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1. Il concetto di mediazione culturale
Come già accennato, l'immigrazione in Italia è fenomeno abbastanza recente. "L'Italia è stata, per circa un secolo, uno dei maggiori Paesi d'emigrazione ed è solo durante la seconda metà degli anni '70 che il Paese ha iniziato ad essere meta dei flussi d'immigrazione dal Terzo Mondo e dall'Europa orientale".[1]
E' necessario quindi affrontare la questione immigrazione in modo nuovo; di fronte ad uno scenario così fortemente mutato, che vede molte famiglie di stranieri, di varie provenienze, pensare il loro progetto migratorio in senso stanziale in Italia, con lo scopo quindi, di ricostruire il proprio spazio di vita nonché centro di interessi in tale luogo, e non con una prospettiva di guadagno a più o meno breve termine, per poi tornare nel proprio Paese d'origine. Cioè viene da più parti richiamato a gran voce un mutamento d'intenti: non più una logica dell'emergenza, bensì opportune politiche migratorie finalizzate all'integrazione delle persone straniere nella società italiana in una prospettiva che sia di convivenza. Il raggiungimento di un simile obiettivo passa attraverso la considerazione delle difficoltà che una esperienza migratoria pone, nonché della fatica, e a volte del pericolo, che può scatenare il contatto tra culture differenti quando questo avviene in "assenza di agenti di mediazione tra l'esperienza precedente, del Paese d'origine, e l'esperienza del Paese d'accoglienza"[2]. Questa è appunto l'ottica in cui si sviluppa il concetto di mediazione culturale. "La mediazione culturale si fa carico di favorire una sorta di transizione culturale che impegna italiani ed immigrati, e che consente di inquadrare le nuove specificità culturali, favorisce i percorsi di reciproco scambio e promuove, sia tra gli italiani che tra gli immigrati, interventi di sensibilizzazione ed educazione alle prospettive interculturali." La mediazione è, quindi, anzitutto una creazione di un canale di comunicazione, ma fondamentalmente vuole essere una "strategia di lavoro" : cioè più che una soluzione diretta di un problema, dovrebbe divenire, in tutti i campi, una logica di intervento che ispiri le modalità dell'agire, con il fine di superare gli ostacoli nella comunicazione, intesa in senso ampio, sia per creare autonomia nell'accesso ai servizi da parte degli utenti stranieri, ma, al contempo, anche per rendere autonomi i servizi nel lavoro con gli immigrati. Tale duplice prospettiva comporta non solo il ricorso a mediatori culturali, o meglio operatori interculturali, da impiegare nei settori principali ( scuola , sistema giudiziario, sanità, servizi socio-educativi, sportelli al pubblico di vari enti ), ma anche la formazione in senso interculturale di tutti quegli operatori che per svariati motivi si trovano a contatto con l'utenza immigrata. "Il problema di farsi capire non è solo degli immigrati, ma anche degli operatori italiani: la mancata comprensione linguistica e culturale rende inefficace qualsiasi intervento da parte dei servizi e, soprattutto, rende impossibile l'attivazione della famiglia immigrata nella ricerca di soluzioni ai problemi." Naturalmente questo tipo di lavoro mira ad aumentare la capacità di integrazione della comunità stessa, al fine, si potrebbe dire, di normalizzare il fenomeno immigrazione. Attualmente, inoltre, è necessario pensare ad interventi per due differenti categorie di destinatari: non solo chi arriva ora in Italia, ma anche e soprattutto coloro che, regolarmente o no, già sono integrati nel nostro Paese: infatti anche in Italia, come del resto in tutta l'Europa, il fenomeno dell'immigrazione sta assumendo una dimensione più marcatamente strutturale, contribuendo contestualmente a mutare l'assetto della nostra società. La prima situazione richiede da parte del Paese ospitante un'agevolazione all'accesso dei servizi attraverso la semplificazione amministrativa, nonché, appunto, il ricorso a figure professionali ad hoc, quali i mediatori per rispondere ai bisogni di questa particolare utenza; la seconda, invece, pone il problema di una politica migratoria che permetta a chi risiede di acquisire una condizione giuridica che lo ponga in una situazione paritaria rispetto agli autoctoni, in un regime di effettiva eguaglianza quale quello previsto proprio dal testo costituzionale. Si è già trattato della attuale politica migratoria in Italia attraverso cenni circa le norme vigenti nel precedente capitolo, ora ci si vuole soffermare, invece, proprio sul ruolo di questo nuovo profilo professionale del mediatore, e quanto l'utilizzo di questi voglia essere una strategia possibile proprio per quell'effettivo riconoscimento dei pieni diritti della popolazione immigrata. Circa le competenze del mediatore si veda il paragrafo successivo.
Questo tipo di lavoro, in sintesi, presuppone che si voglia mirare ad uno "sviluppo della socialità e della convivialità non inteso solo come una sorta di proliferazione di feste etniche," bensì "come una pratica di cittadinanza effettivamente democratica, che persegua innanzi tutto l'interesse collettivo come rispetto dei diritti di ogni abitante del territorio".
2. La figura del mediatore culturale
La figura del mediatore ha subìto una fondamentale evoluzione: i primi corsi di formazione per "mediatori linguistico-culturali", infatti, coincidono con l'emergenza immigrazione, e questi vengono impiegati specialmente nelle strutture di prima accoglienza e negli uffici stranieri degli Enti locali soprattutto con una funzione di interpretariato. Tale esigenza è stata sentita tanto più forte a causa dell' assenza di una normativa organica riguardante gli stranieri, che in Italia è arrivata solo nel 1998, in quanto l'impiego di mediatori (soprattutto negli ambiti socio-sanitari[9]) ha rappresentato una strategia possibile di riconoscimento di alcuni fondamentali diritti, di fatto negati dall'impianto normativo. Man mano che la fase emergenziale viene superata, o meglio, che l'immigrazione comincia ad assumere caratteristiche di stabilità, cambia anche la natura degli interventi di mediazione e di conseguenza, anche il lavoro dei mediatori. Inoltre, i primi corsi di formazione vengono rivolti sia ad italiani che stranieri, con poca chiarezza circa quali funzioni dovessero svolgere, quali competenze possedere, e in quali servizi specifici operare. Attualmente, invece, è chiaro che l'azione che un mediatore è chiamato a svolgere va molto al di là del semplice interpretariato: si tratta piuttosto di una azione di decodificazione del linguaggio dello straniero per l'operatore, e dell'operatore per lo straniero, che metta in contatto due culture con il risultato di facilitare l'accoglienza e di migliorare la qualità di questo incontro. Ciò che viene messo in luce circa la funzione di questo "facilitatore", è che possa rappresentare uno strumento attraverso il quale la cultura estranea venga non solo accolta, ma compresa: "il bravo mediatore è quello che mano a mano rende superflua la propria presenza perché i due contraenti riescano a comunicare efficacemente tra loro". Una diversa nazionalità, infatti, non comporta solo una lingua diversa, bensì un codice proprio, una cultura con le proprie tradizioni e le proprie peculiarità: venire a conoscenza di questo mondo e contemporaneamente far conoscere quello che accoglie, è ciò che realisticamente può rendere possibile l'integrazione. In tal senso si parla di "operatori della comunicazione interculturale": "l'aspetto qualificante della figura professionale non è solo la conoscenza di una lingua, ma è soprattutto il fatto di avere costruito attraverso la propria esperienza migratoria un sistema di conoscenze e di saperi che vanno sviluppati e rielaborati come un insieme di competenze comunicative in ambito socio-culturale nel rapporto con le persone immigrate, trasformando le sue competenze esperienziali in professionali."
Naturalmente la lingua rappresenta la prima difficoltà di comunicazione, può parlarsi in tal senso, di primo stadio della mediazione: è necessario perciò, che il mediatore possieda un'ottima padronanza dell'italiano e della propria lingua madre (il contrario se trattasi di un italiano). Ma, come già accennato, area di intervento altrettanto fondamentale, è quella delle differenze culturali: ambito immenso che va dalla gestualità al modo di porsi, ai diversi codici della buona educazione, tutti aspetti che variano al variare dei sistemi di comunicazione e che creano difficoltà e fraintendimenti. Non ultimo, è fondamentale che chi media sia a conoscenza del sistema di norme e della burocrazia che regolano tutti i rapporti fra cittadini e servizi, in modo da favorire una connessione tra domanda dell' utente straniero e risposta dell' operatore. Tutto questo senza dimenticare che il mediatore è una specie di supporto dell'operatore, non lo sostituisce e non deve farlo, pur partecipando attivamente all'intero processo che coinvolge quali diretti interessati l'immigrato ed appunto, l'operatore. Tale aspetto comporta che il mediatore abbia delle competenze specifiche quali capacità relazionali e comunicative, ma anche caratteristiche personali che gli permettano un giusto relazionarsi ai due diversi soggetti con cui si trova ad operare, in una sorta di complessa, ma necessaria neutralità. E' da immaginare proprio come mediatore tra due contraenti: il suo compito è sì di facilitare l'incontro ma assolutamente non quello di assumere comportamenti e decisioni che restano, appunto, ai due contraenti. Anche per tali ragioni, è fondamentale che il lavoro di mediazione sia inserito in un progetto strutturato che preveda un'organizzazione ben precisa alla quale il mediatore si attiene. Ciò che risulta assai importante in questi tipi di lavori, affinché possano positivamente concludersi, è il coordinamento fra le strutture interessate, quello che dagli esperti del settore viene definito "lavoro di rete". L'ottica da assumere dunque, è quella di inserire tale figura in un sistema, di utilizzare l'operato di un professionista, preparando al contempo il luogo dove egli deve agire: questo implica anzitutto l'aggiornamento delle competenze delle figure che si trovano a contatto con l'utenza immigrata affinché possano realisticamente interagire con il mediatore. Ma questo vuol anche implicitamente significare che un tale lavoro sia progettato dalle istituzioni stesse, sia da queste seguito e coordinato in una estrema chiarezza di funzioni e compiti, per divenire logica operativa di servizio, una vera e propria innovazione nelle strategie organizzative di lavoro interne al sistema stesso. E ancor di più: "l'introduzione della figura del mediatore nell'operatività dei servizi sociali e sanitari ha messo in luce la necessità dell'integrazione con il territorio e del lavoro in rete tra i servizi, scuole e agenzie del territorio, come condizione primaria per l'efficacia del lavoro sociale con le famiglie immigrate."
2.1. Alcuni aspetti problematici legati alla figura del mediatore
Come già è facilmente intuibile dalla sommaria descrizione delle competenze di un mediatore, diverse sono le problematiche a cui va incontro chi svolge tale funzione. Il principale problema si pone a causa della mancanza di una chiara definizione professionale di questa figura, ed è tale carenza che comporta come conseguenza una serie di difficoltà. Infatti, è chiaro che una scarna definizione delle competenze che un mediatore deve possedere compromette la reale efficacia di un' azione di mediazione, sia nel senso che un mediatore si improvvisi tale, sia anche che nonostante possieda requisiti qualificanti, generi a chi vi ricorre il dubbio di una scarsa professionalità. E' anche in tal senso che si accennava al ruolo fondamentale che un coordinatore può rivestire in un progetto di mediazione: infatti, se si pensa alle conseguenze che possono darsi da una scarsa definizione di ruoli (in particolare ai confini labili tra il lavoro dell'operatore e quello del mediatore), subito si comprende l'importanza di chi, supervisionando l'operato di entrambi, aiuti a delimitare gli ambiti di competenza di ciascuno. Questo ulteriore aspetto conferma quanto poc'anzi detto circa l'esigenza di prevedere interventi di mediazione attraverso progetti strutturati e complessi, che certo non improvvisino l'operato di nessuno dei soggetti coinvolti. Comunque, al di là di un'efficace opera di coordinamento, viene sottolineata l'importanza della necessità di dare un riconoscimento di figura professionale al mediatore, che venga anche inquadrato dal punto di vista normativo, unica soluzione realmente in grado di rendere più certe e note competenze e professionalità. Solo in tal modo sarebbe possibile, infatti, legittimare la presenza dei mediatori agli occhi di utenti ed operatori, rendendo più facile e plausibile il fondamentale raccordo nel lavoro con questi ultimi. Per far comprendere quanto ciò sia importante, è il caso di accennare, come esempio, ad un contesto particolare come può essere proprio quello del carcere. In un luogo dove, per la ragione stessa della funzione che è chiamato a svolgere, vigono i principi del non contatto e del controllo, gestire la mediazione culturale diviene ipotesi realizzabile solo qualora i compiti di un mediatore possano essere chiaramente riconosciuti dagli altri operatori (si pensi a quante differenti figure, e con quanti ruoli diversificati, ruotano nel carcere: polizia penitenziaria, psicologi, assistenti sociali, etc.). Le dinamiche relazionali in un'Istituzione come questa non sono certo facilitate a nessun livello: senza una buona coordinazione, nonché preparazione professionale, tante figure diverse difficilmente potrebbero positivamente cooperare, con più probabilità si incorrerebbe nel rischio di tensioni ulteriori. Rimandando per ciò che attiene più in specifico al carcere al paragrafo successivo, quello che si vuole qui mettere in luce è che sulla base di quanto sinora sperimentato con l'utilizzo di mediatori nei vari servizi, è ancora molto il cammino da fare. Se la mediazione vuole divenire uno strumento sul quale realmente investire, i progetti attraverso i quali realizzarla devono necessariamente tenere conto delle problematiche cui si è accennato, nonché sempre più forte è sentita l'esigenza di un coinvolgimento diretto delle Istituzioni che legittimi il ricorso alla mediazione come metodo.
3. Normativa e mediazione culturale in carcere
La mediazione, ed in particolare il mediatore interculturale, fanno ingresso nella legislazione italiana, per la prima volta, nell'art.40 della L.40/'98 che, occupandosi delle misure di integrazione sociale, fa esplicito riferimento a tale figura, indicandola come uno straniero, titolare di permesso di soggiorno di durata non inferiore ai due anni, il cui compito è quello di " agevolare i rapporti tra le singole amministrazioni appartenenti ai diversi gruppi etnici, nazionali, linguistici e religiosi". Non vi sono, in tale normativa, indicati elementi più dettagliati precisi in materia.
La mediazione culturale in carcere non è istituita da alcuna legge: non esiste attualmente una previsione che imponga il ricorso a dei mediatori, né tanto meno che regoli lo svolgimento e le caratteristiche di tali interventi. L'unica previsione che riguarda la mediazione in carcere è istituita dal recente Regolamento penitenziario introdotto con DPR 230/2000, che, per la prima volta, inserisce in qualche modo la figura del mediatore. Infatti, è stato introdotto, al secondo comma dell'art 35, il principio secondo cui "deve essere favorito l'intervento di operatori di mediazione culturale, anche attraverso convenzioni con gli enti locali o con organizzazioni di volontariato" (in armonia con quanto in generale previsto dalla L.40/'98). Questo, come completamento di quanto già previsto nel primo comma dove viene specificato che "nell'esecuzione delle misure privative della libertà nei confronti di cittadini stranieri, si deve tener conto delle loro difficoltà linguistiche e delle differenze culturali".
Come si vede dal testo di legge, e come viene ribadito in più parti della trattazione, specialmente quando si va ad analizzare la concreta realizzazione di progetti di mediazione, il "favorire" è molto lontano dall'istituzionalizzare un intervento. Si tratta di una norma molto generale, di difficile concretizzazione poiché nessun ambito di essa è definito: in quale modo e con quali conseguenze si debba tenere conto delle difficoltà linguistiche, come il mediatore deve o può operare in carcere, o che tipo di azione si possa mai sperare dall'intervento dell'autorità consolare.
In assenza di una norma che introduca obbligatoriamente tale figura negli Istituti, così come avviene per altri soggetti ivi operanti, che comporterebbe quale conseguenza una chiara delineazione della figura professionale di mediatore, con competenze ben precise, anche gli interventi che concretamente si realizzano, soffrono di una certa nebulosità e sono, inevitabilmente, esclusivamente in balìa delle capacità di chi li progetta.
4. La mediazione culturale in carcere: lo sviluppo di un'esigenza
Si sono esposte in via sintetica, nel capitolo precedente, alcune problematiche inerenti al nostro sistema penale che, secondo la gran parte degli studiosi, sono responsabili della massiccia presenza di stranieri nelle carceri, di quali elementi conducano dall'esterno all'interno degli Istituti; ora, si vuole assumere la diversa ottica del "dentro" il carcere. Non pochi autori, infatti, pongono anche il serio problema delle condizioni di trattamento dei detenuti, ritenendo che nel caso di soggetti immigrati, si vedano amplificati problemi già più che presenti per tutti i reclusi. Anche nel caso del Regolamento Penitenziario, si assiste ad una equiparazione formale dei detenuti indipendentemente dalla loro nazionalità, come visto accadere per tutto il sistema penale e processuale, in quanto anche in questo caso ciò che viene in rilievo non è certo una volontà discriminatoria, bensì piuttosto la difficoltà di garantire il rispetto dei diritti ad una determinata fascia, comprimendoli più di quanto lo stato stesso di detenzione non porti già a fare. Nel paragrafo precedente si è vista l'unica norma specificamente rivolta ai detenuti o internati stranieri presente nel Regolamento e le problematiche ad essa connesse. Proseguendo nell'analisi del testo che in primis disciplina le modalità di trattamento dei detenuti, vi è un'altra norma di rilievo, nei fatti, che interessa gli stranieri. Si tratta dell'art.58 che disciplina la manifestazione della libertà religiosa, che, almeno sulla carta, è l'unico ambito garantito esplicitamente. La Direzione dell'Istituto, infatti, mette a disposizione locali idonei per professare culti diversi da quello cattolico, e "si avvale per la celebrazione di tali riti di ministri di culto indicati da quelle confessioni religiose i cui rapporti con lo Stato Italiano sono regolati con legge, si avvale altresì dei ministri di culto indicati a tal fine dal Ministero dell'Interno", secondo quanto recita l'articolo in questione. Sotto il profilo teorico, dunque, nessuna discriminazione, ma viene fatto notare[13] che il problema può essere peraltro di natura organizzativa: per fare un esempio, si consideri il periodo di digiuno del Ramadan. Tale digiuno rituale, una delle principali pratiche religiose dei mussulmani, esige che gli orari della distribuzione dei pasti siano modificati, con la conseguenza che "se la Direzione del carcere è sensibile al problema, è possibile praticare il digiuno rituale (come avviene ad esempio, a Torino), altrimenti no". E in tali casi è piuttosto superfluo appellarsi al Regolamento, in quanto ciò che da esso è previsto e garantito è il contatto diretto ed individuale con i ministri di culto.
Altre due norme che investono da vicino gli immigrati detenuti sono l'art.11 e l'art.21. Il primo, disciplinando le modalità del vitto giornaliero, al suo quarto comma specifica che "nelle tabelle vittuarie si deve anche tenere conto, in quanto possibile, delle prescrizioni proprie delle diverse fedi religiose". Il secondo invece, relativo al servizio biblioteca recita al secondo comma che "nella scelta dei libri e dei periodici si deve realizzare una equilibrata rappresentazione del pluralismo culturale esistente nella società".
Come si vede sono tutte norme che pur se sinonimo di un'attenzione che comincia a maturare verso la considerazione della multiculturalità esistente, fuori e dentro il carcere, non sono affatto sufficienti a garantire il pieno esercizio di determinati diritti per gli immigrati. Questo si riscontra in altre norme: anzitutto per ciò che attiene le informazioni che vengono date ai detenuti circa le disposizioni che regolano la vita penitenziaria, (quindi l'accesso al regolamento stesso, alle leggi di interesse ecc.), sembra poca cosa la semplice previsione della traduzione in più lingue dell'estratto delle principali norme, che ad ogni recluso all'ingresso in Istituto viene consegnato. Spesso infatti, il problema per uno straniero di comprendere determinate norme, non risiede esclusivamente nella lingua, essendo all'oscuro del tipo di cultura che tali norme sottendono, che di certo non è quella di appartenenza. In tali casi, ritorna la necessità dell'operato di un mediatore che sia in grado di spiegare contenuti espliciti e non di una qualsiasi norma.
Ancora, gli artt. 37 e 38 circa i colloqui e la corrispondenza epistolare e telefonica pongono ulteriori perplessità: spesso, infatti, ai detenuti stranieri non è consentito di avere colloqui con i parenti sprovvisti di permesso di soggiorno dato che molte amministrazioni penitenziarie ritengono di non avere altro modo per accertare l'identità e la parentela. E' chiaro che questo comporta uno svantaggio evidente, e, quantomeno nei fatti, una maggiore difficoltà per uno straniero di avere una parte di sostegno dall'esterno, nonostante l'aggravante già inevitabilmente presente dei pochi contatti posseduti. Altrettanto complessi i contatti telefonici: nel caso degli immigrati la comunicazione telefonica risulta essere un mezzo molto importante perché spesso unico modo per parlare con la famiglia che si trova spesso nel Paese d'origine, mentre nel Regolamento questo è pensato quale mezzo sussidiario ai colloqui. La complessità risiede nel fatto che è difficoltoso per la Direzione accertare che l'utenza telefonica chiamata corrisponda proprio al parente del detenuto. In molti Istituti l'autocertificazione del detenuto non viene accettata, e qualora manchi l'interprete che accerti l'identità dell'utenza chiamata, il diritto di contattare i propri parenti diviene nei fatti inesercitabile.
A questi aspetti si aggiungano anche le regole non scritte che vigono in ogni Istituto penitenziario, i rapporti con gli agenti di polizia penitenziaria, nonché le conseguenze della condizione di privazione tipica della funzione contenitiva del carcere. Chi si occupa e studia la mediazione, parte dal presupposto di tali problematiche e delicati equilibri. "Il problema è quello di trovare le strategie operative che tengano conto dei vincoli imposti dal carcere e di sviluppare e formare una serie di competenze nuove in grado di rispondere a bisogni e a modalità inedite di manifestare il disagio"[14]. In tale contesto diventa importante la presenza dei mediatori culturali come soggetti che, in quanto in grado di tradurre i codici che provengono dagli attori presenti in carcere, possano nei fatti attutire quei disagi provenienti dalla condizione di svantaggio in cui il detenuto immigrato si viene a trovare. Se il sistema quindi, è impreparato al nuovo assetto sociale presente, la trasformazione di cui necessita può solo avvenire per gradi. Chi si occupa di mediazione intende che strumento di tali trasformazioni sia proprio l'utilizzo della figura del mediatore. Infatti il ruolo da questi svolto in Istituto sarebbe proprio quello di sopperire alle carenze di un sistema che, preoccupatosi di garantire l'uguaglianza formale, tuttora non è in grado di garantire quella sostanziale costituzionalmente intesa. L'operato del mediatore andrebbe in tal senso. L'obiettivo principale è anzitutto quello della costruzione di "circuiti comunicativi per far circolare informazioni e per gestire la socialità organizzata in ambito carcerario in modo da favorire la relazione con i detenuti immigrati" . Pensando la collaborazione tra operatore e mediatore come un rapporto non passivo, potrebbe dirsi obiettivo finale quello di condurre verso l'acquisizione di quegli strumenti, inizialmente forniti dai mediatori, che occorrono perché ciascun servizio possa soddisfare anche l'utenza straniera. Tale ultimo approdo nel carcere vuole significare proprio permettere la connessione tra detenuti stranieri e Istituto, per fruire al massimo delle possibilità, dei servizi e delle opportunità di reinserimento che questo può offrire. Sviluppando ulteriormente il discorso della mediazione in carcere è stato prospettato, inoltre, un inserimento nuovo e diverso di persone provenienti dal mondo dell'immigrazione: cioè oltre al prezioso ruolo dei mediatori, altro auspicio sarebbe quello di vedere ricoprire quest'ultimi, figure già previste nel carcere quali, ad esempio, lo psicologo, l'educatore, l'assistente sociale. Il discorso portato avanti da alcuni autori, è proprio quello di cominciare a ripensare il reclutamento di alcune figure tenendo conto delle nuove esigenze che si prospettano.
ABDU H.B., Identità culturale e conflitto nell'esperienza degli immigrati, in "Sicurezza e Territorio",1994, n.17.
AA.VV., Durata del soggiorno e mediazione culturale, in "Dossier Caritas Immigrazione 2002", pag. 153.
Cfr. DI BELLA S.,CACCIAVILLANI F., La mediazione interculturale: dall'attività ai processi, in "Animazione Sociale", 2002, n.3, pagg. 35-44.
Si pensi al tema dell'educazione interculturale che, infatti, è entrata di diritto nella programmazione scolastica con la diffusione di varie circolari ministeriali; cfr. NANNI A., L'educazione interculturale oggi in Italia, Quaderni dell'interculturalità 6, Bologna, Emi, 1998, pagg.28-33; e SANTERINI M., Progettare l'intercultura, in "Animazione Sociale", n.10, 2001, pagg. 79-86.
PALIDDA S., Diritti uguali per tutti e governo pacifico della città, in "Animazione Sociale", 2002, n.3, pagg. 27- 34.
Cfr. CASTIGLIONI M., La mediazione linguistico-culturale. Principi, strategie, esperienze., Milano, Franco Angeli, 1997.
Cfr. GOUSSOT A., Equivoci comunicativi nelle relazioni con gli immigrati, in "Animazione Sociale", 2002, n.3, pagg.44-48. E per una distinzione tra "multiculturalismo"e "interculturalità" cfr. NANNI A., L'educazione interculturale oggi in Italia, op. già cit.
PETRINI D., Immigrazione e carcere, in "Stranieri in carcere", rubrica della pagina web consultabile su www.cestim.it
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