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Inchiesta sulla presenza dei malati di AIDS in tre carceri italiane (Foggia, Firenze e Torino), realizzata dal Gruppo Abele nel 1997




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Inchiesta sulla presenza dei malati di AIDS in tre carceri italiane (Foggia, Firenze e Torino), realizzata dal Gruppo Abele nel 1997

Carcere e norme giuridiche


I rapporti tra universo carcerario e diritto sono da sempre problematici. La prigione ha cercato, sin dalla sua moderna costituzione, di sottrarsi ai controlli della legge e dei suoi principi, attraverso la proclamazione della autonomia del carcerario rispetto al potere giudiziario (17). Che la prigione si sia spesso rifiutata al diritto, tuttavia, non significa che essa non sia stata ampiamente investita dalla volontà normativa del diritto stesso. È stato sostenuto come in realtà il carcere sia un mondo letteralmente saturo di norme ufficiali, tanto che nessuno degli individui che operano al suo interno sia in grado di conoscerle nella loro totalità (18).

Nella prospettiva dell'analisi della cultura giuridica degli operatori penitenziari è bene precisare, tuttavia, la natura giuridica di tali norme. Philiph Thomas ha opportunamente distinto tre livelli normativi delle regole del mondo carcerario: le regole consuetudinarie o non scritte che si formano spontaneamente nelle relazioni tra detenuti e operatori carcerari; le regole quasi giuridiche, contenute in quegli atti amministrativi interni all'amministrazione penitenziaria che spesso sono sottratti al controllo degli organismi di produzione giuridica e di giurisdizione (es. circolari ministeriali, ordini di servizio dei direttori degli istituti carcerari, etc.); le regole giuridiche in senso proprio, presenti in atti legislativi o in direttive internazionali (19).

Questa tripartizione parrebbe tener fuori le regole consuetudinarie dal novero di quelle in senso lato giuridiche. Tuttavia, a mio parere, gran parte di queste regole consuetudinarie non sono che il risultato di instabili e sempre mutevoli compromessi raggiunti tra gli attori dell'universo carcerario rispetto all'applicazione di regole giuridiche o quasi-giuridiche. Motivo per il quale anche le regole consuetudinarie hanno come riferimento, o come orizzonte entro il quale avviene la negoziazione, delle norme che si possono definire di diritto.

È ben difficile trovare in carcere delle azioni che non siano espressamente o implicitamente normate, giacché "alors que dans la vie normale tout ce qui n'est pas interdit est autorise, en prison tout ce qui n'est pas autorise est interdit" (20).

Volendo riprendere, capovolgendola, una nota tesi di teoria generale del diritto si potrebbe sostenere che l'ordinamento giuridico penitenziario è privo di lacune, in quanto ogni norma particolare che autorizza un certo comporta

mento è accompagnata da una norma generale, inespressa, che vieta tutti i comportamenti che non rientrano nella norma autorizzativa (21).

Lo spazio da riservare al diritto nell'ambito carcerario è, inoltre, da considerare alla luce di due fenomeni correlati che si sono sviluppati negli ultimi vent'anni. Alludo, da un lato, ai tentativi che sono stati condotti in molti paesi europei di integrare il carcere nell'ordinamento giuridico dello Stato di diritto giurisdizionalizzando in modo sempre più esplicito l'esecuzione penale, dall'altro, alla sempre più copiosa produzione di direttive in tema di diritti dei detenuti da parte di organismi internazionali. Nonostante tutte le resistenze e i limiti di realizzazione che tali tentativi hanno incontrato, oggi è diventato possibile chiedersi se stiamo andando verso un "carcere di diritto" (22).

Che il carcere veda una presenza sempre più massiccia del diritto positivo formale non deve peraltro far dimenticare un'acquisizione comune a tutte le ricerche che si sono occupate del sistema di regole che strutturano la vita carceraria: l'estrema flessibilità, che talora sfuma nella palese arbitrarietà, con la quale si applicano le regole carcerarie. Riprendendo una felice espressione di Guy Lemire, il carcere più che un sistema di diritti va considerato come un sistema di privilegi (23). Ciò significa che entro lo spazio istituzionale del carcere, i vari attori che si muovono in tale contesto svolgono una negoziazione ininterrotta sull'applicazione delle norme ufficiali, nella diffusa convinzione che occorra un'ampia discrezionalità da parte degli operatori nell'attuare le prescrizioni di legge (24). Ampia discrezionalità che è, peraltro, spesso negata ufficialmente dalla minuziosità con cui il legislatore regolamenta la vita carceraria e dalla diffidenza che egli mostra nei confronti degli operatori penitenziari (soprattutto quelli del custodiale) percepiti come possibili fonti di arbitrio extra-giuridico. Si assiste allora al paradosso di regole che dovrebbero lasciare minimi spazi di discrezionalità all'interprete che hanno la necessità, per fattori extra-giuridici, quali sono le relazioni di potere che si esercitano in carcere, di essere interpretate con una disinvolta libertà emleneutica.

Questa visione del problema, comune a molte ricerche socio-giuridiche sul tema, va peraltro integrata con alcune nozioni provenienti da altre discipline teoriche del diritto, quali la teoria generale del diritto e la filosofia del diritto (25). In particolare, occorre definire che cosa si intenda con il concetto di discrezionalità dell'interprete, precisando brevemente come si possano distinguere le norme dal punto di vista della loro minore o maggiore cogenza rispetto all'attività interpretativa.

Sul primo concetto non è possibile in questa sede che svolgere brevi cenni, considerata l'ampiezza delle sue implicazioni epistemologiche. Tuttavia, basti ricordare come sia assunto ormai prevalente delle teorie dell'interpretazione giuridica, da un lato, il carattere ineludibile della discrezionalità interpretativa (26) e, al tempo stesso, la rilevanza delle qualità formali del prodotto normativo al fine di limitare tale discrezionalità (27).

Volendo sintetizzare tale assunto con una frase che Umberto Eco ha utilizzato per le teorie dell'interpretazione in ambito letterario, si può affermare che se è vero che di un testo (anche normativo), in linea di principio, si possono fare infinite congetture interpretative, "alla fine le congetture andranno provate sulla coerenza del testo e la coerenza testuale non potrà che disapprovare certe congetture avventate" (28). Esistono, dunque, delle qualità formali del testo, quali ad esempio la sua coerenza o la sua ridotta ambiguità semantica, che limitano la discrezionalità dell'interprete.

Tra queste qualità formali dei testi normativi assumono una posizione di particolare rilievo nella prospettiva dell'ampiezza della sfera di discrezionalità dell'interprete-destinatario delle norme, due concetti che spesso vengono considerati sinonimi: i concetti di astrattezza e generalità. È preferibile, tuttavia, seguendo l'insegnamento di Norberto Bobbio, considerare i due concetti distintamente, chiamando "generali" le norme che sono universali rispetto al destinatario, e "astratte" quelle che sono universali rispetto all'azione" (29).

Ciò rende possibile dar conto di norme che sono, allo stesso tempo, generali rispetto al destinatario e concrete rispetto all'azione, e individuali rispetto al destinatario e astratte rispetto all'azione. In tal modo, si giunge ad una quadripartizione delle norme: generali e astratte, generali e concrete, individuali e astratte, individuali e concrete. Rispetto alla discrezionalità interpretativa è possibile affermare che le norme si collocano, almeno da un punto di vista logico-formale, lungo un continuum al quale ad un polo di massima discrezionalità si posizionano le norme generali e astratte e, all'altro polo di minore discrezionalità, le norme individuali e concrete. Ad un livello intermedio tra questi due poli si collocano invece le norme individuali e astratte e quelle individuali e concrete.

La generalità e astrattezza va di solito in parallelo con la gerarchia delle fonti, nel senso molto banale per cui una carta costituzionale dovrebbe contenere una maggiore quantità di norme generali ed astratte rispetto ad un regolamento amministrativo. Il che non significa che una carta costituzionale non possa contenere delle norme individuali e concrete (si pensi alle norme della nostra Costituzione riguardanti la bandiera italiana o i discendenti di Casa Savoia) e un regolamento amministrativo delle norme generali e astratte.

Questo dato è confermato dalla normativa sull'AIDS in carcere, nella quale, ad esempio, troviamo una normativa del legislatore ordinario come la legge 222 che è certamente qualificabile tra quelle individuali e concrete, mentre tal une norme del regolamento penitenziario sono sicuramente generali e astratte (si pensi all'art. l del regolamento esecutivo della riforma penitenziaria che prevede come il trattamento carcerario debba "promuovere un processo di modificazione degli atteggiamenti che sono di ostacolo ad una costruttiva partecipazione sociale") (30).

Ma al di là di queste precisazioni, le qualità formali della generalità ed astrattezza dei testi normativi consentono di avere un primo, limitato e parziale, indicatore dello spazio di discrezionalità interpretativa lasciato all'operatore penitenziario. Naturalmente a fronte di una più o meno ampia sfera di discrezionalità a livello formale, esiste un concreto esercizio della discrezionalità da parte dei destinatari delle norme che viene influenzato da una molteplicità di variabili di carattere sociale, culturale, economico, politico, ideologico. In questo saggio non verranno prese in esame l'insieme di tali variabili, ma solamente quella parte di atteggiamenti, percezioni, valori e rappresentazioni che possono rientrare nel concetto di cultura giuridica, così come definito in precedenza. Mi interrogherò, in altri termini, su quale sia stata l'influenza della cultura giuridica degli operatori penitenziari nel determinare l'esercizio concreto della loro discrezionalità nell'ambito delle norme che riguardano l'AIDS in carcere.

In tale prospettiva, va collocata la rilevanza delle qualità formali della normativa di diritto positivo; rilevanza che in alcuni casi non è stata trascurabile. Emblematica, a tal proposito, la vicenda della legge 222 del l993 che, come si vedrà, ha rappresentato un'anomalia nel settore del diritto penitenziario proprio per la sua scarsissima flessibilità interpretativa che ha ridotto, per non dire annullato, la negoziazione tra destinatari nella fase applicativa. Proprio le qualità formali di eccessiva rigidità della legge 222, quindi, hanno rappresentato una delle cause non secondarie del progressivo rifiuto da parte dei destinatari e al conseguente superamento di tale legge.


Due modelli ideal-tipici dell'operatore penitenziario


Prima di intraprendere la descrizione degli elementi delle diverse culture giuridiche emerse nelle interviste, cercherò di delineare due modelli idealtipici del ruolo di operatore carcerario, modelli che mi hanno guidato nell'analisi del materiale della ricerca.

Innanzitutto occorre precisare a quali soggetti ci si riferisce quando si utilizza il termine operatore penitenziario. Si utilizzerà una nozione duale del termine operatore penitenziario, distinguendo in essa due insiemi di categorie professionali: gli operatori prevalentemente addetti alla sicurezza del carcere e alla custodia dei detenuti (i cd. operatori del custodiale) e gli operatori che si occupano dell'attività di osservazione intra-muraria dei reclusi e del loro reinserimento sociale (i cd. operatori del trattamentale) (31).

Nella prima categoria si colloca essenzialmente tutto il corpo della polizia penitenziaria ai vari livelli gerarchici in cui esso è strutturato; alla seconda categoria. più variegata al suo interno, appartengono le varie figure professionali (assistenti sociali, educatori, psicologi, criminologi, etc.) che si occupano della valutazione e della gestione del percorso riabilitativo del detenuto (32).

Si tratta di due universi culturali e professionali estremamente distanti, nonostante da alcuni anni molti paesi occidentali abbiano cercato di ridurre tale distanza, assegnando in particolare anche al personale di custodia compiti di collaborazione alla fase trattamentale della detenzione (33). Tuttavia, tale avvicinamento funzionale (se pure si è verificato realmente e non solo nella lettera della legge) non ha potuto cancellare le profonde diversità di livello culturale, di formazione e di ethos professionale, di mission organizzativa che a tutt'oggi caratterizzano i due gruppi.

La letteratura sul tema ha spesso concentrato l'attenzione sul processo di razionalizzazione e burocratizzazione, che ha interessato l'esecuzione penale negli ultimi duecento anni (34). In particolare, sono state analizzate le dinamiche attraverso le quali l'esecuzione penale è stata progressivamente privata dei suoi aspetti emozionali e morali legati alla sfera pubblica, a favore di un'amministrativizzazione che ha imposto una separatezza tecnico-burocratica degli apparati chiamati a gestire in modo professionale l'industria carcere (35). Carente, tuttavia. è stata l'analisi di come questo generale processo di burocratizzazione abbia assunto forme diverse nei vari settori in cui è costituito il mondo degli operatori penitenziari e, in specifico, quelli del custodiale e del trattamentale (36).

Riprendendo alcune categorie ormai classiche della sociologia dell'amministrazione pubblica, ed in particolare delle teorie dell'implementazione delle leggi da parte dell'amministrazione esecutiva (37), propongo di concettualizzare tale diversità di forme utilizzando alcuni parametri che consentano di costruire due modelli ideal-tipici di operatore penitenziario, in grado di agevolare la classificazione delle osservazioni empiriche effettuate.

Dal punto di vista dei programmi che i due settori dell'amministrazione esecutiva sono chiamati ad attuare, si può affermare che mentre il custodiale ha il compito e gli strumenti istituzionali per realizzare programmi regolativi, il trattamentale attua invece programmi di prestazioni.

Ciò in altri termini significa che mentre il primo "opera con un armamentario di ordini, divieti, autorizzazioni e minacce di sanzioni, [il secondo] tratta () di prestazioni di servizi personali o tecnici da parte dell'amministrazione" (38).

Per un verso si tratterà, in via principale, di applicare regolamenti e far rispettare regole attraverso sanzioni, per l'altro, invece, di fornire dei servizi alla persona detenuta, quali assistenza socio -relazionale, sostegno psicologico, riabilitazione sociale, etc.

Il programma condiziona direttamente anche l'orientamento dei funzionari. L'attuazione di programmi regolativi, infatti, favorisce la diffusione di orientamenti alla regola o alla norma, ovvero la tendenza a percepire il proprio compito come strettamente vincolato da norme e a considerare come principale criterio di valutazione della propria azione la fedeltà alla norma stessa. Tale atteggiamento è tipico dell'intero apparato amministrativo dello Stato moderno nel suo modello weberiano legale-razionale, rappresentando uno dei cardini dello Stato di diritto il principio che la funzione esecutiva sia regolata in modo tale da limitare quanto più possibile la discrezionalità dei funzionari, al fine di garantire che ogni cittadino venga trattato in modo eguale. Tuttavia, i mutamenti avvenuti nel corso del XX secolo nel rapporto Stato-società, con l'avvento del cd. Stato sociale di diritto hanno modificato anche la funzione della Pubblica Amministrazione (d'ora in avanti P. A.).

Con sempre maggior frequenza la P. A. ha dovuto occuparsi della realizzazione di programmi e di politiche sociali e quindi, riprendendo la nota teorizzazione di T.H. Marshall, più che garantire formalmente diritti politici e civili ad individui concepiti come autonomi "attori sociali", ha attribuito diritti sociali a "consumatori" percepiti come carenti di risorse (39). In tale prospettiva, diventa fondamentale non tanto il rispetto e la correttezza formale delle procedure amministrative quanto la loro efficacia e la loro reale capacità di raggiungere effettivamente gli obiettivi che il legislatore si è proposto.

Di qui anche nella P.A. il diffondersi, lento e sempre contrastato, di un orientamento al servizio, intendendo con questa espressione una maggiore attenzione ai risultati effettivi della propria attività e una maggior capacità di innovazione e adattamento ai casi concreti, a detrimento degli aspetti "garantistici" dell'azione amministrativa (40). Sorge la possibilità, in tal modo, che si costituisca un'ulteriore dicotomia nel settore dell'amministrazione esecutiva rispetto al modello argomentativo attraverso il quale i funzionari giustificano e ricostruiscono il loro processo decisionale (punto C della tabella suesposta). Dicotomia che, da un lato, colloca gli apparati amministrativi che funzionano ancora con lo schema sillogistico tipico del diritto formale "se allora" e che quindi formalmente operano in un regime di limitata discrezionalità, e dall'altro, l'argomentazione tipica dei programmi di scopo che guarda alla verifica del raggiungimento dei fini concreti dell'azione amministrativa.

Una fondamentale distinzione che caratterizza le moderne organizzazioni burocratiche, è la differenza tra specialisti (professionals) e generalisti (administrators). Lo specialista si caratterizza per una identificazione profonda con le competenze professionali acquisite e per una altrettanto forte identificazione con il proprio gruppo di riferimento: i colleghi di professione. Al contrario, il generalista amministrativo s'identifica più con il rispetto della normativa organizzativa interna che non con qualsiasi gruppo professionale esterno" (41).

Il generalista, ai livelli superiori della gerarchia amministrativa, è in gran parte dei casi un giurista a pieno titolo, ma "esiste un tipo di generalista anche ai livelli amministrativi inferiori, che svolge funzioni amministrative di routine e la cui formazione intra - amministrativa concerne soprattutto la conoscenza di leggi e regolamenti specifici e che viene impiegato nell'ambito dell'amministrazione generale interna in compiti d'ordine" (42).

Questa definizione di Renate Mayntz pare corrispondere con un buon grado di approssimazione al custodiale, così come il riferimento ai professionals ai livelli inferiori della P.A. consente di sottolineare come molti degli operatori penitenziari del trattamentale siano professionisti che si percepiscono come tali ed hanno al centro del loro sistema di riferimento, più che la normativa interna all'amministrazione penitenziaria, competenze professionali e modelli di azione che si ispirano ai colleghi che operano nella realtà extramuraria (43).

La contrapposizione tra generalisti e specialisti riflette, in particolar modo, la tensione fra la tradizionale struttura gerarchica e burocratica della P.A. e tentativi di introdurre in essa modelli organizzativi fondati sui principi della competenza e della professionalità.

È positivo, ma il loro lavoro non viene regolato direttamente da esse e l'ethos professionale che li guida non deriva dal paradigma della P.A. dello Stato legale-razionale, ma dall'universo culturale delle professioni tecniche (47).

Uno psicologo non ha il compito istituzionale di applicare una norma giuridica, ma di fornire sostegno terapeutico al proprio assistito, l'assistente sociale del Servizio Sociale per Adulti (al di là della sua attività di collaborazione con la magistratura di sorveglianza per fornire pareri sui benefici di pena) non ha il compito istituzionale di eseguire la condanna, ma quello di reinserire socialmente il condannato. Questa diversa "distanza" rispetto al diritto formale positivo è spiegabile anche con la diversa qualità formale delle norme che riguardano il trattamentale. Dopo aver introdotto il criterio della generalità ed astrattezza delle norme come indicatore formale di ampiezza della discrezionalità dell'interprete, infatti, si è in grado di precisare che la maggior estraneità del trattamentale al diritto si registra anche perché, nella maggioranza dei casi, le norme che riguardano il trattamentale sono norme generali e astratte, mentre quelle che interessano il custodiale sono più frequentemente individuali e concrete. Ciò significa che lo spazio di discrezionalità lasciato al primo settore è, formalmente e generalmente, più ampio di quello riservato al secondo.


Il codice paterno degli operatori del custodiale


Facendo riferimento a modelli ideal-tipici, le due figure di cultura giuridica che verranno qui delineate assumono la forma di silhouette i cui tratti sono fortemente stilizzati. Nella realtà, gli operatori penitenziari del custodiale e del trattamentale non si distinguono così nettamente e variabili soggettive possono esercitare una rilevante influenza nel determinare avvicinamenti e sovrapposizioni. I vari ruoli professionali all'interno della struttura organizzativa carceraria vanno colti nella dinamicità dei loro rapporti e ogni azione, o comunicazione tra di essi, va letta attraverso il codice ambivalente (disciplina-trattarnento) dell'istituzione totale. Pur essendo l'obiettivo quello di indicare le tendenze generali dei gruppi degli operatori del custodiale e del trattamentale, non si mancherà di segnalare quegli elementi che non s'inseriscono pienamente nella logica dicotomica paterno/materno, ma che contribuiscono a rendere il quadro descrittivo più aderente alla complessità della realtà penitenziaria. Il percorso espositivo prenderà le mosse dai tratti generali della cultura giuridica del custodiale e del trattamentale, avendo come quadro di sfondo i due modelli ideal-tipici delineati in precedenza, per approdare alla verifica di come tali culture possano influire sul concreto esercizio della discrezionalità nell'attuazione delle norme. Nel corso dell'esposizione si potranno comprendere le ragioni che hanno portato a definire paterna e materna le diverse culture giuridiche degli operatori della prigione, tuttavia, è da sottolineare che la variabile di genere gioca, con ogni probabilità, un ruolo non certo secondario nell'influenzare i diversi modelli di cultura giuridica.

Non deve passare inosservato, infatti, il dato che la totalità degli operatori del custodiale intervistati sono di sesso maschile (non sono state prese in considerazione le interviste alle agenti della polizia penitenziaria femminile), mentre la netta maggioranza degli operatori del trattamentale sono di sesso femminile (per l'esattezza 22 operatori su 28).

Venendo ai tratti generali della cultura giuridica del custodiale, in che senso è possibile affermare che l'operatore del custodiale tende a percepire i programmi che ha il compito di attuare in modo regolativo?

Innanzitutto, perché concepisce il proprio compito essenzialmente come quello di colui che deve far rispettare la legge attraverso la sanzione negativa, il divieto. Il suo obiettivo è quello di far rispettare il regolamento carcerario concepito come una serie d'azioni che sono o meno permesse al detenuto. In tale prospettiva, assumono massimo rilievo gli imperativi della vigilanza e della sicurezza.

Il termine professionale di riferimento è il carabiniere. "(il compito dell'agente è) quello di vigilare, sorvegliare il detenuto, che non scappi, che non litighi non ha il compito di indossare all'improvviso una divisa blu e di fare l'infermiere o il salvatore del mondo di chi si taglia Il carabiniere non fa ne l'infermiere, ne altro" (cust. FG).

La percezione della dimensione repressiva del diritto emerge in modo molto marcato: la norma è vista come strumento di difesa dell'ordine e della sicurezza e l'agente è il soldato che in prima linea, mettendo in gioco anche la propria incolumità fisica, cerca di difendere la società (e in specifico il carcere) dalla minaccia del disordine.

"Noi siamo anche pagati per difendere le istituzioni, quindi per mantenere l'ordine, la sicurezza, e in caso di disordini noi siamo più a rischio degli altri, perché dobbiamo fermare questo stato di disordine, dobbiamo rimettere l'ordine" (cust. TO).

Il terrore delle rivolte (forse ricordo, ormai lontano, dell'epoca precedente la legge Gozzini) riecheggia in queste frasi. Ma ancor oggi è importante la sorveglianza che si attua visivamente; la massa indistinta e troPPo numerosa dei detenuti ostacola lo sguardo del custode, là dove esso non arriva il disordine è sempre in agguato. "Al carcere di Milano, al San Vittore, che ci sono stato, dove c'è una guardia che controlla due padiglioni è buono, ma è anche male, perché dove arriva la mia visuale dell'occhio metto in atto la mia professione" (cust. FG).

La tensione della sorveglianza è tutta qui: il detenuto può sempre sfuggire al controllo. "Basta un nulla per far scattare una molla, un ritardo al colloquio porta al nervosismo .." (cust. FI).

In questa attività di sorveglianza l'agente è consapevole che il suo compito è quello di imporre delle regole che per loro natura non possono essere fondate sul consenso del detenuto: da ciò scaturisce la violenza della vita carceraria. "All'interno del carcere molte volte si agisce ricorrendo a delle forme più o meno violente (). Nessuno accetta la detenzione, che è qualcosa di imposto (). È un ambiente imposto con dei ritmi di vita e con delle situazioni che io definirei quasi asociali, anche se poi arriviamo al paradosso che alcuni individui trovano la socialità e l'aggregazione all'interno del carcere" (cust TO). Questo ruolo repressivo del custodiale, concepito come quello punitivo di sanzionare, porta anche a percepire il versante premiale della norma in modo negativo, come privilegio illegittimo. "Si può anche arrivare a lodare, però ciò non toglie il fatto che un detenuto è identico agli altri detenuti che sono ristretti nella sezione. Quindi non ci si può dare qualcosa in più a quella persona solo per che si è comportata in quel modo là" (cust. FG). La funzione del custodiale può anche essere quella di ridurre e limitare la violenza del divieto. "Il personale di polizia è quel particolare personale che interviene per placare e per risolvere gli stati di tensione e gli stati di violenza" (tratt. TO). Tuttavia, la funzione complessiva e preminente del carcere e della custodia è, realisticamente, quella contenitiva e afflittiva.

"Checché se ne dica il carcere non recupera proprio niente. Il carcere è afflittivo, c'è poco da fare" (cust. FG). Si è consapevoli che la riforma penitenziaria dovrebbe aver introdotto nuovi principi, ma si tende a considerarla un'aspirazione astratta di un legislatore a cui sembra sfuggire la dura realtà del carcere. "A Roma le leggi sono bellissime e dovrebbero poter essere attuate in tutti i sensi per che prima il carcere era punitivo, oggi il carcere non è più punitivo, ma è un modo di reinserimento del reo nella società civile; dovrebbe essere così, perché questo lo capiscono in pochi qui a Foggia" (cust. FG).

Strettamente legato a questa rigida concezione regolativa dei programmi da attuare risulta l'orientamento alla regola dell'operatore del custodiale. Tale orientamento si manifesta nella tendenza a concepire II ruolo del custodiale come strettamente normato dal diritto e rigidamente limitato dalle direttive superiori. "Ci sono delle direttive che vengono impartite dalla direzione e che ci vengono demandate dal regolamento interno e dalle leggi, è chiaro che noi abbiamo il compito di farle eseguire e di osservare che vengano eseguite in maniera corretta" (cust. FG).

La centralità delle norme si manifesta anche nel linguaggio carcerario che rievoca termini giuridici: ad esempio, il colloquio formale tra agente e detenuto viene chiamato udienza. " Il nostro compito è quello di chiamare il detenuto ad avere un colloquio che noi chiamiamo udienza, perché dobbiamo dare una terminologia più carceraria" (cust. FG). "La mattina si guardano i rapporti che ci sono stati la sera e la mattina poi si sentono le udienze, se un detenuto chiede di fare udienza" (cust. FI).

Molta attenzione è posta nel rispettare i limiti che le norme stabiliscono per il proprio intervento. "Noi ci limitiamo strettamente a quella che è la parte giuridica della persona () noi dobbiamo assicurare solo il provvedimento restrittivo, la parte sanitaria sono problemi personali (del detenuto), non siamo preposti per questo" (cust. FG).

L'orientamento alla regola può anche giocare un ruolo, non irrilevante, nell'introiettare un'immagine del detenuto sieropositivo nella quale prevalgono gli aspetti che lo equiparano agli altri detenuti piuttosto che ad un malato bisognoso di cure. "Perché noi, purtroppo, non possiamo considerare il detenuto che viene arrestato sieropositivo, un malato. Il nostro obiettivo è quello di assicurare il provvedimento restrittivo, che poi questa persona sia malata, ci dispiace, però più di questo non possiamo fare" (cust. FG). Ciò implica che tale detenuto venga considerato rispetto alle azioni che ha commesso e alla pena che deve scontare e non riguardo alla malattia che lo ha colpito.

"Perché il sieropositivo è vero che meriterebbe di stare in assistenza particolare, però è anche vero che ha commesso un reato. E allora il reato che ha commesso il sieropositivo è identico allo stesso reato della stessa tipologia che commette una persona sana che ha una mente criminale al pari livello. () Entrambi hanno violato una norma dello Stato e devono essere puniti per quello che hanno commesso () altrimenti si creerebbe un'ingiustizia" (cust. FG). La figura del detenuto tossicodipendente, affine a quella del sieropositivo (48), può far emergere la contraddizione tra pena e terapia, tra l'immagine del malato e quella del reo. Ma è comunque quest'ultima a prevalere.

"Io non ho ancora capito se il tossicodipendente è un soggetto che deve essere considerato malato oppure detenuto, () perché noi abbiamo vissuto diversi momenti storici e nelle varie circostanze abbiamo considerato il tossico come malato, il tossico come detenuto () la figura del tossicodipendente sarei propenso a considerarlo come l'individuo che ha violato una norma" (cust. TO).

Nella prospettiva dell'orientamento alla regola, quindi, grande attenzione viene posta al principio di uguaglianza formale nel trattamento dei detenuti; il rispetto di questo principio non sembra peraltro essere un mero omaggio esteriore all'autorità della legge, ma uno strumento di mantenimento dell'ordine all'interno delle sezioni. "Se tu (il detenuto) vuoi collaborare mi sta bene, ti posso considerare sotto un'altra ottica, questo sì; però, comunque, sei sempre un detenuto, sei identico agli altri detenuti che stanno ristretti in questo reparto. Come detenuto, cioè non si può dare () quello che non si dà agli altri, oppure un accorgimento particolare. Si creerebbe caos in questo modo qua. Comunque sono sempre detenuti (). Il trattamento penitenziario è uguale per tutti i detenuti" (cust. FG). È importante, quindi, che permanga almeno l'apparenza di una uguaglianza formale di trattamento tra i detenuti, anche se tale uguaglianza può (e in alcuni casi deve) essere aggirata.

L'orientamento alla regola dell'operatore del custodiale, infatti, non deve essere identificato come un atteggiamento favorevole ad una rigida applicazione della norma. Gli agenti di polizia penitenziaria sanno benissimo, al pari dei teorici dell'interpretazione, che non esiste norma che non lasci uno spazio di discrezionalità all'interprete. "La norma centrale (49) in realtà non può prevedere in concreto tutte le possibili ipotesi" (cust. TO).

Si introduce qui il tema della rigidità/flessibilità nell'applicazione delle regole penitenziarie. L'agente parte da una concezione rigidamente regolata del proprio lavoro, ma tuttavia si rende conto che per poter raggiungere il suo obiettivo (il mantenimento dell'ordine) deve essere molto flessibile nell'applicare le norme. "Le leggi valgono e non valgono, poi subentra l'atto pratico" (cust. FG).

Il fenomeno AIDS è forse servito a rendere ancora più pressante il superamento di tale rigidità. "Tu vai in sezione e hai in testa di svolgere un lavoro rigido, forse è la rigidità che è diminuita di più (da quando c'è l'AIDS)" (cust. TO).

Nell'ambito dell'uso della discrezionalità interpretativa, l'orientamento alla regola del custodiale si fa meno distinguibile dall'orientamento al servizio. Anche qui, si potrebbe dire, si tratta, più che di rispettare norme, di fornire un servizio all'istituzione carceraria: il servizio della sorveglianza e del mantenimento dell'ordine. Tuttavia, gli strumenti attraverso i quali si tenta di garantire tale servizio sono sempre di ordine normativo, ovvero la maggiore o minore rigidità nell'applicare le regole dell'ordinamento penitenziario.

L'orientamento alla norma è prevalente nel senso che è comunque la regola il primo termine di riferimento del custodiale; anche quando essa non viene rispettata, l'orizzonte nel quale ci si muove è quello normativo. Certo esistono molte norme che non è necessario far rispettare. "Perché se noi vorremmo (sic) mettere in atto il regolamento ogni qualvolta che loro sono venuti meno al trattamento o alla vita detentiva dovremmo in continuazione fare rapporto e denuncia, cosa che invece noi non facciamo (). Disposizioni ce ne sono tante sulla carta, ma poche da mettere in pratica" (cust. FG).

L'arte del bastone e della carota dell'agente, per utilizzare l'espressione di un intervistato, consiste non solamente nell'attività d'interpretazione del significato delle norme, ma soprattutto nella scelta del momento in cui essere

rigidi o di chiudere un occhio nell'applicazione delle stesse. In tale prospettiva, svolge un ruolo fondamentale l'uso della violenza fisica (anche non direttamente esercitata dall'agente). "Però dove serve lo scontro ci vuole pure lo scontro, però dove c'è il detenuto che dà fastidio o che ti provoca, lì bisogna comportarsi più o meno come loro. Un detenuto del genere se noi lo prendiamo, prima che vada in una cella a spaccare tutto, e lo si mette in una cella dove stanno quattro volponi di detenuti che come si muove poco poco se ne sta tutto ammaccato, questo ha finito e non si muove più. Allora la maniera dura va usata per determinate persone e per certe occasioni e poi va usato anche lo zuccherino, parlare e capire il detenuto. Quando serve bisogna darci la sediata e quando non serve bisogna aiutarlo" (cust. FG).

Si tratta di saper dosare con cura, e con la capacità di prevedere le reazioni dei detenuti, l'esercizio del minimo di violenza consentita dalla legge e dal contesto carcerario. "Sia ben chiaro non la tolleranza tolleranza significa praticamente ricorrere ad un sistema che porta a scusare, invece no. lo voglio dire che praticamente la persuasione è il cercare di vincere quelle resistenze con il buon senso della parola. Ecco la nostra grossa abilità professionale è quella lì di ottenere i risultati ricorrendo ad un minimo di attività violenta. In sostanza l'attività violenta, anche se è ammessa dalla legge per vincere una resistenza, io la considero l'ultimo stadio perché la violenza chiede e porta violenza e attraverso un episodio violento si rischia effettivamente di compromettere anche il sistema. Infatti il ricorso alla violenza lo reputo essenziale nel momento in cui tutte le altre attività non hanno avuto esito, e quindi lo ritengo fondamentale. Però la persuasione in alcuni momenti riesce più del vincere. Ed è una grossa nostra abilità quella di riuscire a capire per tempo qual è la tensione, cioè l'azione preventiva è fondamentale in questi casi, ma anche nel momento in cui viene a compimento l'azione violenta la nostra grossa abilità è quella di compenetrarsi nelle dinamiche che hanno portato alla violenza. Cioè quello di farsi accettare non come parte dell'istituzione che costringe l'individuo con la violenza, ma come azione di riferimento e come elemento di riferimento. Cioè capire a fondo Il'individuo e capire i dinamismi (sic) che portano all'intolleranza del rispetto" (cust. TO).

L'elemento rigidamente normativo dell'ordinamento carcerario va, dunque, occultato attraverso un'arte della persuasione che ha tra i suoi presupposti fondamentali la conoscenza delle regole informali che vigono nella comunità della popolazione detenuta e dei processi che possono condurre "all'intolleranza del rispetto" (50).

L'intuito nell'individuare le norme sulle quali "si può chiudere un occhio", la violenza come extrema ratio e come sconfitta della capacità dell'agente di gestire i conflitti, la precarietà dell'ordine imposto con la forza, ma, al tempo stesso, la precarietà della benevola concessione che porta ad altre concessioni. Si tratta degli elementi di "un'arte normativa della custodia" che a volte si avvale delle stesse regole di convivenza dei detenuti, gioca in termini di controllo le crudeli regole della sezione. "Se la sezione nella quale vi è quel detenuto bisognevole di chiamare spesso il medico e l'infermiere perché vuole un po' di calmante e un po' di sonnifero viene automaticamente messo in riga dagli stessi compagni, perché ancora per molti sono rimasti ancora sani i valori di non drogarsi, quelli di non dare fastidio alla custodia, quelli di non essere petulanti, e allora ci sta una sorta di autodisciplina del soggetto, perché poi a lui gli preme molto a non essere inviso dai compagni" (cust. FG).

Anche la stessa normativa sui benefici di pena può essere un'arma molto efficace nel gestire l'ordine in sezione, ben sapendo che comunque l'agente ha sempre "il coltello dalla parte del manico". "Sono diminuiti nettamente i rapporti disciplinari. Poi ci stanno questi benefici che hanno cambiato tutto perché io non ho mai visto fino a prima che uscisse questa legge il detenuto comportarsi confare seduttivo di fronte al personale (). Questo è uno strumento importantissimo perché così facendo si può anche pretendere dal detenuto che rispetti le regole, ma che le rispetti veramente, perché così facendo io ho il coltello dalla parte del manico" (cust. FG).

Una parte rilevante del lavoro dell'agente di custodia segue il modello argomentativo "se allora": si tratta della parte relativa alle richieste dei detenuti. Il custodiale nei suoi livelli gerarchicamente inferiori, infatti, non è soggetto solamente agli input che giungono dall'alto, ma anche alle pressioni che provengono dal basso, ovvero dalla popolazione reclusa. È la stessa collocazione spaziale dell'agente all'interno dell'istituto, a diretto contatto coi detenuti, che fa sì che l'agente si trovi "in prima linea" rispetto alle loro rimostranze e alle loro richieste.

"Se un malato di AIDS, un siero positivo dà in escandescenze, o si taglia, o si procura dei tagli con lamette, è chiaro che il primo su cui scarica la sua tensione, la sua rabbia è r agente che lavora nella sezione per che è il primo che ha impatto contro di lui (). I primi che tentano di colpire siamo noi, perché, forse, nel loro pensiero dicono: lo Stato ci fa stare qua, noi colpiamo chi rappresenta lo Stato in quel momento" (cust. TO).

In qualche misura, l'agente giustifica l'atteggiamento del detenuto, in quanto, essendo il suo ruolo quello di far rispettare la legge (concepita ancora una volta in modo meramente repressivo), egli svolge la funzione di "valvola di sfogo" delle tensioni che comporta l'imposizione di regole non accettate dai detenuti. "Giustamente l'unica valvola di sfogo che il detenuto ha è di prendersela con chi indossa una divisa, perché è r unica persona che, per lui, innanzitutto rappresenta una certa rigidità, quindi chi fa rispettare determinate leggi" (cust. TO).

In tal modo, il comportamento del detenuto viene letto dall'agente sempre nell'ottica di una richiesta nei suoi confronti. Tale richiesta assume spesso la fonda della pretesa del rispetto di un diritto, o almeno viene percepita in questo modo dalla custodia. Non importa quale sia il suo oggetto: un medicinale o un colloquio col direttore. Ogni azione del detenuto viene vista in tale ottica, persino la decisione estrema del suicidio può rientrare in questa dialettica domanda-risposta. "Anche il detenuto che cerca di impiccarsi c'è il detenuto che cerca d'impiccarsi per ottenere sempre qualche cosa, mentre c'è il detenuto che s'impicca perché vuole impiccarsi. Allora il detenuto che vuole ottenere qualcosa, in una maniera o nell'altra, si fa capire e si fa vedere che sta facendo quella cosa. Invece il detenuto che ha deciso di ammazzarsi, là non lo viene a sapere nessuno e non si può fare niente per che ormai ha deciso e si ammazza" (cust. FG).

Figura emblematica di questa percezione del detenuto come soggetto "che vuole ottenere qualcosa" è quella del tossicodipendente. "Il detenuto (tossicodipendente) ha 24 ore su 24 per studiare e dare fastidio al personale. Perché il tossicodipendente è nato per dare fastidio, nell'ambiente carcerario deve studiare tutti i modi per riuscire ad avere una terapia, () il tossicodipendente deve trovare delle altre vie di mezzo per assumere altre sostanze, a lui basta anche fare un miscuglio di medicinali. Dove non riesce ad inventarle allora le pretende, rompendo, spaccando, facendo fin quando non le ottiene" (cust. FG).

Di fronte alle richieste del detenuto, l'agente è costretto a prendere posizione rispetto a ciò che è previsto dall'ordinamento carcerario. È qui che s'innesta il processo argomentativo del "se allora", che non appare molto diverso dalla figura dell'argomentazione giuridica del giurista proposta dal giuspositivismo ingenuo.

Il detenuto chiede, l'agente decide se concedere, almeno dal punto di vista dell'argomentazione palese, in base alla presenza di quella richiesta nel set di diritti che il detenuto può legittimamente rivendicare. "Se" la richiesta rientra in tali diritti, "allora" verrà esaudita. Come tutti i costrutti ideologici, lo schema "se allora" svolge una funzione mistificante, neutralizza politicamente la scelta decisionale e l'opera di mediazione che l'agente compie nella fase di attuazione del regolamento. S'instaura, in tal modo, un gioco sulle norme carcerarie che entrambi i giocatori conoscono molto bene. "Perché il detenuto, sia sieropositivo che no, sa già ciò che gli spetta e ciò che non gli spetta e questo comunque è il nostro lavoro e i detenuti chiedono al 90% ciò che gli spetta. Dove sanno che non possono avere quello che chiedono, lo chiedono una sola volta e basta () però purtroppo c'è la persona che vuoi far finta di essere fesso tra virgolette e chiaramente  dice < io chiedo, se mi dà bene, se non mi dà pazienza >. Però il detenuto ci tenta sempre." (cust. FG).

In questo gioco custode-custodito emergono anche interessi poco ortodossi, dal punto di vista della mission professionale dell'agente. Egli può, ad esempio, evitare di fare un rapporto disciplinare por di potersi liberare del detenuto scomodo. "Perché facendoci rapporto e la denuncia è anche controproducente per noi. Ammettendo che un domani va fuori e ritorna dentro tu lo devi far tornare al carcere di Foggia, perché c'è questo rapporto da cui dipende. Allora ti tocca inchiodartelo qua fuori; invece quando non ha niente fanno la domanda per la comunità, e guardano il fascicolo, e vedono che non ci sono rapporti, si dice al dottore che non ha mai dato fastidio. Prima ce lo togliamo dai piedi e meglio è Il detenuto sa di tutti questi sotterfugi e ci gioca anche su queste cose" (cust. FG).

Nel cinico rapporto tra detenuto e custodiale, nel reciproco gioco di ipocrite falsità, può anche accadere che abbia la peggio il detenuto "brava persona", che non sa far valere le proprie ragioni con le armi della minaccia e della dissimulazione. "Ci sono anche i detenuti che sono brave persone (). Delle volte (tale detenuto) viene emarginato, anche spesso, tanto non dà fastidio, buttato là, tanto questo, là lo lasci e là lo trovi. Non è che dicono < però questo è a posto, si comporta bene, vediamo un po' se possiamo aiutarlo >" (cust. FG).

Si ribadisce in questo gioco sulle norme la tendenza del custodiale a muoversi nell'ottica di uno spregiudicato orientamento alla regola, orientamento che è strettamente legato alla percezione del proprio ruolo come generalista. L'operatore del custodiale, infatti, si percepisce in analogia con quelle figure "generaliste" dei gradi inferiori dell'amministrazione che hanno compiti di esecuzione di norme e sono inseriti in una struttura organizzativa fortemente gerarchizzata. "Noi siamo portatori di notizie, noi siamo gli occhi e le orecchie dei superiori, () poi chiaramente l'amministrazione fa ciò che vuole e noi siamo solo esecutori di ordini" (cust. FG). n ruolo dell'agente sembra essere principalmente quello di segnalare alla direzione i problemi sollevati dai detenuti. "Loro (i detenuti) mi pongono un problema e io lo segnalo, non posso decidere" (cust. FI). L'organizzazione dell'amministrazione è concepita come una struttura a piramide al cui vertice sono insediate due figure: il direttore e il comandante del corpo della polizia penitenziaria.

"La sottocultura vuole ancora che nel carcere oltre al comandante e al direttore, tutte le altre figure non dovrebbero avere valenza per risolvere tanti problemi" (cust. FG). L'agente è tenuto a far rispettare delle regole che non possono essere discusse, almeno in quanto operatori penitenziari. "Come appartenente ad un corpo di polizia ho il dovere di adempiere alla normativa, quindi di non polemizzare sulla normativa (). Io sono un servitore del sistema e nel momento in cui il sistema mi dice che devo assolvere a quel compito io sono esecutore materiale del fatto" (cust. TO). L'operatore della custodia può trovare, nel suo ruolo ufficiale di mero esecutore di norme, una comoda via d'uscita alle contraddizioni del suo mandato professionale. Quando si vuole svicolare da qualche domanda imbarazzante la risposta standard è: "Si rivolga a chi ha più autorità, a chi ha più competenza" (cust. FG).

E vi è anche un senso di ineluttabilità in questa situazione; l'agente accetta fatalisticamente questo stato di cose che, da un lato, lo penalizza nella sua autonomia professionale, ma dall'altro, lo libera dal carico di molte responsabilità. "Perché il nostro lavoro non è che si può modificare, siamo stati arruolati per quel servizio e per quei fini e, purtroppo, a prescindere dall'ambiente in cui ti trovi, delle persone con cui stai a contatto, a prescindere se questi siano o meno sieropositivi, delinquenti alti, delinquenti bassi, innocenti o non innocenti, devi svolgere quella che è la tua mansione" (cust.

FG). In generale, il lavoro della custodia è percepito come ripetitivo e di scarso impatto con le attività che si svolgono in istituto. "I compiti miei sono innanzitutto di accompagnarli (i detenuti) in questi posti di cultura, palestra e guardarli, il compito è quello di stare là e aspettare che finiscano e riaccompagnarli. L'attività in conclusione è sempre il solito" (cust. FO).

Il detenuto sieropositivo, o malato in genere, può far insorgere delle crisi di coscienza, dei conflitti tra istinti umanitari e imperativi di ruolo, ma a prevalere devono essere questi ultimi. "Anche noi, anche se portiamo una divisa, siamo fatti di carne ed ossa. Quindi dispiace anche a noi vedere una persona che soffre, perché non è che noi vogliamo vedere qua tutte persone sofferenti, tutte moribonde, no. Però per lo Stato ha violato una norma e deve essere punito in base a quello che ha commesso" (cust. FG).

Talvolta il conflitto tra ruolo professionale e sfera privata emerge espressamente nelle interviste rispetto al dissidio tra prescrizioni di ruolo e difesa della salute personale dal rischio di contagio da HIV. "Io in qualità di operatore e di rappresentante legale dell'istituzione dovrei dire che l'individuo che ha violato la norma deve restare in carcere perché è giusta e legale la punizione che viene inflitta. Come cittadino e come rappresentante dell'istituzione dico che è giusto e guai a non pretendere la punizione di queste persone (i sieropositivi), perché ciò significherebbe togliere un sacrosanto diritto per l'istituzione, cioè per il senso di legalità dello Stato. Mentre dal punto di vista del cittadino ho le mie ragioni e le mie preoccupazioni () e questo mi porta ad avere quelle accortezze e mi porta a capire quanto sia pericoloso per me agire in questo ambiente" (cust. TO).

La percezione del ruolo del custodiale è stata, tuttavia, interessata in questi ultimi anni dal processo di smilitarizzazione che ha coinvolto il corpo della polizia penitenziaria; tale percezione quindi emerge, in molte interviste, come immagine che si staglia su di uno sfondo del passato, che peraltro passato del tutto non è. Il processo di smilitarizzazione è ancora troppo recente per poter essere stato assimilato completamente, essendosi oltre tutto sovrapposto ad un cambio generazionale e ad un innalzamento del livello culturale degli agenti.

"È come quando si cresce un cane e lo si tiene sempre al guinzaglio, poi di colpo 'sto cane si slega il cane che fa? Scappa (). Tutto si è creato perché la maggior parte delle persone che già prestavano servizio fanno parte di quella schiera di cultura bassa, non di cultura alta. Quindi non hanno ancora assimilato bene il concetto di smilitarizzazione, che poteva essere un beneficio; certi la considerano un maleficio, come se fossero stati depredati di qualcosa" (cust. FG). I mutamenti che vengono ritenuti più significativi sono quelli che riguardano la gerarchia interna. "Il rapporto tra noi e i detenuti è sempre lo stesso, perché non è che con la riforma ci ha portato ad andare a braccetto con il detenuto. La riforma ci ha portato uno sviluppo, un'apertura per noi, su delle cose che prima non potevamo richiedere, per esempio anche solo semplici straordinari, adesso si può dire qualche parolina in più, cosa che prima non si poteva fare perché il superiore era sempre superiore. Si diceva con toni duri < fai quello che ti ho detto io e basta >. Invece adesso c'è la conversazione e si cerca di capire" (cust. FG).

Viene sottolineata anche la maggiore apertura del carcere alla società esterna, ad esempio all'universo femminile. "Io provengo dall'interregno tra il vecchio regime e il nuovo e qualche volta non mi sembra vero vedere questo carcere letteralmente aperto a queste figure che fino agli anni scorsi era impensabile. Il fatto stesso di vedere una donna in carcere I primi tempi si aveva la sensazione di non aver mai visto una donna, anche se avevamo lasciato la fidanzata davanti alla portineria. Questo ovviamente ritengo che abbia notevolmente cambiato la cultura carceraria" (cust. FG). Tale cultura ha elaborato anche termini specifici per designare questa diversità tra nuovi e vecchi agenti di polizia penitenziaria. "Noi della nuova generazione chiamiamo queste persone la vecchia zimarra (risata). La vecchia zimarra perché la classica guardia carceraria, il classico secondino. Precedentemente la riforma noi eravamo il corpo delle guardie carcerarie. Oggi se ci chiamano guardia carceraria, me compreso, mi ci sento un po' rodere dentro" (cust. FG).

La diffidenza tra agenti di nuova e vecchia generazione è stata comunque molto forte, anche se oggi sembra un po' attenuarsi. Con queste parole una "zimarra" riconosce l'avvenuto processo di integrazione e descrive il primo impatto coi neo-agenti. "Io mi ricordo quando sono entrati a far parte del corpo del centro di custodia gli ausiliari, la maggior parte erano tutti ragazzi ausiliari diplomati; noi al primo impatto, quando li abbiamo visti arrivare questa gente tutta fine, gli abbiamo detto:'dove vi presentate con questo saper parlare e questo modo di agire, qua sono mazzate perché devi scontrarti con il detenuto. Invece abbiamo avuto già in questi arrivi una mentalità nuova perché piano piano sono riusciti ad arrivare al nostro livello" (cust. FG).

A parte queste ultime dichiarazioni, che appaiono inquietanti in quanto sollevano la questione se l'integrazione dei neo-agenti sia avvenuta attraverso la loro omologazione al modello custodiale tradizionale, l'immissione nella polizia penitenziaria di agenti di più elevato status socio-culturale ha prodotto le condizioni per un mutamento della cultura del custodiale tendente a prendere le distanze dagli aspetti più retrivi del codice paterno (51).

Tuttavia, tale mutamento stenta a prendere forma e a consolidarsi. Ciò lo si può osservare anche rispetto alla percezione dei rapporti con gli altri operatori che lavorano all'interno della stessa organizzazione e, in particolare, con quelli del trattamentale. Sotto questo aspetto, emerge il carattere conflittuale di tali rapporti che vedono il custodiale, da un lato, in una condizione di soggezione culturale e carente di strumenti di sapere "colti" e, dall'altro, in una situazione di rivendicazione dell'importanza del proprio sapere informale sulla concreta realtà del carcere.

La condizione di subalternità emerge nella denuncia dell'arroganza mostrata da alcuni operatori carcerari, in particolare il personale medico. "Anche se con i medici delle volte noi arriviamo a discutere perché loro sono laureati e noi magari no (). È giusto che noi non dobbiamo entrare nel loro campo, però quando arrivano con la presunzione di essere dei padreterni e sicuramente non lo sono (). I medici dovrebbero avere un po' di più umiltà, umiltà" (cust. TO).

Ma al riconoscimento della superiorità del livello culturale degli operatori del trattamentale segue immediatamente il ridimensionamento di tale superiorità nell'ambito della pratica carceraria. "Senz'altro sapranno qualcosa più di noi, perché senz'altro hanno studiato qualcosa più di noi. Un educatore vede un detenuto un quarto d'ora, venti minuti, noi lo vediamo otto ore al giorno. Noi ci basiamo sulla vita che svolge questo detenuto, su come si comporta, cioè lo vediamo noi. Secondo me è quella la cosa più basilare (). Avranno studiato, però quello che conosce è l'agente, l'agente che lavora nelle sezioni" (cust. TO).

È l'agente che conosce la vera indole del detenuto, che può comprendere le ragioni delle sue azioni; solamente lui, compagno d'esistenza del detenuto, in qualche misura recluso tra i reclusi, può immedesimarsi nella posizione del prigioniero. "Loro (i detenuti) a noi ci guardano come dei nemici, anche se noi delle volte siamo più noi che riusciamo a capire loro che il medico, e lo psicologo che lo vede cinque minuti, e il direttore o qualunque esso sia che faccia parte di questa equipe. La guardia ci vive con il detenuto e cerca di capire il momento in cui è agitato, cerca di capire il motivo per cui ha risposto male, magari aveva appena letto la lettera, oppure si è comportato male dopo aver fatto la telefonata, o perché ha avuto delle discussioni, o perché porta dietro questa patologia" (cust. FG).

Tale "superiore" conoscenza non deriva all'agente solamente dalla sua condivisione dell'esistenza quotidiana del recluso, ma dal fatto che quest'ultimo mostra un atteggiamento diverso nei confronti dell'operatore del trattamentale, figura istituzionale da cui può dipendere la possibilità di accedere ai benefici premiali. "Con l'operatore del Ser.T. cambiano atteggiamento, per riuscire ad ottenere quello che la legge potrebbe dargli, anche come beneficio (). Con me potrebbe anche, ipotesi, parlar male dell'educatrice, però sa che l'educatrice svolge un ruolo molto importante, fondamentale per lui, che potrebbe anche fargli avere qualche permesso () quindi la libertà, quindi l'atteggiamento è diverso" (cust. FG).

Il detenuto con l'educatore tende a fingere, a dare un'immagine di sé, per un verso, rispettosa delle regole della prigione e, dall'altro, eccessivamente prostrata dalla condizione detentiva. È il caso, ad esempio, delle condizioni di salute. "Il detenuto bisogna vederlo quando vive nella sezione. Dal momento che si alza, dal momento che va all'aria, i passeggi e quando mangia e cucina, ecco lì si vede il detenuto vero e proprio. Perché chiamando un detenuto in udienza, oppure dallo psicologo o dal criminologo, insomma, il detenuto si trasforma per dare un aspetto peggiore della sua patologia" (cust. FG).

Il sapere dell'agente è, dunque, un sapere concreto e volto ad un obiettivo preciso: la sorveglianza e la sicurezza. Per l'agente l'operatore del trattamentale dispone di un sapere astratto e fumoso, la sua presenza in istituto saltuaria (non è chiaro, nell'opinione del custodiale, se per cattiva volontà o per la sempre sbandierata "carenza di personale"); i suoi obiettivi sono indefiniti nella misura in cui è indefinibile un concetto astratto come risocializzazione del condannato. "Non si possono vendere le chiacchiere gratuitamente venire qui, parlare e andarsene (). Il tossicodipendente deve essere seguito. Non si può dire: io vengo oggi, chiamo il detenuto, ci faccio un ragionamento e poi ritorno tra un mese. Io non ho capito come si fa a seguire () una persona vedendola ogni morte di papa (). Spesso e volentieri capita che un detenuto reclama l'assenza degli assistenti sociali. Gli operatori si giustificano dicendo che sono pochi e allora è tutto uno scaricabarile" (cust. FG).

A fronte delle critiche al trattamentale, l'agente percepisce che il suo sapere è svalutato dall'istituzione. Nonostante la legge preveda la sua collaborazione all'attività trattamentale, egli si rende conto che ciò resta inesorabilmente sulla carta e il suo unico modo di intervenire in tale attività è di "fare rapporto" disciplinare. "E anche sentire di più la guardia. L'educatrice, lo psicologo e l'equipe non si deve basare solo nel vedere se il detenuto ha rapporti, perché a volte noi rapporto non lo facciamo per una serie di cose Bisogna chiedere all'agente come si comporta all'interno (il detenuto). Attingere bene quello che dice la guardia, e non che l'educatrice, come la maggior parte delle volte, dice < ma voi dite sempre che è scorretto > Noi sappiamo anche dare un giudizio sulla persona, cosa che ancora adesso si fa sulla carta, ma in pratica non si fa" (cust. FG).

In tal modo, il ruolo dell'agente viene rafforzato nella sua funzione meramente normativa, in senso repressivo, e ciò si ricollega ad un ultimo aspetto dei tratti generali della cultura giuridica del custodiale: quello dell'autoritarismo. Si entra così nell'ambito della sfera dei rapporti tra agente e detenuto, rapporti che sembrano essere caratterizzati da un complessivo atteggiamento di reciproca diffidenza. "Purtroppo quando stai nell'ambiente del penitenziario, all'interno dei reparti, inizi ad imparare un po' la mente del detenuto, perché una persona che sta ristretta studia come poter fare per ottenere qualcosa" (cust. FG). Questo atteggiamento implica un perenne stato di tensione da parte dell'agente e che non vi possa mai essere totale fiducia nel detenuto. "Non è che ci si può dare (al detenuto) tanta sicurezza, tanto affidamento, quindi bisogna stare sempre sul chi va là" (cust. FG). "Il detenuto è imprevedibile, bisogna stare attenti, perché caratterialmente è così: studia la notte come poter fregare la mattina" (cust. FG). Riaffiora in questo contesto il rigido orientamento alla regola: il rapporto col detenuto non può essere confidenziale in quanto la legge non lo consente. "Innanzitutto noi non abbiamo un rapporto fraterno () perché non ci è permesso questo tipo di rapporto qua" (cust. TO).

La riforma ha inciso solo parzialmente su quest'aspetto; la diffidenza del mondo carcerario verso quegli agenti che instaurano rapporti troppo cordiali coi detenuti è tuttora presente. L'immaginario carcerario è percorso ancora dal mito dell'agente colluso col detenuto. "Anche perché se ci si mette a parlare con loro (i detenuti) subito pensano che ci sia un nesso (). Fino a qualche anno fa abbiamo avuto un vecchio regolamento, agenti che diceva sì di parlare col detenuto, ma senza fermarsi troppo tempo Noi, in qualità di graduati, possiamo parlare del più o del meno, () si cerca di parlare, di convincerli ad assumere altri comportamenti, di non continuare a commettere questi reati da consumarsi in carcere la gioventù. Il vecchio regolamento anche a un agente non dava la possibilità di poter stare lì a parlare con un detenuto più di qualche volta, perché altrimenti, i tempi che erano, si andava a pensare subito che era qualche progetto per la confidenza data al detenuto la gente cominciava a guardare l'agente con sospetto, e cominciava a essere messo sott'occhio o ad essere additato come la persona che andava d'accordo col detenuto (). Oggi si cerca di sapere di più per evitare che poi accadano episodi gravi, in modo da poterli aiutare" (cust. FG).

In una situazione di questo tipo, mondo del detenuto e mondo del custodiale non possono che rappresentare universi separati da una barriera invalicabile: noi e loro. A volte tale barriera può essere superata solo tramite il sentimento dell'odio. "Loro (i detenuti) con noi non si scoprono mai e non ti lasciano trasparire (sic) assolutamente niente. Quindi per noi è difficile vedere e venire un po'a conoscenza dei problemi che loro hanno. Siamo due categorie di persone completamente diverse e quindi c'è odio" (cust. FI).

Le comunicazioni avvengono all'interno della popolazione reclusa, l'agente sembra doversi limitare ad osservare queste comunicazioni. "È difficile che parlino con noi, magari tra di loro (). Non so come siano i rapporti tra di loro. Loro parlano, noi non possiamo origliare" (cust. FI). Talvolta è il detenuto stesso che si nega alla comunicazione. "C'è il detenuto che quando ci parli se ne sbatte completamente, che dice: < che me ne frega, che mi interessa >. Cioè, c'è quello che cerca di parlare, di collaborare, ma c'è quello che se ne frega di quello che gli dici. C'è quello che parla sempre della stessa cosa (). Tenta di far finta che ti ascolta, poi esce dall'ufficio.." (cust. TO).

Anche quando cerca di instaurare un rapporto "umano" col detenuto, l'agente è come condizionato da un modo di pensare che conduce all'istanza securitaria. Egli si rende conto che se non esiste comunicazione col detenuto la situazione può diventare a rischio per la sorveglianza; se, infatti, la via della richiesta verbale è preclusa, non resta che l'alternativa violenta. "Perché se non c'è il rapporto ("umano") e i detenuti vengono segregati e pensano che noi siamo lì solo per reprimere, per sorvegliarli e devono osservare per forza le nostre cose allora può diventare motivo di scontro (). Forse è meglio avere un rapporto per capire che tipo è il soggetto, la personalità, se è uno che può far violenza diretta agli altri, o contro se stesso" (cust. FG).

Ogni detenuto ha le sue particolarità, "la sua testa" che va attentamente studiata, non per un rapporto umano fine a se stesso, ma per prevedere le sue reazioni pericolose. "Poi c'è il detenuto iroso, la cosa è più complicata. S'immagina come stiano psicologicamente, si cerca di comunicare (). Non si sanno le reazioni di una persona e si sta di più sul chi va là. A volte capita una giornata nera, uno dice una parola che non dovrebbe dire, si crea quel conflitto A seconda della testa del detenuto" (cust. FI). In altre circostanze il "dialogo" col recluso è finalizzato alla delega al trattamentale, "all'esperto" che risolverà i problemi. "Cerchiamo di dialogare, affrontiamo noi personalmente queste cose e poi chiamiamo gli educatori, gli psicologi, mettiamo nelle mani degli esperti che valutano la situazione" (cust. FI).

La stessa immagine del detenuto che predomina nel custodiale è assai diversa da quella che si vedrà prevalere negli operatori del trattamentale. Il detenuto è visto come una persona che ha un atteggiamento di rivalsa nei confronti del mondo intero. Per verificare se il "recupero" è avvenuto è sufficiente constatare se permane questo atteggiamento. "Su dieci uno se ne salva perché si vede una persona che ha capito di aver sbagliato e non ce l'ha con nessuno, né con la legge che lo ha condannato, né con chi ha eseguito per l'arresto e né con chi lo ha custodito" (cust. FG).

In particolare, la persona sieropositiva è caratterizzata da una sorta di doppia colpevolezza: al reato per il quale si è in carcere si aggiunge una malattia che "ci si è andati a cercare" con comportamenti riprovevoli, quali l'omosessualità o la tossicodipendenza. "Mi dispiace, però la malattia è una malattia che uno si è andato anche a cercare. Non è che una malattia che dice < io l'ho presa per eredità > È una malattia che loro si vanno a procurare. Io posso fare le spese (n.d.r.: espressione che in dialetto pugliese significa svolgere un servizio) ad una persona che cerca in tutti i modi, le maniere di essere una persona sana, di poter collaborare per la società, e crescere per il bene sociale. Ma non posso stare a spendere dieci lire delle mie per una persona che, devo dire non solo devo curarti, ma farti andare avanti a rubare.." (cust. FG).

In quest'ultima affermazione si sente l'eco dell'impatto della legge 222 nell'immaginario carcerario: il detenuto sieropositivo non solo è pericoloso, ma anche un "privilegiato" a cui è stata concessa la licenza a delinquere. Egli è visto come un individuo rifiutato dall'intera società, dalla sua stessa famiglia, e che, non avendo più nulla da perdere, non conosce remore. "Basta dire che li hanno allontanati anche i genitori, ci sono mamme e padri che non ne vogliono più sapere, dopo tante sofferenze e tante di quelle promesse al punto che arriva una mamma che l'ha cresciuto e partorito a dirci < basta non ne voglio più sapere > ().  All'umanità non serve più e non dà niente e loro sfruttano questa situazione sapendo che stanno lì per morire. Io mi comporterei come loro, mi mancano due - tre anni, mi dò alla pazza gioia, faccio dico e rompo quello che mi capita e dò fastidio a tutti" (cust. FG).

Viene rafforzata. in tal modo, l'immagine del detenuto che pone continue richieste e, quando non ottiene ciò che desidera, minaccia (52). "Nei reparti (il detenuto) si rivela tutto il contrario di quando viene chiamato sia da un magistrato, oppure da un medico, poiché è totalmente diverso. Cioè dove non può arrivare lui ad ottenere qualcosa lo cerca di fare con la forza, anzi in quell'istinto che loro hanno proprio e quindi tagliandosi. Lo hanno fatto anche qui a Foggia, infatti si schiacciano la lingua, o la gengiva, o la guancia e poi mischiano sangue e saliva e facendo finta di starnutire te la buttano addosso, facendo così capire che possono farlo in ogni momento" (cust. FG).

Il sangue infetto diventa, per il detenuto, un'arma di tale potenza da essere in grado di capovolgere i rapporti di forza nel conflitto custode-custodito. Rapporti di forza che appaiono ancora oggi il tratto essenziale di una relazione agente-detenuto segnata da una concezione autoritaria dello Stato e della condizione subalterna del cittadino, una sorta di paternalismo autoritario. Sono numerosi gli aspetti della vita carceraria ove emerge tale autoritarismo.

Talvolta esso si esprime con una concezione anti-individualistica dello Stato nella la quale il cittadino è "patrimonio della collettività". "Perché ci sono dei diritti (dello Stato) nei confronti appunto di tutte le persone che nascono sul territorio e quindi c'è un'azione dello Stato di tutelare la salute di tutti i suoi cittadini siano essi detenuti o siano essi liberi cittadini, per cui c'è questa forma di considerare l'individuo quale patrimonio della collettività (). Lei deve capire che io sono un assertore del collettivo, cioè l'individuo è un bene della collettività" (cust. FI).

L'autoritarismo emerge anche nella interpretazione che si fornisce del fine rieducativo della pena, interpretazione che ha connotati sia moralistici, che poco rispettosi della libertà interiore dell'individuo. "Anche noi svolgiamo un compito molto delicato, perché poter rieducare il detenuto all'interno non rieducare, cercare di portarlo almeno sulla retta via, di fargli cambiare opinione" (cust. FG). In alcune interviste non si nasconde che il fine rieducativo può essere di mera facciata, allo scopo di godere di sconti di pena. "I benefici di pena possono servire per educarlo a rispettare le regole, il prossimo, il compagno e la gente e a rispettare l'istituzione. Se non altro per ottenere quel beneficio sotto l'aspetto pratico" (cust. FI).

Il paternalismo si manifesta anche nell'uso di mezzi coercitivi per intervenire sull'integrazione del detenuto con la vita dell'istituzione. Un agente afferma, ad esempio, rispetto al rifiuto del recluso di accettare la collocazione in una determinata cella: "Il carcere nessuno qui se l'è acquistato, e un indice di maturità e di educazione significa anche saper convivere con gli altri e saper accettare i difetti degli altri, se non altro perché gli altri accettino i propri. Allora qualche volta è necessario mostrargli un po' i denti per fargli capire certi concetti" (cust. FG). Tali mezzi vengono usati anche rispetto a situazioni di totale abulia; si cerca di dare ciò che spetta per legge e poi qualche "scossone a livello morale". "Per quanto riguarda l'igiene personale lo forniamo ai detenuti indigenti come la legge prevede (). Il detenuto deve farne specifica richiesta, certo sarebbe meglio però purtroppo non si può intervenire così d'autorità, o meglio si fa per i casi eclatanti, perché a volte ci sono dei soggetti che presi dall'abulia più totale si lasciano quasi morire. Certamente ci sono anche degli interventi energici, cioè degli scossoni a livello morale" (cust. FG). Altro elemento di questo autoritarismo è l'immagine del detenuto modello che emerge in alcune interviste, un'immagine focalizzata in principale modo sull'atteggiamento remissivo del recluso. "Si vede il detenuto educato, si vede dal comportamento, da come si sveglia la mattina, poi semmai il detenuto che non parla mai, che non dà fastidio, che cerca di trascorrere le sue ore facendo qualche lavoretto, andando a scuola (). Normalmente viene il detenuto che vuole parlare, che si mette all'udienza e dice < beh, ispettore, vorrei cambiare cella perché, non è che mi trovo male, e già quando comincia a dire sa, non è che mi trovo male  però sono ragazzi giovani, sono pieni di vita, cantano, ridono, e la sera vogliono guardare la televisione a volume alto, io sono anzianuccio, sa, se mi mette in quella stanza starei meglio >, io chiedo alla guardia è vero?, si comporta bene?, allora è a posto, lo cambio" (cust. FG).

È l'immagine dell'anziano detenuto ormai del tutto "prigionizzato" (53) che emerge da queste frasi; il detenuto che sa stare al suo posto, chiedere coi dovuti modi ciò che è consentito chiedere. Rispettate tali regole di sottomissione, il custode può anche mostrare il suo volto meno arcigno.


Il codice materno degli operatori del trattamentale


In che senso è possibile affermare che uno degli elementi caratteristici della cultura giuridica degli operatori del trattamentale sia la percezione del proprio compito professionale come un programma di prestazioni e non regolativo? Innanzitutto, la gran parte di tali operatori danno una definizione dei loro compiti istituzionali che, sebbene a volte parta da ciò che prevede la legge, va molto di là dei programmi regolativi. Si può dire che la regola rigida del diritto, lungi dall'essere rappresentata come la falsariga lungo la quale l'operatore deve necessariamente muoversi, viene percepita come un quadro i cui confini devono essere superati dall'operatore per intervenire efficacemente. La legge appare come eccessivamente semplificatrice, inadatta a descrivere la complessità dell'intervento socio-terapeutico fondato su di un sapere "tecnico" estraneo a quello giuridico. "Descrivere la mia attività in modo sintetico sarebbe molto semplice in base alla direttiva impartita dal Ministero di Grazia e Giustizia, secondo il quale noi (psicologi) dovremmo esclusivamente fare una diagnosi psicologica, un quadro sintetico della struttura di personalità e una diagnosi che descriva la possibilità del detenuto di commettere condotte autolesive o eteroaggressive. Se ci si limitasse solo a questo sarebbe un lavoro alquanto sterile" (tratt. FI).

Il senso del lavoro del trattamentale va trovato al di là del rispetto formale delle regole, in quanto il suo obiettivo è quello di fornire una prestazione al detenuto e all'istituzione carceraria. Alcuni operatori si lamentano delle poche istruzioni ricevute da parte dell'amministrazione, ma non perché richiedano regole più rigide, bensì perché ritengono che essa si preoccupi in modo eccessivo degli aspetti burocratici della vita carceraria. "Quando mi è stato proposto questo incarico (psicologa al Servizio Nuovi Giunti) ho avuto semplicemente un brevissimo colloquio di dieci minuti con l'allora vicedirettore, il quale mi ha dato semplicemente il numero di telefono della collega. Le ho telefonato e mi ha detto semplicemente le cose pratiche da dover fare, moduli da compilare, dove mi trovavo, dove potevo avere le indicazioni sull'ubicazione dei detenuti", cose molto pratiche" (tratt. FI).

Rispetto a questo atteggiamento si differenziano talvolta gli assistenti sociali, i quali sembrano gli operatori del trattamentale maggiormente legati a rispettare i limiti normativi e burocratici. "Sono compiti definiti dalla legge, e sono il compito di consulenza rispetto alla situazione sociale e psicologica di detenuti che hanno presentato delle forze per ottenere i benefici di legge. Il nostro contributo si va ad unire al contributo degli altri operatori, l'unione di questi contributi viene riportata in una relazione che viene inviata all'autorità giudiziaria perché possa valutare se possa concedere o no quei benefici. Questo è un aspetto del lavoro, altro è invece relativo all'esterno del carcere ed è, di nuovo, sempre definitivo per legge" (tratt. TO).

Mentre la custodia sembra concentrare il suo programma regolativo nella missione: "Eseguire la pena attraverso il rispetto di regole rigide, anche se negoziabili in fase attuativa", il trattamentale non concepisce la funzione principale che il carcere deve svolgere attraverso la grammatica negativa della pena, della giusta espiazione del male commesso; la pena detentiva viene vista, invece, quasi come un ostacolo, seppur inevitabile, al lavoro di sostegno del detenuto. "La cosa più difficile del nostro lavoro è in carcere non di consolarli, ma di fargli accettare questa situazione, è il reato che purtroppo esiste, c'è una pena detentiva che devono comunque scontare loro stessi; dicono che non è giusto, però il reato c'è e non si può prescindere". (tratt. FG).

L'intervento sul detenuto non va calibrato principalmente sul reato che ha commesso, quanto sul suo vissuto personale. L'individualizzazione della pena è fondata, più che su di un bilanciamento tra reato e sanzione in una prospettiva retributiva, sull'analisi delle risorse affettive del condannato che consentano d'intraprendere un percorso di aiuto. In ciò gli operatori dal trattamentale sembrano aderire all'ambiguità nella stessa definizione giuridica della nozione di individualizzazione del trattamento che, attraverso "I continui e sistematici richiami alle cause psicofisiche alla devianza e agli altri aspetti soggettivi" ha indotto "a riconoscere nel testo [di legge] il permanere di un apparato ormai desueto" (54). In tale prospettiva, ambiguamente eziologistica ed individualista, va anche letto l'atteggiamento "umanitario" che emerge in molte interviste degli operatori del trattamentale. "Non una logica di potere, una personalizzazione, un'umanizzazione del carcere, un'attenzione direi quasi assoluta alla persona, intendendo per questo una particolare analisi dei vissuti trascorsi, delle identificazioni sperimentate, in modo da aiutare l'individuo a esprimere il meglio di se, anche se particolari reati porterebbero a etichettare il soggetto e quindi a rifiutarlo in loco. Credo che il compito specifico che abbia lo psicologo penitenziario, per sieropositivi in particolare, ma anche per tutti i detenuti, sia quello di far affiorare quelle risorse positive che ciascun individuo ha dentro di se, ma che per particolari condizioni soggettive non vengono alla luce" (tratt. TO).

L'esecuzione giuridica della pena detentiva non fa che aggiungere i problemi del vivere, in un'istituzione totale, a quelli personali e non rappresenta per il trattamentale un elemento fondamentale della missione professionale, bensì un problema da risolvere nel di per se già complesso servizio di sostegno da prestare alla persona detenuta. "I problemi sono complessi e molteplici, riguardano in particolare l'istituzione carceraria, che presenta di per se condizionamenti temporali, spaziali, di identità, di ruoli non indifferenti e che si aggiungono ai problemi che il soggetto porta con se () quindi problemi che il carcere aggiunge a quelli individuali" (tratt. TO).

Il valore giuridico della pena come risposta normativa al reato perde centralità, lasciando spazio ad un profondo scetticismo sull'efficacia deterrente della sanzione penale, in particolare rispetto alle persone provenienti da un percorso di tossicodipendenza. "Il tossicodipendente () sa che nel momento in cui si fa una pera corre il rischio di rimanerci, perché ha una serie di variabili che non può controllare, però in qualche modo è un rischio che non si considera, viene rimosso; questo dimostra il fatto che nei confronti dei tossicodipendenti, anche con la legge Jervolino - Vassalli, ogni forma di deterrenza all'uso di eroina è fallita. Uno può dire io ti tolgo la patente, ma se uno sa che rischia la pelle quando si fa un buco, può considerare che può perdere la patente, o che viene richiamato dall'assistente sociale?" (tratt. FI).

Molti operatori del trattamentale sembrano rispondere in modo negativo ad una domanda dirompente per gli scopi manifesti del carcere: "ma se il carcere non serve a distogliere dal reato, l'intervento del trattamentale in carcere è in grado di differenziarsi in qualche misura da quello effettuato nei confronti delle persone disagiate della società extra-muraria?" L'orientamento al servizio e non alla regola emerge anche nella diversa considerazione che gli operatori del trattamentale mostrano delle norme dell'ordinamento penitenziario che consentono di accedere a benefici e sconti di pena. "Per fortuna la legislazione non prevede soltanto che la pena venga espiata fino all'ultimo giorno, ma prevede una possibilità di uscire dal carcere. Nel momento in cui si inizia a cercare un percorso lavorando seriamente su degli obiettivi, si dà più che una speranza, una convinzione, quasi assoluta alla persona, intendendo per questo una particolare analisi dei vissuti trascorsi, delle identificazioni sperimentate, in modo da aiutare l'individuo a esprimere il meglio di se, anche se particolari reati porterebbero a etichettare il soggetto e quindi a rifiutarlo in loco. Credo che il compito specifico che abbia lo psicologo penitenziario, per sieropositivi in particolare, ma anche per tutti i detenuti, sia quello di far affiorare quelle risorse positive che ciascun individuo ha dentro di se, ma che per particolari condizioni soggettive non vengono alla luce" (tratt. TO).

Lo sguardo è quindi rivolto al futuro e non al passato (come nell'orientamento alla regola del custodiale); i benefici di pena consentono di avere uno strumento attraverso il quale progettare un percorso riabilitativo del condannato. Ciò non significa che: anche nella sfera di attività del trattamentale non esista un rapporto di strumentalità tra il recluso e l'operatore (55), uno scambio improprio fra premiali e consenso all'intervento terapeutico, ma tale strumentalità ha una finalità di mero ordine all'interno del carcere (come per il custodire), così è posta, in una prospettiva extra -carceraria, come supporto per reggere l'avvio di un percorso che, per essere efficace, dovrà svilupparsi attraverso un consenso più genuino da parte del detenuto. Gli operatori del lI3ttamentale percepiscono la strumentalità delle richieste dei detenuti, ma ritengono che essa possa anche essere giocata in positivo nella prospettiva dell'aggancio terapeutico. "Noi spesso ci rendiamo conto che la richiesta è strumentale, cioè la persona vuole andare in comunità non perché vuole andare in comunità, ma perché è un modo per uscire. Secondo me è comprensibile anche questo () a volte si può rafforzare una scarsa motivazione. Anche perché io dico, ben venga, poi dopo può nascere di tutto e quindi senz'altro è positivo e a volte questo si è verificato" (tratt. FG).

Anche rispetto al modello argomentativo il trattamentale si distingue dal custodiale, in quanto sembra più interessato a verificare l'efficacia degli eventi, piuttosto che a rispettare norme. Nelle interviste aI trattamentale non è raro riscontrare dichiarazioni di compiacimento rispetto ai risultati avuti dal proprio intervento, anche quando tali risultati non sono di reinserimento sociale del detenuto, ma di semplice miglioramento della qualità della vita penitenziaria. "Qui a Torino all'inizio sì, c'era proprio l'emarginazione totale (del detenuto sieropositivo), la caccia alle streghe, cioè si cercava di sapere se il compagno di cella era sieropositivo o no, e finche non si aveva una risposta chiara c'era proprio il guardarsi con sospetto (). Un po' per volta quest'opera di sensibilizzazione direi che è servita. Direi che l'emarginazione si è molto smorzata, e adesso io noto che i detenuti in genere vengono accettati, di qualsiasi tipo siano, anche dagli altri, anzi, in alcuni dei detenuti sani si è sviluppato proprio un senso di solidarietà per i compagni più deboli" (tratt. TO).

Tale orientamento allo scopo emerge anche dalle lamentele che gli operatori manifestano per l'insufficienza delle risorse a disposizione per poter effettuare il reinserimento, il sostegno dei detenuti e, quindi, per raggiungere realmente gli obiettivi prefissati (56). "Ci occupiamo della rieducazione dei detenuti. Rieducazione fra virgolette, perché con i mezzi e con il personale che abbiamo, credo che non voglio dire che non esista, ma che sia ridotta proprio al minimo, io ci credo fondamentalmente che c'è un percorso che può essere fatto" (tratt. FI).

La tendenza ad avanzare argomentazioni sul modello di programma di scopo fa sì che, in generale, sia molto sentito il pericolo della burocratizzazione che impedisce un rapporto più profondo col detenuto e, conseguentemente, il raggiungimento degli obiettivi del proprio lavoro. "Uno dei problemi del nostro lavoro e che siamo soppressi (sic) dalle carte, perché in genere l'educatore dovrebbe essere più presente in sezione per fare colloqui, ma purtroppo non si può fare un lavoro ben fatto in questo senso. Molto spesso non conosco molto bene le persone perché non ho la possibilità e il tempo da impiegare per parlare con loro" (tratt. FI).

L'individualizzazione dell'intervento, avendo necessità per esplicarsi di cospicue risorse conoscitive, viene spesso ostacolata da un eccessivo carico di lavoro. "Probabilmente ci sarebbe bisogno di una maggiore attenzione per tutti, individualizzata. Bisognerebbe che gli interventi e la conoscenza della persona fosse sufficientemente approfondita, in modo da avere tutti gli elementi per valutare se quella persona ha bisogno particolarmente di essere seguita, indirizzata, sostenuta, informata" (tratt. TO).

Soprattutto molti assistenti sociali lamentano la limitatezza del loro intervento a causa di un rapporto troppo superficiale col detenuto. "Purtroppo, per via del carico di lavoro, l'intervento è estremamente limitato, cioè veniamo incaricati di intervenire nel momento in cui il tribunale emette un decreto di osservazione, perché la persona ha presentato un'istanza per ottenere un beneficio. Normalmente a quel punto iniziamo a muoverci, svolgendo alcuni colloqui in carcere, che sono pochissimi. In realtà la relazione con il detenuto è molto superficiale" (tratt. TO).

La burocratizzazione emerge anche da un'organizzazione dell'amministrazione penitenziaria contraddistinta da ruoli troppo rigidi, che "lavora per compartimenti stagni" e non ha contatti con gli operatori sociali esterni al carcere.

"Purtroppo nelle istituzioni statali, e in questa in particolare, i ruoli sono rigidi e l'esperienza porta ad irrigidire ancora di più, infatti noterai che più parli con persone anziane di servizio e più le troverai molto rigide, mentre persone appena entrate normalmente sono più duttili () Il tutto funziona a compartimenti stagni () non puoi fare un discorso completo, perché non ha senso organizzare qualcosa all'interno dell'istituto senza () avere comunque dei riferimenti esterni (). Essendo in un'istituzione molto formale il nostro ruolo c'impedisce d'avere contatti con l'esterno" (tratt. TO).

La percezione è quella di operare in una realtà eccessivamente e rigidamente regolata; in tal modo, gli interventi vengono giudicati tardivi e non si riescono a scorgere i risultati del proprio impegno. "Ci si scontra sempre con enormi difficoltà burocratiche e difatti io non ho mai visto interventi, né da parte mia, né da parte di altri servizi, immediati, dove si può prendere una decisione" (tratt. TO)

Il problema del sovraffollamento e della carenza di personale induce nell'operatore il rammarico di non poter seguire attentamente tutti i detenuti. In questo modo, egli è costretto a seguire delle regole che non sono quelle funzionali all'intervento socio-terapeutico, vivendo tale situazione come un'imposizione di fatto. Si pensi al criterio informale che sembra essere più diffuso per stabilire la priorità negli interventi: l'avvenuto compimento di gesti autolesivi. In carcere tagliarsi può diventare l'unico modo a disposizione del detenuto per farsi sentire. "Visto che appunto siamo pochi e la popolazione detenuta è molto alta come numero, noi stessi (educatori) facciamo delle regole e diamo la priorità ai soggetti per esempio che commettono atti autolesivi e che ci segnalano le guardie o gli psicologi" (tratt. FI).

Rispetto alla percezione del proprio ruolo professionale il trattamentale si identifica in maggior misura con il modello dello specialista. A tal proposito, una differenza macroscopica rispetto al custodiale è che, soprattutto per quanto riguarda gli psicologi, essi fanno spesso riferimento ad una professionalità specifica, fondata su saperi che non hanno riferimenti diretti alla situazione carceraria. "Io ho una formazione analitica, junghiana, individuale e di gruppo, psicodramma analitico junghiano (). L'approccio mio è analitico, quindi si avvale di colloqui individuali, in cui io lavoro sul mio controtransfert, cioè cosa sento nei confronti di questi ragazzi. In qualche modo  l'operatore deve anche lui avvicinarsi all'angoscia di morte, per aiutare l'altro a elaborarla. Nel gruppo di psicodramma lo stesso, anche se lì è molto importante il transfert laterale, cioè come i ragazzi tra di loro si aiutano; soprattutto nel gruppo, cerchiamo di scardinare l'immagine del sieropositivo, come pseudoidentità, ma cerchiamo di andare più a fondo, sulla persona" (tratt. TO). Per ottenere tale conoscenza interiore del detenuto, ci si avvale ampiamente di strumenti professionali di formazione extra-carceraria. Ad esempio, nel ricostruire il vissuto del detenuto sieropositivo e della sua struttura di personalità, proponendo classificazioni e strumenti d'intervento. Si assiste, in altri termini, a quel fenomeno che è stato chiamato "affermazione tecnistica del ruolo", con il conseguente rischio che "enfatizzare la necessità di indagare più a fondo sulla psiche e sulla personalità del soggetto [] conduca a rafforzare e legittimare le funzioni di controllo della stessa [istituzione carceraria], insinuandole, al di là delle stesse esigenze istituzionali, nel profondo della sfera soggettiva" (57). "C'è questo vissuto di morte, che in molti di loro porta molto concretamente a fare i conti quotidianamente con una malattia che si sa che può uccidere. Qui entra anche in gioco però la struttura della personalità del detenuto. Ci sono quelli che reagiscono in modo ossessivo quasi onnipotente, nel controllo dei farmaci e nella cura e nel cercare di rimandare il più possibile il deterioramento fisico e ci sono invece quelli che purtroppo si fa fatica a gestirli, anche dal punto di vista sanitario, perché hanno un continuo rifiuto e la difficoltà ad accettare il loro stato di malati. Quindi secondariamente anche il rifiuto alla vita. Sono secondo me i due aspetti di sentimenti di onnipotenza che agiscono in modo diverso, c'è quello che dice io riesco a controllarla e quindi a difendermi, mentre l'altro aspetto è quello che dice non ho bisogno di cure perché sto bene così e non ho bisogno di nulla" (tratt. FI).

Come si evince da queste dichiarazioni, le stesse reazioni del detenuto vengono classificate secondo schemi scientifici, derivanti da un sapere che possiede strumenti concettualmente molto sofisticati. Nonostante gli ostacoli di carattere burocratico già rilevati, gli operatori del trattamentale, hanno inoltre compiti che li mettono in contatto con operatori all'esterno dell'istituto e coi familiari dei detenuti, i quali, oltre ad essere percepiti come altri utenti del servizio, consentono un contatto quotidiano con la realtà extra-muraria. "Siamo la figura professionale (l'assistente sociale) che ha il piede dentro, ma anche il piede fuori. Siamo l'unica figura professionale che non vede solo il detenuto, ma anche il contesto familiare, i servizi esterni" (tratt. FI).

In altri termini, l'operatore del trattamentale, rispetto al collega del custodiale, sembra subire in minor misura gli effetti della c. d. "prigionizzazione" che non si manifestano di certo solamente rispetto alla popolazione detenuta. Ma qual è l'immagine prevalente nel trattamentale di questi colleghi?

Dalle interviste tale immagine evoca figure di operatori scarsamente qualificati, di bassa scolarità, condizionati dalla struttura quasi militare in cui lavorano, timorosi rispetto al contagio dell'AIDS perché in possesso di informazioni imprecise sulle modalità di trasmissione del virus. "Gli agenti sono anche spaventati, pur avendo avuto tanti corsi di formazione, il loro livello culturale è ad un livello molto basso e sono esasperati, perché c'è carenza di personale. Probabilmente il comportamento degli agenti verso i malati di AIDS è diverso da quello che hanno nei confronti degli altri detenuti. Fanno paura e la paura legata alla stanchezza, legata all'esasperazione della propria condizione di lavoro, porta a dei comportamenti, nei confronti di questi detenuti, che ovviamente sono diversi che nei confronti degli altri" (tratt. TO).

Ciò che gli operatori del trattamentale rimproverano maggiormente a quelli del custodiale è, in particolare, la discriminazione dei detenuti sieropositivi. "Lo dicono (gli agenti di polizia penitenziaria) non davanti al detenuto, ma in tante situazioni, non verbalmente, questo evitare qualsiasi contatto. Per esempio mi è capitata di dare la mano a una persona e sentirmi dire: < Signora, lei è matta a dare la mano a questo, può contagiarla >. Questo rimanere personalmente lontani, evitare il contatto fisico e preoccuparsi di chi ha questo contatto, pur avendo spiegato alla custodia in varie occasioni l'amministrazione ha creato occasioni strutturate di formazione alI'AlDS. La custodia ha avuto modo a più riprese di sapere quali sono le modalità del contagio. Nonostante questo c'è sempre questo allarme per qualsiasi tipo di contatto" (tratt. FI).

In qualche modo, la situazione dell'agente è oggetto di compatimento. "Anche perché nessuno li ha mai preparati a questo tipo di problema; e allora un po' purtroppo per la scarsa cultura che hanno, un po' anche proprio per le difese automatiche che uno sviluppa se non ha le conoscenze adeguate, io vedo che la maggior parte del personale ha paura, perché non conosce la malattia, la considera come la peste" (tratt. TO).

Al custodiale si imputa, in particolar modo, proprio quel rigido orientamento alla regola, quell'autoritarismo nei rapporti coi detenuti che si contrappongono punto per punto al codice materno della cultura giuridica del trattamentale. "Sebbene ci sia stata la riforma del personale di polizia penitenziaria, sebbene sia anche elevato il titolo di studio delle persone che oggi svolgono  l'attività di agente all'interno del corpo di polizia penitenziaria, in ogni caso il modo in cui viene considerato il detenuto ha delle radici abbastanza profonde e molto vecchie negli anni. Per quanto la riforma abbia dato alla polizia penitenziaria un mandato anche trattamentale Non dimentichiamoci che fino alla riforma di polizia penitenziaria il regolamento del corpo vietava all'agente di poter parlare col detenuto se non per dargli ordini, per dirgli fai questo o fai quello. Si è caricato sulla mentalità per la quale il detenuto deve essere tenuto a distanza, non si può avere un rapporto confidenziale con il detenuto, per la sicurezza. Molto spesso questo intervento è di carattere contenitivo: ti prendo, ti faccio parlare con l'ispettore, ti faccio rapporto, ti denuncio, perché stai facendo questa o quest'altra cosa" (tratt. FI).

Alcuni operatori persistono nell'utilizzo dei termini "personale militare" o "guardie" per designare la polizia penitenziaria, ignorandone (spregiativamente? per segnarne il ritardo nell'adeguarsi alla riforma?) l'avvenuta smilitarizzazione. Anche nel descrivere i mutamenti introdotti dagli agenti di più fresca nomina le interviste fanno emergere, tuttavia, una situazione di violenza e di sopraffazione. "Mentre in passato erano diffuse nel gergo carcerario frasi molto poco belle tipo: < se li (i detenuti sieropositivi) potessero fare a sapone sarebbe meglio >, voglio dire però che adesso la mentalità si è molto modificata e c'è una maggiore attenzione nei confronti dei problemi di questi ragazzi e lo stesso personale di polizia penitenziario molto spesso ci segnala dei problemi di questi ragazzi, siccome loro vivono a contatto con questa gente" (tratt. FG).

L'atteggiamento complessivo del trattamentale è quello materno della condivisione, della comprensione, dell'intervento per il bene del detenuto, l'intervento in positivo rispetto a quello meramente repressivo del custodiale. Ciò influisce anche sull'immagine che viene interiorizzata del detenuto.

Quest'ultimo viene percepito non come colui che deve scontare la pena perché ha commesso un reato, ma come un soggetto bisognoso di sostegno, che è arrivato al reato condizionato da fattori socio-culturali. Questo vale in particolare per il detenuto sieropositivo. "Il sieropositivo, rispetto al tossicodipendente, si trova sempre in maggiore difficoltà, perché proviene da una storia di tossicodipendenza più lunga, da una situazione socio-familiare esterna molto spesso difficoltosa (). Molto spesso i rapporti familiari sono, non dico ormai inesistenti, ma quanto meno non facilmente recuperabili, perché sappiamo tutti che al di là della situazione culturale della persona tossicodipendente, purtroppo si scatenano inutilmente delle dinamiche familiari" (tratt. FI).

Sono le stesse modalità di contatto degli operatori del trattamentale col recluso, per lo più colloqui direttamente richiesti da quest'ultimo, che favorisce un rapporto più collaborativo e un'immagine più positiva del recluso. "Noi vediamo il detenuto in una situazione molto tranquilla, in un colloquio, in genere è disponibile verso di noi mentre stare in sezione nei momenti di conflitto, nei momenti di crisi, in cui il detenuto brandisce la lametta, credo che evidentemente crei quest'ansia nella custodia" (tratt. FI).

Anche il contatto fisico col detenuto sieropositivo è reso meno problematico dalla minore invasività dei rapporti (solitamente non si va oltre la stretta di mano). Ciò determina anche la non necessità di utilizzare strumenti di precauzione come guanti, mascherine o altro che rendono difficile la comunicazione (59).

Nell'immagine del detenuto sieropositivo si sottolinea soprattutto la discriminazione che egli deve patire nel contesto carcerario (da parte degli altri detenuti e del custodiale), emarginazione dovuta in buona misura alla ignoranza dei mezzi di trasmissione del virus. "Vengono in un certo senso emarginati qui all'interno del carcere nelle varie celle, quando arriva un nuovo detenuto che deve stare insieme con gli altri allora chi già sta nella cella chiede al nuovo arrivato se è tossicodipendente o sieropositivo, in modo da saper se deve essere rifiutato dalla popolazione carceraria. Perché non c'è una buona informazione su questa malattia per cui temono che anche il contatto, cioè anche il fatto di darsi la mano e toccare i vestiti altrui possa contagiarli" (tratt. FG). "Ho assistito davvero a degli episodi proprio di razzismo perché comunque e soprattutto nei primi tempi, intanto non si sapeva molto su questa malattia ed avevo sentito altri detenuti non malati che dicevano di esser stati in cella con detenuti sieropositivi e raccontavano di non aver dormito per ]5 notti per che avevano paura di camminare sullo stesso pavimento e di toccare le lenzuola, questo soprattutto all'inizio" (tratt. TO).

Questa discriminazione può essere così forte che chiedere di essere assegnato alla sezione dei sieropositivi può assumere il valore di un messaggio di morte. "Ho avuto un solo caso di un detenuto che mi ha detto subito di voler andare nella terza sezione, quella dei sieropositivi, un ragazzo tossicodipendente non sieropositivo, per lo meno lui ha affermato così (). Voleva andare in quella sezione perché si trovava meglio, ma senza dirmi realmente il perché. Era una persona con un passato particolare, molto a rischio di autolesionismo, ebbi un colloquio piuttosto lungo con lui e lo segnalai come persona con cui usare un'attenta sorveglianza. Dopo pochissimi giorni ho saputo che si è impiccato. Quindi probabilmente anche dietro alla sua volontà di andare insieme a dei sieropositivi può darsi ci fosse questo desiderio di morte che lui cercava di manifestare anche con questa sua volontà, desiderio di morte che comunque traspariva dal colloquio, per cui fu un colloquio piuttosto drammatico con questo ragazzo. E questo lo segnalai proprio come uno con la volontà di suicidarsi con ogni mezzo, anche con il fatto di stare assieme ai sieropositivi" (tratt. FI). Del detenuto colpito da HIV vengono rilevati gli elementi che consentono un approccio positivo al suo progetto esistenziale. Spesso si sottolineano anche gli aspetti collaborativi della personalità di quei detenuti sieropositivi che hanno mostrato dignità, attenzione verso gli altri, soprattutto se ciò è stato il prodotto di un intervento mirato e rappresenta, quindi, il risultato di un'attività del trattamentale. "Ragazzi che prima vivevano isolati e non avevano rapporti con nessuno, mentre ora sono entrati in questo gruppo di lavoro e hanno accettato la loro sieropositività in una maniera più normale. Quindi si sono inseriti anche nell'ambiente lavorativo e stanno lavorando e chiedendo di andare in comunità, chiedono l'aiuto medico sanitario cosa che prima non pensavo (). Dura da un paio di anni e va benissimo, hanno anche organizzato una visita in una comunità. Sono ragazzi che hanno bisogno di sentirsi uniti e di far parte di un gruppo, di essere sostenuti da quel rapporto che s'instaura tra gli operatori" (tratt. FG).

Gli stessi atti di aggressività del detenuto sieropositivo vengono talvolta letti in chiave di forza interiore. "Loro si sentono e forse sono stati emarginati all'esterno ed hanno questa loro forza interiore di questa malattia che possono contagiare. Allora questa aggressività e questa forza che pensano: < Io posso farti del male e tu non mi vuoi toccare >, allora la prima cosa che fanno quando vengono a colloquio se ne vengono con la mano così. È come una sfida" (tratt. FG).

Non si manca di accennare alle precauzioni usate dai detenuti sieropositivi per evitare ogni forma di contagio. "Alcuni sieropositivi sono veramente nobili per quanto riguarda l'attenzione verso l'altro" (tratt. FG). Si raccontano episodi edificanti, in cui emerge la dignità del ire di alcuni detenuti sieropositivi. "Questo detenuto è morto nel l992, un AIDS conclamato, sposato con due figli. Dieci anni di tossicodipendenza, poi naturalmente l'AIDS e la sieropositività. Ma ha sempre avuto una dignità di uomo molto forte, pur nella sua malattia vivendo emarginato da tutti nei vari periodi detentivi, questo ragazzo, aveva 28-29 anni, è stato molto dignitoso nella sua malattia. Al punto che la moglie e i figli non l'hanno mai abbandonato, negli ultimi tempi è stato in ospedale, e poi naturalmente è stato portato a casa quando era proprio in fin di vita. Ed è stato assistito amorevolmente dalla moglie e dai figli, cioè è stata presa la sua vita e la sua tossicodipendenza come una malattia qualsiasi e come una cosa che può capitare a tutti" (tratt. FG).

Un ultimo elemento di differenziazione tra custodiale e trattamentale è quello relativo alla percezione del rapporto che dovrebbe intercorrere tra Stato e cittadino, ovvero tra amministrazione penitenziaria e detenuto. In tale prospettiva, se andiamo ad esaminare quelli che sono i compiti istituzionali degli operatori del trattamentale vediamo che si tratta, per lo più, di obiettivi in positivo e non in negativo. Non si tratta di sanzionare o di vietare, ma di far fare, di coinvolgere, di riattivare risorse comunicative con l'esterno, di aiutare a gestire emotivamente la pena e la malattia, di fornire pareri per la concessione di benefici di pena. Obiettivi che richiedono un rapporto collaborativo con il recluso. Per poter attuare tali attività positive è necessaria una conoscenza dell'interiorità del detenuto, del suo vissuto, una condivisione dei suoi stati emozionali che non sono richiesti per il custodiale. In particolare, coi detenuti sieropositivi si deve entrare in confidenza, mostrando che non si ha paura di loro, contrapponendosi in qualche modo agli altri operatori del custodiale che rappresentano, invece, il volto feroce dell'istituzione carceraria. Sotto questo aspetto, gli elementi materni e paterni delle diverse culture carcerarie emergono con maggiore nettezza. "Eravamo arrivati a un livello tale di confidenza e di capacità di parlarci per cui si affrontavano tutti i temi, quindi anche una preparazione ad affrontare le malattie improvvise, le debolezze, e la morte, dei compagni e poi, in prospettiva, la propria (). Diverse volte il discorso della morte, dell'agonia è stato affrontato insieme a un sacerdote. Secondo me, anche questa non paura di parlare dei problemi, nascondendosi dietro un paravento, dietro un dito, dietro finte paure, li ha aiutati molto, nel senso che poi sapevano di poter parlare di qualsiasi cosa e di potersi confrontare, intanto con degli operatori che non avevano paura, proprio questo rapporto alla pari, in cui ci si può parlare sapendo che la persona che hai davanti non ci infetta per il semplice fatto di starci davanti, e loro sapendo che noi non avevamo paura, quindi l'abitudine a prendersi un caffè insieme, ogni tanto consumare un pasto insieme (). Tenendo presente che questi hanno due pene, non solo la pena della galera da scontare, ma hanno anche questa pena aggiuntiva della malattia" (tratt. TO). L'operatore del trattamentale per ottenere la collaborazione con il recluso ha necessità di scavare in profondità nella personalità del detenuto sieropositivo. In tale prospettiva occorre ad esempio confrontarsi con problemi esistenziali quali il "doppio calendario" della persona, al tempo stesso, reclusa e malata. "La persona (sieropositiva) ha il problema di fare i conti con il calendario, quindi l'incontro deve fare i conti con il carattere esistenziale, cercare di dare gli strumenti alla persona per vivere quello che gli resta da vivere. Il sieropositivo vede questa scadenza, la vede ravvicinata, il problema esplode in tutta la sua grandezza e complessità. Questo è il problema del sieropositivo, che ha a che fare con un doppio calendario, un rapporto con la giustizia e col carcere che ha una sua temporalità e dall'altra il fatto che la sua esistenza abbia anche una sua temporalità" (tratt. FI).

Interiorità, tuttavia, non significa maggiore conoscenza della vita carceraria. Soprattutto gli assistenti sociali confessano di conoscere molto poco di essa, considerato il carattere strumentale dei colloqui coi detenuti, e di doversi spesso limitare ad interventi di tipo, "riparativo", ovvero di mediazione tra recluso e personale di custodia. "Non parliamo di questi argomenti della vita carceraria. Abbiamo poche informazioni sul quotidiano, anche perché non entriamo nelle sezioni. I detenuti non ci fanno partecipi di questi aspetti. Quando si tratta di un colloquio per l'osservazione in genere siamo noi a fare delle domande e quindi il nostro è un atteggiamento un po' manipolativo, nel senso che comunque è un colloquio finalizzato all'osservazione. Quando la richiesta del colloquio è spontanea può anche succedere che la persona possa raccontare qualche episodio, ma in genere è sempre un intervento di tipo riparativo che si chiede all'assistente sociale (). Se in cella c'è stata una rissa all'interno della cella poi tutti prendono il rapporto, chi ha partecipato, chi non ha partecipato, chi ha cercato di dividere, e allora magari cercano di motivare < ma io ho cercato di dividerli e così via però mi sono preso il rapporto >. Però il detenuto di come vive quotidianamente oltre ad un malessere generalizzato, tende a parlare di se, del proprio malessere, della propria salute" (tratt. FG).

Il rapporto collaborativo col recluso può anche sfociare in atteggiamenti che si potrebbero definire, in contrapposizione al paternalismo autoritario imperante nel custodiale, di "possessività materna" nei confronti del detenuto. Sotto questo aspetto è interessante notare che molti operatori del trattamentale si rivolgono ai detenuti utilizzando l'appellativo "ragazzi". "Io chiamo ragazzi tutti i detenuti, anche se hanno 90 anni. L'altra volta, con un signore veramente anziano, ho detto < quel ragazzo > e tutti si sono un po' stupiti". (tratt. TO).

In modo ancor più significativo, in alcune interviste emerge il dispiacere che, una volta scontata la pena, o a causa di interventi della magistratura di sorveglianza, il detenuto sfugga alle cure del carcere. Ciò soprattutto per i detenuti sieropositivi che vengono percepiti come soggetti particolarmente vulnerabili nella realtà extramuraria. "Mi ricordo i primi che sono usciti, essendo dichiarati incompatibili con il carcere, in AIDS conclamato, e mi avevano fatto molta pena, perché qui dentro li vedevo seguiti, curati, tutti i giorni avevano le loro dosi di medicinali, contenuti, con una buona socialità. Il fatto di vederli uscire mi ha fatto molta pena, perché pensavo che andavano allo sbaraglio. Mentre qualcuno era contento che li avessero fatti uscire a me ha fatto molta pena, infatti, il primo gruppo che è uscito si è dissolto in pochissimo tempo" (tratt. TO).

L'immagine del figlio ammalato che sfugge alla tutela materna suscita pena ed apprensione. Che ne sarà di lui senza le amorevoli cure della madre-prigione? Sembra di scorgere, in questi atteggiamenti, il riflesso del diffondersi di quella nozione di solidarietà ablativa che è stata individuata come uno dei possibili esiti della privatizzazione del concetto di stato sociale; una solidarietà senza reciprocità, fondata sul principio del dono gratuito che "contiene un potente dispositivo di gerarchizzazione sociale che condanna il beneficiario alla sua incapacità e inferiorità e instaura un legame di sudditanza" (60).

In tale prospettiva, il detenuto non viene percepito come soggetto adulto, con cui interloquire attraverso il vocabolario della cittadinanza e dei diritti, ma come un individuo bisognoso di tutela e di un impegno morale che vada al di là del rapporto "pubblico" utente-operatore, ai confini con una solidarietà di tipo familistico, peculiare appunto del rapporto madre-figlio. In questi aspetti si coglie, ancora una volta, l'ambiguità dell'istituzione totale e il suo sottile potere di "assoggettamento"; potere che sembra diventare più pervasivo nella misura in cui si nasconde dietro un volto umano e benevolo (61).


La cultura giuridica in azione: l'esercizio di discrezionalità degli operatori penitenziari


La cultura giuridica mostra la sua influenza nel concreto esercizio della discrezionalità da parte degli operatori che sono chiamati ad applicare norme. Nei prossimi paragrafi cercherò di descrivere in quali termini le due diverse culture giuridiche degli operatori penitenziari che ho delineato incidano nella concreta attuazione di alcune norme dell'ordinamento penitenziario che regolano l'interazione tra detenuto sieropositivo e operatori carcerari. In tale prospettiva, sono state privilegiate normative la cui attuazione implicasse un qualche tipo di collaborazione tra gli operatori del custodiale e quelli del trattamentale. Per comodità espositiva, dividerò tali norme a seconda che riguardino la fase dell'ingresso in carcere del detenuto (la cd. fase di "spoliazione dei ruoli" di cui parla Goffman) (62) e la fase successiva della vita carceraria. Nella prima parte collocherò le norme che regolano la visita medica di entrata e, legata a questa, la normativa sul test sierologico e la riservatezza della cartella clinica. le norme di carattere amministrativo che disciplinano il cd. Servizio Nuovi Giunti, le norme sulla collocazione dei neo-detenuti nei reparti carcerari. Nella seconda parte, invece, esaminerò alcune normative riguardanti la vita carceraria che interessano in gradi diversi gli operatori del custodiale e del trattamentale; in particolare, le normative che riguardano attività di routine all'interno dell'istituto come la gestione dei reparti per detenuti sieropositivi, le perquisizioni nelle celle e i colloqui col trattamentale (con particolare riguardo al tema della distanza fisica tra operatore e recluso). Si è riservata, inoltre, una parte della trattazione alla legge 222, rispetto alla quale gli intervistati hanno espresso, più che affermazioni sulla loro attività di applicazione di norme, opinioni sulla legittimità della legge, in quanto essa contiene precetti normativi sui quali ne gli operatori del custodiale, ne quelli del trattamentale hanno diretta competenza (competenza che fa capo, in via principale, alla magistratura di sorveglianza e al personale sanitario).


L'ingresso in istituto


La visita medica d'entrata, il test sierologico e la riservatezza della cartella clinica


L'art. 11, 5° comma dell'ordinamento penitenziario prevede che "all'atto dell'ingresso nell'istituto i soggetti sono sottoposti a visita medica generale allo scopo di accertare eventuali malattie fisiche o psichiche" (63). Si tratta di una normativa con un grado di astrattezza piuttosto elevato, in quanto nulla è detto sulle modalità di tale visita e, in generale, su tutta la materia delle prestazioni della sanità penitenziaria. Il silenzio della legge è Stato interpretato come una rimessione alla piena discrezionalità dell'autorità amministrativa non senza che ciò abbia suscitato forti perplessità in dottrina (64). Tale indeterminatezza è stata in parte colmata dall'emanazione di alcune circolari che hanno dovuto richiamare l'amministrazione al rispetto della lettera della legge (65). La visita medica all'ingresso è particolarmente interessante per il nostro tema perché è in quella sede che viene proposto al detenuto la possibilità di sottoporsi al test sierologico, mentre in quelle successive la questione di maggiore rilievo è quella della riservatezza dei dati della cartella clinica del recluso. Rispetto a questi ultimi temi entrano in gioco normative di carattere generale che prevedono la non obbligatorietà del test (art. 5, punto 3, legge n. 135/90) e la tutela della riservatezza dei dati sanitari.

Tutte le normative citate, che sembrerebbero interessare esclusivamente il personale della sanità penitenziaria, in realtà interessano sia il trattamentale che il custodiale. Per un verso, perché gli operatori del trattamentale, nel corso dei colloqui coi reclusi, vengono spesso a conoscenza del loro stato sierologico.

Per altro verso, perché anche gli agenti di custodia. accompagnano il detenuto in ogni spostamento all'interno dell'istituto, sono in grado di acquisire delle informazioni sanitarie oggetto della tutela di riservatezza. Nelle nostre interviste è emersa, a tal proposito, una prassi che vede la presenza fisica dell'agente di custodia alle visite mediche a cui è sottoposto il recluso. Tale prassi è motivata da parte degli operatori, in primo luogo, da una percezione del detenuto (in particolare quello sieropositivo) come individuo aggressivo, potenzialmente in grado di arrecare danno a chi gli sta intorno se lasciato libero di offendere. "La persona che viene tratta in arresto vive in quel momento uno stato particolare di ansia, quindi potrebbe essere aggressiva. Quindi se è presente l'agente sul posto è solo una questione per vedere se eventualmente fa qualcosa che lede la sicurezza" (cust. FG).

In secondo luogo, la presenza dell'agente rende materialmente possibile aggirare la normativa sulla riservatezza del test sierologico che molti operatori del custodiale ritengono inadeguata nel garantire la loro sicurezza. Occorre allora interrogarsi se tale prassi non sia alimentata dall'opinione negativa che il custodiale possiede sulla riservatezza e sulla non obbligatorietà del test. Ci troveremmo, in tal caso, di fronte ad un tipico esempio di come il giudizio negativo dei destinatari su di una norma possa incidere sul suo processo di attuazione. "Ancora oggi noi non sappiamo chi è malato e chi è siero positivo e questo secondo me è un danno. Perché un conto è sapere che un detenuto è malato e prendere delle determinate precauzioni al momento che bisogna fare la determinata operazione, invece la maggior parte delle volte non sappiamo, ma dobbiamo saperlo sempre con dei sotterfugi" (cust. FG).

La cultura giuridica di stampo paterno - custodiale, caratterizzata da una percezione del recluso sieropositivo come individuo aggressivo e da una opinione negativa sulle norme che garantiscono la riservatezza del test, influisce, quindi, sul processo di applicazione delle norme che riguardano la sanità penitenziaria. La concezione autoritaria del custodiale dei rapporti tra carcere e detenuto induce, inoltre, a porre in secondo piano un diritto "sofisticato" come quello della riservatezza dei dati sanitari. Così come l'orientamento alla regola dell'operatore della custodia favorisce una percezione burocratica della visita medica come diritto del condannato che è sufficientemente soddisfatto attraverso l'incontro con un medico, a prescindere dall'efficacia dell'intervento sanitario che sarebbe senz'altro favorita da un rapporto confidenziale tra medico e recluso.

Le modalità attraverso le quali gli agenti vengono a conoscenza della sieropositività dei detenuti sono molteplici. A parte le situazioni in cui esistono sezioni per sieropositivi, nelle quali la stessa collocazione in istituto rende evidente lo stato sierologico del recluso, emerge dalle interviste una volontà diffusa di venire a conoscenza della condizione di sieropositività.

L'informazione circola attraverso molteplici canali dopo che le fonti, quasi sempre agenti che accompagnano il detenuto in infermeria e assistono alle visite mediche o, più raramente, gli stessi detenuti sieronegativi che chiedono di essere spostati di cella per non rimanere a contatto con reclusi sieropositivi, hanno acquisito il dato. Gli agenti conoscono le norme in materia di riservatezza, ma tendono ad imputare la responsabilità della diffusione delle notizie agli stessi detenuti. "Parlano fra di loro (i detenuti), nel carcere si viene a sapere tutto. Quando vanno a passeggio capita di incontrarsi con il detenuto che conosce il soggetto sieropositivo, magari dallo stato libero o che ha conosciuto nel carcere stesso, subito si trasmette la notizia" (cust. FG).

Addirittura vi è chi ritiene che accettare il test significhi consenso implicito alla diffusione del suo esito. "Io sono convinto che il detenuto che si sottopone all'esame vuole anche che si sappia perché altrimenti non lo farebbe" (cust. FG). Vi è la consapevolezza diffusa che in carcere le notizie circolano facilmente e la convinzione che non sia possibile opporsi a tale situazione.

Alcuni intervistati, attraverso una sottile inversione argomentativa, utilizzano il tema liberale del carcere "aperto" per giustificare e spiegare la violazione della riservatezza. "Il carcere purtroppo oggi come oggi è un carcere aperto, quindi iniziando dai lavoranti di sezione a passarsi le notizie, le notizie volano e quindi il personale di custodia chiaramente fa quello che può, però fino ad un certo punto, tutto è limitato, fatta la legge trovato l'inganno. Le informazioni circolano tra i detenuti, anche fra gli agenti di polizia penitenziaria perché queste sono informazioni che arrivano parlando con i colleghi" (cust. FG).

Vi possono essere, oltre alle informazioni dirette, situazioni che consentono di dedurre la condizione di sieropositività, quali la somministrazione di determinati farmaci o il fatto di essere visitato da un medico infettivologo. In alcune interviste emergono veri e propri atti di schedatura, attraverso l'apposizione molto evidente di una croce sulla copertina della cartella clinica del detenuto; peraltro tale prassi sembra essere stata presente soprattutto nella prima fase della diffusione del virus HIV in carcere. Tali atti rappresentano palesi violazioni di legge che vanno al di là del legittimo esercizio della discrezionalità da parte degli operatori penitenziari; si tratta di fenomeni di disapplicazione esplicita della normativa, passibili di essere oggetto di interventi repressivi da parte delle istituzioni giudiziarie, anche se non risulta che che sia avvenuto in relazione ai casi menzionati nelle interviste (66).

Gli stessi operatori percepiscono la possibile illiceità di tali atti e pertanto elaborano specifiche "tecniche di neutralizzazione" (67). La principale di esse, resa esplicita nelle interviste, è quella relativa alla difesa della propria incolumità fisica dal rischio di contagio, partendo dal presupposto errato (68) che conoscendo la sieropositività di un soggetto si prendano con esso maggiori precauzioni per evitare contatti pericolosi. "Se sappiamo che il detenuto è in AIDS conclamato o portatore sano o comunque possa essere un soggetto a rischio li utilizziamo (i guanti), se conosciamo il detenuto () è chiaro che a quel punto le precauzioni sono minori che per i soggetti a rischio. Mi sembra logico" (cust. FG). A maggior ragione ciò avviene in caso di episodi di autolesionismo. "Perché nel momento in cui succede un episodio di autolesionismo è chiaro che noi la prima cosa che chiediamo ci informiamo presso l'infermeria se questo è malato o meno. Nel momento che sappiamo che è malato cerchiamo di adottare tutti i provvedimenti necessari per evitare il contagio" (cust. FG).

La cultura giuridica del trattamentale si oppone per molti aspetti a quella del custodiale sul tema della riservatezza. In particolare, si tende a ritenere che le informazioni della cartella clinica dovrebbero essere riservate agli operatori del trattamentale che possiedono la professionalità adeguata per gestire tali informazioni, con la dovuta attenzione alla privacy del recluso.

"La cartella clinica dovrebbe effettivamente essere vista solo dai medici, dagli infermieri e dagli psicologi, e non da chiunque vada in infermeria. Quindi in pratica gli agenti potrebbero vederla tutti, se volessero; e questo non mi sembra molto giusto, intanto perché noi siamo tenuti al segreto professionale e loro no; e poi perché comunque non c'è la preparazione adeguata dell'operatore sanitario. Purtroppo c'è questo fatto delle cartelle cliniche che vengono spostate e passate di mano in mano, senza la riservatezza necessaria. Nonostante le circolari ministeriali dicano che la cartella sanitaria è riservata" (tratt. TO).

È da sottolineare che viene qui data per scontata un'interpretazione della normativa sulla riservatezza della cartella clinica che va, invece, contro l'interpretazione più autorevole della dottrina. In particolare, la gran parte degli operatori del trattamentale sembrano dare per assodato di possedere il diritto di libero accesso alle informazioni contenute nella cartella clinica penitenziaria, effettuando una indebita parificazione della loro situazione giuridica con quella del personale sanitario. In realtà, a rigor di diritto, un assistente sociale, un educatore, uno psicologo, non hanno diritti di consultazione della cartella clinica diversi da un qualsiasi agente di custodia (69). Come spiegare questa interpretazione contra legem se non attraverso l'influenza di una cultura giuridica che costruisce "maternamente" la relazione operatore-recluso sul presupposto che il primo, per il "bene" del secondo, possa e debba conoscere "tutto" dell'altro?

Fatte queste precisazioni riguardo a come l'operatore del trattamentale interpreti pro domo sua la normativa sulla riservatezza della cartella clinica, in tema di privacy del detenuto si assiste ad una singolare inversione dell'orientamento alla regola, nel senso che tale operatore diventa più attento al rispetto formale della legge (nell'interpretazione che egli stesso ne dà); o, con maggiore esattezza, egli sembra ritenere, in questo contesto, che il rispetto della regola non sia fine a se stesso, ma sia essenziale soprattutto per garantire l'efficienza del trattamento socio-terapeutico. In altri termini, la violazione della riservatezza dei dati sanitari viene percepita dal trattamentale come un ostacolo al raggiungimento delle finalità del proprio servizio. Da tale punto di vista, vengono rivolte critiche, oltre che al custodiale, anche agli operatori della sanità penitenziaria, denunciando uno scarso rispetto dei diritti del detenuto, avanzando critiche esplicite alle modalità con le quali si effettuano in generale le visite mediche. "Questa modalità è molto poco rispettosa del diritto alla privacy della persona. Ci sarebbero a mio parere dei modi, per tutelare la privacy della persona e la sicurezza di chi lavora, meno brutali, e poi questa questione del momento in cui viene comunicato il risultato del test. Bisogna tenere conto che le visite mediche avvengono in presenza di i agenti non sono a tu per tu, medico con la persona, avvengono a porta aperta, con persone che girano, entrano, escono da questo punto di vista c'è una grossa carenza" (tratt. TO).

In alcune interviste ci si preoccupa delle disfunzioni burocratiche del servizio sanitario che possono provocare inutili sofferenze al detenuto. "Ho sentito di almeno un caso in cui era stata comunicata una sieropositività che poi non era vera, con conseguenze non da poco" (tratt. TO). Altre critiche vengono mosse in merito al consenso informato in materia di test sierologico. "Dopo la visita medica, si chiede al detenuto e gli si fa firmare un documento col quale gli si chiede se vuole essere sottoposto al test di HW. Spero che lo facciano non in modo molto sbrigativo. Anch'io ho avuto qualche problema in questo senso, perché alcuni detenuti mi avevano detto che loro non ne sapevano niente di essere stati sottoposti al test, io però poi sono andato a vedere la loro cartella clinica e c'era la loro firma" (tratt. TO). Tali critiche sul mancato rispetto della normativa sul test sierologico sembrano essere direttamente proporzionali alle opinioni che si hanno sulla normativa stessa, opinioni che nel trattamentale sono generalmente molto più positive di quelle emerse nel custodiale e, comunque, contrarie all'obbligatorietà del test. Si conferma, in tal senso, la tendenza a rispettare (o a credere soggettivamente di rispettare) in maggior misura normative che si ritengono giuste.


I colloqui d'entrata e la collocazione nell'istituto


Oltre alla visita medica, all'ingresso in istituto il neo-detenuto effettua di regola due colloqui: uno con il direttore, o con un operatore da esso delegato, l'altro con un operatore del trattamentale, nell'ambito del cd. Servizio Nuovi Giunti. In tal modo, il neo-detenuto conosce immediatamente l'aspetto bifronte dell'istituzione totale. Il primo colloquio è previsto dalla legge essenzialmente per iniziare la compilazione della cartella personale, per fornire alcune informazioni al detenuto sui suoi principali diritti e doveri e per consegnargli un estratto delle norme dell'ordinamento penitenziario e del regolamento interno dell'istituto (art. 23, 4° comma Reg. Esec.). È significativo che in tutte le carceri oggetto della ricerca il direttore dell'istituto deleghi tale colloquio, finalizzato in particolare a far conoscere le regole formali che vigono nel penitenziario, ad un operatore del custodiale, confermando in tal tale categoria di operatori come quella preposta ai programmi regolativi all'interno del carcere. È tuttavia altrettanto interessante notare che in nessuna delle carceri risulta attuata la norma sulla consegna dell'estratto delle leggi penitenziarie (70), né pare che la prassi sia quella di fornire informazioni di carattere verbale su tali regole se non vengono richieste dal detenuto stesso (71). Il primo colloquio col custodiale si svolge spesso come una mera finalità; un'attività di schedatura e di controllo dei dati anagrafici attraverso la quale l'istituzione spoglia il neo-recluso della sua identità personale extra-muraria, occupandosi esclusivamente "della parte giuridica della persona". "Il primo colloquio se si parla proprio di colloquio noi li schediamo perché dobbiamo chiedere i dati anagrafici e dobbiamo accertare che siano quelli, perché delle volte potrebbe anche capitare che da parte delle forze dell'ordine ci possa essere una svista, un cambiamento di dati. Quindi questo è il primo colloquio che si basa sulle formalità. Noi ci limitiamo strettamente a quella che è la parte giuridica della persona" (cust. FG). Nella maggior parte dei casi, il colloquio d'entrata sembra essere funzionale ad acquisire dal detenuto quelle scarne informazioni che consentono di effettuare una sua collocazione "non pericolosa" nelle sezioni dell'istituto.

"Normalmente acquisiamo le notizie inerenti ad eventuali problematiche che il detenuto possa avere, se ha problemi di incompatibilità all'interno dell'istituto, se è già stato detenuto, oppure se è alla prima esperienza detentiva, in quel caso adottiamo delle cautele di tipo, mettere una grande sorveglianza in quanto soggetto particolarmente a rischio, per motivi più che altro concatenati alla prima esperienza detentiva di depressione" (cust. FG). L'interesse del custodiale è quindi completamente concentrato nell'acquisire dal recluso informazioni che siano in grado di scongiurare due pericoli fondamentali: il primo, che il detenuto venga collocato in una cella con altri reclusi coi quali abbia dei "conti in sospeso" nelle sue vicende extra-murarie, dando vita di conseguenza ad episodi di violenza; il secondo, che il detenuto, soprattutto alla sua prima reclusione, venga collocato in una sezione in cui possa sfuggire alla sorveglianza, in modo da poter commettere atti autolesivi (in primis il suicidio). Come spiegare tali prassi applicativa delle norme che regolano il primo colloquio? La cultura giuridica del custodiale sembra avere qui una influenza rilevante, nel concepire in modo molto flessibile le norme che regolano tali attività e, in particolare, la mancata informazione al detenuto rispetto al regolamento carcerario. Tale carenza informativa, infatti, è giustificata dagli intervistati, o dall'argomento che il detenuto è un habitue del carcere e quindi non ha necessità di ulteriori indicazioni, o da ragioni pratiche legate alla mancanza di tempo. In realtà, la motivazione latente pare essere quella di evitare che il detenuto conosca troppo a fondo i propri diritti, in quanto ciò comporterebbe probabilmente un incremento delle sue risorse negoziali nella fase di contrattazione sull'applicazione delle norme del regolamento, fase, come detto, essenziale nella cd. arte della custodia. D'altro canto, il concentrarsi nel primo colloquio sugli aspetti di tutela della mera integrità fisica del neo-detenuto non è che il risvolto operativo del particolare orientamento alla regola della cultura giuridica dell'agente di polizia penitenziaria che concepisce il proprio ruolo come rigidamente inserito in una struttura gerarchica, definendo tale ruolo come quello di custodire persone facendo rispettare regole che garantiscano la tranquillità del carcere. Per il raggiungimento di tale obiettivo (72), è assolutamente necessario che non accadano in carcere episodi che turbino la tranquillità della vita della sezione. In tale prospettiva, ogni atto di violenza tra detenuti, o dei detenuti contro se stessi, è un pericolo da scongiurare, per evitare rapporti da parte dei superiori gerarchici che possano imputare ad una errata collocazione in istituto gli atti stessi.

Ho già ricordato, in precedenza, come anche gli operatori del trattamentale e della sanità penitenziaria intervengano nella fase d'entrata del detenuto attraverso la gestione del cd. Servizio Nuovi Giunti, rispetto al quale si instaura necessariamente una collaborazione con il custodiale. Ci troviamo di fronte, quindi, ad una tipica attività applicativa di norme che mette a confronto diverse culture giuridiche. "Noi attiviamo qui un presidio di primo ingresso che coinvolge tutte le nostre figure professionali. Coinvolge il sanitario, lo psicologo e l'operatore della custodia perché noi, nel momento in cui arriva l'individuo nel carcere, abbiamo il colloquio di primo ingresso che dovrebbe essere fatto dal direttore, ma che invece è fatto dall'ispettore di turno. In questa situazione, noi accertiamo, in modo particolare, la tipologia dell'individuo in relazione alle caratteristiche del soggetto attraverso il sanitario e lo psicologo e quindi in modo particolare quello che c'interessa è l'autoaggressività e l'eventuale rischio di suicidio. Poi delineando un quadro dell'individuo ed eventuale quadro clinico, che è di competenza del sanitario, andiamo ad accertare le varie compatibilità ed incompatibilità con la struttura penitenziaria e con l'ambiente penitenziario" (cust. TO).

Il presidio di primo ingresso, o Servizio Nuovi Giunti, è un servizio non previsto dall'ordinamento penitenziario, ma introdotto dall'amministrazione penitenziaria con un'apposita circolare che ha prescritto, in parallelo a quello col direttore, un colloquio di carattere psicologico volto a stabilire il livello di rischio che il recluso compia atti di violenza verso se stesso o verso altri (73). Al di là del grado di strutturazione di tale servizio (74), esso viene concepito in modo più ampio dagli operatori del trattamentale rispetto al custodiale. Non ci si limita, in particolare, a verificare se esistano rischi di atti violenti, ma si cerca un primo contatto col detenuto, al fine di avviare un percorso di sostegno. "Io credo che il momento dell'entrata in un istituto penitenziario, soprattutto per i nuovi giunti che vengono qui per la prima volta, penso che sia una cosa drammatica e distruttiva per quelle personalità, dal punto di vista degli affetti e dei valori e che ha bisogno di un'attenzione molto più profonda e accurata" (tratt. FI).

Sul tema dei colloqui d'entrata si assiste, quindi, ad un sottile conflitto tra, da una parte, la direzione dell'istituto e il custodiale che hanno interesse all'individuazione di reclusi pericolosi per se o per altri, al fine di garantirsi anche da eventuali responsabilità di carattere amministrativo e penale e, dall'altra parte, gli operatori del trattamentale che invece intendono costituire, sin dal primo colloquio, una relazione terapeutica. A termini di legge, l'attività di collocazione in istituto del neo -recluso è resa funzionale dalla riforma penitenziaria del 1975 all'individualizzazione del trattamento, stabilendo che essa deve avvenire "con particolare riguardo alla possibilità di procedere ad un trattamento rieducativo comune e all'esigenza di evitare influenze nocive reciproche" (art. l4, 2° comma O.P.). Si tratta di un'innovazione di notevole rilievo che ha capovolto su questo tema la logica securitaria dell'istituzione totale: il detenuto va collocato non più in modo tale da garantire, in via prioritaria, la sicurezza del carcere, ma al fine di favorire il progetto rieducativo e risocializzante. Ma tale novità di impostazione non è stata assimilata pienamente dallo stesso legislatore che, emanando l'articolo 32 del regolamento esecutivo, ha prodotto un ennesimo rovesciamento di priorità nella scala dei valori (75). Tale articolo, infatti, stabilisce che i "detenuti e gli internati, che abbiano un comportamento che richiede particolari cautele, anche per la tutela dei compagni da possibili aggressioni o sopraffazioni, sono assegnati ad appositi istituti o sezioni dove sia più agevole adottare le suddette cautele".

Ci troviamo di fronte qui a norme che hanno necessità di essere integrate tra loro dall'interprete ed è proprio in questa attività di integrazione che risulta estremamente rilevante il ruolo della cultura giuridica degli operatori penitenziari. A stretto rigore di logica. l'art. l4 ord penit. è una norma generale e astratta che dovrebbe trovare un'applicazione più ampia rispetto all'art. 32 reg. esec. (76), in quanto riguarda la totalità dei detenuti, esclusi solamente quelli che manifestano un comportamento richiedente particolari cautele.

Dalle interviste, invece, emerge una realtà nella quale l'eccezione diventa la regola, in quanto gli operatori tendono ad esercitare la loro discrezionalità in materia di collocamento facendo prevalere il criterio securitario su quello trattamentale. Ciò avviene soprattutto per il prevalere, nell'ambito dell'attività di collocamento, della cultura giuridica di tipo paterno-custodiale. Tale prevalenza è motivata anche dal fatto "istituzionale" che il potere di collocamento in istituto è esercitato, in via principale, dal settore custodiale e gli operatori del trattamentale vi intervengono solamente con un ruolo di consulenza che viene spesso strumentalizzato a fini securitari, non senza che emergano resistenze. È il caso di uno psicologo che, operando al Servizio Nuovi Giunti, afferma: "Nella fase di nuovo giunto diventa necessario dare un momento informativo e un momento valutativo della condizione, affinché si possano prevenire eventuali, comportamenti anomali, ecco il motivo per il quale la direzione ha voluto che io vedessi un po' tutti (i detenuti in entrata). Anche se poi questo è un criterio molto arretrato, () ma il discorso della valutazione diventa importante perché garantisce tutti, garantisce l'istituto, garantisce anche il detenuto".

In tal modo, il sapere dello psicologo viene snaturato in un ruolo di garanzia burocratica dell'istituzione, la quale si premunisce formalmente dalle conseguenze negative che le possano derivare da eventuali "incidenti" occorsi al neo-recluso. In altre interviste, il conflitto tra culture giuridiche emerge esplicitamente da operatori del trattamentale che denunciano l'eccessiva preoccupazione del custodiale per i problemi suicidiari. "La fifa più grossa che c'è in carcere è che la persona appena entrata si suicidi, tutto il resto passa in secondo piano, però ogni volta che finisce sul giornale un suicidio è una cosa che imbarazza non poco" (tratt. TO).

In alcune occasioni, l'operatore del trattamentale cerca di utilizzare il suo sapere sulla condizione del singolo detenuto per influenzare un potere come quello di allocazione che implica conoscenze approfondite e una collaborazione tra settori diversi del carcere. "Noi non abbiamo il potere di collocare, però se è molto sentita da parte del detenuto l'esigenza di cambiare per esempio la sezione per alcuni motivi, allora magari se ne parla anche informalmente con gli altri, con l'ispettore che, se è possibile" (tratt. FG).

Gli operatori del custodiale sono consapevoli di svolgere complesse mediazioni nella scelta dell'allocazione e della preziosità del supporto informativo del trattamentale. Spesso le informazioni sul detenuto sono frammentarie; di lui non si conosce che il reato per cui è in carcere e le dichiarazioni che si riescono a carpire durante il primo colloquio. "La locazione negli istituti penitenziari viene fatta innanzi tutto in base alla pericolosità, agli articoli di reato, poi viene fatta in base alle dichiarazioni che fa al primo atto d'ingresso del detenuto, se conosce all'interno qualche persona che potrebbe danneggiarlo, se ha mai conosciuto qualche istituto penitenziario. Sono parecchie le mediazioni che si devono fare e queste sono attenzioni che fanno con molta cura i sottufficiali addetti all'area sicurezza, perché bisogna valutare attentamente il discorso della locazione (). Sono cose molto particolari, molto delicate" (cust. FG).

Ecco alba che un operatore esperto nel valutare i rischi psicologici e la probabilità che una persona possa giungere a commettere atti autolesionistici può essere considerato prezioso, qualora riesca a legittimarsi nell'ambito del custodiale. "La vigilanza dice: no, finge, lo fa apposta, è un istrione, manipola. Bisogna stare attenti che loro (gli agenti) minimizzano tutto Considerare questa persona malata, considerarlo come una condizione psicopatologica è troppo difficile per loro, non sono abituati a questo, è più facile pensare che è tutto un imbroglio. Allora l'intervento consiste nel dire guarda, sta attento che questo ha quel tal fatto nella sua storia personale, ha un fratello che ha avuto questa cosa, cioè dare delle informazioni che al di là del fatto tecnico, dia loro il senso che è una cosa a cui stare attenti. Allora loro cominciano ad ascoltarti meglio in questa ridefinizione che tu fai" (tratt. FG).

La tendenza dell'operatore della custodia è quindi quella di minimizzare, di ritenere strumentali le dichiarazioni del recluso, influenzato da quella percezione del detenuto come soggetto inaffidabile tipica della cultura giuridica paterno - custodiale. Tuttavia, ciò non significa che non si dia alcun senso alla volontà del detenuto nella scelta della collocazione, soprattutto per evitare responsabilità di carattere giuridico o morale. "Una volta che il detenuto ci dice che per motivi di incolumità fisica non posso stare là, perché ho tenuto un certo atteggiamento collaborativo e non consono alle regole carcerarie, noi non possiamo correre il rischio che magari mettendolo in quella cella d'ufficio e di autorità gli succeda qualcosa. Anche sotto l'aspetto moralistico, ci si sente in colpa, oltre poi le responsabilità di carattere giuridico e disciplinare" (cust. FG). Quando, nel caso di detenuti sieropositivi, non esistono sezioni specifiche per loro, come nel carcere di Foggia, si privilegia la collocazione in celle con altri detenuti sieropositivi anche per andare incontro ad un desiderio degli stessi reclusi. "Tranne che il detenuto stesso non ci indichi una preferenza, poiché loro in virtù di questa conoscenza di non sempre facile accettazione da parte degli altri detenuti normalmente al momento della allocazione ci chiedono di poter andare con un detenuto sieropositivo o tossicodipendente, cioè che abbia le stesse caratteristiche della loro stessa malattia. Ove sia possibile vengono accontentati". (cust. FG). Ciò avviene anche per evitare le richieste di detenuti sieronegativi che non desiderano coabitare con reclusi colpiti dal virus HIV. "Se abbiamo la cella in cui c'è un posto e magari i detenuti che già stanno dentro sono sieropositivi è chiaro che conviene metterli insieme, per evitare che poi il giorno dopo l'altro detenuto non sieropositivo venga a chiederti di essere cambiato di posto" (cust. FG).

È interessante notare come venga rispettato senza grosse difficoltà il desiderio di cambiare cella per evitare la coabitazione con persone sieropositive. Su questo punto la cultura giuridica del custodiale sembra perdere il suo autoritarismo, da un lato, per evitare di turbare la tranquillità della sezione e, dall'altro, perché sembra punizione eccessiva obbligare a coabitare con una persona portatrice di una patologia grave e contagiosa. Là dove sono presenti sezioni per detenuti sieropositivi pare non esista la stessa attenzione nel rispettare la volontà della persona sieropositiva che non desideri essere collocata in tali sezioni (77); tuttavia, anche se la norma sulla collocazione in istituto non richiede il consenso del detenuto, nella prassi applicativa non mancano tentativi di convincimento e di mediazioni per evitare disordini. "In qualche caso si verifica che vengono messi in questi reparti di osservazione coercitivamente. Richiediamo al direttore () vista la disposizione che tutela la sua (del detenuto) salute, è giusto che venga attuata. In quel caso della quinta (sezione per sieropositivi) chi si rifiuta, certo è un grosso dramma, e quindi si arriva al problema del disordine, perché questo qui dice: < io non voglio andare, sto bene qui >. E allora bisogna pensarci bene, cercare di arrivare ad un compromesso e fargli capire che per il suo stato di salute che quella sezione è appositamente studiata, è giusto che vada lì, e di solito si convincono" (cust. TO).

Al tentativo da parte del custodiale di attirare nella propria sfera d'influenza l'attività del collocamento in istituto, la cultura giuridica del trattamentale se, da un lato, ha difficoltà ad evitare di rendere funzionale il proprio sapere all'istanza securitaria, dall'altro, tuttavia, non manca di colloquio d'entrata ai fini "dell'aggancio" assistenziale al neo-recluso. In questa seconda prospettiva è interessante analizzare gli elementi che caratterizzano il colloquio d'entrata col trattamentale, elementi che danno immediatamente la percezione al detenuto di chi svolgerà nella vita detentiva, per rimanere alla metafora qui seguita, il ruolo del padre e quello della madre.

Il clima del primo colloquio col trattamentale è senza dubbio meno formale ed autoritario rispetto a quello col custodiale. L'operatore si pone in atteggiamento di collaborazione col detenuto. "Dedico del tempo a spiegare che cosa sia l'AIDS, naturalmente per sommi capi. Se vedo che non c'è possibilità da parte mia di spiegare perché l'altro non comprende, allora, con domande molto semplici e molto generali, cerco di capire che tipo di condotta abbia avuto, che tipo di vita abbia avuto in passato" (tratt. FI). Si possono, a volte, ricostruire gli elementi principali del corso di vita che ha condotto in carcere "Quando faccio il primo colloquio e analizziamo insieme una serie di passaggi precedenti immediati all'arresto, loro poi arrivano a capire che hanno fatto di tutto per farsi fermare. Allora riescono, analizzando questi passaggi, a capire che forse volevano arrivare qua e che qui forse sono arrivati per non morire" (tratt. FI).

Nel caso vi sia stato, ad esempio, un rifiuto del test si tenta un'opera di convincimento. "Cerco un po' di indagare per quali motivi lui rifiuti il test. Cerco di operare un convincimento che non sia imperioso, è un tentativo che io faccio da parte mia per consigliarlo vivamente perché la sua salute viene al di là di tutto insomma, prima ancora del fatto di trovarsi qui in carcere, in restrizione" (tratt. FI). Si tende, comunque, a lasciare al detenuto la scelta di dichiarare la propria sieropositività. "Io ho l'abitudine, durante il colloquio, di lanciare dei messaggi dove dichiaro la mia disponibilità ad ascoltare, se la persona me lo vuole dire però ritengo che abbia l'assoluto diritto a non parlarmene" (tratt. TO). In alcuni casi, quando ad effettuarlo è un educatore, il primo colloquio può servire al detenuto per avanzare le prime richieste di sostegno, di misure alternative alla detenzione. "È un po' strumentale il primo colloquio, nel senso che nel momento che sono sieropositivi, e quindi ovviamente conosciuti dal Ser.T. di provenienza, subito loro vogliono presentare tutte quelle istanze finalizzate ad ottenere i vari benefici. Noi non facciamo altro che essere un po' i mediatori diciamo con gli operatori del Ser.T (). Mi sembra giusto dirgli conoscere gli strumenti che ha a disposizione e subito chiedo se vuole m/rare in contatto con gli operatori" (tratt. FG). In altre occasioni, si cerca di uscire esplicitamente dalla logica "inquisitoria" del colloquio col custodiale. "Chiedo sempre, specie ai ragazzi molto giovani e ai tossicodipendenti, anche si trovano in cella, insieme a chi stanno, e se sono contenti delle persone che hanno vicino [n.d.r. in alcuni casi il primo colloquio col trattamentale avviene dopo qualche giorno di detenzione] e allora dalla risposta cerco ti capire, perché non sempre sono sinceri e allora faccio capire che non è una domanda inquisitoria, ma che serve se ha dei problemi e difficoltà, è meglio che lo dica perché è un problema che si può affrontare" (tratt. FG).

Si ribadisce, in tal senso, la rilevanza del primo colloquio per l'intervento dell'operatore del trattamentale come momento nel quale egli deve porsi immediatamente come colui che può mitigare i rigori autoritari del custodiale, il portatore delle istanze del detenuto nei confronti dell'istituzione totale; il ruolo della madre che intercede per il figlio al cospetto della severa figura del padre.


La vita in istituto


L'intervento di routine: il contatto fisico tra operatore e recluso


Per quanto riguarda la vita carceraria degli operatori del custodiale con i detenuti sieropositivi, emerge dalle interviste la grande rilevanza dei momenti in cui la distanza fisica tra custode e custodito si riduce al minimo e pertanto cresce il rischio di contatti potenzialmente pericolosi (78). In particolare, appare particolarmente rilevante al proposito una fase apparentemente "innocua " come la perquisizione delle celle che viene, tuttavia, considerata a rischio, in quanto legata alla eventualità di venire a contatto con oggetti "contaminati" dei detenuti, in particolare con siringhe infette o utensili in grado di ferire quali lamette e rasoi. La normativa che qui rileva è quella dell'art. 69 del reg. esec.; ancora una volta, tuttavia, ci troviamo di fronte ad una normativa largamente indeterminata in quanto alle modalità di tali perquisizioni, ovvero, per riprendere le tematiche di teoria generale del diritto sopra esposte, ad una norma individuale in quanto ai destinatari, ma astratta rispetto alle azioni regolate. Il criterio principale, infatti, a cui fa riferimento l'art. 69 è quello che le perquisizioni debbano "essere effettuate con rispetto delle cose di appartenenza dei soggetti" (4° co.) (79). La giurisprudenza ha ulteriormente precisato che le perquisizioni delle celle non richiedono formalità particolari (80), pertanto ci troviamo di fronte ad un campo di azione in cui la discrezionalità dell'operatore è particolarmente ampia. Tale discrezionalità risulta essere stata limitata, a livello di singolo istituto, da ordini di servizio della direzione che hanno imposto l'uso di guanti e mascherine agli agenti t che effettuano le perquisizioni. Tutti e tre gli istituti interessati dalla ricerca ì hanno emanato ordini di servizio di questo tipo, che tuttavia, a quanto sembra, si sono scontrati con alcuni problemi attuativi, il primo dei quali è quello che da disponibilità effettiva di tali strumenti. In particolare, si è innescato un conflitto tra i gradi superiori e direttivi dell'amministrazione penitenziaria che hanno auspicato l'uso di tali strumenti e i gradi inferiori che hanno reclamato l'assenza delle risorse materiali per poter attuare tali misure. "In un corso sulla tossicodipendenza c'è stato un episodio dove siamo esplosi un po' tutti, poiché nelle sezioni dovrebbero esserci degli armadietti appositamente attrezzati con grembiuli, mascherine per gli occhi, guanti. Qui a Foggia lo precauzione è il guanto, qualcuno usa il fazzoletto (). Quindi per Messo è partita con i corsi professionali, e dopo può darsi pure che ci diano i mezzi, oggi ci hanno dato le nozioni speriamo che domani ci diano anche i mezzi" (cust. FG).

Dal punto di vista dell'esercizio della discrezionalità che qui interessa, la questione dei mezzi di protezione rileva per due aspetti principali. Da un -, l'uso di mezzi di protezione particolarmente "pesanti", quali sono camici e mascherine, fa aumentare ulteriormente la "distanza fisica" tra custode e custodito, incrementando in tal modo anche la diversità tra custodiale e trattamentale. In tal modo, il detenuto accentua la sua propensione a vedere nel trattamentale il volto "materno ed umano" dell'istituzione, mentre il custodiale gioca il ruolo di colui che teme il virus e pertanto si arrocca anche fisicamente. Dall'altro Iato, si apre la possibilità di spazi di discriminazione per i detenuti sieropositivi, nella misura in cui gli strumenti di protezione vengono usati in modo selettivo ed emarginante. " Le precauzioni li adottiamo di più quando siamo al corrente che trattasi di detenuto sieropositivo, perché quando sappiamo che il detenuto non ha quella malattia non è che si usa tonta cautela (). Siamo noi ispettori ad allertare il personale nell'usare i guanti prima di toccare la roba pertinente a questa gente affetta da AlDS" (cust. FG). "Le disposizioni ci sono, anzi sono io il primo a dargliele queste disposizioni però a voce, esempio 'ragazzi facciamo attenzione e se vedete che c'è del sangue mettetevi i guanti e cercate di stare sempre coperti, quando vedete un detenuto che sta per fare uno starnuto oppure che tossisce state più lontani, se volete proprio mettetevi la mascherina anche se al detenuto dà fastidio'. Ma sono precauzioni minime perché se il detenuto vuole basta che viene e fa un colpo di starnuto con la saliva e il sangue, e ti dice che ha male ai denti e la saliva insanguinata e tu non ci puoi fare niente" (cust. FG)

Tra l'altro, l'uso dei guanti come precauzione sembra essere stato introdotto proprio con l'avvento dell'AIDS. "Generalmente prima non veniva fatta la perquisizione con i guanti" (cust. FG).

Ci troviamo di fronte ad un tipico esempio di come la cultura giuridica degli operatori chiamati ad applicare una normativa possa incidere sulla sua concreta attuazione. In presenza di un ampio spazio discrezionale dal punto di vista formale, quale quello lasciato dalla formazione dell'art. 69 reg. esec., si innesca un processo di interpretazione della norma che è ampiamente influenzato da quell'insieme di atteggiamenti, opinioni, rappresentazioni e valori che costituiscono la cultura giuridica. Tale influenza può contribuire quindi a spiegare le ragioni per le quali, in presenza di un'identica normativa e a situazioni di fatto molto simili (come sono, dal punto di vista del rischio di essere infettati dal virus HIV, una perquisizione in una cella e un colloquio con uno psicologo in una stanzetta di esigue dimensioni), si sviluppino delle prassi molto diverse tra loro. Nello specifico una cultura giuridica di tipo paterno-custodiale che fa prevalere gli aspetti regolativi ed autoritari nei rapporti coi detenuti tenderà ad elaborare regole d'intervento che consentano di mantenere una certa distanza fisica dal detenuto, l'uso di strumenti che lo proteggano dal contatto diretto con esso e che, in subordine, proteggano anche quest'ultimo da eccessive ingerenze dell'agente ispezionatore. Una cultura giuridica di tipo materno-trattamentale, invece, tenderà a privilegiare interpretazioni delle regole che consentano un rapporto confidenziale col detenuto, modi di atteggiarsi quanto più possibile amichevoli e quindi una scarsa considerazione (almeno esteriore) del rischio di contagio. Nelle interviste del trattamentale emergono, ad esempio, dei giudizi negativi sull'eccessiva preoccupazione del custodiale per i rischi di contagio. "Vedo che (gli agenti) tengono spesso per ore e ore i guanti, al di là dell'intervento perché c'è da soccorrere qualche detenuto (). Persone sieropositive che si sono tagliate per cui ci sono stati degli agenti che hanno avuto un attimo di perplessità, che hanno fatto trascorrere alcuni minuti prima di intervenire perché rimanevano un pochino bloccati da questa cosa, lì per lì non si ricordavano dove potevano trovare i guanti" (tratt. FI).

Le eccessive precauzioni del custodiale sono fonte di irritazione per gli operatori del trattamentale. "Mi indispettisco sempre quando vedo la custodia con i guanti. Cioè, dare la mano con i guanti di gomma mi dà fastidio" (tratt. FI).

Non è che anche negli operatori del trattamentale i timori di contagio non esistano, ma devono essere accuratamente mascherati. "Certamente anch'io a volte un attimo di perplessità di fronte a dei detenuti che so essere malati quasi terminali e magari hanno le mani piene di taglietti, ed io non riesco a non dare loro fa mano e poi magari vado su e me le lavo ben bene. Quindi anch'io comunque penso a queste cose, però non vado oltre" (tratt. TO).

I timori emotivi devono essere vinti e a volte ci si preoccupa addirittura che non si diventi veicolo di infezioni per la persona sieropositiva. "In genere quando chiedo al detenuto se ha fatto il test per la sieropositività, cerco di avvicinarmi un pochino di più per farmi vedere che non ho paura, anche se

poi magari penso che devo stare lontana perché posso invece far ammalare l io persone più sensibili alle infezioni" (tratt. FI).

Ci si scandalizza se qualche operatore mostra eccessivo timore. "Queste riserve arrivano anche dagli operatori esterni, tipo i professori dei corsi professionali. Non più tardi di qualche giorno fa mi hanno espresso queste riserve dicendomi: 'Adesso ci mandate anche i sieropositivi?'. Certo che li mandiamo, ci mancherebbe altro, del resto nel momento in cui accetti di venire potevi scegliere di andare a lavorare in un asilo nido" (tratt. FG).

A volte il tema stesso dell'eccessivo timore può essere oggetto di riflessione all'interno dell'ambiente degli operatori. "Una volta c'è stata una funga discussione sul fatto che alcuni non dessero la mano quando la persona si presenta" (tratt. TO).

Da alcuni operatori il contatto fisico col detenuto viene considerato un elemento importante dello stesso intervento terapeutico. "Credo sia importante per un sieropositivo in comunità essere toccato come gli altri" (tratt. TO).

Anche il custodiale peraltro non può eccedere nelle misure precauzionali;

ciò non solamente perché alcune volte non sono disponibili gli strumenti di protezione, ma perché un uso eccessivo di tali strumenti potrebbe irritare il detenuto e far riesplodere il conflitto tra custode e custodito. "Alla mattina si fa la perquisizione manuale sugli indumenti, sulla stanza e anche addosso a loro per vedere se c'hanno nascosto qualcosa di offensivo. Utilizziamo dei guanti di plastica, ed oltre a questi non si può fare niente, perché mica possiamo entrare la mattina nella cella tutti mascherati da marziani, e sarebbe rià il primo conflitto la mattina presto, perché il detenuto ci vede in quella maniera ed incomincia subito il primo conflitto" (cust. FG).

La distanza fisica col recluso non deve essere eccessiva, altrimenti si pregiudica l'instaurarsi di un rapporto umano. "Le precauzioni sono atti pratici che si hanno nelle perquisizioni e basta. Non si sta a dieci metri per parlare col malato, si creerebbero dei distacchi e sarebbe peggio" (cust. FI). Anche qui l'arte della custodia sta nel conoscere non troppo superficialmente il detenuto, nel sondarne la personalità per riuscire a prevedere le sue reazioni. "Se cominciamo a mettere i guanti, cominciamo a mettere i grembiuli, non facciamo altro che irritare questa gente e a volte si rischia di aumentare il rischio che loro commettano gesti autolesivi sono persone che già conosciamo, il carattere li queste persone qua" (cust. TO).

La distanza fisica col detenuto, invece, viene necessariamente meno negli episodi di violenza (81); in questi frangenti è ancor più importante conoscere lo stato sierologico del detenuto. "In qualche caso dobbiamo usare la forza e in certi casi di disordine bisogna reprimere questi atti, e quindi è importante sapere se posso toccare uno o no". (cust. TO).

Anche quando i rapporti con il detenuto sono improntati al dialogo, il contatto fisico è sempre in agguato e le precauzioni per evitare il contagio non sempre possono essere adottate. "Si è più portati nel nostro lavoro al dialogo con il detenuto. Quindi se mai dovesse esserci uno scontro frontale, se così si può dire, è una cosa che insorge improvvisamente se lo deve prendere uno schiaffo (l'agente) se lo prende, se deve cercare di tenere fermo il detenuto per calmarlo, vi assicuro che in quei momenti non si sta a pensare ai guanti, ne alla mascherino, ne a tutto il resto" (cust TO).

Gi stessi operatori del trattamentale sono consapevoli che la questione della distanza fisica è importante per il custodiale. "La loro difficoltà è fare un intervento cercando di mantenere la distanza, anche fisica" (tratt. FI).

Rispetto a tale distanza, secondo alcuni operatori del trattarnentale, l'AIDS ha introdotto rilevanti mutamenti, in quanto la sieropositività è stata utilizzata come efficace arma deterrente da parte del detenuto per evitare eccessive "intrusioni" nella sfera individuale. "Si è sentito dire che la cosiddetta squadretta dègli agenti che picchiano per esempio le persone, in genere extracomunitari, in realtà perché non rischiano con persone italiane che possono essere ben difese dal punto di vista legale. Quindi anche questo potrebbe essere una modalità di rischio di contagio, perché poi molto spesso queste persone extracomunitarie per evitare di ricevere questo tipo di trattamento, che comunque non è esagerato, nel senso sempre nascosto e quindi piuttosto raro, decidono allora di tagliarsi per evitare di essere picchiati" . Il rapporto "paterno" tra custode e custodito è un rapporto di forza, che prevede lo scontro, anche fisico. Ecco allora che il sangue infetto può diventare un'arma di difesa, oltre che di offesa. Si tratta di una straordinaria invenzione del potere di resistenza dei soggetti apparentemente più deboli che avrebbe incuriosito Michel Foucault: l'elemento "fisico" della vulnerabilità fatto giocare come estrema difesa della incolumità "fisica" del corpo del condannato. Un'inversione dei rapporti di potere che mostrano ancora una volta la loro natura essenzialmente "microfisica" e multidirezionale.


La gestione delle sezioni separate per persone sieropositive


La cultura giuridica paterno-custodiale e quella matemo-trattamentale si differenziano anche rispetto alle opinioni in merito all'istituzione di sezioni specifiche per detenuti sieropositivi e/o tossicodipendenti (82). Rispetto a tali sezioni i tre istituti presentano situazioni differenziate: Torino dispone di due sezioni appositamente progettate e strutturate per accogliere reclusi sieropositivi; Firenze ha adottato una strategia più informale di collocamento di questi detenuti in una specifica sezione; Foggia non ha alcuna sezione specifica per la gestione del virus HIV, ma ha conosciuto, per un certo periodo di tempo, l'esperienza di una sezione per detenuti tossicodipendenti.

In generale, si può affermare che le opinioni su tali sezioni sono negative, in quanto gli operatori, por ritenendo necessario conoscere lo stato sierologico dei detenuti al fine di differenziare l'intervento su di essi, sono nettamente propensi a preferire soluzioni extra-c:arcerarie, in particolare istituti penitenziari ad hoc , o strutture sanitarie esterne caratterizzate da regimi di cura di tipo sostanzialmente coercitivo. Al di là di questa netta prevalenza di giudizi negativi, le diverse culture giuridiche del carcerario si contrappongono per ciò che riguarda le argomentazioni che spingono a tali giudizi e per le critiche che vengono rivolte alle sezioni speciali. La cultura giuridica del custodiate tende, infatti, a fornire giudizi negativi fondati soprattutto sull'incremento del lavoro di sorveglianza che tali reparti comportano, per la presenza concentrata di soggetti difficili quali sono i reclusi tossicodipendenti.

"Avevamo fa sezione per tossicodipendenti, però era un casino, l'agente che tra destinato a espletare servizio in quella sezione non ci andava volentieri, in quanto era difficile gestirla, perché già un soggetto di questi crea tanti casini Si lavora malissimo, tutti soggetti che pretendono sostanzialmente gocce, farmaci tranquillanti a tutte le ore, si autolesionano per una qualsiasi banalità, poi, come si suoi dire, l'unione fa la forza, messi tutti insieme.. " (cust. FG).

L'unione fa la forza. i detenuti si coaIizzano contro la sorveglianza e riescono ad ottenere ciò che individualmente non riuscirebbero ad avere. La metafora militare ritorna con l'uso delle medesime espressioni linguistiche in altre interviste. "Effettivamente c'era una concentrazione di soggetti ti non facile gestione, perché chiedevano gocce di Valium in continuazione e poi, come suoi dirsi, l'unione fa forza per cui il detenuto tossicodipendente, in particolar modo il nuovo giunto in crisi di astinenza, chiaramente cerca di ottenere il più possibile di farmaci che non sempre sono utili. E allora avveniva che anche il soggetto che non aveva bisogno delle gocce le chiedeva per poterle a sua volta passare al compagno che ne faceva uso in maniera sconsiderata" (cust. FG).

Concentrare in reparti speciali soggetti "di non facile gestione" comporta un aggravio per il lavoro di custodia anche nel senso che si rischia di indebolire la struttura gerarchico-autoritaria del rapporto custode-custodito. Si possono creare nicchie all'interno del carcere, nelle quali gruppi di detenuti, accomunati anche dallo spirito di solidarietà trasmessa dalla condivisa condizione di malattia. possono invertire i rapporti di forza con la custodia. Per il custodiale il pericolo rappresentato dalle sezioni speciali è essenzialmente un rischio di perdita di controllo su determinate aree dello spazio carcerario. Di diverso tenore, invece, le critiche avanzate dalla cultura giuridica del trattarnentale. La stessa esperienza della sezione per tossicodipendenti di Foggia viene criticata con argomentazioni alquanto diverse. "Anni fa qui fu istituita una sezione per tossicodipendenti perché così il Ministero aveva disposto, ma fu un'esperienza molto negativa, infatti è rientrata dopo appena un anno e mezzo perché si era costituito un piccolo ghetto di emarginati e ti isolati che non aveva senso per le attività che si svolgono alt'interno di . istituto di pena, (i tossicodipendenti) possono svolgere una vita normalissima" (tratt. FG).

Qui la prospettiva è quella del detenuto; le sezioni speciali rappresentano un pericolo di ghettizzazione e di ulteriore emarginazione per un soggetto verso il quale, invece, occorrerebbe operare al fine della maggiore integrazione possibile con la vita carceraria. Il detenuto sieropositivo deve essere trattato "normalmente"; così come la madre non discrimina i propri figli, così il carcere non deve produrre inutili differenziazioni tra i propri reclusi. "(i detenuti sieropositivi) vogliono essere normali, vogliono stare con persone normali; stando a contatto con persone tra virgolette normali, comunque con problematiche molto differenti l'uno dall'altro, un giorno si parla della malattia, un giorno si parta della partita di pallone, un giorno si parta di un'altra cosa. Stando a contatto tutti malati di AIDS, intanto sfortunatamente puoi vedere diciamo nelle varie persone il decorso della malattia e quindi questo provoca un'angoscia di morte non indifferente e poi c'è il rischio appunto di ghettizzarsi" (tratt. TO).

La prospettiva anche in questo caso è quella del recluso, dell'evitare che il carcere diventi un'ulteriore fonte di sofferenza per l'individuo costretto a convivere coattivamente con altri soggetti che ne condividono la stessa angoscia di morte. Al tempo stesso, la sezione speciale costituisce un ulteriore luogo recintato, all'interno di uno spazio chiuso come quello carcerario. Anche per la cultura del trattamentale ci troviamo di fronte quindi ad un problema di costituzione di aree all'interno del carcere, ma il problema non è quello dei rapporti di forza tra custode e custodito, bensì di etichettamento dei soggetti che vivono in queste aree.


Le opinioni sulla incompatibilità tra carcere e AIDS


La legge 222 del 1993 ha rappresentato un evento importante nell'evoluzione della cultura giuridica carceraria rispetto al problema AIDS. In particolare, essa ha segnato il tenDine della prima fase di panico dell'istituzione penitenziaria nei confronti di un fenomeno all'epoca poco conosciuto. Tale normativa ha costituito un tentativo dell'istituzione di "liberarsi" del problema AIDS facendo prevalere i propri interessi particolari rispetto alla funzione securitaria che la società extra-muraria gli assegna simbolicamente, avvalendosi anche dell'appoggio dell'opinione pubblica extra-muraria. scandalizzata da alcuni episodi di decesso in carcere di reclusi sieropositivi avvenuti sul finire degli anni Ottanta. Rispetto a tale volontà espulsiva trattamentale e custodiale si sono trovati singolarmente in sintonia. pur avanzando argomentazioni diverse. L'area del trattamentale, in continuità con il proprio atteggiamento materno, ha potuto motivare tale posizione sostenendo che il carcere non è ambiente idoneo alla cura di patologie gravi e privilegiando, nell'immagine del detenuto sieropositivo, gli elementi della malattia rispetto a quelli del reato. Al tempo stesso, la cultura giuridica del custodiale ha dovuto, in qualche misura. far violenza a se stessa e alla propria natura patema. usando strumentalmente argomentazioni materne, legate al rispetto del diritto alla salute dei detenuti non sieropositivi e del personale dell'amministrazione penitenziaria. Tale unanimità di facciata non ha fatto venir meno, tuttavia. le diversità tra le culture giuridiche degli operatori carcerari; diversità che sono puntualmente riemerse nella fase successiva alla 222, caratterizzata, come noto, dal progressivo insorgere dell'opinione pubblica. influenzata da massicce campagne di stampa relative alle "imprese" della famosa "banda dell'AIDS" di Torino, contro la "scandalosa" impunità concessa alle persone sieropositive e dal parziale dietrofront normativo operato dalle sentenze della Corte Costituzionale nell'ottobre l995. Gran parte delle interviste della ricerca sono state effettuate al culmine di tale fase "restauratrice", ovvero qualche settimana dopo le sentenze appena ricordate. In generale, il giudizio su tale restaurazione è stato di segno positivo nel settore custodiale. La cultura giurida patemo-custodiale pare essere stata più fortemente influenzata dal moviamo di denuncia della 222 dell'opinione pubblica extra-rnuraria. "Secondo -la modifica della legge deve essere per forza giusta, eravamo a uno stato di assurdità totale vabbè, loro recriminavano che lo Stato li abbandonasse, rivendicavano l'assenza del loro problema da parte di chi doveva farsene carico, e quindi sono stati costretti a fare le rapine, però non è che uno può fare le rapine troppo comodo diciamo" (cust. TO).

Nonostante si debba riconoscere al detenuto sieropositivo scarcerato qualche attenuante per la condizione di abbandono in cui lo Stato lo ha lasciato, non è possibile ammettere l'assurdità di uno Stato che non punisce chi ha violato le sue regole; il padre non può essere comprensivo oltre una certa misura, pena il venir meno della sua autorevolezza, della sua severa giustizia. "All'esterno è un timore continuo, è giusto che anche loro, se commettono un reato, sappiano che la legge li punisce, molti utilizzano quest'arma dello stadio conclamao per fare quello che gli pare. Non è giusto questo" (cust. FI).

Riemerge l'immagine meramente repressiva della pena e contenitiva del carcere; con la legge 222 il carcere ha perso la sua funzione intimidatrice. "Non si può fare il ragionamento e dire che il drogato è incompatibile col carcere; perché poi .. sente dire a questi detenuti: io non sono compatibile col carcere, mi prendo una siringa vado a fare le rapine , perché io non posso andare in carcere" (cust. FG).

I detenuti in regime di 222 entrano ed escono dalla prigione, la stessa autorevolezza e capacità coercitiva dell'istituzione viene meno in questo continuo via vai, il cui ritmo sembra essere regolato dallo stesso condannato. "lo mi trovo in disaccordo con queste leggi che dicono che il detenuto non può stare dentro, perché loro lo sanno e la sfruttano, perché entrano ed escono a loro piacimento. Il tempo che sprecano in galera si ristabiliscono un po' in forze e poi stanno nuovamente fuori" (cust. FG). Certo la situazione del condannato sieropositivo non è di facile gestione; qualunque soluzione si adotti qualcuno deve sopportare dei disagi. "Non è che questa gente, mandandola fuori, si riesce a risolvere il problema, perché questi anche stando fuori rappresentano un problema per la collettività, quindi in carcere comunque danno fastidio agli operatori penitenziari in genere, ma fuori rappresentano pure un pericolo" (cust. FG).

È questo il dilemma innanzi al quale si trova la cultura giuridica paterno-custodiale, dilemma dal quale si può uscire solamente delegando il problema a qualche istituzione terza, che abbia al suo interno qualcosa del sanitario e qualcosa del penitenziario. Nel giudizio del custodiale, un certo tipo di condannato sieropositivo "sfrutta la situazione", nel senso che, sapendo di non poter essere sottoposto alla pena detentiva, non solamente commette reati all'esterno, ma si fa forte di questo suo "privilegio" anche all'interno dell'istituzione totale. Egli rappresenta una vera e propria anomalia nel paradigma del rapporto custode-custodito, in quanto non ha necessità di soggiacere a strategie di negoziazione nell'attuazione dei propri diritti. La legge 222, per le sue caratteristiche formali di norma individuale e concreta, è una normativa pressoché priva di flessibilità applicativa, nel senso che lascia all'interprete scarsissimi margini di manovra, essendo fondata su un presupposto di fatto difficilmente aggirabile qual è il livello linfocitario (83). Si mostra ancora una volta come la cultura giuridica del custodiale abbia quindi necessità di norme quanto più flessibili e che lascino un'ampia sfera di discrezionalità al personale esecutivo per poter utilizzare tale discrezionalità, come risorsa di potere negoziale, nella fase applicativa.

La cultura giuridica del trattamentale pare essere stata influenzata in minor misura dall'onda restauratrice dell'opinione pubblica essendo probabilmente più solida la sua convinzione che il condannato sieropositivo è incompatibile con la condizione carceraria. Addirittura in qualche intervista emerge che la normativa non è abbastanza liberale. "I parametri al di sotto dei quali la persona viene mandata fuori dal carcere forse sono eccessivamente bassi, ecco ci sono persone, qui come in altre carceri, che hanno già delle infezioni opportunistiche molto grosse e che nonostante questo permangono in istituto. Un provvedimento realistico sarebbe quello di alzare questa soglia al di sotto della quale la persona non deve essere nemmeno portata in carcere, non deve nemmeno subire tutto l'iter d'ingresso" (tratt. FI).

È del tutto comprensibile che una cultura che vede con sospetto l'utilità del carcere m generale non ritenga opportuno che la pena detentiva venga applicata a persone in precarie condizioni di salute.

"Se fosse per me io raderei al suolo tutte le carceri del mondo. La carcerazione è incompatibile con qualsiasi essere umano, quindi in modo particolare per persone che vivono determinate situazioni di disagio sanitario, compresi i malati di AlDS, ma anche il vecchietto" (tratt. TO).

Le motivazioni addotte per la incompatibilità si concentrano sulla dannosità del carcere per la salute del recluso sieropositivo, facendo quindi prevalere, nell'immagine di esso, la figura del malato piuttosto che quella del criminale pericoloso perché non soggetto a pena. A queste argomentazioni si affiancano quelle di ordine più genericamente umanitario. "Il malato di AlDS proprio come malato ha bisogno di cure che il carcere non può dare. Cure ambientali perché  è proprio l'ambiente che non dà nessun sollievo alla sofferenza. Credo che il detenuto forse in un ospedale con un staff medico preparato, cioè un ambiente predisposto ad operare in quel senso, farebbe sentire il sieropositivo più sicuro e magari daremmo agli ultimi giorni di questa persona un aspetto migliore, un senso di umanità" (tratt. FG)

Anche quando il giudizio sulle sentenze della Corte Costituzionale del l995 non è del tutto negativo, si tendono a sottolineare gli effetti paradossali della legge 222 rispetto alla condizione degli stessi detenuti sieropositivi. "Quando c'era la possibilità di ottenere la scarcerazione, la sensazione era che addirittura smettessero di mangiare, facessero delle cavolate senza limiti per riuscire ad abbassarsi i valori. Quando erano a 120, si avvicinavano al 100, cominciavano a fare delle cretinate senza limiti per riuscire ad uscire in quel modo lì. Cretinate nel senso di dannose per loro stessi, autolesioniste" (tratt. TO).

In ogni caso, anche quando ci si pone dal punto di vista dei diritti securitari della società extra-muraria, le soluzioni alternative al carcere auspicate sono più attente a rispettare i diritti del malato. "Per quanto riguarda invece i malati di AlDS, bisognerebbe avere delle strutture di tipo ospedaliero, comunitarie, allargate, dove è possibile magari anche vivere con la famiglia, assicurargli cure, una certa libertà di movimento, ma in una situazione protetta, per loro e per la società. Bisogna rendersi conto che fuori c'è della gente, che ha dei diritti. Io difendo i diritti del malato, e anche di quelli sani, dei cittadini" (tratt. TO).

Una lettura psicologicamente più sottile dell'interiorità del malato può portare, ad esempio, a considerare gli effetti paradossalmente positivi della restrizione della 222 dal punto di vista ci una maggiore solidità del progetto terapeutico. "Abbiamo alcuni che adesso stanno dentro perché non possono più uscire; stranamente alcuni di questi, che noi pensavamo fossero ingestibili, invece si sono adattati a questI nuova condizione. La cosa che mi ha colpito è che di fronte a un veto istituzionale, quello della sentenza {della Corte Costituzionale), stranamente ha determinato in loro un maggiore contenimento; cioè nel senso che non eri tu, non era il magistrato che non permetteva questo, ma un qualcosa di anonimo..:'{tratt. FG).

In queste ultime frasi è possibile scorgere un altro segno dell'ambigua "maternità" della cultura giuridica del trattarnentale. Nel contesto carcerario, la relazione operatore - utente/detenuto non può mai prescindere dalla condizione di coercizione in cui uno dei due poli della relazione si trova. Tale situazione istituzionale condiziona entrambi i contraenti del patto terapeutico: l'individuo soggetto alla detenzione che, ponendo un'attenzione ossessiva alla questione della scarcerazione, possiede una distorta percezione dei suoi problemi esistenziali, e l'operatore che può essere sedotto dalla tentazione di sfruttare la limitata libertà dell'utente per instaurare comunque una relazione terapeutica. La legge 222 ha fatto saltare tale fragile rapporto di scambio, dando al recluso la possibilità di accedere, senza più alcuna mediazione di soggetti terzi, all'agognato bene della libertà. Ecco allora che il superamento di tale normativa ha rappresentato anche l'occasione per ricomporre l'arnbiguo legarne operatore/detenuto.


Alcune suggestioni conclusive


Anche il mondo degli operatori penitenziari possiede le sue epopee eroiche e i suoi miti; in essi gli elementi del codice paterno e di quello materno della cultura giuridica possono essere colti nella trasparenza del linguaggio dei simboli. Il livello simbolico, tra l'altro, consente di cogliere con maggiore profondità le sovrapposizioni e le ambiguità dei due codici: non siamo di fronte a due modelli ideal-tipici che si fronteggiano, ma alla fluida compenetrazione di elementi diversi che formano una realtà variegata. Il tema dei racconti è il medesimo: l'intervento d'emergenza nei confronti di detenuti sieropositivi che si sono autolesionati. Il tono delle interviste assume spesso connotati drammatici: nel caso di detenuti sieropositivi che "si tagliano", in gioco non vi è solo la vita del recluso, ma anche quella dell'operatore, in quanto il rischio del contagio è elevato. Al tempo stesso, non può non emergere l'abnegazione degli operatori che in queste occasioni devono mostrare tutto il loro coraggio e la loro solidarietà verso individui che devono salvare dalla morte per dissanguamento.

Ecco il racconto di un operatore del custodiale, nel quale i toni truculenti si accompagnano ad un'epica di tipo militare.

"È successo che ad un certo punto questo detenuto è rimasto da solo in cella. ora abbiamo la cella con a fianco una porta sempre all'interno della cella che s'immette nel bagno solo per la cella. Ad un certo punto l'agente camminando nel corridoio, i detenuti stavano a passeggio e quindi le celle erano pressoché vuote, vede da sotto la porta del bagno fuoriuscire del sangue a fiotti. Entrato nel bagno della cella ha trovato questa scena raccapriciante, questo detenuto che versava per terra nel sangue e si era messo un cuscino sotto i piedi per fare in modo che il sangue fluisse con maggiore velocità. e si pensava che fosse morto. Abbiamo immediatamente fatto scattare l'allarme e siamo accorsi e l'abbiamo preso e prendendolo la testa si è piegata e praticamente abbiamo visto tutto il collo praticamente aperto. Sicuri che fosse morto l'abbiamo, senza aspettare che arrivasse il medico, abbiamo messo in una coperta perché era il modo migliore e più pratico, e l'abbiamo portato qui fuori nei nostri mezzi che abbiamo per le traduzioni e l'abbiamo appoggiato nella coperta e quindi con le sirene spiegate siamo andati subito all'ospedale di Foggia e si è riuscito a salvare. Mentre si è intervenuto non si è pensato al fatto che fosse sieropositivo, però mentre si parlava all'ospedale perché da dove è successo a dove stazionava il mezzo abbiamo dovuto fare le scale. ascensore, cancelli e corridoi e qualcuno strada facendo si è ricordato che era sieropositivo e allora abbiamo detto di starci attenti. Ma voglio dire questa conoscenza non ha sminuito minimamente l'impegno o la premura che si riuscisse a salvare il detenuto. Non c'era nemmeno il tempo di mettersi i guanti" (cust. FG).

Nell'ambito delle interviste ad operatori del trattamentale ho scelto, invece, il racconto di una psicologa di un episodio di autolesionismo avvenuto nel carcere torinese.

"Ricordo un fatto, accaduto anni fa, in cui due fratelli si tagliarono in maniera abbastanza grave () uno per dette molto sangue, per cui sangue neI corridoio, sangue nella cella, per terra, perché lui poi lo avevano coricato sul letto, i compagni, e sanguinava talmente tanto da questa ferita sul ventre che gocciolava il sangue dal materasso, aveva fatto già una piccola pozza. Il personale di custodia, in quell'occasione, ebbe proprio paura, infatti si rifiutò di entrare in sezione. lo venni chiamata dal comandante, dicendo: 'faccia qualcosa'; sono andata in sezione, gli agenti, intimoriti per me, mi dissero: 'mica vorrà entrar là dentro'; 'qualcuno dovrà pur far qualcosa, o volete che muoia dissanguato?'. Allora andai nella cella con due detenuti, e cercai di parlare con questo detenuto, che era ovviamente in condizioni anche di debolezza, perché aveva ormai perso molto sangue, e cercai di parlare con lui, poi mi resi conto che io stando in piedi ero troppo alta per luii, che era sulla branda più bassa del letto a castello. E allora l'unico modo per mettersi allo stesso livello era quello di chinarmi o inginocchiarmi. Facendo attenzione a non inginocchiarmi dove il sangue sgocciolava, mi inginocchiai di fianco alletto e cominciai a parlargli. Lui a quel punto mi guardò. Allora, spiegandogli perché era il caso che lui si facesse cucire, anche se lui non ne voleva sapere, ragionai parlando della madre, che avevo conosciuto in passato, così cercai di farlo ragionare proprio ricordandogli la sofferenza già sopportata dalla madre in una situazione analoga e che non era il caso di farle nuovamente sopportare. A quel punto lui accettò di farsi cucire. Due compagni lo misero su una barella, lo portammo giù, e lui pose una condizione sola: sarebbe andato in ospedale a farsi ricucire a patto che io andassi con lui. Anche lì, qualcuno mi disse: 'tanto ormai è sull'ambulanza, lo stanno portando, lei cosa sta a scomodarsi, vada a casa'. E nel momento in cui io rispondevo a questo sottufficiale che io sono abituata che quando dò una parola, poi la mantengo, lui ha accettato di farsi cucire se aveva vicino una persona che sentiva vicino a lui, per i problemi che lui ha in questo momento io ritengo che questi impegni vadano rispettati. Infatti in quel momento chiamarono dalla portineria dicendo che il detenuto che aveva una lametta con se minacciava di tagliarsi di nuovo se io non raggiungevo l'ambulanza. AI che io dissi al sottufficiale:'come vede, devo andare'.

Lui si fece cucire facendosi fare solo l'anestesia locale per poter - io dovetti andare in sala operatoria perché se no lui non si faceva cucire - stare sveglio e vedere se io rimanevo in sala operatoria. E tutto il tempo dell'operazione lui stette con la testa voltata a guardare me (). Credo che per lui abbia significato un messaggio di amministrazione che sa essere vicina, anche nei momenti di difficoltà, di disperazione, perché in effetti quello era stato per protestare contro il fatto che lui voleva andare a rendere visita alla tomba del fratello, e nessuno gli aveva ancora dato l'autorizzazione (). Poi a quel detenuto sapevo di poter dire certe cose, e lui le accettava come proposte per il suo bene, e non solo proposte per essere duri o severi". (tratt. TO)

I racconti evocano, ancora una volta. una situazione di sordo conflitto tra settori dell'amministrazione penitenziaria. Gli agenti intervengono "immediatamente", "senza aspettare il medico"; la loro supremazia risiede nella prossimità di vita col detenuto che consente la salvezza per la tempestività di un intervento che non potrebbe essere garantito da un trattamentale che lavora "saltuariamente" in istituto. Nel racconto della psicologa le figure degli agenti mostrano, invece, con tratti molto netti, il loro timore di mettere in gioco la propria incolumità, si rifiutano di intervenire e si stupiscono che qualcuno "entri là dentro", suggeriscono odiosamente di non "scomodarsi e di tornarsene a casa". Come in un gioco di specchi deformanti, trattamentale e custodiale si rimandano, quindi, immagini reciprocamente negative e distorte. Ma se questi sono i termini del conflitto, più complesso appare l'immagine del recluso e della relazione con esso che emerge dai racconti. Nel racconto dell'agente, la figura del detenuto è priva di connotati personalistici che non siano la truculenta descrizione di come egli abbia infierito sul proprio corpo; tra questi dettagli, un particolare illuminante nel dipingere il rapporto custode-custodito: il detenuto "si era messo un cuscino sotto i piedi per fare in modo che il sangue fluisse con maggiore velocità". In carcere, anche l'atto estremo del suicidio deve essere sottratto alla sorveglianza, la rapidità del decesso ha la sua importanza. Per l'agente si tratta, tuttavia, della conferma che il detenuto può sfuggire al suo controllo in qualsiasi momento. Nel resoconto torinese, la figura del detenuto è tratteggiata con un numero assai maggiore di elementi. Di lui veniamo a conoscenza della storia familiare (ha due fratelli, uno dei quali probabilmente morto di AIDS, una madre che ha molto sofferto per queste vicende), delle sue buone ragioni per protestare (gli è stato negato di rendere visita alla tomba del fratello) e soprattutto della sua "debolezza" che va ben al di là della perdita di sangue dovuta ai tagli che si è inferto. Ma oltre all'immagine che si fornisce del recluso, cambiano anche le modalità con le quali ci si relaziona con lui. Nel racconto del custodiale, tutta l'opera di salvezza è rappresentata da azioni rapide, concrete e che non prevedono una relazione vera e propria col detenuto: si fa scattare l'allarme, si raccoglie in una coperta il moribondo, lo si carica sui mezzi di trasporto che abitualmente servono per condurlo in carcere (84) e lo si porta "a sirene spiegate" all'ospedale più vicino. Nel racconto del trattamentale, invece, tutto è fondato sul dialogo e sulla capacità di persuadere il detenuto. L'azione di forza è preclusa dalla ostinata volontà di lasciarsi morire e dalla pusillanimità della custodia. Ecco allora che occorre "ragionare" con l'aspirante suicida, parlare, evocare "la sofferenza già sopportata dalla madre", farsi accompagnare da due compagni di cella che in qualche modo possano garantire la sincerità degli impegni che si prendono, seguirlo fino in ospedale e garantire con la propria presenza che i patti vengano rispettati. Chi meglio dell'operatore del trattamentale può sviluppare una simile strategia? Chi meglio della figura che ha il compito di rappresentare un'amministrazione che non ti abbandona neanche nel momento della scelta suprema, ti sa "essere vicina, anche nei momenti di difficoltà e di disperazione"? Chi meglio di un operatore che conosce a fondo "l'anima" del detenuto, che "sa di poter dire certe cose" e che può parlare e fare proposte "per il suo bene" e "non solo per essere duri o severi? È qui che si inserisce, tuttavia, l'ambigua figura del codice materno del trattamento carcerario. Qual è, infatti, il modo col quale è possibile dialogare col recluso? "L'unico modo per mettersi allo stesso livello era quello di chinarmi o inginocchiarmi". Vi è molto di più che il racconto di un semplice gesto di pietà in questa frase, ma il simbolo di un rapporto che sembra non essere paritario, di quella solidarietà senza reciprocità di cui si è detto. Il detenuto acconsente alle cure, ma in sala operatoria rinuncia all'anestesia totale per poter continuare ad osservare la sua "salvatrice". In quello sguardo muto, che sembra nascondere un residuo di perplessità sulla natura di tale "salvezza", e in quella rinuncia alla perdita di coscienza (e alla liberazione dal dolore) per poter verificare la sincerità del volto benevolo dell'istituzione, è racchiusa tutta l'ambigua "dolcezza" del potere della prigione.


4, Detenzione e sieropositività, detenzione e malattia:

uno sguardo "dal basso"


4.l. Le caratteristiche del campione


Le persone intervistate, dodici uomini con esperienza pregressa di carcerazione, sono state reperite attraverso operatori sociali, volontari e associazioni che si occupano di coloro che sono impegnati in percorsi di vita successivi al carcere. Per mezzo delle interviste si è inteso raccogliere testimonianze sufficientemente eterogenee in merito alle condizioni di detenzione in stato di sieropositività e di sieropositività sintomatica, tanto da essere in grado di fornire informazioni relative all'evoluzione nel tempo e secondo i vari contesti locali dell'organizzazione intramuraria e delle relazioni umane condizionate dalla presenza crescente dell'infezione in carcere. Per questo motivo gli intervistati sono stati reperiti facendo riferimento a tre variabili considerate centrali: il genere di appartenenza, il periodo ed il luogo di detenzione.

Per quanto riguarda il genere, si tratta di un campione esclusivamente maschile. Ciò perché, innanzitutto, si è tenuto conto della centralità delle specificità maschile e femminile in relazione sia alla carcerazione, sia allo stato di sieropositività e di malattia. In secondo luogo, perché si è ritenuto opportuno privilegiare l'analisi della percezione soggettiva della condizione di sieropositivo e di malato relativa a coloro - gli uomini - che sono maggiormente rappresentati sia nell'universo carcerario, sia tra gli affetti dal virus.

Per quanto riguarda i periodi di detenzione, le esperienze carcerarie pregresse si collocano in un arco temporale che comprende, per tutti gli intervistati, gli anni'80 e'90 (per alcuni la prima carcerazione risale agli anni settanta; per un intervistato, agli anni sessanta). Questo perché, com'è noto, è proprio nel corso degli anni'80 e nei primi anni'90 che sono stati ridefiniti periodicamente la legislazione, i regolamenti e le prassi riguardanti i detenuti sieropositivi e malati.

Per quanto riguarda il luogo di detenzione, gli intervistati sono stati reperiti in località prossime ai luoghi in cui sorgono le carceri interessate alla ricerca; ciò soprattutto per garantire la conoscenza del territorio nel quale si stava compiendo il percorso di vita successivo al carcere; inoltre per poter reperire notizie oggettive, riguardanti almeno in parte l'esperienza intramuraria degli intervistati, utili per contestualizzare più efficacemente le loro dichiarazioni.

In virtù della centralità della dimensione temporale e spaziale, il campione selezionato presenta un'età che variava dai 30 ai 44 anni al momento dell'intervista; pur essendo tutti gli intervistati di origine meridionale, come già rilevato la località di residenza ed il radicamento territoriale che permette l'accesso ai servizi si collocavano nelle medesime province in cui sono situati i carceri di riferimento per la ricerca: cinque persone per Torino e dintorni, due per la città di Firenze, cinque per la provincia di Foggia. Tuttavia ogni intervistato ha sperimentato la carcerazione in differenti luoghi di detenzione, talvolta anche molto distanti dal luogo di residenza. In particolare uno degli intervistati è stato anche detenuto all'estero, in Germania.

Tutti gli intervistati sono stati tossicodipendenti, in linea con la tendenza che rivela che, in Italia, larga parte dei detenuti sieropositivi ha fatto uso di sostanze stupefacenti per via iniettiva. Tranne per un caso, sono anche correlate alla condizione di tossicodipendenza le ripetute carcerazioni e i reati per cui gli intervistati sono stati carcerati: furto, rapina, spaccio, detenzione di sostanze stupefacenti, ecc. Alcuni di essi hanno trascorso in stato di detenzione periodi molto lunghi: per il campione nel suo insieme, l'arco del periodo di detenzione varia dai 4 ai 21 anni. Taluni hanno esperito la prima carcerazione già nel corso dell'adolescenza. In generale, la scarcerazione è avvenuta per affidamento ai servizi. Alcuni degli intervistati sono stati scarcerati a più riprese a causa delle condizioni di salute.

La scolarità si colloca a livelli medio bassi e medi: soltanto un intervistato non ha concluso il ciclo elementare, mentre la maggior parte ha ottenuto la licenza media. Un intervistato, all'epoca della ricerca, frequentava il liceo artistico e due avevano interrotto gli studi superiori. Per alcuni di essi la detenzione ha rappresentato il periodo in cui è stato possibile ottenere la licenza dell'obbligo scolastico.

La quasi totalità degli intervistati è coniugata o lo è stata in precedenza. Per quattro di essi questa condizione ha rappresentato un legame diretto con la malattia e la morte: infatti si tratta di vedovi le cui mogli sono morte a causa dell'AIDS. Anche la genitorialità è presente nel campione: metà degli intervistati sono, infatti, padri. Proprio la vita familiare caratterizzava, al momento dell'intervista, il percorso successivo al carcere. Soltanto due intervistati erano collocati in comunità. Gli altri vivevano presso la propria famiglia, testimoniando la centralità di questa istituzione nell'accoglienza dei malati e dei sieropositivi all'uscita dal carcere. Nel caso del campione esami- nato si trattava di famiglie allargate, di famiglie nucleari tradizionali, di famiglie ricostituite, di famiglie c.d. senza nucleo (es.: fratelli).

La presenza della famiglia o della comunità diviene centrale non soltanto per l'erogazione delle attività di cura (intendendo con esse tanto le attività relative alla cura dello stato di salute, quanto le attività di care) ma anche per il sostentamento e la disponibilità di un luogo fisico in cui abitare. Infatti soltanto due persone avevano, al momento dell'intervista, un'occupazione retribuita: un operatore di strada presso il Gruppo Abele e un addetto alle pulizie presso una cooperativa sociale.

Soltanto alcuni degli intervistati avevano contatti con associazioni che si occupano di sieropositività, di tutela dei diritti dei detenuti, di sostegno nel periodo successivo alla scarcerazione. Come vedremo più dettagliatamente in seguito, l'appartenenza o anche soltanto il contatto con associazioni e gruppi, favorendo il sostegno relazionale e facilitando l'accesso e la fruizione dei servizi, contribuiscono in larga misura al miglioramento delle condizioni in cui si attua il percorso di vita successivo alla scarcerazione ed anche, in taluni casi, al miglioramento delle condizioni di vita interne al carcere.


4.2. L'ingresso in carcere: dal test per l'accertamento della sieropositività alla comunicazione dei risultati


Nella storia della sieropositività e della malattia in carcere, il tema della obbligatorietà o volontarietà del test per il rilevamento dell'infezione si definisce nei termini attuali - test di natura epidemiologica, volontarietà dell'esame - a partire dal l993. Le testimonianze raccolte si collocano a cavallo di questo crinale temporale e rimandano l'immagine di pratiche per l'accertamento della sieropositività profondamente differenti.

Nel campione intervistato, otto persone hanno scoperto la propria condizione in carcere. Coloro che ne hanno avuto notizia più recentemente testimoniano di essersi sottoposti al test rispondendo ad un invito rivolto loro dal personale medico nel corso della visita predisposta all'ingresso in carcere, o all'invito di un medico specialista nel corso di visite successive all'ingresso, o ancora dopo aver richiesto espressamente l'esame in quanto non era mai stato loro proposto (ciò è avvenuto per due intervistati reclusi, al momento dell'individuazione della sieropositività, in carceri dell'Italia del sud). Per questi intervistati si è trattato, dunque, di una pratica inserita in modo organico in un insieme di atti standardizzati volti ad individuare lo stato di salute dell'individuo. Infatti, a questo proposito, in alcune interviste viene utilizzato il termine routine. "Io, che sapevo già dalla prima volta che quando entravi ti facevano una serie di esami compreso quello dell'HIV, perciò, magari era anche per me una scusa buona per farli, magari fuori non li facevi. C'era l'infermiera, il dottore, ti fa il prelievo e bon (. . .) Ma penso che è una routine che viene eseguita per tutti quelli che entrano, puoi anche rifiutarlo, però a chiunque entra viene chiesto" (TO 4). "Sì, i controlli ci sono, sono comunque volontari. Loro ti propongono se vuoi sottoporti al test HIV, ma onestamente io venivo dal mondo dei ciechi; la malattia la conoscevo ma molto alla larga, e quando mi è capitato addosso, mi è stato riferito che io appunto ero affetto da questo male, ero in totale ignoranza, cioè non cercavo neanche il confronto con altre persone" (TO2). "(. . .) però lo devi chiedere tu a Foggia. A Foggia ci sta il fatto che lo devi chiedere tu di fare l'analisi dell'HIV. Allora in base a questo se risulta qualcosa pigliano lo specialista, se no, se non risulta niente sei un detenuto normale" (FG3).

Per coloro che sono venuti a conoscenza della propria condizione negli anni'80 l'esperienza è stata traumatizzante, inserita in un contesto di prati che per l'accertamento diagnostico talvolta caratterizzate dalla coercizione. Soprattutto nel periodo di tempo intercorso tra il l984 ed il l987 l'informazione presente in carcere era piuttosto scarsa ed il timore del contagio era molto elevato.

"Ma a me, per esempio, nel l984, quando ho scoperto di essere sieropositivo, mi hanno fatto l'esame del sangue e dopo quindici giorni mi hanno chiamato e mi hanno detto: sei positivo. Cioè io non avevo chiesto né di farlo. . . però nel l984 non c'era ancora la legge che non era obbligatorio per cui dopo non so dirti, dopo non ne ho sentiti di casi che gli abbiano preso il sangue senza dirgli che erano per l'esame specifico sull'AlDS" (TOl).

Anche le modalità di comunicazione dei risultati del test subiscono variazioni nel corso del tempo. Secondo le testimonianze raccolte, nel primo periodo di diffusione dell'infezione le comunicazioni seguono modalità che tengono scarsamente conto della sensibilità degli intervistati e della gravità della notizia, rivelandosi talvolta brutali. "Difficilmente si dimentica le parole (). Avevo appena scontato sei anni. Avevo appena scontato tre anni al reparto del carcere speciale. Mi dicono: "Vuoi fare l'esame, c'è una nuova malattia in giro". Io stavo bene, uscivo dal carcere speciale perciò mi sentivo un leone Faccio questi esami, mi fanno firmare dopo l7/l8 giorni viene il maresciallo con la squadretta, dice: "Chi è  ()"? E io faccio: "Sono io".

Dice: "Vieni con me". E io subito ho pensato che mi stessero riportando nel circuito del carcere speciale visto che non ero stato riclassificato. Invece di scendere salivamo. E cosa successe in quei giorni qui? Avevano interrato l'ultimo piano del secondo braccio e si diceva che mettevano i malati d'AIDS, i morti viventi, queste cose. I primi giorni era scattata la curiosità, però non. . . e invece mi portarono su e il maresciallo mi fa: "Tu stai morendo". Dice: "Hai l'AIDS, ti piaceva bucarti, e mo' paghi". Così a brucio la cosa è stata durissima." (TO3). Così racconta un altro intervistato:

"Sì, è stato bellissimo, è stato. Alle Nuove, in uno di quei prelievi senza saper niente, mi hanno chiamato in infermeria, mi hanno detto: "Lei è positivo, ha sei mesi di vita". Grazie! Molto diretta, la cosa, perché si usa così, i tempi di vita per un malato o un sieropositivo all'HIV erano quelli in quegli anni lì. Invece, poi, magari, era anche un po'anzianotto quel medico, sarà morto lui, penso, e io sono ancora qua" .(TO5).

Ad un intervistato la sieropositività è stato comunicata dopo lungo tempo.

" È successo questo: nel l986 sono stato sottoposto ad un test, che comunque io non ho mai saputo i risultati di questo test, dentro il carcere mi sottoposi volontariamente a questo test convinto di essere sieropositivo. Dopo, nel tempo, ho saputo che all'epoca ero già positivo e non mi era stato comunicato il risultato. Questo l'ho saputo anni dopo. Ho ricollegato al test, eccetera. Fui trasferito in un altro carcere. E dopo due o tre anni ho saputo di questa faccenda (. . .). l'ho intuito, ebbi un mezzo sospetto in un altro carcere in cui venni trasferito e mi fu detto che non potevo lavorare in certi posti, però non mi dissero il motivo preciso. Dopo, nel tempo () avendo contatti con il dottor (un medico del carcere), ho scoperto che io ero già nel l986, comunque ero stato sottoposto ad un test e che ero uscito positivo" (FG4).

Con il trascorrere del tempo i toni utilizzati per comunicare la notizia paiono perdere le connotazioni maggiormente stigmatizzanti, ma permangono la freddezza ed il distacco degli operatori che comunicano i risultati del test, come testimoniano alcuni di coloro che hanno appreso della propria sieropositività in tempi più recenti. "Quando me l'hanno detto, appunto nel l994 quando mi hanno arrestato e e una cosa brutta è come te lo dicono, che magari c'è un infermiere che ti fa entrare, senza scrupolo, te lo sbatte in faccia e poi (. . .) me I'ha detto e ci sono dovuto tornare in cella con'sto problema, poi anche: "Rifaremo gli esami e vedremo, perciò" Poi ho ripetuto dopo quindici giorni gli esami e . . . era uguale." (TO4).

Alcuni studi (38) hanno rilevato che al paziente è necessario offrire, insieme con il test, un servizio di counselling, poiché il risultato positivo lo costringe a confrontarsi con l'angoscia di morte e ciò condiziona profondamente i comportamenti successivi. Tale servizio rende possibile anche l'individuazione degli stili di reazione, che paiono essere predittivi dei futuri comportamenti rispetto all'accettazione della propria condizione e alle pratiche di riduzione del rischio per se e per gli altri. Appaiono in sintonia con questi studi le testimonianze raccolte, che rivelano l'angoscia della solitudine successiva alla comunicazione dei risultati del test e la necessità di un sostegno di carattere relazionale e specialistico per la comprensione e l'accettazione della propria situazione.

Anche le reazioni del contesto sociale successive alla scoperta della sieropositività appaiono fortemente influenzate dalla variabile temporale. In modo particolare le manifestazioni di ostilità, di distacco, di ostracismo e di stigmatizzazione sono rilevabili in relazione al comportamento del personale di custodia e dei compagni di detenzione nel primo periodo di diffusione del contagio. Particolarmente significativo è il racconto dei detenuti che hanno scoperto la loro sieropositività in stato di detenzione nel primo periodo della diffusione del virus: "(. . .) Allora è successo che la gente dalla sera alla mattina non ci salutava più, mi girava le spalle, scappavano, ho fatto più di un mese di colloquio isolato con la famiglia perché non mi facevano fare il colloquio insieme agli altri. Mi anno bruciato tutta la biancheria, sono stato trattato come un animale. Dopo un paio di mesi al maresciallo serviva il piano, di conseguenza venne e disse: "Siete guariti, tornate tutti alle sezioni e alle celle di provenienza". Allora io, che sono un carattere ribelle, mi sono incazzato. Ci ho detto: "Ma come, siamo guariti. Ci avete mandato là per due mesi 24 ore al giorno, basta che non rompevamo le scatole. Come facevo a guarire. Mi ha detto lei che sto morendo! "Allora abbiamo firmato, abbiamo avuto l'incontro e cinque o sei di noi ci portò alla sezione isolamento di medicina dove mettevano i malati per l'epatite virale e ho vissuto lì dall'85 fino alla fine dell'88. Dall'88 ci hanno portato alle Vallette, alla famosa quinta sezione, l'abbiamo inaugurata noi. Era una sezione vuota, non c'era niente. Non c'era sgabelli, non c'era tavolini, c'era solo immondizia (. . .). Per anni era stata abbandonata. E i primi tempi lì per là venne il brigadiere e disse: "Alla prima che fate vi porto alle scuderie". Le scuderie sarebbe l'isolamento dove mettono gli infami, allora lui aveva sbagliato clienti, non ci conosceva ancora, eravamo tutte delle teste orgogliose e ne abbiamo combinate, scioperi su scioperi. Rimasti fuori. Perché ogni volta poi ottenevamo qualcosa (. . .). Poi hanno cominciato a darci i tavolini, le sedie, le celle aperte e man mano la cosa. . .però eravamo un ghetto, cioè la gente non ci guardava in faccia. Guarda la quinta, tutti che scappavano, nessuno ne voleva più sapere. lo personalmente problemi non me ne creavo, perché ormai dal momento che ero sputtanato, perciò lo dicevo con franchezza che ero positiva (). Passavo per i blocchi e tutti mi indicavano: "Ah, c'hai I'AlDS". Non mi toccava poi tanto, visto che la mia famiglia mi ha accettato per quello che ero. Però sono stati anni di battaglia dura, scioperi della fame, dei medicinali, perché io ho visto morire tanti ragazzi" (TO3). Anche altri intervistati testimoniano l'esistenza di reazioni alla paura del contagio che hanno condotto all'isolamento, fisico e relazionale, dei detenuti sieropositivi (39): "Secondo me, all'inizio loro influirono a farci stare male anche da detenuti, cioè eravamo isolati ed era una cosa brutta perché ad esempio le guardie ci toccavano poco, ci parlavano da metri, avevano queste maschere strane Quindi ti facevano pesare il fatto che tu eri malato anche senza fare nulla, soltanto a vedere il rapporto guardia detenuto, e poi quando facevano le perquisire era una cosa incredibile. A parte i guanti, perché erano costretti a metterli, poi quando ti buttavano .fuori dalle celle. . . coi piedi. . . coi bastoni. . . Poi le premesse erano queste, che lì era un ambiente più riscaldato delle altre sezioni e si era più sorvegliati e si aveva più opportunità di parlare con i dottori. Ma comunque erano discorsi per invogliarti ad entrare. Voi siete così ed è meglio che gli altri lo sappiano e quando entrano in contatto con voi sappiano come comportarsi. Voi siete dei detenuti normali e state là, mentre voi siete dei positivi e sappiamo già come comportarci. sicché questa distinzione fu grossa perché io appunto in quel periodo lavoravo, e mi venne tolto il lavoro (. . .) lo facevo pulizia in tutto il carcere. Appunto perché giravo tutto il carcere potevo contagiare gli altri. Ora in quel periodo lì, se si ricorda, era una cosa allarmante. Nell'84 parlavano tutti di AlDS uguale a morte, sicché c'era molta paura (. . .). Quando si avevano dei colloqui con altri detenuti ti sentivi discriminato anche dagli stessi detenuti. Anche, secondo me, ho cercato di mettermi nei panni degli altri, e so che la paura è tanta, però detenuti che conoscevo bene e ragazzi che conoscevo benissimo che non ti salutavano neanche. Se erano da soli ti abbracciavano anche ma se c'erano altri detenuti non ti salutavano nemmeno" (FI2).

I familiari paiono maggiormente disposti ad accettare la condizione di sieropositività del congiunto, talvolta aiutandolo a reperire informazioni sulla malattia e, nel caso delle mogli, condividendo talvolta lo stesso destino.

In tempi più recenti le reazioni del personale della custodia e degli altri detenuti appaiono più contenute, anche se permane una sorta di diffidenza e di ostracismo. La migliore informazione e la conoscenza diretta di amici e parenti sieropositivi e malati sono considerati da molti intervistati i veicoli attraverso i quali si è fatta strada una migliore disposizione alla tolleranza e alla comprensione. "Sì, prima si aveva paura anche dell'aria che si respirava, si aveva paura anche della stretta di mano, te lo facevano pesare, non so perché. C'era paura. Adesso, invece, negli ultimi tempi, ma anche .fuori, non solo all'interno del carcere, anche nei contatti con le persone.. ." (FG4).

Dalle testimonianze raccolte, pare dunque che le reazioni ai risultati del test da parte delle persone che vivono e lavorano all'interno del carcere siano mutate con l'andare degli anni e con l'aumento della consapevolezza riferita all'infezione. Le interviste rimandano l'immagine di pratiche relazionali che si modificano con l'andar del tempo e che trovano una sorta di assestamento a partire dai primi anni'90.

La paura dell'ostracismo e dell'isolamento ad opera degli altri detenuti ha condotto alcuni intervistati a non diffondere, nei limiti del possibile, la notizia della propria sieropositività e a non informare i compagni di cella. In particolare, un intervistato (TO2) riporta di essere stato rimproverato dai compagni per il suo silenzio quando, successivamente, essi sono venuti a conoscenza della sua condizione e di aver dovuto dare delle spiegazioni per il suo comportamento.

Negli anni'90, come si è già rilevato, la situazione relazionale si è modificata. Inoltre il grande afflusso di tossicodipendenti e di stranieri nelle carceri ha modificato ulteriormente le condizioni di vita e di possibilità del controllo del contagio da parte della stessa popolazione carceraria.

Un altro tema indissolubilmente legato alla rilevazione dell'infezione in carcere è quello della segretezza dei risultati del test. In linea con alcune ricerche già citate, tutti gli intervistati ritengono che in carcere sia impossibile rispettare la riservatezza innanzitutto a causa del tipo di organizzazione della vita carceraria nei suoi vari aspetti: le modalità attraverso cui si realizzano le visite mediche, l'accessibilità delle cartelle cliniche (taluni intervistati hanno riportato che, in passato, sul frontespizio della cartella clinica dei sieropositivi campeggiava un grossa croce), gli incontri con l'infettivologo, la richiesta di assegnazione presso sezioni speciali, alcune restrizioni riguardanti l'accesso al lavoro (con l'andare del tempo molte restrizioni sono cadute: viene segnalato come attuale l'impedimento ai lavori di cucina e di infermeria) sono indicatori evidenti di sieropositività. In secondo luogo, dalle testimonianze emerge come la notizia relativa alla sieropositività di un detenuto si diffonda velocemente attraverso i canali comunicativi consueti del carcere che comprendono ed intrecciano le vite dei detenuti e del personale di custodia; si tratta di canali particolarmente pervasivi e ricchi di informazione in quanto attivi in un luogo strettamente circoscritto. In merito alla riservatezza, così si esprime un intervistato: "Purtroppo (la riservatezza) è impossibile, perché tra le guardie si sparge la voce e allora inizi ad avere un distacco di migliaia di chilometri. Tra i detenuti si crea un altro distacco che non viene a freddo. ma man mano lo capisci, man mano te lo fanno capire chiaro chiaro. Cioè si crea una situazione, diciamo così, rallentata, non te lo dimostrano subito Ad iniziare dalle coperte, ad iniziare dai piatti, ad iniziare da dove bevi. . . a differenziare le cose. Te ne accorgi da tanti piccoli movimenti che solo chi è malato può comprendere" (FG5). L'organizzazione delle visite mediche è indicata come uno dei principali punti deboli del sistema che dovrebbe garantire la riservatezza: "Sì, secondo me è una peccadi un agente infermiere, perché secondo me non ti puoi confidare con il medico. . . non ti puoi confidare, perché la paura che la cosa venga sparsa, questo sì però è involontaria la cosa, perché l'ufficio è quello, l'agente è lì che gira, entra, esce, fa, piglia questo, piglia quello, non c'è uno studio proprio. . . come dire (. . .). Lì no, molte volte la porta è aperta, gli altri detenuti sono in fila che ti dicono: "Sbrigati, che è due giorni che siamo ai nuovi giunti e dobbiamo andare in sezione". Cioè, hai capito proprio un clima così molto sommario, ecco" (TO1). La maggior parte degli intervistati pare così rassegnata di fronte all'impossibilità della confidenzialità dei risultati del test e della condizione di sieropositività, pur desiderando una tutela più ampia della riservatezza del proprio stato di salute.

La notizia della condizione di sieropositivo, la reazione dell'ambiente interno ed esterno al carcere e, per taluni, la successiva manifestazione dei sintomi dell'infezione, hanno condotto la quasi totalità degli intervistati a conoscere meglio la propria malattia e a reperire ulteriori informazioni su di essa; in altre parole, a rendere più completa e variegata la propria rappresentazione della malattia a partire dall'esperienza personale. Sono state quindi elaborate riflessioni individuali sulle modalità di contagio, sulla precauzioni da seguire per non danneggiare gli altri e se stessi, sulla curabilità della malattia e sulla obbligatorietà o meno del test in ambito carcerario. Fa eccezione un solo intervistato, il quale fatica ad accettare la propria condizione e fatica a parlarne, preferendo attribuire ad altri - conoscenti e parenti carcerati - le esperienze correlate alla sieropositività e alla manifestazione dei sintomi. Questi atteggiamenti appaiono in sintonia con quanto rilevati in letteratura a proposito delle fasi psicologiche successive alla scoperta della condizione di sieropositivo. Anche se si manifestano sentimenti ambivalenti nei confronti della malattia, in molti sieropositivi e malati si fa strada il desiderio di conoscere le caratteristiche della propria condizione, in modo tale da poter mettere in atto un comportamento attivo e partecipativo nei confronti delle cure (40).

Alcuni intervistati ritengono di aver contratto il virus in carcere, utilizzando siringhe in comune con i compagni. L'uso promiscuo dell'occorrente per iniettare droghe e la presenza dell'eroina in carcere sono temi ricorrenti nelle testimonianze. Altri intervistati ritengono di essersi infettati con l'uso di siringhe in comune o per mezzo di rapporti sessuali occasionali fuori dal carcere. Un intervistato ipotizza di essere stato contagiato durante una trasfusione in seguito ad un conflitto a fuoco. Dopo aver conosciuto la propria condizione di sieropositività, alcuni hanno immediatamente messo in atto misure per tutelare la salute delle persone che stavano loro vicino, sia in carcere, sia fuori dal carcere: in particolare tali misure si riferiscono all'evitare di perdere sangue e di scambiare aghi e siringhe. Nelle interviste è inoltre presente il ricordo, da parte di alcuni coniugati, del timore di aver contagiato i familiari, i figli e le mogli in particolare, o la preoccupazione che ciò potesse avvenire durante una delle permanenze a casa. Un intervistato ricorda che, saputo di essere positivo in un periodo in cui si conosceva poco della malattia, ha impiegato qualche tempo a divenire consapevole delle precauzioni che è bene utilizzare per non diffondere il virus. Un altro intervistato riporta che, una volta appreso della propria condizione, ha tentato di accumulare più informazioni possibili sulla malattia, diffondendole successivamente anche attraverso l'impegno nell'associazionismo, per evitare che persone giovani e tossicodipendenti possano commettere il suo stesso errore di valutazione.

Secondo le testimonianze, all'interno del carcere è piuttosto difficile per i tossicodipendenti che utilizzano la via iniettiva sfuggire al contagio. Secondo l'opinione della quasi totalità del campione gli stupefacenti sono presenti in tutte le carceri in modo pervasivo, ed è praticamente impossibile eliminarli. Per chi desidera utilizzarli non resta che inalarli - soluzione ricordata più frequentemente nelle interviste con persone residenti al sud - oppure iniettarli utilizzando gli aghi a disposizione, il più delle volte patrimonio collettivo. Qualche intervistato sostiene di aver visto persone sciacquare con acqua o con soluzione di acqua e amuchina le siringhe e gli aghi prima dell'uso. Alcuni intervistati sostengono che anche la distribuzione delle siringhe da parte dell'amministrazione carceraria sarebbe problematica poiché dovrebbe essere preceduta dalla depenalizzazione dell'uso di sostanze stupefacenti fuori dal carcere, oppure essere organizzata in modo tale da non permettere di individuare chi ne usufruisce, per non incorrere nella repressione successiva. Nessuno ha fatto cenno ad un'altra soluzione, peraltro parziale, ossia alla distribuzione più massiccia dell'uso di disinfettanti.

Anche la distribuzione dei preservativi desta parecchie perplessità tra gli intervistati. In primo luogo, perché acquisirli significherebbe ammettere di compire pratiche omosessuali, e ciò potrebbe originare imbarazzo o vergogna. È interessante osservare come alcuni intervistati neghino decisamente la presenza della sessualità in carcere, o la collochino nei carceri femminili, o in particolari sezioni del carcere, ossia quelle che ospitano i travestiti egli omosessuali dichiarati, o la individuino come maggiormente praticata nelle carceri del nord ed inesistente al sud o, ancora, la facciano risalire al periodo precedente all'entrata in vigore della legge Gozzini grazie alla quale, essendo possibile trascorrere periodi fuori dal carcere, si è allentata l'esigenza di sessualità in ambito intramurario. Viceversa, altri intervistati sostengono l'esistenza di pratiche omosessuali anche da parte di persone definite 'insospettabili', ma ritengono che la loro presenza sia limitata. La differenza di opinioni si ricompone nel ritenere imbarazzante la distribuzione di preservativi per coloro che potrebbero usufruirne. Anche la richiesta ai familiari è, di fatto, resa impossibile per l'imbarazzo che ne potrebbe derivare.

Molti degli intervistati, pur riportando la testimonianza delle sofferenze patite personalmente e da amici, da parenti e da compagni di carcere o di comunità a causa della malattia, manifestano ottimismo rispetto alla sua curabilità. La fiducia e la speranza nei progressi della medicina si combinano alla diffidenza, in quanto qualcuno ritiene che la cura definitiva non sia stata ancora trovata perché il volume di denaro trattato con le attuali cure è troppo elevato per rinunciarvi; si combinano anche alla delusione per cure mediche che non sempre danno i risultati attesi, e talvolta danneggiano ulteriormente la salute. Nessuno degli intervistati ha citato la necessità di cure alternative a quelle proposte dalla medicina ufficiale. Traspare chiaramente dalle interviste il desiderio di poter instaurare con il personale sanitario un rapporto costante, che dia la possibilità di esprimere le proprie angosce, di porre domande, di palesare dubbi. Anche questi atteggiamenti appaiono in linea con quanto viene rilevato in letteratura: è importante che i malati, ed in particolare coloro che sono affetti da malattia a prognosi infausta, possano sviluppare rapporti con il personale sanitario che tengano conto degli aspetti emotivi legati alla malattia (41).

La riflessione sulla propria condizione ha portato alcuni intervistati ad interrogarsi sull'obbligatorietà del test e sulla sua funzione. Dalle interviste non emerge la rappresentazione della necessità di sottoporre obbligatoriamente i detenuti allo screening. È preferita la via della persuasione: "Secondo me dovrebbero, obbligarli no, perché secondo me è sbagliatissimo, ma venire a fare un colloquio ogni sei mesi con ogni detenuto, anche se questo sembra una cosa impossibile perché sono tanti. Secondo me bisognerebbe andare così, ogni sei mesi chiami il detenuto, gli dici: guarda che tu è sei mesi che sei in carcere, purtroppo visto che l'ignoranza è tanta, vivi in promiscuità, non si sa mai, vuoi provare a fare il test? Se non vuoi provare fa niente, però sappi che puoi essere a rischio perché vivi in questa situazione qui. Ecco, un attimino di informazione del genere, magari qualcuno si sprona così e decide magari di farselo. E fare il test dell'AIDS un paio di anni prima, sapere di essere sieropositivo, significa che lavori meglio nei prossimi due anni per la tua salute. Ecco, solo quello" (TOI).



4.3. La vita in carcere come sieropositivo e come malato


Per coloro che sono affetti dal virus dell'HIV è fondamentale che l'igiene dei luoghi di vita sia curata, in modo tale da evitare il rischio di infezioni e di trasmissione del virus stesso. Per conoscere la percezione che gli intervistati hanno di questo aspetto della vita carceraria, sono state rivolte loro alcune domande relative alla cura della pulizia degli spazi comuni e delle singole celle e l'accesso a sostanze disinfettanti e detergenti, nonché la disponibilità di stoviglie e di materiale monouso per la pulizia personale.

Ne è emerso un quadro piuttosto variegato. È opinione comune che il grado di pulizia vari notevolmente secondo le carceri. La cura delle celle è affidata ai detenuti che si accordano per i turni di pulizia e di cucina interna alla cella. In genere la pulizia viene effettuata ogni giorno. Dalle interviste si rileva che il decoro del luogo di vita e della persona rappresentano un punto d'onore. Infatti i tossicodipendenti in crisi di astinenza, che disturbano e insozzano se stessi e la cella in cui sono ospitati, a causa della propria condizione sono considerati fastidiosi anche da chi è stato tossicodipendente. "Per lo meno a Foggia, non è una regola scritta, ma quasi tutti la mattina, appena si alzano, subito dopo aver preso il caffè, si lava la cella, magari partecipa anche quello che cucina. Si lava la cella, si pulisce, si fanno i letti, anche per una questione di immagine con gli altri detenuti, per far vedere. . Alle nove quando aprono il passeggio, tutti pronti a scendere giù al passeggio in modo che quando passano gli altri vedono che la cella è pulita, in ordine" (FG4).

Le persone intervistate sono consapevoli dell'importanza dell'igiene per il mantenimento della propria salute. Ne costituisce un esempio la seguente testimonianza: "Io fino a quando sono stato a Foggia stavo tranquillo, non pigliavo niente perché stavo bene come anticorpi (. . .). Poi mi hanno trasferirlo a S. Severo, lì le celle non esistono più, lì tu stai in sezione, le celle le hanno abolite, tu, per esempio, non so, giocavi a pallone con i compagni: 'Ehi! Passami il pallone!'Arriva il brigadiere e tornavi nelle celle di isolamento dove c'è solo un materasso, senza lenzuoli, niente, solo una coperta, r igiene non esiste, una scopa. . .niente. Allora quando mi sono fatto un paio di giorni di cella a S. Severo ho cominciato a sentire i sintomi (). Ho cominciato a sentirmi malamente (. . .) C. (l'infettivologo) mi ha chiamato: 'Tu non puoi giocare più a pallone, non puoi mangiare queste cose quà'. Dice: 'Tu sei andato giù'. Che poi stava la cartella clinica dove tenevo gli anticorpi a 450 e poi a 250, a 250 in manco una settimana. C. mi ha detto: 'Qua è una cosa impossibile come scendono gli anticorpi'. E infatti sono arrivati a 100, dopo un giorno mi ha chiamato, io la sera mi sentivo proprio malamente, mi ha chiamato come mi ha visto così, lunedì mi ha visto al pomeriggio alle sei, il martedì mattina io stavo all'ospedale di Foggia" (FG3).

Inoltre dalle interviste emerge che non viene consegnato tutto il materiale previsto dal regolamento carcerario, Nella maggior parte dei casi vengono consegnati esclusivamente stoviglie e rasoi monouso. La dotazione completa è stata segnalata da un unico intervistato, e riguarda il carcere speciale di Cuneo.

"Le lenzuola, quando ci sono perché non sempre ci sono, posate di plastica usa e getta, anche quelle quando ci sono (. . .) bicchiere di plastica, piatto di plastica e basta. Dovrebbero darti una fornitura per pulire la cella. . .(Spazzolino o altro per l'igiene) so che ci sono ma non vengono mai dati. Se uno si impunta ti viene dato tutto (). E questo perché costa (). Però il regolamento penitenziario lo prevede, cioè se io ti voglio far girar le palle: adesso mi dai e lo voglio. E quando questo accade solitamente le cose te le danno, cioè ti fanno girar le palle lo stesso, gliele chiedi oggi e te le danno tra tre giorni, perché non c'è il magazziniere, non c'è quello. . . però se tu insisti tutti giorni, tutti i giorni, alla fine te lo danno, è tuo diritto. Invece su queste cose qui Cuneo è più. . . però appena entri ti viene data tutta la fornitura, carta igienica, sapone, shampoo, perché Cuneo ragiona in quest'ottica: io ti do tutto, tu non ti devi lamentare, devi solo subire e basta. Cioè tu non puoi dire che non mi hai dato il sapone e allora io posso. . . no, io il sapone te l'ho dato, il carcere è questo, io ti ho dato tutto quello che prescrive l'ordinamento penitenziario, ti do anche la pena, e devi fartela così. Cioè, hai capito, è un'ottica di ragionamento da speciale" (TO1).

Anche i disinfettanti (amuchina, varechina) vengono distribuiti raramente o con una parsimonia considerata eccessiva dagli intervistati.

Nel corso del tempo in due dei tre carceri di riferimento - Vallette e Sollicciano - sono state create delle sezioni destinate ad accogliere i sieropositivi, i malati e i detenuti non affetti da virus che ne facevano richiesta. Si sono venute così a creare ambiti di vita e di relazione profondamente differenti, in grado di garantire ambienti igienicamente più adeguati, più confortevoli, dotati di migliori servizi e di ambienti più gradevoli, ambiti in cui privilegiare le attività di lavoro e di svago altamente socializzanti. Secondo le testimonianze raccolte, sono molte le persone sieropositive che chiedono di essere collocate in queste sezioni sia perché più confortevoli e più attrezzate, sia perché in esse è possibile porsi in relazione con i compagni e con il personale della custodia, del trattamentale e medico in modo più immediato (42).

Nell'esperienza torinese, in particolare la quinta sezione è stata creata sulla base delle istanze provenienti da un primo gruppo di sieropositivi e di malati, a cui ha fatto seguito la collaborazione dell'amministrazione carceraria. In prima battuta, alcuni detenuti insieme con esponenti della magistratura, dell'amministrazione carceraria ed appartenenti alla vita politica e alla Chiesa, hanno fondato l'associazione Prometeo per la tutela dei diritti dei detenuti, in particolare di quelli affetti dal virus HIV. Parallelamente nel carcere delle Vallette, nella quinta sezione, è stato realizzato il progetto Prometeo. "L'associazione Prometeo () è nata nel l991. Nel'91 alle Vallette (c'era) una sezione apposta per i malati sieropositivi e per i malati di AlDS, eravamo una ventina ed eravamo come tutti gli altri. Cioè chiusi nelle celle, si usciva a tale ora, si rientrava a tale ora, questo disagio di non poterci aiutare l'uno con l'altro ci ha fatto organizzare in qualche modo, ci ha fatto parlare tra di noi e con metodi magari poco belli, però i metodi dello sciopero della fame! dello sciopero dei medicinali siamo riusciti ad ottenere un po' di cose in più rispetto agli altri. Cioè che tutte le celle fossero aperte, in modo da poterci soccorrere l'uno con l'altro, di avere un quadro medico un attimino più dettagliato, un po' più presente vicino alla sezione, cioè nella rotonda. Da lì si cominciava già a pensare a dei diritti che un malato sieropositivo potesse avere, nel senso che vedevamo morire i nostri compagni di cella, cioè per cui ti piglia male, no!? () per cui abbiamo deciso che bisognava fare qualcosa di più e abbiamo fatto nascere l'associazione Prometeo"(TO1). L'associazione si è attivata, tra l'altro, per far pervenire al mondo politico istanze per l'innovazione legislativa in tema di AIDS e carcere.

Nel periodo di Natale del l992, in seguito a violente contrapposizioni interne alla sezione tra personale della custodia e reclusi a causa di un permesso negato ad un detenuto che chiedeva di seguire il funerale del fratello, l'associazione Prometeo ha proposto la attivazione del progetto omonimo. "L'associazione si batteva per i diritti dei sieropositivi e invece il progetto Prometeo voleva proporsi come creatività delle Vallette e ce l'ha fatta, cioè nei tre anni che il progetto ha funzionato alle Vallette ha funzionato bene, bene nel senso che sono stati fatti spettacoli teatrali, sono state costruite delle aree verdi all'interno del carcere, è venuto ad inaugurarle il ministro Conso, dibattiti con le scuole superiori all'interno del carcere sul problema dell'AIDS, sul problema del carcere, spettacoli portati all'esterno in città come Carignano e ha avuto un confronto con le scuole medie del posto e con la cittadinanza del posto, una due giorni che ci hanno ospitato, per cui è stato utile il progetto Prometeo, è andato oltre il carcere, è andato fuori dal muro, cioè noi pensavamo proprio di uscire, di portare non un grido, neanche un lamento all'esterno, ma di portare la situazione all'esterno. Noi ci siamo, noi siamo questo, abbiamo fatto delle cose, ma siamo anche umani, cioè siamo anche persone che vogliono reinserirsi, vogliono. . . e cercare questo contatto è stato secondo me fondamentale perché è riuscito benissimo" (TOI).

Le testimonianze raccolte sottolineano dunque come accanto alla necessità di vivere la detenzione in luoghi igienicamente adeguati ed attrezzati dal punto di vista medico, esista una necessità ancora più impellente relativa alla qualità della vita di relazione e all'impiego del tempo in modo utile e gratificante. Alcuni intervistati, a questo proposito, sottolineano gli aspetti di vitalità, e quindi di contrapposizione all'angoscia di morte continuamente rinnovata dal vedere ammalare e lentamente spegnersi i propri compagni o avendo notizia della loro morte, che la partecipazione ad attività simili a quelle descritte può trasmettere. Analogamente, maggiormente vitale è percepita la detenzione in ambienti in cui vengono promosse le attività di socializzazione e creative quali quelle sportive, teatrali, di giardinaggio, ecc.

Come abbiamo rilevato a proposito delle reazioni dei compagni di detenzione successivamente alla scoperta e alla comunicazione dello stato di sieropositività, anche nel corso della vita quotidiana dei sieropositivi sintomatici e non sintomatici la qualità delle relazioni interpersonali è di primaria importanza. Dalle esperienze riportate, manifestazioni di rifiuto e di ostracismo, più frequenti nei primi tempi della diffusione del virus ma ancora presenti al momento dell'intervista, hanno condotto a strategie di reazione differenziata.

Taluni, come i partecipanti al progetto Prometeo, hanno trasformato la propria peculiare condizione e la vita in una sezione separata in occasione di riflessione personale e collettiva, di dialogo con gli altri detenuti, di rapporto contrattato con le istituzioni, di rielaborazione dell'esperienza di sieropositivi e malati per renderla fruibile anche al mondo esterno al carcere. Altri hanno vissuto la separatezza relazionale e fisica accettandone, pur con sgomento e tristezza, e talvolta con rabbia, l'inevitabilità; altri ancora l'hanno affrontata a partire dalla propria condizione di tossicodipendenti, frequentemente collocati in sezioni e in celle con altri tossicodipendenti che manifestavano i medesimi problemi di salute.

Il mutare nel corso del tempo della qualità delle relazioni che si possono instaurare tra detenuti sieropositivi e non sieropositivi, dovuta, secondo gli intervistati, ad una maggiore conoscenza del fenomeno, è ricorrente in tutte le testimonianze raccolte. "Per lo meno su Foggia ormai, a differenza di quattro o cinque anni fa in cui c'era gente che aveva paura anche delle zanzare, per dire, adesso c'è una certa informazione, allora diciamo le persone non sono tanto spaventate da questo. Comunque c'è sempre che un tossicodipendente quando entra in carcere va in cella con altri tossicodipendenti, difficilmente viene accettato dai detenuti comuni, giusto magari una situazione di due o tre giorni, poi comunque sa che deve trovarsi un'altra sistemazione" (FG4). Come abbiamo già rilevato, essere tossicodipendente complica ulteriormente le relazioni soprattutto nel corso dei primi giorni di detenzione, quando possono verificarsi crisi di astinenza.

Un'altra variabile frequentemente rintracciabile nelle interviste a proposito della vita di relazione, riguarda l'ampiezza e la solidità della rete di conoscenze e di rapporti già patrimonio del detenuto conosciuto come sieropositivo o malato. Tanto più tale rete risulta essere vasta e solida, tanto meno egli rischia l'isolamento e l'ostracismo. Un'altra considerazione ricorrente riguarda l'analogia tra le relazioni presenti in carcere e quelle presenti fuori dalle mura carcerarie: "Ma per esempio, io non ho mai avuto di'sti problemi a Bellizzi, ma però io non ho avuto neanche di'sti problemi ad Avellino che è una piccola città Però è un fatto molto soggettivo, dipende anche molto dalla capacità di una persona. Se una persona non riesce a farsi accettare, problemi di questo tipo specialmente in carcere esistono, ma esistono molto seriamente. Ma poi esistono pure negli ospedali. lo in ospedale una volta stavo litigando di brutto con una specie di infermiere perché era morto un ragazzo di AJDS e'sto qua si è messo ad esprimere il suo infausto parere di merda dicendo:'Meno male che'sto rompicoglioni se ne è andato'. Tutto questo in presenza degli ammalati (. . .)" (F11).

Oltre alla tendenza ad un incremento della vita di relazione tra sieropositivi e non all'interno del carcere, nelle interviste si sottolinea sempre l'importanza della variabilità del comportamento soggettivo: "(L'atteggiamento varia) a seconda del tipo di detenuti. C'è il detenuto meridionale che è continuato dalla pazzia, cioè è strano, ma non tutti, comunque un buon 70% vede nel drogato una persona strana e sicche se è sieropositiva è ancora più strana. Non ti danno noia, però nello stesso momento non vogliono entrare in contatto con te. Invece gli altri detenuti comuni e normali che ci conoscono, ci salutano e ci parlano senza problemi (. . .)" (Fl2). Appare anche importante la regola sociale implicita che prevede la comunicazione ai compagni di cella della propria condizione. Non sempre tale regola è seguita, soprattutto se con gli altri detenuti non si instaurano rapporti di prossimità relazionale. La sua importanza è già stata rilevata a proposito di quell'intervistato che ha raccontato di essere stato costretto a dover spiegare, a distanza di tempo, le motivazioni del suo silenzio. Un altro intervistato si esprime così: "Diciamo che tra noi detenuti c'è una forma di compattezza e di solidarietà. Poi, non so, quando si entra in una cella chi è abbastanza consapevole delle sue azioni lo dice comunque di essere sieropositivo, affinché gli altri possano prendere delle precauzioni nei loro confronti e non nei confronti del sieropositivo. Questo sì, però non sono tutti così. Ti ho fatto l'esempio di quello che teneva il bicchiere per se (per non farlo utilizzare al detenuto sieropositivo)" (FG2).

La maggior parte degli intervistati ritiene che il carcere sia un luogo in cui è altamente possibile contrarre il virus dell'AIDS, e ciò per molteplici fattori: gli spazi ristretti che costringono ad una eccessiva promiscuità; le risse tra detenuti; gli spazi talvolta inadeguati per svolgere attività fisiche, quali il gioco del pallone, che possono provocare indirettamente incidenti con versamento di sangue; l'alta concentrazione di tossicodipendenti; la scarsità di aghi e siringhe per iniettare l'eroina. "Sì, secondo me c'è il timore. . . anche di trovarsi coinvolto in risse, c'è questa paura di prendere il virus, non te lo nascondo, ma perché è uno dei posti dove, secondo me, ci sono più soggetti a rischio, dove c'è più rischio, anche in carceri dove non c'è la sostanza, non c'è la siringa, c'è il soggetto per cui il rischio c'è, è il carcere il luogo dove il rischio è più. . .forse più di un ospedale, guarda, forse più dell'Amedeo [di Savoia, ospedale torinese per le malattie infettive, n. d. r.), perché bene o male sei controllato all'Amedeo. Lì (in carcere) è incontrollabile , il soggetto con il virus è irriconoscibile, perché molti non dicono di essere sieropositivi, per cui c'è questo rischio all'interno del carcere" (TO l). "(Le perdite di sangue) in carcere succedono spesso, non sai con chi fai lo scontro perché non si gira con la cartella clinica attaccata al collo, per cui non puoi sapere con o con chi bisticci, o con chi giochi a pallone. Succede l'impatto per cui, che poi la maggioranza degli impatti succede proprio giocando a pallone, perché poi ti ripeto, le strutture non permettono di poter giocare in un campo sportivo, quindi giochi sull'asfalto, sul cemento ed è conseguenza logica che se giochi a pallone succede, no!?" (TO5).


4.4. Il rapporto con il personale della custodia, del servizio trattamentale e dei servizi per la salute


Un altro elemento centrale, secondo la prospettiva degli intervistati, per la definizione della presenza in carcere della sieropositività e della malattia è il rapporto che i detenuti intrattengono con il personale addetto alla custodia, al servizio c.d. trattamentale e al servizio medico o paramedico. Si tratta, ovviamente, di personale addetto ad ambiti particolarmente importanti per la vita detentiva di ciascun recluso, ossia di figure professionali che hanno un rapporto diretto e costante - per gli addetti alla custodia si tratta di un rapporto quotidiano - con i detenuti; e ancora, di figure professionali che rappresentano l'interfaccia tra il mondo dei reclusi e l'amministrazione carceraria, tra i detenuti e la magistratura di sorveglianza.

Secondo le testimonianze raccolte ciascun ambito, e non potrebbe essere altrimenti, viene investito di particolari aspettative da parte di chi si trova nella condizione di sieropositivo o di sieropositivo sintomatico. Globalmente si tratta di richieste, implicite od esplicite, di cura e di attenzione, ma soprattutto di rispetto, di non allontanamento e di non esclusione.

Nell'analisi del rapporto con il personale addetto alla custodia, ancora una volta appare centrale la dimensione temporale. Ciò non soltanto perché, come abbiamo visto in precedenza, con il trascorrere del tempo è aumentata la conoscenza della malattia; ma anche perché in periodi più recenti si è compiuto il processo di smilitarizzazione del corpo degli agenti di custodia e ciò ha permesso l'introduzione di significative flessibilità nell'organizzazione della vita lavorativa degli agenti stessi; e ancora, perché con l'introduzione della c.d. legge Gozzini, per il mantenimento della disciplina in carcere alla risorsa punitiva si è affiancata massicciarnente la risorsa premiale.

Il passaggio dal passato al presente è così testimoniato da un intervistato: "(Il rapporto con il personale carcerario era) terribile, perché comunque non c'è ambiente più ignorante di quello del carcere. Almeno oggi la situazione è leggermente cambiata, il personale è un attimo più preparato, ma ai tempi miei non sapevano far altro che i pastori. Coloro che dovevano custodirci, redimerci, reinserirci. E quindi, totalmente negativo. (. . .) Cioè loro erano in possesso della chiave per poter aprire la serratura della tua cella. Loro la tenevano, noi non la vedevamo neanche e per aprirti la porta la pulivano con l'alcool, pensa te che ignoranza" (TO2). La testimonianza della sofferenza per la separatezza e per l'esclusione emerge vivida dai racconti: "Però notai questa storia di essere positivo, però in maniera negativa poiché era veramente pesante. Si rischiava a volte di vedere la guardia solo una volta al giorno, nelle altre sezioni fanno un giro di controllo ogni tre o quattro ore , mentre da noi si vedeva una volta al giorno. Noi non si vedeva nessuno. Già quel fatto lì vuoi dire. lo dopo un po' di giorni che ero in carcere nello sconforto totale ho tentato d'impiccarmi e per fortuna mi hanno salvato" (FI2). Alla richiesta di aiuto così estrema ha fatto seguito un periodo di ricovero presso il manicomio giudiziario e poi la reclusione presso un carcere speciale.

Un elemento ricorrente, utilizzato dagli intervistati come indicatore della distanza interposta dal personale di custodia nei confronti dei sieropositivi, è l'uso dei guanti o di altre protezioni quando, secondo il parere degli intervistati, non ce ne sarebbe stato bisogno: "Lì ci sono prevenzioni che, a dir poco, ti umiliano. A dir poco umiliano la persona che pur non essendo malata si vede di fronte una guardia con guanti, con mascherina e via dicendo. Cioè viene meno la dignità anche, diciamo, del malato. (Questo avviene) in occasione delle perquisizioni" (FG5). "Certi comportamenti, l'uso certe volte inutile dei guanti, anche nella perquisizione. Magari anche tra di loro c'è tanta disinformazione o comunque, anche se sanno certe cose, gli sono state dette, comunque non se ne fregano niente e prendono lo stesso certe precauzioni" (FG4), È opportuno ricordare che l'uso dei guanti per procedere alle perquisizioni è previsto dal regolamento come mezzo per proteggere la salute del personale di custodia (43), Un'altra evenienza critica, che segnala la separatezza dovuta alla presenza del virus, riguarda il comportamento degli agenti in presenza di atti di autolesionismo, risse o rivolte. Dalle testimonianze raccolte, pare che in queste occasioni il comportamento autoprotettivo degli agenti sia maggiormente compreso e accettato, anche se alcuni denunciano distacco emotivo, ritardi e scarsità di interesse nel prestare soccorso.

La distanza tra il detenuto sieropositivo e l'agente di custodia può ridursi in momenti di particolare tensione: "Ma gli agenti di custodia devo dire che ce ne sono alcuni che mettono su i guanti anche per qualsiasi stupidata, tipo anche per venire a battere i ferri. Non è che debbono toccare il letto, però mettono su i guanti per battere i ferri alle finestre. Questa è una cosa che dà fastidio. Anche se è una cosa banale. Oppure non si avvicinano più di tanto al detenuto. Ad esempio quando una guardia risponde male al detenuto che chiama per qualcosa, allora in questi casi il detenuto comincia ad andare un po' fuori di testa e lì ci può scappare anche la mazzata, e in quel caso la guardia non pensa se è sieropositivo o meno. In quel caso se ne sbatte le scatole, magari rischiando, magari addirittura in concreto il contagio sul momento. A volte, anzi, sempre, fanno male e ci scappa anche fuori il sangue, diciamo che in questi casi non usano i guanti" (FG2).

Lo stesso intervistato, avendo avuto esperienze di detenzione presso molte carceri, testimonia l'esistenza di altre modalità di relazione tra reclusi e personale della custodia. E ciò rimanda alla lenta modificazione nel tempo non soltanto delle conoscenze riguardanti il virus HIV, ma anche dei modelli organizzativi della detenzione: "(Solitamente il rapporto con l'agente di custodia) è distaccato. Certo, dopo un po' di tempo che sei lì prendi un po' di confidenza, ma sempre e comunque distaccato perché sai che puoi chiedere qualcosa, ma sei anche consapevole però che puoi avere un netto rifiuto.Comunque il rapporto è distaccato. Sono stato ad Ivrea dove c'è una sezione per tossicodipendenti, dove c'erano tutte le guardie che avevano fatto il corso. Il corso serve per umanizzare molto di più l'agente di custodia e in quel caso diventa non un agente indifferente, ma una persona che comunque, facendo lo stesso il suo dovere, può avere una forma di solidarietà con il detenuto per la sua condizione. Questo perché tutto sommato il tossicodipendente i reati che commette li commette in funzione della droga e quindi è un'altra condizione di delinquenza. I corsi servono agli agenti di custodia proprio per far capire certe determinate situazioni che si possono creare per il tossicodipendente" (FG2).

Come è stato rilevato in precedenza, anche l'introduzione della legge Gozzini ha modificato l'assetto delle relazioni. "Adesso invece no, è diverso, perché ci sono alternative alla carcerazione quali l'affidamento, la semilibertà, eccetera. È importante quindi il loro parere e questo ha generato anche all'interno del carcere una certa tranquillità, perché prima il detenuto non aveva altro da perdere, niente da perdere, aveva solo la detenzione e basta, magari rischiava la cappotta da parte delle guardie. (La cappotta) è un pestaggio, un pestaggio. Due o tre giorni in isolamento in celle specifiche distaccate da tutte le altre sezioni. Adesso invece tutto questo è stato abolito, però resta il fatto che hanno la penna facile, subito rapporto o denuncia, il che ti comporta un declassamento di sei mesi di benefici, quali sconti di pena di 90 giorni l'anno eccetera. Però il detenuto, diciamo, è più tranquillo perché sa che se discute con una guardia o litiga con un altro detenuto, ha da perdere. Poi, logicamente, c'è qualche testa calda, qualcuno che è appena entrato, che ha poco da fare e che fa ancora casino, insomma" (FG4).

Per quanto riguarda i rapporti con il personale del trattamentale, dalle interviste emerge che è quasi del tutto assente il costante accompagnamento psicologico dei sieropositivi e dei malati, tendenza opposta a quella indicata ormai concordemente come necessaria. Fanno eccezioni le sezioni speciali dove, come abbiamo visto, la cura per le relazioni e per il benessere psicologico dei reclusi è maggiore.

Molti intervistati sottolineano che uno dei problemi centrali nella relazione con l'ambito trattamentale è la scarsità di personale, scarsità che rende di fatto inaccessibile il personale stesso e rende impossibile una concreta relazione di aiuto. "Quelli sono solo due gli assistenti sociali a S. Severo. A Foggia ci sono però devi fare tu la domandina. Quando fai la domandina ti chiamano, puoi stare pure un anno e non ti chiamano, così come puoi stare due o tre giorni e ti chiamano. Poi, quando vai, non so, non è che gli spieghi i problemi, i motivi che sei andato. . . e loro fanno in modo e si interessano, però ci sono troppi detenuti. Allora non sanno a chi si devono interessare.

Vanno 200 persone e per 200 persone non fanno niente. lo dico una cosa: se ci sono 200 fate prima quello che potete dieci, quindici alla volta. Però se iniziate, finite. E dopo iniziate gli altri. Invece loro fanno tutto il carcere, no L'unica cosa che ti dicono:'Vuoi andare in comunità?' L'unica, basta" (FG3).

Due detenuti sottolineano la differenza esistente tra le carceri del nord e quelle del sud dell'Italia a proposito delle dimensioni e della funzionalità del trattamentale, così come viene segnalata la maggiore presenza al nord di relazioni tra carcere e territorio. "Hanno maggiori strutture di contatti sociali, diciamo. Tipo le assistenti sociali, tipo il discorso del volontariato che ho visto a Venezia, tipo il discorso anche di sostegno psicologico per la persona carcerata, non dico malata, carcerata, aiuta moltissimo questo, è una preparazione buona per quando una persona viene messa fuori, perché se si creano dei contatti all'interno e una persona è intelligente e vuole cambiare vita, fuori trova di che servirsi, mentre qui il carcere è carcere e basta, null'altro che il carcere" (FG5).

Tuttavia anche i detenuti che fanno riferimento all'esperienza trascorsa nelle carceri del nord d'ltalia lamentano la scarsità del personale e le difficoltà di accesso all'ambito trattamentale. Uno di essi, nel corso dell'intervista, ha delineato le necessità che potrebbero fornire spunti per un programma di riforma delle funzioni degli educatori del ministero impegnati nelle carceri e dei rapporti tra il carcere e la città che lo ospita: "Magari ci fossero degli educatori, più educatori, più assistenti sociali, più gente così che organizzerebbe nelle sezioni delle cose così, piuttosto che pensare solo a chiamare a quello perché ti ha fatto la domandina e gli devi fare la sintesi per il permesso e gli chiedi due o tre cose e scrivi la pratica e via, fai le tue dieci pratiche e poi te ne vai a pigliare il caffè e te ne vai a casa. Cercheresti di lavorare di più nell'ambito e chiameresti più persone e organizzeresti le cose, cioè. . . secondo me potrebbero riuscire, solo che è tutto un modo di lavorare, un impostare la situazione. . . Se riesci. . . se riesci, secondo me non vogliono farlo proprio perché non è loro compito, cioè loro pensano molto allo stipendio e a finire i loro due anni per essere spediti dal sud al nord o dal nord al sud, a finire i loro due anni per poi andare più vicino a casa. Diciamo che il ragionamento è questo degli educatori. È una questione di mentalità di lavoro, cioè il carcere è ancora visto come il carcere e basta, secondo me bisognerebbe un attimino svegliarsi, il carcere fa parte del territorio, il carcere è integrato nel territorio, è presente, per cui secondo me, lo stesso comune dovrebbe impegnarsi di più perché c'è lo stadio, c'è il palasport e c'è il carcere, l500 anime lì dentro, è un quartiere le Vallette, una circoscrizione, se vogliamo. Può essere impostato con criteri diversi, anche l'appoggio da parte del comune. C'è comunque, perché è inutile negarlo, in alcune iniziative è presente (. . .) ma secondo me si potrebbe organizzare molto meglio la vita all'interno del carcere" (TOI).

Considerata la specificità della condizione sanitaria dei reclusi sieropositivi sintomatici e asintomatici, è importante conoscere la loro percezione della qualità e delle modalità di accesso al sistema di cura interno al carcere.

Anche in quest'ambito la dimensione temporale appare centrale. Dalle interviste emerge, infatti, il verificarsi, con l'andar del tempo, di notevoli modificazioni in relazione alla competenza e disponibilità manifestata dai medici, all'incremento della presenza degli infettivologi, alla accessibilità alle cure per i sieropositivi e per i malati, alla maggiore attenzione per le esigenze specifiche di questi ultimi. Così si esprime un intervistato: "Prima se eri positivo ti mandavano a fare la visita ogni tanto in qualche ospedale esterno, o se no venivano a tirati il sangue lì a Sollicciano e lo mandavano fuori a farlo controllare. Però c'era un dottore, che tuttora c'è, ma mi sembra che non fosse infettivologo, e loro più che assegnarti un tavolo non facevano e se tu ti lamentavi in continuazione potevano chiedere il controllo esterno in una struttura esterna. Guai a lamentarsi perché se no poi venivi blindato e che se ti lamentavi non ti sentiva nessuno. Noi, a differenza degli altri detenuti, è che se un detenuto normale fa una lite con una guardia loro tornano di notte e ti fanno un 'battuto' e vanno via, invece noi si poteva litigare con le guardie e non ci facevano nulla perché avevano paura di toccarci. Nel l988, e poi nel'91 era già cambiata la stessa sezione" (FI2).

Un'altra variabile importante è la presenza di sezioni speciali le quali, secondo gli intervistati, offrono opportunità di cura differenti. Un intervistato di Torino sostiene che le condizioni sanitarie di cui godono i sieropositivi posti in sezioni speciali sono migliori di quelle di cui possono disporre i detenuti collocati nelle sezioni "normali". "(. . .) perché c'è bisogno, cioè è giusto che le due sezioni siano messe vicino all'infermeria dove ci sia il medico 24 ore su 24, che poi magari non è proprio così, però è giusto che sia così perché può succedere. . ." (TO1). È parere comune che dove non esistono sezioni speciali, di fatto esistono sezioni in cui vengono collocati principalmente i tossicodipendenti. E ciò non soltanto per questioni inerenti la sieropositività, ma soprattutto per i problemi di gestione che essi pongono, problemi che sono riferibili in misura maggiore a coloro che sono in crisi di astinenza.

Un altro tema importante è relativo all'accesso alle cure sanitarie e all'intervento medico. A questo proposito, le variabili centrali paiono essere quella temporale, che come di consueto ci permette di individuare un miglioramento nelle condizioni di vita dei sieropositivi sintomatici e non sintomatici a partire dall'inizio degli anni'90; una variabile riferibile al sistema organizzativo di ogni singolo carcere e una variabile relativa al grado di disponibilità e di capacità di comprensione delle situazioni di sofferenza del personale della custodia, interfaccia tra i detenuti ed il sistema sanitario del carcere.

Per quanto riguarda l'organizzazione della vita in carcere in relazione all'accesso alle cure mediche, così si esprime un intervistato. "In generale, secondo me, devi stare proprio male male male prima che si accorgano che tu stai male. Cioè se io sono fuori e ho mal di denti o altri dolori così, bene o male mi aggiusto, vado in farmacia. . . all'interno del carcere prima che comincino a interessarsi di te passano delle ore, ma ore, o perché il medico è in un'altra sezione e prima che arriva ci mette un casino (). Poi, invece, parlando dei sieropositivi. . .è migliorato tantissimo ultimamente, perché bene o male c'è un posto fisso di infermeria vicino alla sezione per cui si occupano di te, ma secondo me bisognerebbe migliorare, cioè secondo me si può fare qualcosa di più" (TO1).

Rispetto al diverso grado di interesse e di disponibilità degli agenti di custodia, è significativa la seguente testimonianza: "(. . .) loro conoscono la situazione sanitaria di ogni singolo detenuto che sta in una sezione, quindi si notava proprio sulla pelle la diversità, se io chiedevo una cosa, un dottore, un medico, secondo il criterio dell'agente che montava in sezione, questo si sbatteva, si prodigava. Ma delle volte mi sono sentito dire:'Ma muori!'. Chiaro che non mi ha fatto più di tanto, tanto queste cose ritornano tutte a lui" (TO2).

Alcuni detenuti sostengono che per ottenere più rapidamente l'intervento del medico, una strategia piuttosto seguita è rappresentata dall'autolesionismo: "Uno si taglia solamente per questo motivo, io chiamo che sto male, se io vedo che non viene nessuno allora mi taglio, e che devo fare? Logicamente quando vengono poi si spaventano" (FG3).

Da quanto riportato emerge dunque che le interviste testimoniano la percezione generalizzata dell'esistenza di difficoltà nell'accedere ai servizi di salute del carcere in situazioni di bisogno immediato, difficoltà sperimentate in misura minore da coloro che, in tempi recenti, sono stati collocati in sezioni speciali.

Un'ulteriore riflessione viene proposta da alcuni intervistati: si tratta dell'impossibilità di procedere alla autosomministrazione dei farmaci, impossibilità dovuta a ragioni di sicurezza. "Ogni sezione c'è una guardia. Perché poi quando la chiami poi lui viene e dice:'Cosa c'è?'Se ne va e chiama le altre guardie, chiama gli infermieri, devono chiamare il dottore, poi vengono, se necessario ti aprono, ti aprono e ti portano in infermeria, il dottore ti visita. . . Ora io non posso venire e dire:'Dotto', dammi le medicine per la testa', perché dopo in cella non le puoi tenere, tu prendi una pillola per la testa e la conservi, no, devi consumarla subito. Allora come fai? Prevenire non puoi. . . se mi prendo dei medicinali e me li metto in cella e me li trovano, mi fanno rapporto. Questo è il problema" (FG3).

A questo proposito, è evidente come si determinino effetti paradossali. Da un Iato, l'esigenza della sicurezza impone che i farmaci, anche quelli di uso comune e in libera vendita nelle farmacie, non possano essere autosomministrati. Ciò induce un sentimento di insicurezza e di dipendenza dal comportamento altrui, ben testimoniato dallo spezzone di intervista riportata poc'anzi, sentimento non favorevole al mantenimento generale della salute. D'altro lato, le istanze rieducative che si vogliono connesse alla detenzione, cozzano con il chiaro effetto infantilizzante della impossibilità di gestione in proprio dei piccoli disturbi di salute.

L'incremento e il decremento del sentimento di sicurezza pare essere anche collegato alla accessibilità dell'infettivologo e alla possibilità di instaurare con il medesimo medico un rapporto costante nel tempo. Da alcune interviste emerge l'esistenza di un legame tra medico infettivologo e paziente che viene considerato importante in quanto rassicurante; ciò avviene quando il sanitario non soltanto presta le sue cure, ma riesce ad instaurare un dialogo che consente l'attivazione del paziente stesso nella gestione della malattia e della cura, dialogo che talvolta si trasforma in tutela sanitaria e sociale che si mantiene anche oltre il contesto carcerario.

Anche la qualità del servizio sanitario in carcere pare essere sensibile alle dimensioni temporali e spaziali. Permane tuttavia generalizzata la percezione del carcere come luogo in cui la salute viene tutelata in misura minore che all'esterno e come luogo in cui il sistema di cura si rivela di bassa qualità. Questa percezione è in linea con la ricerca internazionale la quale, come abbiamo rilevato in apertura, segnala il sistema sanitario delle carceri come sistema di livello inferiore rispetto a quello destinato alla popolazione (44). Dalle interviste raccolte sembrano far eccezione le carceri in cui esistono centri'clinici'.

Talvolta rappresenta un problema ottenere le cure adeguate. Le testimonianze riportano che in talune carceri il personale è molto solerte nel reperire in breve tempo l'occorrente per le terapie specifiche quando tale occorrente non è disponibile presso l'infermeria. Viceversa, in molte interviste si palesano problemi quali la difficoltà di avere la terapia con l'AZT secondo gli schemi orari stabiliti dagli infettivologi o i medicinali prescritti dal medico del carcere o, ancora, i medicinali occorrenti per continuare una terapia iniziata prima della carcerazione.

Anche l'ospedalizzazione dei detenuti sieropositivi sintomatici pare sensibile a variabili di natura organizzativa. Accanto allo scarso gradimento della vita in ospedale, piantonati o reclusi in reparti speciali che non permettono una vita di relazione sufficientemente attiva, rivestono particolare interesse le modalità attraverso le quali il detenuto viene condotto in ospedale.

"Il problema è che si vedono molti ragazzi con la febbre anche a 38,39, che venivano portati all'Amedeo e pensa che trafila fai, scendi, arrivi in matricola, aspetti due ore, in barella, arriva l'ambulanza, ti caricano, ti portano all'Amedeo, aspetti due ore, ti visita il medico e ti dice:'Sì, c'hai la febbre, però non c'hai delle infezioni in corso e non ti possiamo ricoverare'. Ritorni in carcere, altre due ore in matricola, bla, bla, cioè ti passi sette, otto ore di febbre in giro per strada, prima di ritornare in sezione (. . .)" (TOI). Poiché il percorso attraverso cui si arriva alla ospedalizzazione viene ritenuto da alcuni intervistati piuttosto accidentato, emergono richieste di soluzioni più adeguate alle condizioni di salute di chi, sieropositivo sintomatico, viene inviato presso ospedali o luoghi di cura esterni al carcere.

Il tema della cura apre un importante nodo di riflessione in quanto, com'è noto, un aggravamento delle condizioni di salute può condurre ad una sospensione della pena. Viceversa, un miglioramento può condurre alla continuazione della carcerazione o ad una sua ripresa. Dalle testimonianze emerge come i sieropositivi sintomatici siano combattuti tra il desiderio di mantenersi nelle migliori condizioni possibili ed il desiderio di far cessare la detenzione, e come ciò determini vere e proprie situazioni di stress descritte con grande lucidità. Inoltre accanto al pessimismo di alcuni, che ritengono che la sospensione serva innanzitutto ai giudici per attendere il certificato di morte, altri sottolineano il problema della relazione medica redatta per il giudice. Essi sostengono di sospettare che i giudici non sempre siano in grado di comprendere appieno la specificità delle argomentazioni redatte dall'infettivologo. Un intervistato, a questo proposito, propone di far redigere, accanto alla relazione medica consueta, una relazione che utilizzi un linguaggio medico facilmente comprensibile dal giudice. Quindi, come vedremo meglio in seguito, non si ritiene che il giudice sia il professionista più adeguato per esprimere il giudizio definitivo sulla compatibilità tra condizione del malato e carcerazione. Gli intervistati si percepiscono innanzitutto come malati e, di conseguenza, si ritengono sottoponibili in misura determinante al giudizio del medico.

Un altro tema importante riguarda l'informazione presente in carcere sull'infezione da HIV. È opinione comune tra gli intervistati che l'informazione fornita dall'amministrazione carceraria sia scarsa, se non inesistente. " A Foggia degli opuscoli appiccicati alle pareti, solo in farmacia, che poi per andare in farmacia devi fare un bordello alla volta, insomma. Questi manifesti a volte parlano anche in inglese, insomma. Sono poco chiari, cioè scrivono la parola così grande AIDS, però per il resto così piccolo e tra l'altro in inglese. Non c'è una informazione dettagliata e precisa" (FG5). Dalle testimonianze raccolte, pare che l'informazione segua principalmente cinque canali di diffusione. Il primo è rappresentato dai compagni di detenzione. Le conoscenze relative all'infezione e alla malattia, raccolte e sedimentate nel corso della vita dei sieropositivi che stabiliscono rapporti costanti con i servizi per la salute esterni ed interni al carcere, indicano l'esistenza di un patrimonio di competenze immediatamente fruibile dal gruppo dei pari, e ciò in linea con le più recenti acquisizioni in tema di educazione alla salute. Il secondo canale è rappresentato dall'informazione reperita individualmente attraverso l'uso di giornali, riviste, programmi televisivi. A quanto si apprende dalle interviste, molti detenuti sieropositivi reagiscono alla propria condizione individuando nel divenire informati una sorta di strategia di resistenza.

Un altro canale è costituito dal medico presente in carcere. È opinione comune, tuttavia, che egli si attivi per erogare informazione soltanto in seguito a richieste specifiche, e lo faccia in modo individuale nel corso dei colloqui con i pazienti. Viene riportato un unico caso di informazione medica offerta nel corso di una conferenza organizzata per i reclusi. Un altro canale di diffusione dell'informazione è rappresentato dai volontari presenti in carcere. Si riporta la distribuzione, da parte di queste figure, di opuscoli informativi. Infine esistono iniziative particolari, come la già citata "Prometeo", che offrono modalità di elaborazione e di circolazione delle informazioni in linea con quanto si ritiene essere più efficace nell'ambito dell'educazione alla salute (45), ossia prestando attenzione alle relazioni e ai contesti in cui la comunicazione deve diventare efficace, favorendo la sua elaborazione a partire da un contesto simile a quello in cui sarà successivamente offerta, veicolando la sua diffusione attraverso gruppi di pari e "pari informati".


4.5. " Pensarsi e pensare" alla sieropositività e alla malattia dentro e fuori le mura


Come abbiamo rilevato in apertura, la percezione soggettiva del trascorrere del tempo diviene dimensione doppiamente centrale nel corso della carcerazione in quanto si tratta di tempo che, trascorrendo, avvicina alla fine della detenzione e, contemporaneamente, di tempo che entra a far parte delle angosce di morte.

Anche fuori dal carcere la dimensione cronologica appare centrale, soprattutto per coloro che usufruiscono della sospensione della pena per motivi di salute. Angoscia di morte, preoccupazioni per il proprio stato di salute e percezione dell'inadeguatezza del carcere per la sopravvivenza si intrecciano nelle testimonianze. "Queste sospensioni della pena servono solo per i giudici per assicurarsi che stai morendo. La speranza è che in questi sei mesi tu, cioè, gli arrivi a loro un certificato di morte. Perché?! Perché io le volte che sono stato messo alla porta del carcere per la mia malattia, per quello che mi porto sulle spalle, è stato per le mie gravi condizioni di salute, percolo di morte, pericolo. . . ogni tipo di pericolo, dalla carenza di quello che concerne la terapia per combattere questa malattia, alle minori regole di igiene. Niente, sono stato messo fuori e attualmente sono alla quarta volta in sospensione della pena (). Quindi questa pena qua io me la porterò fino alla morte. lo non mi vergogno a dirlo, come ultima spiaggia ho fatto un'istanza al Capo dello Stato per la grazia. So che è un terno al lotto (. . .) quindi sono in una situazione assolutamente critica. Critica nel Iato psicologico e nel Iato fisico, perché io quando arriva lo scadere della mia sospensione della pena, mi ammalo. L'ultima volta avevo la carica virale di un milione e una manciata di anticorpi; una manciata intendo quattro o cinque" (TO2).

Dalle testimonianze emergono anche consapevoli od inconsapevoli strategie di resistenza, in quanto appare incongruente che alla scarcerazione per incompatibilità tra la detenzione e lo stato di malattia seguita da un periodo esterno al carcere in cui si verifica un miglioramento, segua a sua volta una nuova carcerazione che determina un nuovo aggravamento, a cui segue la scarcerazione ed un miglioramento e così via. Oltre alla percezione di incongruità del meccanismo, per coloro che hanno periodi piuttosto lunghi da scontare il sistema di sospensione della pena diviene, utilizzando l'espressione di un intervistato, un ergastolo. "Perché non posso pensare a migliorare al momento che il quadro. . . se sono migliorato mi riportano in carcere, me lo hanno dato già due volte, e io a'ste cose non le accetto più, io c'ho la documentazione (. . .) dove loro dicono che ero migliorato, ero compatibile con lo stato di detenzione, m'hanno riportato dentro due volte. Ho dovuto aspettare sei mesi la prima volta, e l8/l9 giorni la seconda prima che mi aggravassi. Cioè mi sono dovuto lasciar andare, non curarmi, lasciarmi morire, per poter uscire; mo'che sono fuori ho firmato una condanna; ora che sono fuori sono tranquillo, non ci penso, perché però, quando arriva giugno io vado già in paranoia perché so che settembre è prossimo, e se non mi viene niente che sono solo migliorato, per'sta situazione instabile mi arrestano. E visto che c'ho ancora dieci anni, non ce la faccio più, non lo accetto perché io stavo dentro, stavo scontando la mia condanna, loro mi hanno scarcerato, non l'ho chiesto io, hanno fatto tutto loro, poi non puoi giocare con la mia malattia, che mi arresti, mi scarceri, mi arresti, mi scarceri ()" (TO3).

L'angoscia per la propria condizione si esprime con comportamenti differenti che vanno dalla rabbia alla completa rimozione, anche per lunghi periodi, della sieropositività e dei sintomi della malattia, fino a quando è possibile; dall'attivismo- che permette di 'sentirsi vivi' (TOI) - al rifiuto della vita. A grandi linee, dalle testimonianze emergono due differenti gruppi di reazioni, che potremmo definire "attive" e "passive".

Le reazioni attive comprendono comportamenti quali il raccogliere informazioni e documentazione sulla malattia e sulle cure e, talvolta, diffondere le conoscenze così accumulate; la rivendicazione di diritti sulla base della propria condizione; la creazione o la partecipazione ad attività creative e socializzanti; il seguire con scrupolo le cure mediche e le norme igieniche, dentro e fuori dal carcere (ossia non fare vita di strada); attuare pratiche autolesioniste con l'intenzione cosciente di attirare l'attenzione, di chiedere aiuto.

Tra le reazioni di tipo passivo sono state segnalate dagli intervistai episodi di autolesionismo e tentativi di suicidio dovuti alla disperazione; stati di depressione; reazioni di rabbia distruttiva perché saltano le valvole a causa delle condizioni di vita e dell'angoscia (FG2). Secondo un intervistato (TO2), prima dell'esistenza della nuova legge che permette la sospensione della pena i tentativi di suicidio ed i suicidi erano più numerosi.

Correlata a queste considerazioni appare l'opinione degli intervistati sull' opportunità di creare sezioni separate per sieropositivi e malati e l'opinione sulle modificazioni apportate alle legge 222 dopo che alcuni detenuti sieropositivi sintomatici, in libertà per motivi di salute, avevano compiuto reati protetti da una sorta di immunità garantita dalla legge. Per quanto riguarda l'esistenza di sezioni separate, la maggioranza degli intervistati si dichiara d'accordo purché non conducano alla ghettizzazione e siano di fatto accessibili anche a detenuti non sieropositivi. L'opinione si motiva in relazione alle normali condizioni della vita carceraria, considerate inidonee al mantenimento della salute dei detenuti sieropositivi e, a maggior ragione, a quella dei detenuti malati. Secondo gli intervistati, queste sezioni dovrebbero garantire condizioni di custodia, di cura e di relazione adeguate alle esigenze dei detenuti malati. In aggiunta, un intervistato sottolinea quanto sia difficoltosa la permanenza nei reparti ospedalieri destinati ai detenuti soprattutto a causa della scarsa vita di relazione che in essi si può sperimentare (FI1). Un altro intervistato, in opposizione a quanto dichiarato dalla maggioranza del campione, si dichiara contrario all'esistenza di sezioni separate perché ritiene che l'unica soluzione veramente praticabile sia l'allargamento del concetto di incompatibilità tra lo stato di malattia e la detenzione. Tale estensione dovrebbe toccare tutti coloro che hanno problemi di salute gravi. Anche in questo caso l'esistenza dell'angoscia di morte e la consapevolezza che la malattia può condurre ad un decorso lungo e debilitante, oltreché doloroso, apre il campo ad amare riflessioni: "L'idea dell' alternativa non lo so, non vedo il rimedio, io se sto per morire non vedo proprio dove potrei morire, certamente non in carcere, questo è poco ma sicuro" (FG5). In favore dell'allargamento dell'incompatibilità ad altre malattie si esprime anche un altro detenuto (FG2).

Le opinioni sulla attuale normativa in termini di incompatibilità, e sulla legge 222 in particolare, appaiono maggiormente diversificate. La maggioranza degli intervistati si dichiara favorevole ad un ripristino della legge nella sua versione originaria, così come si presentava prima della sentenza che prevede che la scarcerazione non sia più automatica sulla base di un accertamento clinico e diagnostico, ma sia sottoposta al giudizio del giudice relativo alla pericolosità sociale del detenuto oltre che alle sue condizioni di salute.

In particolare, un intervistato (TO5) solleva un problema importante: la legge 222, prima della modificazione, non era mai stata applicata nella sua interezza, ossia non erano mai state istituite le strutture di accoglienza da essa previste per i detenuti usciti dal carcere per motivi di salute. La mancata applicazione della norma nella sua completezza ha determinato, secondo l'intervistato, le condizioni che anno condotto all'abuso e alla conseguente modificazione della legge stessa. Due altri intervistati (FG l, FG4), pur essendo favorevoli al ripristino della legge così come era stata concepita, sostengono di comprendere perché, a fronte degli abusi, sia stata posta in atto una reazione di carattere restrittivo.

Un solo intervistato (FI2) ritiene che sia compito del giudice stabilire la sospensione della pena. Tutti gli altri sono invece favorevoli all'intervento decisionale del medico, o di un'equipe medica esterna al carcere. In altre parole, come abbiamo rilevato in precedenza, gli intervistati si percepiscono innanzitutto come malati e poi come detenuti: ne emerge che, dal loro punto di vista, il parere vincolante risulta essere quello del medico, parere che, di fatto, ha già nella loro vita una importanza determinante.

Queste considerazioni introducono all'analisi delle situazioni di vita esterne al carcere, quando l'affidamento ai servizi e la sospensione della pena consentono di vivere la sieropositività e la malattia in ambiti meno ristretti. Colpisce la mancanza di relazioni istituzionali o semi-istituzionali di cui potrebbero fruire gli intervistati: ad esempio, soltanto alcuni di essi dichiarano di essere in contatto con associazioni che si occupano degli ex detenuti o dei malati di AIDS.

Secondo gli intervistati, la situazione che essi si sono trovati ad affrontare dopo le scarcerazioni presenta difficoltà in parte simili a quelle affrontate quotidianamente dagli ex reclusi, in particolare quelli che non hanno una famiglia che possa o voglia accoglierli: problemi abitativi, lavorativi, relazionali. In aggiunta, le testimonianze concordano nell'indicare specifiche difficoltà dovute alla condizione di sieropositivi odi sieropositivi sintomatici:

problemi relativi all'accesso alle cure, sperimentati soprattutto da coloro che vivono nell'Italia meridionale, dove paiono essere anche scarsamente presenti l'operare dei servizi e la presenza del volontariato; problemi per il reperimento del lavoro, in quanto le condizioni di salute non permettono di accettare lavori troppo pesanti o svolti in situazioni particolari; problemi nel rendere

compatibili le terapie e l'obbligo di rispettare gli arresti domiciliari. Alcuni intervistati rilevano che in assenza di altre risorse, il carcere diviene forzatamente un alloggio e un luogo dove è possibile accedere al sistema di cura. Si viene così a determinare ciò che abbiamo segnalato in apertura: il luogo di detenzione, attraverso la medicalizzazione della pena per coloro che si trovano in particolari condizioni di salute, giunge anche a svolgere una funzione impropria di "servizio sociale" che risponde alle esigenze e ad i bisogni che non trovano accoglienza nel periodo successivo alla scarcerazione per malattia.

In considerazione di tali carenze, le risorse poste in campo dalle famiglie divengono vieppiù centrali per offrire un luogo d'approdo, per reperire le comunità d'accoglienza, per mantenere, dopo la scarcerazione, il rapporto con i giudici di sorveglianza, con gli avvocati, con i medici, con i servizi; e ciò in modo particolare per coloro le cui condizioni di salute, periodicamente o definitivamente, non consentono un elevato grado di autonomia. Infine, per quanto riguarda la vita in comunità, ciò che pare mancare in maggior misura è un territorio privato che consenta l'intimità: intimità per gli affetti ed intimità per pensarsi e per pensare, per ridefinire il proprio percorso di vita percepito come estremamente labile ed esposto, per alcuni, all'incombere di una nuova carcerazione.

poiché non esiste un piano organico di interventi per l'accoglienza e la cura di coloro che vengono scarcerati per motivi di salute, dalle interviste risulta che i bisogni relativi al periodo successivo alla scarcerazione - a cui attualmente i sieropositivi sintomatici tendono a dare risposta con risultati eterogenei secondo le abilità e le competenze relazionali individuali - i servili e le associazioni del volontariato presenti sul territorio, la disponibilità delle reti parentali ed amicali, rimangono uno dei nodi fondamentali ancora da sciogliere nel complesso rapporto tra la detenzione e la sieropositività, la detenzione e la malattia.



Le fasi del rapporto di istituzionalizzazione: ingresso e vita carceraria


Il carcere è stato spesso rappresentato per differenza rispetto al resto della società, con minor attenzione per le differenze tra le varie esperienze carcerarie. La preoccupazione principale di tali interpretazioni era quella di sottolineare le funzioni di riproduzione dei rapporti di dominio o di controllo della forza-lavoro svolte dal carcere verso il resto della società (I). Su ciò ha anche inciso il forte impatto emotivo che il carcere ha sull'opinione pubblica, così come il suo isolamento strutturale dal mondo della vita quotidiana. Quale che sia la causa di tale rappresentazione vi sono pochi dubbi che, per quella via, le differenze interne alle varie esperienze carcerarie passavano in secondo piano. Al contrario una visione più ravvicinata dell'oggetto di studio, specie se in chiave comparativa e attrezzata con strumenti teorici più flessibili, può mettere in evidenza la pluralità dei modelli che si possono riscontrare nel rapporto tra istituzione carceraria e detenuti, così come tra questa ed il resto della società.

Ragionare per modelli, poi, permette anche di evidenziare i meccanismi (2) di funzionamento delle diverse realtà e ciò potrebbe aumentare l'efficacia di politiche specifiche, più congruenti con i bisogni di quella specifica realtà carceraria.

10 questo senso la prima finalità di questo articolo è proprio sottolineare la pluralità di modelli e meccanismi di istituzionalizzazione riscontrabili in diverse esperienze carcerarie, così come le diverse modalità di rapporto che possono intercorrere tra carcere e società. Ciò richiede di suddividere il rapporto di istituzionalizzazione in fasi e di analizzare ogni fase per le caratteristiche che la contraddistinguono: in questo modo verrà in evidenza come la rappresentazioni "a tutto tondo" spesso tendano ad oscurare differenze importanti, sia per la comprensione delle diverse realtà che, soprattutto, per la qualità della vita delle persone che in queste strutture risiedono. In secon00 luogo si vuole anche sottolineare come lo specifico problema oggetto di studio, cioè l'emergenza AIDS nelle carceri, permetta di mettere in evidenza le caratteristiche, per così dire, costitutive delle diverse realtà carcerarie.

Questo ultimo punto può essere compreso alla luce della analogia "chimica" agente-reagente: il contatto tra l'istituzione carceraria e detenuti con lari caratteristiche può agire da "reagente" e mettere così in evidenza tratti caratteristici del modello da esaminare. Ma su questo aspetto, " come sulla funzione di "agente", del contatto tra detenuti sieropositivi ed istituzione carceraria, torneremo nelle conclusioni.

Questi due obiettivi conoscitivi verranno illustrati attraverso l'analisi delle diverse fasi che costituiscono il rapporto tra detenuti sieropositivi ed istituzione carceraria: ingresso, gestione del test sierologico, sostegno psicologico-assistenziale e vita carceraria. Infine verranno prese in considerazione le attività informative e le misure precauzionali rivolte a detenuti ed operatori. L'interpretazione della situazione delle tre carceri si basa, per questa specifica parte, su una serie di interviste (cfr. note metodologiche) rivolte ad operatori dell'area trattamentale e custodiale: non si utilizzano dichiarazioni tratte da interviste a detenuti. Vediamo ora come viene gestita la fase di ingresso nelle tre carceri esaminate.


2. La fase d'ingresso


La fase d'ingresso rappresenta il primo contatto con l'istituzione carceraria ed è in questa fase che il detenuto viene "tipificato": la sua singolarità viene inserita in un insieme più ampio, un "tipo" appunto, ed è con questa "tipificazione" che il detenuto verrà inserito in carcere. Possiamo immaginare che esista un numero finito di "tipi" di detenuti e che tra questi occupi un ruolo centrale il "tipo" che si riferisce alla presenza di sieropositività. Se questa operazione è comune ad ogni istituzione (3), è però vero che le modalità di esecuzione possono variare in relazione a variabili di contesto. In particolare, troviamo due dimensioni rilevanti che contribuiscono a costituire le differenze nella gestione della fase di ingresso: il grado di strutturazione del "Servizio Nuovi Giunti" e la figura istituzionale incaricata di gestire il servizio. Nel caso di Torino il servizio è decisamente strutturato e formalizzato, esiste cioè uno specifico settore d'intervento rivolto ai "nuovi giunti", ed inoltre la gestione del servizio vede le decisiva presenza di figure mediche e psicologico-assistenziali. Come si afferma un componente del personale trattamentale: "Il lavoro come esperta del presidio nuovi giunti è quello di incontrare tutte le persone arrestate nella giornata, fare un colloquio di primo ingresso dal punto di vista psicologico, per valutare se la persona entrata ha dei rischi, delle problematiche particolari, e quindi poter dare d'intesa con il medico che lo ha visto prima di noi - delle indicazioni di massima alla custodia, sia per sapere dove collocarlo, se ha bisogno di attenzioni particolari, se ha dei rischi di gesti autolesivi o meno".

Sono da sottolineare due elementi: l'esistenza di un vero e proprio presidio nuovi giunti e la presenza di personale trattamentale. Il rapporto tra il carcere ed i "nuovi arrivati" è, cioè, gestito da personale specializzato e composto in prevalenza da figure mediche e psicologico-assistenziali. Ad un primo livello l'intervento è comune a tutti i "tipi" di detenuti. Se poi il detenuto viene identificato come sieropositivo si attiva l'intervento di figure specifiche, con competenze mirate al caso in questione. Sempre a Torino, ad esempio: "il detenuto siero positivo che entra in carcere viene visto entro lo stesso giorno dall'infettivologo, in modo che comincia già ad istituirsi questo rapporto medico-paziente. E poi si sviluppano i rapporti tra di loro, e quindi la possibilità di rivolgere domande, chiedere consigli..:' L'espressione è molto chiara e si riferisce esplicitamente alla possibilità di instaurare una relazione medico-paziente, in parte diversa per contenuti e modalità da quella agente-detenuto. La relazione medico-paziente, rispetto a quella agente-detenuto, si basa su una diversa modalità di esercizio del potere. Nel primo caso il medico esercita influenza sul paziente, sia in base allo status sociale del ruolo ricoperto e sia grazie alla capacità di mobilitare un sapere esperto. Nel secondo caso la relazione prescinde dalla capacità di mobilitazione di riserve di sapere per strutturarsi grazie ad un rapporto di potere che, in ultima analisi e in linea teorica, può fondarsi sulla pura coercirione fisica (4). Ciò non significa che la relazione medico-paziente sia libera da condizionamenti e rapporti di potere, mentre quella agente-detenuto ne rappresenti la quintessenza. Ciò che cambia è la modalità di legittimazione del potere e/o del controllo: sapere esperto e status nel primo caso, capacità coattiva e sanzioni amministrative nel secondo.

La situazione del carcere fiorentino è in parte simile a quella torinese, ma presenta anche importanti elementi di differenza: anche qui esiste un servizio strutturato per l'accoglienza, che però sembra in parte assumere modalità più burocratiche. Inoltre la gestione del servizio vede una minore partecipazione de personale trattamentale.

Il Servizio Nuovi Giunti viene infatti svolto dall'ufficio matricola, che poi segnala al personale competente i casi da seguire. Come afferma un operatore del carcere di Firenze: "la prassi normale è che il detenuto entri, venga perquisito, venga portato in matricola, abbia le procedure di rito, l'identificazione fotografica mediante le impronte, la dichiarazione dei suoi dati, ecc. Dopo di che la persona sosta ancora un attimo negli uffici per essere collocata in qualche posto, in genere si dice che per la prima notte o al massimo due giorni debba sostare al transito perché è più comodo ed è più facile poterlo portare all'ufficio matricola, se c'è stata qualche dimenticanza da parte degli agenti nel chiedere qualcosa oppure c'è bisogno li vedere altri dati" .

Quindi, anche in questo caso, c'è una prassi strutturata, pur se sovrapposta a procedure burocratiche di accertamento e registrazione dei dati. Tale sovrapposizione non è senza conseguenze: in particolare pare di notare che la burocratizzazione della fase di ingresso può scoraggiare il detenuto dal lasciar passare informazioni "sensibili" sul suo stato di salute. Inoltre una modalità burocratica di comunicazione può rendere più difficile, da parte dell'istituzione carceraria, la trasmissione di informazioni di prevenzione rispetto ai comportamenti a rischio. "Nel colloquio di primo ingresso le informazioni sono piuttosto stringate, e il colloquio lo svolge il direttore o un delegato, direttamente dall'ufficio matricola. In questa sede è difficile che si riesca ad informare sull'argomento dei comportamenti a rischio" .

La burocratizzazione della fase di prima accoglienza, pur essendo garanzia minima di forrnalizzazione dell'intervento, non è orientata ai bisogni delI'utenza (5), ma segue logiche proprie, legate a necessità contingenti. Come afferma un operatore: "il colloquio di primo ingresso viene svolto dall'ufficio matricola, nella persona di un agente di polizia penitenziaria che però non è sempre 10 stesso e secondo me sarebbe molto importante che il colloquio di primo ingresso 10 facesse un altro tipo di operatore" . In un secondo momento interviene, se necessario, il personale medico e di sostegno psicologico, ma a questo punto l'imprinting della relazione con il detenuto è stato dato secondo modalità burocratiche ed impersonali. Rispetto al carcere torinese, quindi, troviamo somiglianze e differenze: l'esistenza di un servizio di accoglienza nuovi giunti strutturato, ma burocratizzato, e la minore presenza di personale trattamentale nella gestione del servizio stesso.

Nel carcere di Foggia la situazione è ancora diversa, sia per il grado di strutturazione dell'intervento e sia per il tipo di relazione che si instaura con il detenuto "nuovo arrivato". Non sembra esistere, almeno formalmente, un vero e proprio servizio rivolto ai nuovi giunti, ma solo dei colloqui effettuati dal personale di servizio. Inoltre il personale trattamentale è, in questa specifica fase, presente nella gestione della relazione e nell'accoglienza dei detenuti nuovi giunti. Nel carcere in esame al detenuto: "AI momento dell'entrata in carcere gli vengono forniti dei colloqui chiamati di primo ingresso, da parte del sottufficiale di servizio, dell'ispettore di servizio e poi dal medico" .

La presenza del personale trattamentale è comunque abbastanza rilevante, pur non essendo considerata interna ad un vero e proprio Servizio Nuovi Giunti, come sostiene un operatore trattamentale: "( ) il lavoro che svolgo io si articola in questa maniera: faccio un lavoro di primo approccio per tutti, almeno uno o due colloqui con tutti quelli che entrano, anche se è un po' fuori perché non è un Servizio Nuovi Giunti, è qualcos'altro" . Nel carcere foggiano, quindi, non esisteva, alla data delle rilevazioni, un vero e proprio servizio rivolto ai nuovi giunti; vi era però, a livello informale, la presa in carico di tale servizio da parte del personale trattamentale. In definitiva, perciò, la gestione del servizio, è affidata sia a ruoli custodiali, che a ruoli trattamentali. È difficile affermare con esattezza, sulla base delle dichiarazioni degli intervistati, quale dei due ruoli prevalga nella gestione del rapporto: si può solo mettere in evidenza come, nella prima citazione, l'intervistato enfatizzi la successione temporale degli interventi, prima i ruoli custodiali (sottufficiale di servizio e ispettore di servizio) e poi quelli trattamentali (medico). Ciò non sembra comunque essere motivo sufficiente per dichiarare la netta prevalenza di uno dei due ruoli. Ciò che sembra più certo è la mancanza, al di là delle iniziative individuali, di un Servizio Nuovi Giunti formalizzato e strutturato.

La chiave di lettura scelta, ovvero le differenze tra i "modelli di carcerizzazione", si rivela feconda. Già solo in questa fase di ingresso, infatti, l'analisi ha permesso di evidenziare due dimensioni su cui le differenze paiono più marcate: il grado di strutturazione del Servizio Nuovi Giunti e le modalità relazionali che si instaurano tra operatori del carcere e detenuti. n primo aspetto, come visto, è molto variabile: a Torino esiste un Servizio Nuovi Giunti, a Firenze il servizio si sovrappone alle attività di schedatura burocratica dei detenuti e a Foggia la funzione di accoglienza è sia gestita ad hoc dal personale di turno che, informalmente, con continuità dal personale trattamentale.

Per il secondo aspetto troviamo invece che a Torino è possibile instaurare una relazione medico-paziente (cfr. supra, nota 4) con modalità proprie ed in parte indipendenti da quelle relative al rapporto agente-detenuto. A Firenze sembra prevalere, in fase di ingresso, la costituzione di rapporti fondati sui ruoli agente-detenuto e a Foggia i due ruoli gestiscono in modo congiunto il servizio. Come vedremo, tali differenze non sono irrilevanti per la gestione di aspetti importanti del rapporto carcere-detenuti sieropositivi, come la gestione del test sierologico.


3. La gestione del test sierologico e la riservatezza della cartella clinica


Il rapporto di istituzionalizzazione è contraddistinto, nella fase iniziale, da una serie di quelli che vengono definiti "rituali di degradazione" (6). All'interno del carcere ne esiste un particolare tipo, teso a verificare l'esistenza di detenuti sieropositivi, che, a differenza della maggior parte degli altri tipi di rituali (7), richiede la collaborazione volontaria del detenuto Questo elemento è importante per mettere in evidenza le differenze tra le realtà esaminate: possiamo infatti immaginare che lo svolgimento di un "rituale" obbligatorio sia. per definizione, soggetto a minori "varianze" tra le diverse istituzioni che un "rituale" che richiede l'adesione volontaria del soggetto da istituzionalizzare. In questo senso, quindi, un "rituale" non coattivo è un buon indicatore dell'esistenza di differenze tra modelli di istituzionalizzazione.

Consideriamo dapprima il caso di Torino. Nel carcere di "Le Vallette"la percentuale di detenuti che accetta di sottoporsi al test è molto elevata e la gestione del processo è congruente con quanto osservato in precedenza a proposito della fase di ingresso, come afferma un operatore del carcere torinese: "il test al momento, nonostante diverse proposte per farlo divenire obbligatorio, è facoltativo. Ci sono istituti nei quali praticamente lo fa il 90% dei detenuti, ci sono istituti in cui invece lo fanno molti meno. Qui quasi tutti, direi 95-98% lo fanno. Anche perché secondo me sta tutto nel come viene proposto. Io credo che una persona, se si vede obbligata a fare una cosa senza spiegazioni, forse la subisce in maniera negativa, malvolentieri; infatti una raccomandazione che ha fatto il ministero in una delle sue varie circolari è proprio questa: informazione e poi proposta. Infatti io ho visto che laddove il medico dei nuovi giunti ha la pazienza di spiegare per chi viene fatto, a che cosa serve, quali vantaggi potrebbe avere, ecc., è difficilissimo che il detenuto lo rifiuti" .Dall'affermazione precedente possiamo anzitutto sottolineare il dato quantitativo: il 95-98% dei detenuti accetta di sottoporsi al test (percentuale che corrisponde ai dati del Ministero di Grazia e Giustizia). Vi è poi un secondo aspetto, più qualitativo, che può chiarire la ragione di un tale successo. Come già argomentato nella realtà torinese sembra importante la relazione rnedico-paziente e non solo quella agente-detenuto. La differenza risiede nelle diverse modalità di legittimazione del potere: influenza e fiducia nel sapere esperto nel primo caso, capacità di controllo e incentivi negativi nel secondo.

Nella citazione precedente l'elevata percentuale di soggetti che accettano viene esplicitamente collegata al fatto che il medico del Servizio Nuovi Giunti mobilita un sapere esperto e ragioni argomentative a favore del test sierologico. Proprio la natura facoltativa del test rende necessaria una modalità comunicativa d'interazione: in caso contrario, è probabile infatti che il detenuto viva il rifiuto al test come l'ultimo atto di libertà individuale prima dell'istituzionalizzazione definitiva.

Nel caso il test risulti positivo si pone un'ulteriore questione: la comunicazione e la riservatezza della notizia. Per il primo aspetto è importante individuare la figura istituzionale che si incarica della comunicazione, per il secondo l'attenzione andrà per il rispetto del diritto alla riservatezza.

Vediamo la gestione dei due aspetti nel caso del carcere di Torino. "Nel caso il test risulti positivo I'infettivologo cerca di informare la persona nel modo più tranquillo e tranquillizzante possibile, dando inizialmente una serie di indicazioni e poi programmando col detenuto che tipo di intervento fare, anche di cure. Ufficialmente viene a conoscenza del risultato solo I'infettivoIogo, il sanitario del blocco, e il detenuto (più l'infermiere e gli esperti): purtroppo però in carcere, col fatto che le cartelle girano di mano in mano e vengono portate in giro dagli agenti, direi che poi lo sanno quasi tutti". Due considerazioni a riguardo: la prima è che la figura incaricata della comunicazione è, coerentemente con le caratteristiche del carcere torinese, una figura medica, l'infettivologo, per cui valgono le argomentazioni precedenti. La seconda osservazione è la mancanza del rispetto del diritto alla riservatezza: la notizia circola nella struttura informale del carcere e tutti ne vengono a conoscenza. In questo senso la presenza di detenuti sieropositivi può funzionare da "reagente", mettendo in evidenza le caratteristiche organizzative dell'istituzione carceraria. In particolare si vuole sottolineare il possibile conflitto tra compiti medici e compiti di custodia. Nel carcere torinese il "sapere medico" ha conquistato importanti spazi di autonomia e di gestione del rapporto con i detenuti: ciò nonostante la sovrapposizione tra i due ambiti di competenza riappare in altre fasi, una di queste è proprio la riservatezza della cartella clinica. " La cartella clinica dovrebbe effettivamente essere vista solo dai medici, dagli infermieri e dagli psicologi, e non da chiunque vada in infermeria, apre il cassetto dello schedario, si tira fuori la cartella e la può vedere. Quindi in pratica gli agenti potrebbero vederla tutti, se volessero; e questo non mi sembra molto giusto, intanto perché noi siamo tenuti al segreto professionale e loro no; e poi perché comunque non c'è la preparazione dell'operatore sanitario, e quindi..". Il carcere, in questa interpretazione, è anche un luogo di conflitto tra due saperi e modalità d'interazione, medica e carceraria, che si contendono spazi d'autonomia e di controllo. La dicotomia, come già sottolineato, non deve essere intesa in modo netto e, soprattutto, bisogna ribadire che la differenza sostanziale non è la minore o maggiore presenza di potere, che è infatti presente anche nella relazione medico-paziente. Piuttosto, ciò che varia è la modalità di legittimazione della relazione di potere.

A Firenze avevamo riscontrato una gestione "burocratica" della fase di accoglienza nuovi giunti, con la gestione di tale fase dall'ufficio matricola.

La "burocratizzazione" dell'intervento portava, tra le sue conseguenze, duplice difficoltà: da parte del detenuto a comunicare informazioni di carattere personale (tossicodipendenza, omosessualità) e da parte del servizio .. informare su temi delicati (comportamenti a rischio e misure di prevenzione).

Questa caratteristica si ritrova anche nella gestione del test sierologico: formalmente la richiesta dovrebbe essere effettuata al momento dell'accoglienza, dal medico di guardia. ma così non avviene sempre. Come si sostiene in una delle interviste: "Il test di sieropositività dovrebbe essere fatto nella visita di primo ingresso, non so se da parte del medico o dell'addetto alla matricola, comunque viene chiesto a tutti. Non so se ne viene prospettata la possibilità o anche l'utilità. La percentuale dei detenuti che accetta di sottoporsi al test è di circa il 50%" .

Le affermazioni contenute in un'altra intervista aiutano a comprende:re meglio la situazione del carcere fiorentino. "Spesso il detenuto mi dice c/te al1'ingresso non gli è stata comunicata la possibilità di effettuare il test; anche se io non posso valutare se davvero il medico lo ha chiesto o me/lO, oppure sono emersi elementi per cui vuole negare questa cosa, oppure effettivamente non c'è stato tempo di chiederlo.." Quindi la prima richiesta è formalmente demandata al momento dell'ingresso, gestito dall'ufficio matricola: ma la modalità burocratica di gestione del rapporto rende più difficile la comunicazione, specie se relativa ad argomenti delicati e personali. La drastica caduta della percentuale di detenuti che accettano di sottoporsi al test. il 50% contro il 95% del carcere di Torino, sembra anche dovuta a questo elemento.

Per quanto riguarda gli altri due aspetti, la comunicazione dell'eventuale sieropositività e la riservatezza della notizia. troviamo rilevanti similarità con il carcere di Torino. "Se l'esito è positivo la comunicazione viene sempre data dal medico. La maggior parte dei sieropositivi sa già di essere sieropositivo. È capitato a me personalmente soltanto un paio di volte negli ultimi anni, si sgombra l'ambulatorio, si fa venire la persona, si chiama la guardia medica psichiatrica. Si cerca di dare l'informazione nella maniera più civile possibile, garantendo anche la presenza del1'immunologo" Per questo particolare aspetto, quindi, la realtà fiorentina è simile a quella torinese: nonostante l'iniziale "burocritizzazione" del rapporto con il detenuto, la delicata fase di comunicazione dello stato di sieropositività è riconosciuta come ambito privilegiato del "sapere medico". Anche il problema della riservatezza della notizia segue un copione simile a quello analizzato nel caso di Torino: di fatto non c'è riservatezza e la notizia circola tra le guardie ed i detenuti.

Le maggiori differenze sembrano darsi con il carcere di Foggia. Anzitutto a Foggia la percentuale di detenuti che accetta di sottoporsi al test è molto più bassa che nelle altre due carceri. Secondo gli intervistati Ciò è dovuto anche ad un evidente ostacolo, incontrato in fase di primo ingresso per l'effettuazione del test: il pagamento del ticket. I dati citati nelle interviste dicono che la percentuale è passata dall'80-85% ad una intorno al 10%, in quanto è venuta meno la convenzione con l'azienda sanitaria locale e si è reso necessario introdurre un ticket di seirnila lire. In sintesi i problemi del carcere foggiano sono lucidamente riassunti dalle parole di un intervistato. "La percentuale che esegue il test è comunque molto bassa, per tre ordini di problemi: la gran parte dei detenuti non accetta, cioè chi non ha storie di tossicodipendenza non si sente coinvolto e non capisce che potrebbe avere qualche rischio e pertanto non potendolo obbligare non accetta. Chi sa di essere sieropositivo trova inutile l'esecuzione del test , per che magari l'ha già fatto due o tre volte, e quindi risultando sempre positivo non si sottopone più al test. C'è inoltre il problema del pagamento del ticket ( ) abbiamo litigato più di una volta con la USL ( ); vogliono il ticket, con un pagamento minimo di seimila lire". Pur essendo il medico di guardia a comunicare la possibilità del test, il ticket sembra costituire un ostacolo decisivo e la percentuale di detenuti che accetta di sottoporsi al test scende drasticamente. Rispetto alla comunicazione ed alla riservatezza della notizia, la situazione è in parte simile ai casi precedenti. La notizia di positività viene comunicata dal medico, coadiuvato dal personale infermieristico e paramedico; spesso alla presenza di una agente di polizia penitenziaria. Ciò ha le conseguenze già esaminate in precedenza per i casi di Foggia e Torino: una fuga di notizie ed una violazione del diritto alla riservatezza.


4. Il sostegno psicologico-assistenziale


Spesso la notizia della sieropositività può avere conseguenze rischiose, sia per il detenuto che per la popolazione carceraria. Depressione, comportamenti autolesionisti o scatti d'ira e violenza sono possibilità che devono, in qualche modo, essere prevenute. Perciò la notizia viene accompagnata da una particolare attenzione nei confronti del detenuto, soprattutto per ciò che riguarda il sostegno psicologico-assistenziale. Anche per questo aspetto, però, le differenze tra le tre realtà carcerarie sono rilevanti.

Le differenze, in questo caso, non vanno cercate nel conflitto tra ambiti di competenza riservati agli agenti di custodia, da una parte, e sapere medicopsicologico, dall'altra. Infatti è chiaro che il sostegno psicologico- assistenziale è riconosciuto area esclusiva del sapere esperto. n contrasto è interno a questa ultima categoria: ovvero tra pratiche che privilegiano la medicalizzazione del rapporto e pratiche che promuovono iniziative psicologiche e di rimotivazione del soggetto. In effetti questo contrasto è la spia di una diversa concezione dell'intervento: le pratiche mediche, che si concretizzano quasi sempre in somministrazione di psicofarmaci, tendono a privilegiare la protezione degli altri (detenuti ed operatori) da eventuali comportamenti a rischio del detenuto sieropositivo. Le iniziative psicologiche, invece, hanno come obiettivo primario il soggetto, la sua identità ed il suo progetto futuro. Ciò è anche vero in quanto le iniziative mediche assumono spesso tratti individualizzanti e tecnicistici, ovvero l'intervento non consiste quasi mai in un lavoro di gruppo e si identifica con un problema tecnicamente risolvibile (la quantità ed il tipo di psicofarmaco ). Il sostegno psicologico assume, al contrario, caratteri socializzanti e non tecnicistici: l'intervento mira alla reintegrazione del soggetto nella comunità dei detenuti e non è quantificabile in base a criteri strettamente tecnici.

Il caso torinese è un esempio di gestione non tecnicistica del problema della sieropositività: qui si privilegiano terapie "socializzate", basate sul sostegno psicologico. Il carattere duale e privatistico con cui si affronta il problema, tipico della relazione medico-paziente, lascia il posto a modalità semi-pubbliche e risocializzanti di gestione delle terapie di sostegno (8).

L'intervento degli operatori torinesi consiste "nel supporto e nel cercare di aiutarli a costruire un progetto di vita sia per il periodo che passano in carcere, sia per .fuori: il rapporto con la famiglia, ad esempio () una parte del progetto lavora per riuscire a recuperare laddove la famiglia è inizialmente spaventata dallo stato di salute del congiunto, non ne vuole sapere, oppure ha paura, allora si cerca appunto di ricucire i legami, quindi si lavora sia sul detenuto che sulla famiglia" .

Il sostegno psicologico-assistenziale mira all'integrazione sociale del soggetto, ne considera i problemi relazionali, non risolvibili con interventi tecnici o farmacologici. Il ricorso a modalità farmacologiche di intervento, va sottolineato, è spesso un desiderio esplicito del detenuto sieropositivo: ciò è in effetti comprensibile, data l'esperienza traumatizzante della detenzione in stato di malattia. Secondo alcuni Autori, però, i desideri degli utenti andrebbero comunque bilanciati con criteri più oggettivi di scelta (9). Alcuni di questi aspetti sono enfatizzati dalla testimonianza di un operatore del carcere di Firenze. "A volte c'è difficoltà nel chiarire cosa rappresenta la figura dello psicologo. Non sono un medico e quindi non posso intervenire con la somministrazione di farmaci, anche se questa è la domanda che specialmente chi è già abituato a entrare in carcere e ha già avuto esperienze fa" . La terapia psicologica, del resto, ricopre una parte notevole nel programma di sostegno del carcere fiorentino. "Il sostegno psicologico è molto diffuso, qualche volta esposto a qualche critica. Abbiamo un ottimo servizio psichiatrico, con una terapia psicologica".

Nel carcere di Foggia, al contrario, l'intervento rivolto ai detenuti sieropositivi è maggiormente basato su somministrazione di psicofarmaci e sul prevalere dell'intervento medico rispetto a quello psicologico. A ciò si accompagna la scarsa presenza di pratiche risocializzanti, rivolte alla rimotivazione del detenuto. Come afferma un operatore del carcere foggiano: "la terapia basata su psicofarmaci è molto frequente, però non tanto nei sieropositivi quanto nei tossicodipendenti" . A Foggia sono anche assenti modalità socializzate e socializzanti di sostegno alla condizione di sieropositività; questo aspetto è anche la spia di una diversa concezione del detenuto sieropositivo e del suo inserimento nella vita carceraria. Il detenuto sieropositivo può cioè diventare l'obiettivo di un progetto esplicito di reinserimento nel carcere e nella società. oppure la sua condizione può essere vissuta dagli operatori con un senso di ineluttabilità e l'obiettivo principale degli interventi diventa la protezione degli altri detenuti da eventuali comportamenti a rischio.

Questa diversa concezione si riflette in due diverse modalità di gestione del rapporto tra detenuti sieropositivi e detenuti non sieropositivi: la segregazione spaziale o la convivenza.


5. La vita carceraria. I reparti speciali per detenuti sieropotivi o tossicodipendenti


La condizione di sieropositività può influire sulla vita del soggetto in modi diversi in base al significato che a questa condizione viene attribuito (10). Ad esempio: il detenuto può essere considerato un oggetto, per così dire, economico e l'organizzazione carceraria può seguire una logica costi/benefici, considerando l'intervento in base alla sua redditività.

Considerando che la speranza di vita di persone in stato di sieropositività ha un orizzonte temporale che, in senso relativo e a parità di altre condizioni, può essere considerato breve, ne consegue che il detenuto sieropositivo non sarà soggetto che ad interventi mirati al breve periodo. Al contrario, il carcere torinese è un esempio di come sia possibile seguire vie diverse e promuovere investimenti di lungo periodo su soggetti con un orizzonte temporale che si presume più breve.

A Torino è nato un progetto pilota (progetto Prometeo) con lo scopo di promuovere la convivenza tra detenuti sieropositivi e non, come afferma uno degli operatori. "Dopo alcuni mesi, su suggerimento della direzione, e vedendo che i detenuti malati erano isolati e in un ghetto, ci accorgemmo che quando loro avevano la possibilità di contatto con detenuti sani e impegnati in qualcosa (studio o lavoro) , si tranquillizzavano, avevano più voglia di parlare, di rapportarsi con gli altri. Così fu proposto ad un certo numero di detenuti sani di andare a vivere con gli altri. E subito dodici detenuti diedero la loro disponibilità. La sezione era ridotta in uno stato pietoso, sangue dappertutto, muri schizzati di sangue, armadietti rotti; allora la prima cosa che si decise fu: i sani arrivano in sezione e danno una mano per ripulire. I detenuti sani cominciarono a ripulire la sezione, coinvolgendo i detenuti malati che inizialmente stavano seduti per terra a guardare. Così ad un certo punto gli dissero - Sì vabbé, siete malati, però il pennello in mano lo potete ancora tenere! - E infatti dopo una ventina di giorni che i sani lavoravano lì per sistemare la sezione, un pomeriggio venne chiamato il direttore perché c'erano sette-otto detenuti sani e malati che dipingevano il corridoio. Quindi si è capito che qualcosa si stava muovendo, qualcosa stava cambiando". La vivida descrizione offerta da questa testimonianza coglie alcuni aspetti prima sottolineati: la condizione di sieropositivo, o di conclamato, non costituisce un ostacolo "oggettivo" e insormontabile alla convivenza all'interno del carcere; anzi, in parte, è oggetto di un processo di costruzione sociale. Inoltre l'assegnazione a reparti specifici è sottoposta alla volontà del detenuto che può rifiutare l'assegnazione.

La situazione del carcere fiorentino è in parte diversa da quella torinese: non esiste un programma esplicito di integrazione tra detenuti sani ed arnmalati e c'è una tendenza a separare le due popolazioni. Tale separazione è frutto di un processo che coinvolge aspetti formali ed informali, non esistendo una vera e propria procedura di assegnazione obbligatoria dei detenuti malati a reparti specifici. Da questo punto di vista. come già notato, la situazione del carcere fiorentino è burocratizzata durante l'ingresso, ma lascia spazio alle dinamiche di interazione tra aspetti formali ed informali in questa specifica fase della vita carceraria. L'eventuale segregazione spaziale, quindi, può essere l'esito di processi complessi. "Io sono entrata a Solliciano e ho trovato questa situazione, vale a dire i detenuti sieropositivi sono per la maggior parte inseriti in una sezione, il che poteva sembrare una ghettizzazione () in realtà il motivo è che sono loro stessi che lo chiedono, o per un discorso di privacy, di sentirsi più liberi sapendo di essere in cella con un altro sieropositivo, quindi di avere una maggiore facilità di comprensione da parte del compagno" . L'interazione tra aspetti formali ed informali può avere un duplice effetto: da una parte, rende l'esito del processo meno scontato, aperto ad una pluralità di soluzioni diverse. Dall'altra. però, la presenza di aspetti informali rende più difficile il cambiamento organizzativo: questo può ad esempio essere il caso dell'implementazione di politiche formali ed esplicite rivolte all'integrazione tra le diverse popolazioni carcerarie (11).

AI contrario, nel carcere foggiano, prevale una logica d'azione burocratica che assegna i detenuti in base a procedure generali. La corrispondenza burocratica tra tipo di detenuto e tipo di reparto rende più difficile che venga preso in considerazione il parere del detenuto stesso, quasi sempre assegnato ad un reparto e lì resta per tutto il periodo della carcerazione. Ciò è confermato dalla testimonianza di un operatore del carcere pugliese. "Dopo il colloquio di primo ingresso il detenuto viene alloggiato secondo il reato ( . . .) se ha rubato va alla sezione As, se tossicodipendente alla sezione tossicodipendenti, se siero positivo va in cella con altri siero positivi. Rispetto ali'assegnazione in genere potrebbe dire - io voglio andare - magari ha qualche amico, parente, cugino. Se riesce ad andare nel momento in cui arriva bene, sennò è difficile che poi ci vada, perché non sempre c'è posto" .

Oltre ai processi di istituzionalizzazione e di organizzazione della vita carceraria, la presenza di detenuti sieropositivi è un potente generatore di dinamiche intraorganizzative in quanto sollecita il personale ad acquisire informazioni sul problema e sui rischi della sieropositività. Inoltre favorisce (o dovrebbe favorire) la creazione di rapporti interorganizzativi con altri attori, in qualche modo coinvolti nella gestione del problema.


6. Attività d'informazione e formazione per detenuti ed operatori:

prevenzione, igiene e misure precauzionali


Le attività formative, informative e precauzionali per operatori e detenuti sono sostanzialmente analoghe nei tre carceri esaminati: si tratta di diffusione di opuscoli informativi, di proposte di corsi di formazione e di raccomandazioni verbali. Ad esempio, nel carcere foggiano, ma lo stesso esempio potrebbe valere per Torino e Firenze, le precauzioni per gli operatori sono le seguenti. "L'uso dei guanti di lattice o comunque poco permeabili e l'uso di mascherine con visiera per un fatto funzionale, che ho fatto acquistare personalmente, per un fatto psicologico da parte del detenuto e anche funzionale da parte nostra. Quindi le normalissime condizioni di cautela che riguardano soltanto in pratica le mani" .

L'attività formativa/informativa per operatori, invece, consiste nella partecipazione a seminari rivolti a tutte le figure professionali, secondo modalità variabili (formatore interno o esterno, seminario intensivo o periodico). Per ciò che riguarda la popolazione detenuta. come nel caso del carcere fiorentino, le iniziative informative sono svolte direttamente dai medici, su base volontaria; in genere, però, si tratta di distribuzione di materiale informativo tipo opuscolo o ciclostilato e, più raramente, di seminari. La fenomonologia delle attività informative e precauzionali, come già sottolineato, non varia sostanzialmente nei tre casi esaminati. Le differenze riguardano l'efficacia ci queste misure. Le diversità vanno ricercate nelle modalità relazionali che mediano il rapporto tra chi trasmette l'informazione e chi la riceve. La stessa informazione assume infatti significati diversi ed ha efficacia variabile in rapporto allo specifico quadro cognitivo e relazionale che la veicola. Un opuscolo informativo che spieghi le misure precauzionali che i detenuti devono seguire per minimizzare i rischi di contagio ha, in questo senso, un grado diverso di efficacia se gestito all'interno di una relazione medico-paziente piuttosto che di una agente-detenuto. Così come conta anche il tipo di contesto e il grado di pubblicità e socialità in cui l'informazione viene diffusa. In questo senso uno svolgimento burocratico e non partecipato delle attività carcerarie, così come la prevalenza di interventi di sostegno portati avanti secondo modalità tecnicistiche e non socializzanti, ostacola la trasmissione di informazioni sulle precauzioni da adottare in carcere. Tale difficoltà è anche dovuta al tipo di interventi di cui si tratta: in particolare atteggiamenti e comportamenti legati alla quotidianità e che coinvolgono la sfera dell'intimità.

Aspetti, cioè, che non si lasciano facilmente cambiare da un semplice passaggio di informazioni. Al contrario gli interventi formativi e informativi si dimostrano più efficaci in quelle realtà che privilegiano l'interazione come fase di trasmissione delle informazioni e di formazione degli operatori carcerari. O, in altri termini, che costituiscono la trasmissione di informazioni come un prodotto "secondario" di interazioni rivolte ad altri fini: la trasmissione dell'informazione, si vuole sostenere, è più efficace se radicata in un quadro cognitivo e normativo non specificatamente rivolto ad essa (12).

Da questo punto di vista, deve essere anche notato che la trasmissione di informazioni e le pratiche sociali che la accompagnano si dimostrano tanto più efficaci, come già argomentato, quanto più il quadro cognitivo-normativo ed il sistema di ruoli entro cui l'interazione si sviluppa è vicina al rapporto medico-paziente, piuttosto che a quello agente-detenuto. Il cambiamento di atteggiamenti e comportamenti radicati nella quotidianità, infatti, sfugge a strategie "economiche": sia basate sul controllo della prestazione, sia sui presunti vantaggi dell'adozione del comportamento (13). L'alternativa, quindi, va cercata in meccanismi sociali interattivi, basati sull'adozione del comportamento per imitazione, per convenzione o per persuasione. La relazione medico-paziente e la gestione socializzata delle pratiche carcerarie possono costituire un "ambiente" interattivo adeguato allo sviluppo di tali meccanismi. Nel primo caso è possibile che si formino relazioni basate su fiducia ed influenza, mentre nel secondo possono instaurarsi con relativa facilità processi imitativi. In entrambi i casi, comunque, l'efficacia dell'attività formativa ed informativa sarà maggiore.


Scarica gratis Inchiesta sulla presenza dei malati di AIDS in tre carceri italiane (Foggia, Firenze e Torino), realizzata dal Gruppo Abele nel 1997
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