per tutta la durata della sua detenzione, essendo il suo sostegno affettivo ed economico: "sono stato quasi cinque mesi (dall'ingresso) senza mai sentire (i figli), adesso li sento regolarmente al telefono, e già questo mi ha dato . quell'equilibrio e quella serenità . difficili da avere invece nei mesi precedenti, quando tutto era legato ad una lettera, che a volte arrivava e a volte non arrivava" constata un detenuto[36].
I detenuti vivono la detenzione con senso di colpa rispetto ai propri familiari, che considerano le ennesime vittime dei propri gesti, e ciò è più evidente nelle donne - soprattutto quando sono madri, e se a maggior ragione se i figli sono in carcere con loro - e nei tossicodipendenti: "il mio più grande desiderio è di essere accanto a mio padre e mia madre . perdere mio padre comunque sapendolo che va via e lasciarmi in una condizione buona", confessa un detenuto tossicodipendente[37].
Un altro[38] parla della vergogna: "Hanno dovuto cambia' casa pe' la vergogna, mo' so' io che me vergogno".
Molti invece danno senso ai propri affetti proprio attraverso al detenzione; un detenuto[39] confessa: "Io mi sono accorto qui che il bene che voglio ai miei figli è quello che provo adesso, quello che provavo fuori era probabilmente un surrogato, perché se avessi veramente voluto bene loro, non li avrei messi nelle condizioni di venirmi a parlare in un parlatorio di un carcere . Quest'esperienza mi ha fatto capire molte cose, soprattutto quanto mi mancano gli affetti".
Tuttavia spesso il detenuto è destinato a non ritrovare il mondo affettivo e relazionale che lascia all'esterno del carcere, dunque a volte paradossalmente il carcere si trasforma nell'unica famiglia che gli rimane. La rete di sostegno diverrà a questo punto l'istituzione con i suoi attori sociali: detenuti, agenti di polizia penitenziaria, operatori. Una sequenza dello speciale "Il mestiere di vivere. Rebibbia G8" mostra una conversazione, a tratti tragicomica, tra alcuni agenti e un detenuto[40]: "Ma se tu anche ti dassero 'o permesso, ma 'n dove andresti, eh?", e il detenuto prontamente: "Dal prete", e loro: "Ma il prete sta qua a Rebibbia tutti i giorni; tu nun c'hai un domicilio, nun c'hai niente, che ce vai a fa' fori? Danni? Vai a fa' qualch'altra truffa? Nun c'hai familiari, nun c'hai amici . Qua, vedi: c'hai amici, amici fino a un certo punto . C'hai chi t'accudisce, che la notte, vedi . noi vegliamo sul tuo sonno . Fori chi te guarda? Vai a dormi' sotto i ponti?". Al detenuto non resta che prendere atto mestamente di questa situazione.
Ecco che il carcere, per molti detenuti, diventa "una grande famiglia", come riferisce un Ispettore di polizia penitenziaria[42], a volte l'unica che egli abbia. Anche il cappellano del carcere romano di Rebibbia, nella sua omelia in occasione della Messa di Natale, sottolinea questo aspetto del carcere: "Natale è qualcosa di più della famiglia, perché poi la famiglia è quella che si adotta. E noi stasera siamo qui venuti, da varie parti del mondo e dell'Italia . non eravamo una famiglia, ma se poco poco ci adottiamo a vicenda, noi siamo una famiglia" .
Numerose gli episodi che ogni ristretto può riferire a riguardo; un detenuto[44] ad esempio racconta: "Mi è successo di stare in cella con un ragazzo che non aveva più nulla ed era stato anche abbandonato dalla famiglia. Per aiutarlo, gli avevo comprato un paio di scarpe, dei biscotti, una tuta. Un giorno sono arrivato in cella e piangeva come un bambino perché l'avevano chiamato liberante, ossia la sera stessa di quel giorno l'avrebbero fatto uscire dal carcere. Piangeva perché non sapeva dove andare una volta uscito, non c'era nessuno che lo potesse ospitare".
Ancora un'altra testimonianza[45] che mostra come la rete all'interno del carcere spesso supplisca quella familiare: "L'aiuto l'ho trovato con i miei detenuti . le persone che mi assistono. Ho sentito l'affetto che non ho sentito fuori, questa è la vera cosa. Per me, i miei compagni di sventura . sono signori".
Spesso sono le famiglie dei vari detenuti a fornire una rete di supporto a quei ristretti che non ne posseggono di proprie; il figlio di uno di loro[46] racconta a riguardo: "Noi in genere a papà je portavamo le cose cucinate pure pe' quando stava in cella. In genere se ne portava sempre un po' de più per chi magari non ce l'aveva . Se usa A meno che nun sei un cane".
Attraverso il processo di fraternizzazione[47], invece, anche persone che provengono da strati socio-culturali diversi sviluppano una dinamica di mutuo soccorso, in quanto ciò vuol dire una forza maggiore di opposizione al sistema. Un detenuto racconta di come avesse preso sotto la sua protezione un signore di una certa età, finito in carcere per alcuni reati legati agli scandali di tangentopoli. "C'era una persona grande . Che ne sa questo de la galera? Era incredibile! Sbagliava 'na cosa appresso all'altra! Che ne so, passavamo davanti a le celle e se metteva a guarda' dentro . E quelli: Aò, che c'hai da guarda'. Ma che stai a fa'? La conta?, e io: Cammina avanti, ma che fai? Te metti a impicciatte?, ma quello che ne sapeva? Devi passa' nel corridoio, dritto, regolare. Nun se guarda dentro 'e celle così come stai a fa' te . Perché la cella è come una casa, è una cosa privata, nun te puoi mette a sbircia'. La guardia fa così, no? Fa la conta, e controlla".
Gli altri detenuti "se ne volevano approfitta'", si sentivano in diritto "di fargli la prepotenza, di pigliarlo a male parole, di farlo soggetto[48]", e questo recluso aveva sentito il dovere di proteggerlo: "Perché lo vedevo come mi' padre . Anziano, un signore che nun c'entrava (niente) co' quer mondo. Nun me pareva modo de prende così 'na persona . Nun aveva fatto niente. Aveva fatto (gli affari suoi), si vabbe', ma a chi aveva fatto male, in finale? Ma poi perché te la devi prende con lui?".
Alla fine è sempre la stessa storia: "Che c'è sempre qualcuno peggio de te . E questo perché era un pezzo de legno[49]. Lui se non avrebbe trovato a me, non so come ne sarebbe uscito . Forse molto più a pezzi de come sta adesso, perché quello nun era er mondo suo". Quel signore gli fu poi riconoscente, come spiega con orgoglio: "Prima de usci' . m'ha dato . l'orologio della moje che era morta, e m'ha detto: Io voglio che quando esci tu mi vieni a cercare . Prendite questo . Tu lo sai quanto ci tengo io a quest'orologio. È un pegno: me lo ridarai quando ci rivedremo. Sappi che per qualunque cosa fuori, io pe' te ce sto sempre". Il carcere, in questa occasione, ha annullato miracolosamente una distanza socio-culturale difficilmente colmabile nella società libera.
A volte gesti di solidarietà avvengono in un terreno fisicamente delimitato, come un reparto o un padiglione, i cui abitanti percepiscono di costituire un'unità, di avere un destino comune[50]. Vi sono poi unità ancora più piccole, come le frequentissime coppie, nelle quali ognuno dei due componenti trova un sostegno e un'intimità affettiva e relazionale che possa dare l'impressione di essere ancora uomini normali che vivono in un posto normale.
Nelle parole di un detenuto[51]: "A volte penso che sia anche questo che dia fastidio (agli altri ristretti), il fatto che noi siamo riusciti a trovare un dialogo, riusciamo a parlare anche di altro". Il formarsi di coppie e gruppi può essere comunque osteggiato dall'istituzione in quanto potenzialmente eversivo.
Moltissime e varie le forme di solidarietà che si mettono in atto tra i compagni di detenzione: una sequenza dello speciale "Il mestiere di vivere. Rebibbia G8", mostra un detenuto durante l'ora d'aria avere un momento di assenza - prende abitualmente psicofarmaci, come del resto moltissimi detenuti - e i compagni del momento pronti a soccorrerlo, a tranquillizzarlo cercando di minimizzare l'accaduto per evitargli l'imbarazzo: "Facci fuma' 'na sigaretta, và . Può esse pure 'sto tempo che fa 'sti scherzi . Poi te faceva pure male la testa, nun è niente de particolare, nun te preoccupa'".
Nell'ambito dello stesso speciale una sequenza mostra una scena veramente toccante: i detenuti più robusti che portano in braccio i loro compagni - costretti sulle sedie a rotelle - per permettere loro di entrare in chiesa ad assistere alla Messa di Natale[52].
A volte tali gesti sono legati ai grandi temi che coinvolgono la detenzione, quali l'amnistia, o l'ampliamento dei benefici previsti dalla legge Gozzini, o il miglioramento delle condizioni di detenzione: ad esempio a seguito della rivolta dei detenuti che si verificò il giorno di Natale del 1980 nel carcere speciale di Trani, e della conseguente richiesta di risarcimento danni da parte delle Stato a carico dei detenuti ivi coinvolti, i ristretti del carcere romano di Regina Coeli hanno indetto una colletta a favore dei rivoltosi. "I detenuti stanno annotando ciascuno il proprio nome, il numero di matricola e di conto corrente interno, e la somma da versare alla colletta per risarcire i danni. Chi offre dieci euro, chi cinquanta, qualcuno di più, ma il carcere è dei poveri e novemila euro sono tanti", è l'amara constatazione di un recluso[53].
Alcune volte invece gesti di solidarietà possono assumere altri significati: ad esempio "contrabbandare cibo ed altri generi di conforto nella cella di chi è stato messo in isolamento, può essere visto non solo come atto caritatevole, ma come un modo di dividere, associandovisi, lo spirito di colui che si è opposto all'autorità"[54].
Quello della solidarietà è dunque un tema molto sentito dai detenuti: non a caso per essere considerato un bravo ragazzo in questo ambiente, oltre alla regola fondamentale del non fare la spia, vi sono quelle di non "danneggiare in nessun modo i detenuti" e, ancora più importante, di "essere sempre a disposizione per quello che puoi con i . compagni di detenzione"[55].
In effetti il carcere può essere considerato alla stregua delle "piccole comunità dove tutti si conoscono, dove può capitare di aver bisogno di un bicchiere d'olio e di un po' di zucchero . e dove sai che quelle cose puoi procurartele solo se hai un buon rapporto con il tuo vicino; sono dinamiche di sopravivenza, giustamente definite di mutuo soccorso", è la considerazione di un detenuto[56].
L'assunto per cui non si deve in nessun modo danneggiare i compagni, si riflette nella regola per la quale non si deve assolutamente rubare: la trasgressione della stessa può comportare a volte pesanti punizioni, come nella descrizione di un detenuto[57], il quale racconta di come insieme ad altri reclusi abbia picchiato un ristretto che "nun s'era comportato bene, aveva rubato 'na bottiglia di vino . e un paio di scarpe a dei stranieri . dentro a 'n'altra cella", il che ha comportato l'immediata reazione da parte di tutti, perché "nun è che poi anna' a rubba' dentro 'n' altra cella, che sei matto? Nun esiste, ma manco 'na spilla, se lo vengono a sape' te sei fatto l'affari tua . Cioè, te sei annato a arricchi' pe' (una stupidaggine)".
Una pratica consueta, inoltre, è quella che prevede che "quando arriva un nuovo giunto, ci si avvicini per vedere se ha bisogno di qualcosa": un detenuto, infatti, riferendo del suo primo ingresso in cella, annota il senso di sollievo nel vedere "(i compagni che) si presentano, mi fanno il letto e non vogliono che faccia niente"[59]. Questo gesto, quasi un imperativo morale per tutti i detenuti, tuttavia a volte "è strumentale a capire se il nuovo arrivato può presentare un pericolo, per vedere chi è. Spesso in carcere nascono questioni, e se il nuovo arrivato appartiene ad un gruppo che per qualsivoglia motivo mi è stato rivale, è buona cosa saperlo prima possibile", chiarisce un detenuto .
"Perché poi in cella se parla de tutto", spiega un altro[61]: "'a cella è come 'na casa, dove per tutto il giorno stai chiuso co' questi. Che ne sai che questo nun va a riporta' quello che te sto a di' io a te? Io devo sta' tranquillo de chi sei, de chi c'ho dentro casa".
A volte lo si conosce già, altre ci si serve di "amici de amici", prosegue, ma in quel caso "te prendi la responsabilità che tu me stai a di' a me che quello è un bravo ragazzo", ma nel caso non lo fosse, "io vengo da te. È una responsabilità che ti prendi". Chiarisce: "per carità, lo mettono in cella con noi . je fai er letto, tutto quanto. Lo accogli bene, lo fai mangia' . poi però . aspettamo. Er giorno dopo, er giorno dopo ancora . aspettamo . Ce sta quarc'uno che lo conosce . Alla fine arriva".
Tuttavia, una volta accertato che il nuovo compagno non è pericoloso, si attiva il meccanismo. Nelle parole di due ristretti[62]: "Molte volte noi, che il carcere già lo conosciamo bene, andiamo anche a cercare quei ragazzi che sappiamo che hanno problemi familiari e personali, per dargli la possibilità di parlarne e di sfogarsi".
Un'altra testimonianza la fornisce la figlia di Enzo Tortora, la quale riferisce dell'ingresso in carcere del padre: "Entrò, ovviamente sconvolto . Ancora non riusciva a capire bene dove fosse precipitato, e sentì un silenzio assoluto di questi sei uomini che lo guardavano con un'aria così . di timore e di rispetto . E poi arrivò un telegramma . e c'era scritto: Noi sappiamo che sei innocente. I tuoi compagni della 16-bis"[63].
La volontà di far superare meglio ai nuovi giunti l'impatto con il carcere è testimoniata anche dall'opera dei detenuti del carcere di Padova, Due Palazzi, i quali hanno redatto un opuscolo informativo destinato a tutte le persone incarcerate - ma soprattutto ad uso dei nuovi giunti e degli stranieri - , nel quale sono fornite informazioni sull'ordinamento penitenziario e sul codice di procedura penale, oltre a molti consigli pratici sul comportamento più opportuno da tenere nelle varie situazioni che si presentano, dall'ingresso in carcere, fino all'ammissione alle misure alternative della detenzione. Questo documento verrà ulteriormente approfondito nel par. 3.8.
Ciò può essere visto come il meccanismo di difesa dell'intellettualizzazione, o razionalizzazione, di cui si è parlato in precedenza. Altri meccanismi di difesa spesso messi in atto dai detenuti sono la negazione, ovvero "la riluttanza ad accettare la realtà", e la dissociazione, che comporta l'"insensibilità emozionale" verso le proprie azioni. cfr G. ATTILI (a cura di), Il nemico ha la coda: psicologia e biologia della violenza, Firenze, 1996. Sulla teorizazione del crimine cfr. anche G. GARAVAGLIA, op. cit., 1969.
Nel gergo carcerario, l'infame è colui che ha tradito un compagno, o che ha collaborato con la giustizia - in qualunque modo - mettendo nei guai un'altra persona. Per l'esattezza tale individuo è detto infame di verbale, per distinguerlo dall'infame d'azione, denominazione che invece implica un giudizio di valore sulla personalità.
E' uno degli "errori nelle spiegazioni causali", funzionali alla sopravvivenza: si tratta dell' "errore del self serving bias di attribuzione", nel caso individuale, e del group serving bias, nel caso in cui il destinatario del favoritismo sia il proprio gruppo.
Esperimenti sui gruppi minimi - formati cioè in laboratorio con soggetti che non si conoscono, ai quali è stata solo dichiarata la ragione della loro appartenenza - hanno dimostrato che basta accorgersi di far parte di un gruppo, perché tale meccanismo si metta in atto.
Tale fenomeno è invece l' "effetto omogeneità del gruppo esterno", per il quale tutti i pedofili, ad esempio, ma anche tutti i detenuti, sono uguali agli occhi di chi non fa parte di tali categorie. cfr. G. ATTILI, op. cit., Roma, 2000.
S. ARDUINI, "Intervista a Renato Vallanzasca. La vita che non ho vissuto", Vita, rivista on line pubblicata all'indirizzo https://www.vita.it, 30 agosto 2004.
Sembra che i detenuti transessuali non vedano di buon occhio i detenuti omosessuali, li accusino di essere "schifosi e infami", e ciò è causa di frequenti pestaggi.
Sembra essere questa una caratteristica prettamente italiana: nelle carceri americane, ad esempio, lo stupro è invece motivo di vanto. Ciò può essere dovuto all'influenza dei valori della cultura malavitosa più generale al carcere, in Italia, i quali imponevano di non nuocere a donne e bambini. Valori che però, come si evince dalle cronache, sono ormai quasi ovunque abbandonati.
Il protettore era generalmente biasimato perché considerato non capace di procurarsi denaro in modi ritenuti più pericolosi, rischiosi. Un vile, dunque, oltre che un parassita, che contrastava con l'ostentata temerarietà del detenuto comune. L'aumento del numero di questi soggetti nelle carceri, tuttavia, ma anche l'evoluzione di questo reato, ha man mano ridotto tale sentimento di biasimo.
Generalmente, infatti, anche la morale comune tende a giustificare la reazione violenta di chi si ritiene vittima di una violenza, per effetto della norma sociale della reciprocità.
Il meccanismo che verrà pocanzi esplicitato è stato individuato da J. M. Marques, in G. SPELTINI, A. POLMONARI, op. cit., 1999.
Un detenuto riferisce di come in passato in ogni sezione del carcere vi fosse un gruppo di detenuti - i cosiddetti azionisti - deputati proprio a punire coloro i quali trasgredivano alle fondamentali regole carcerarie. Ciò era fondamentale per evitare il giudizio degli altri detenuti, cioè "se ve lo tenete lì vuol dire che non siete come lui o incapaci di mandarlo via". Cfr. N. SANSONNA, Ristretti Orizzonti, cit., in corso di pubblicazione.
Francesco G., trascorso ventennale da tossicodipendente, intervistato dal Maurizio Costanzo Show, cit.
Luca, detenuto intervistato per lo speciale del TG3 "Il mestiere di vivere. Rebibbia G8", puntata del 27 settembre 2004.
Da tutta la conversazione traspare una certa informalità, una familiarità di linguaggio frequente nella comunicazione tra detenuti e agenti di custodia, specie se questi ultimi sono di grado più basso. Già Goffman, in Asylums, op. cit.: "Lo staff e gli altri internati si assumono, automaticamente, il diritto di trattare intimamente, o comunque, senza la minima formalità, il nuovo internato".
Ispettore del carcere di Foggia, testimonianza raccolta dal Centro Interculturale del comune di Torino, cit.
Omelia natalizia del cappellano di Rebibbia don Sandro Spriano, raccolta da "Il mestiere di vivere. Rebibbia G8", cit., puntata del 6 ottobre 2004.
Angelo, testimonianza raccolta da "Il mestiere di vivere. Rebibbia G8", cit., del 21 settembre 2004.
Episodi e testimonianze tratti da "Il mestiere di vivere. Rebibbia G8", cit., del 27 settembre e del 6 ottobre 2004.
Testimonianza apparsa in A. STOCCO, "Regina Coeli: una colletta di 9.000 euro per risarcire i danni", articolo raccolto dall'associazione culturale Papillon Rebibbia, all'indirizzo https://www.papillonrebibbia.org, 1 Settembre 2004.
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