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La comunicazione in carcere




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LA COMUNICAZIONE IN CARCERE



"L'idea di un giornale che "raccontasse" il carcere è nata nel 1997 nell'ambito di un'attività di rassegna stampa: ci rendemmo conto che le notizie che i maggiori giornali diffondono sul carcere spesso non hanno un reale riscontro con quella che è effettivamente la vita in carcere. Certamente, di tanto in tanto, qualcuno più attento fa qualche sforzo per centrare veramente il problema, senza ricorrere troppo ai luoghi comuni, ma notizie che potessero essere utili sia per chi è detenuto sia per chi in carcere lavora, sono veramente poche. Volevamo svolgere anche un servizio d'informazione interna, che informasse i detenuti sugli avvenimenti e le opportunità che si verificano nell'Istituto.

Ma i problemi del carcere non si risolvono né si esauriscono al suo interno, il coinvolgimento di chi sta fuori è essenziale, e l'importanza di far conoscere all'esterno la nostra vita fu presto chiara: capimmo che per farlo dovevamo usare un linguaggio semplice e diretto, comprensibile da tutti, perché anche quella linguistica può essere una barriera che contribuisce a mantenere il carcere nell'isolamento sociale e culturale."  

(La redazione di Ristretti orizzonti[1])


Isolamento e non-comunicazione sono stati per anni caratteristiche peculiari della pena detentiva: la collocazione degli istituti in luoghi ameni ma difficilmente raggiungibili, quali le isole, ne sono un esempio.                                                    "L'isolamento dei condannati garantisce un esercizio su di loro, col massimo di intensità, un potere che non sarà bilanciato da nessun'altra influenza; la solitudine è la condizione primaria della sottomissione totale" (Foucault, 1976, p.258). "Per tutti [i carceri], vecchi e nuovi, intorno c'è un'impalpabile, ma ugualmente reale, cintura di sicurezza, una sorta di terra di nessuno, una spessa cortina fatta di barriere materiali e psicologiche che fanno essere il carcere una struttura fuori dal mondo, una sorta di extraterritorialità, una realtà pesantemente estranea" (Benigni). Analizzando l'istituzione carceraria si possono riscontrare tre differenti livelli di comunicazione: il modo in cui l'esterno guarda il carcere; il modo in cui il carcere guarda l'esterno; i rapporti interni alla realtà penitenziaria. Quando l'esterno comunica col carcere, spesso lo fa con un'ottica distorta, percependo l'istituto penitenziario come altro da sé, come una realtà disumana, lontana, quasi da esorcizzare: il carcere è presente come monito e deterrente. 'Sono il carcere, il manicomio (.) quei significanti e quegli spazi semantici della paura, quegli orribili fantasmi, che l'ideologia ufficiale deve allo stesso tempo esporre in bella mostra e rendere misteriosi affinché possano scatenare i meccanismi sociali della paura e produrre autocensura' (Curcio, Franceschini). Lo sguardo dall'interno e l'impenetrabilità dall'esterno fanno sì che il carcere diventi sempre più un elemento dell'immaginazione. La società esterna è spesso percepita dai detenuti come una realtà lontana da loro e indifferente ai problemi di chi si trova all'interno dell'istituto penitenziario. Il mondo esterno è visto, più che nell'ottica di un reinserimento, 'come un'entità in cui e contro cui rivalersi domani delle deprivazioni subite' (Nasca). In parte anche il personale penitenziario, cui la società delega la custodia dei detenuti, sente il peso dell'isolamento in cui spesso viene lasciato operare. La difficoltà della comunicazione tra interno ed esterno si riflette sui canali e sulle modalità dei mezzi di comunicazione all'interno del carcere che risultano limitati, stereotipati e prefissati 'più di quanto sarebbe lecito aspettarsi' (ibidem). In carcere ogni richiesta, da un acquisto a un colloquio col direttore o con un operatore penitenziario,deve essere autorizzata tramite la prassi della 'domandina': 'Una volta compilata, la 'domandina' va dallo scrivano, che la mette in fila, al capoposto (la lettura è prerogativa di due, tre agenti), poi al brigadiere, che la passa agli 'uffici addetti' (telegrammi o conti correnti per gli acquisti), poi di nuovo agli agenti, alla firma del direttore, di ritorno al brigadiere, eccetera. Un momento fondamentale del posizionamento del detenuto in carcere è la fabulazione. (Serra): egli 'non solo ha bisogno di raccontare a se stesso la propria favola e di inventarsi una via d'uscita che gli sia favorevole, ma ha anche il bisogno di raccontare agli altri una favola che gli garantisca una particolare inserzione nel gruppo degli altri detenuti' (Serra). Spesso la fabulazione riguarda la vita precedente l'ingresso in carcere, la parte di vita, solitamente, incontrollabile dagli altri, e quindi rientrante, senza possibili smentite, nell'immagine che ciascun detenuto vuol dare di sé. In carcere, come in ogni altra situazione di interazione, tutto ha valore di messaggio: l'istituzione invia messaggi all'interno tramite ricompense o punizioni;questo metodo è ripreso dalla teoria del condizionamento classico. I detenuti comunicano la loro condizione tramite il silenzio o la parola, l'opposizione o l'adattamento, l'attività e la partecipazione al 'trattamento' o la protesta e l'inattività, talvolta anche tramite scioperi della fame o autolesionismo. In carcere si protesta tramite scioperi quali 'lo sciopero del carrello', il rifiuto del cibo offerto dalla direzione (optando per cucinare in proprio) o lo 'sciopero dei lavoranti', l'astensione dal lavoro dei detenuti con mansioni interne come cucina, contabilità, pulizie, costringendo diverse amministrazioni a ricorrere a servizi di aziende esterne. La protesta più 'classica' è la 'battitura', il provocare rumore battendo le pentole sulle sbarre 'perché l'eco della protesta giunga fuori, ad ogni ora del giorno e della notte'. A tal proposito Toy Racchetti, direttore del giornale Facce & Maschere del carcere San Vittore a Milano, ritiene che 'il rumore non è comunicazione, è una cosa ben diversa. La produzione di rumore è abbastanza fine a se stessa, sterile. Allora è importante il tentativo di passare dal rumore alla comunicazione, quando comunicazione diventa storia individuale, raccontata attraverso il confronto con gli altri, perché i momenti di progettazione del numero di giornale sono la raccolta delle storie individuali, su cui diverse persone si confrontano, si ascoltano, si riconoscono e condividono anche aspetti comuni. La storia individuale diventa una storia collettiva, una storia spesso di un diritto collettivamente calpestato, negato o, speriamo, ancora da conquistare.' Ogni comportamento in carcere, più ancora che all'esterno, è finalizzato a comunicare qualcosa perché la comunicazione 'regolare' è falsata dal contesto artificiale. 'L'impossibilità di non comunicare' mette in luce numerose situazioni di comunicazione patologica (Nasca). In ogni contesto in cui si voglia, o si debba, evitare l'impegno inerente a ogni comunicazione, e il carcere ne è un esempio, si hanno tentativi di non comunicazione. Vi sono differenti reazioni: la comunicazione può essere rifiutata, accettata o squalificata. Nel contesto carcerario, caratterizzato dalla mancanza di spontaneità, il rifiuto diventa pressoché impossibile. La tecnica più ricorrente è la squalificazione che porta a invalidare le comunicazioni proprie o altrui: fanno parte di questo atteggiamento il contraddirsi, il cambiare argomento, il non completare le frasi o l'essere incoerenti, il fraintendere, il dare un'interpretazione letterale delle metafore e un'interpretazione metaforica di osservazioni letterali. Questo comportamento risulta spesso l'unico possibile in un contesto comunicativo insostenibile. Partendo dall'idea che un messaggio abbia un livello di contenuto e uno di comando o di relazione, in un contesto relazionale 'sano' il livello di contenuto occupa una posizione centrale. In un sistema che presenta, invece, una relazione no n spontanea, l'aspetto di comando o di relazione del messaggio risulta fondamentale perché cela una costante lotta per definire la natura della relazione. Vi sono messaggi da parte dell'istituzione che non vengono recepiti, come nel caso di attività promosse a beneficio dei detenuti ma da essi ignorate. C'è una continua metacomunicazione, un continuo scambio, cioè, di messaggi sulla comunicazione, che però non può quasi mai essere esplicita. Il detenuto, di fronte alla definizione di deviante che il carcere gli attribuisce, risponde con tre tipi di relazione: la conferma, adattandosi alla nuova identità, non riconoscendo quindi l'identità attribuita e scontrandosi così con una realtà che si manifesta insostenibile perché forzata; la disconferma, rifiutando, con il comportamento non verbale, la relazione con l'altro. Poiché la comunicazione verbale risulta fortemente condizionata e ritenuta rischiosa per i detenuti, la comunicazione non verbale risulta un canale necessario poiché, 'essendo l'uso del linguaggio, per motivi diversi, più o meno problematico e difficoltoso, si fa riscontro per necessità, a modalità espressive alternative meno soggette a limitazioni, censure e distorsioni di vario tipo' (Serra). Santoloni parla di due tipi di comunicazioni in carcere: quella orizzontale e quella verticale. La prima coinvolge i soli detenuti, la seconda si riferisce ai messaggi scambiati tra le persone recluse e lo staff istituzionale, tutte le figure che operano nell'istituzione (agenti di polizia penitenziaria, direttore, educatore, psicologo, assistente sociale, medico, cappellano). Per quanto concerne la comunicazione orizzontale, nel momento in cui entra in carcere il detenuto cerca contatti con le persone che hanno commesso il suo stesso tipo di reato e avvia una comunicazione che ha lo scopo di integrarsi, di farsi accettare nel gruppo dei pari. La comunicazione verticale, spesso impersonale e legata a ruoli, stereotipi e reciproci pregiudizi, risulta carica di tensione, soprattutto per le persone recluse, per cui il canale non verbale diventa il mezzo privilegiato per esprimere disagio e frustrazione. Secondo l'assioma per cui la comunicazione si dice simmetrica se basata sull'uguaglianza e complementare se basata sulla differenza, risulta evidente che il carcere presenti un'interazione prettamente di tipo complementare.                        La gerarchia sottolinea la distinzione tra le posizioni up, caratterizzate dall'essere superiori e primarie e le posizioni down, poste su un piano di inferiorità e dipendenza. Si riscontrano, però, comunicazioni complementari non solo tra istituzioni (up) e detenuti (down) ma anche tra il personale e tra i detenuti stessi. Le relazioni di tipo complementare sono molto frequenti in carcere, con rigide posizioni up e down: le disconferme del sé accentuano il senso di autoestraneamento e depersonalizzazione tipico di molti detenuti alla ricerca di una propria identità.




Rivista dalla Casa di Reclusione di Padova e dall'Istituto Penale Femminile della Giudecca.

Registrazione al Tribunale di Venezia dell'11 gennaio 1999.

È un bimestrale (più un numero speciale all'anno: nel 2006 lo speciale è stato dedicato all'informazione, nel 2005 ad un progetto di prevenzione alla devianza che si è sviluppato in alcune scuole superiori padovane, nel 2004 al tema delle misure alternative alla detenzione, nel 2003 al tema del lavoro in carcere, nel 2002 al tema degli affetti, nel 2001 alle donne detenute, nel 2000 agli stranieri detenuti).

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