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Il ruolo della madre nel sistema penitenziario
Il ruolo della detenuta madre, inoltre, non è stato considerato adeguatamente dal sistema penitenziario il quale se da un lato, nel corso degli anni, ha rivisto la normativa in materia migliorandola, dall'altro non ha concretizzato i "buoni propositi" riconosciuti dalla legge.
In passato, la normativa penitenziaria affrontava il rapporto madre-bambino sulla base dell'immagine tradizionale che vedeva la trasgressione femminile come 'amoralità' e la considerava, quindi, inconciliabile con la maternità. È opportuno ricordare, ad esempio, che nel secolo scorso nelle prime case penali femminili non era permesso tenere bambini. Se una detenuta dava alla luce un figlio in carcere, si affidava immediatamente il piccolo ad un istituto. La madre non aveva più alcuna possibilità di vederlo né di avere qualsiasi forma di contatto con lui.
Veniva adottata questa soluzione, in quanto si pensava che in questo modo si sarebbe protetto il bambino sottovalutando l'importanza del legame madre-figlio, che veniva improvvisamente spezzato.
Si è passati poi, quarant'anni fa, alla frequentissima pratica dell'affido familiare: in quegli anni l'ideologia sociale era imperniata sul concetto di famiglia, vista come elemento fondamentale della struttura basilare della società, e sulla sua rispettabilità. Proprio per questo motivo, in quel periodo, la legge sull'adozione si preoccupava unicamente di dare ai bambini una famiglia "stabile" senza prendere in considerazione gli effetti generati dalla separazione dei figli dalla propria famiglia d'origine.
Non si era ancora consapevoli delle ripercussioni della separazione iniziale sulla psiche dei bambini, del senso di discontinuità psicologica provocato dai ripetuti affidi, e dell'effetto negativo degli affidi a determinate istituzioni.
In seguito, la normativa dell'ordinamento penitenziario ha affrontato il problema in modo diverso e più articolato, ma segnato ancora dall'ideologia tradizionale e soprattutto punitiva. Da una parte, infatti, ha affermato la centralità della figura materna nello sviluppo dei bambini, nel momento in cui ha permesso alla detenuta che lo desideri o non abbia altri a cui affidare i figli piccoli di tenerli con sé in carcere; dall'altra, la struttura carceraria non è stata modificata in vista della presenza di un bambino. Tutto è stato lasciato alla madre e alla buona volontà delle altre detenute, delle vigilatrici e degli operatori.
Come può, allora, una detenuta madre senza la presenza di strutture e servizi idonei, sviluppare un corretto modello educativo per i propri figli?
Si presume, infatti, che la particolarità dell'ambiente carcerario favorisca un legame simbiotico tra madre e figlio, privo di contatti con l'esterno e vissuto dentro una realtà tutta femminile. Il rispetto degli orari, la ristrettezza degli spazi, il dover dipendere sempre dalla concessione di un permesso, il troppo silenzio o il troppo rumore, sono alcuni esempi di come sia difficile muoversi con un bambino che attraverso il rapporto con la madre scopre il mondo che lo circonda e richiede sempre nuovi stimoli e nuove risposte.
In questo contesto la madre ha una responsabilità enorme nel far avvertire il meno possibile al bambino ogni difficoltà e ogni ostacolo che la ristrettezza dell'ambiente carcerario può frapporre alle sue esigenze. Il carico di ansia e frustrazione che può scaturire da questo contesto non aiuta né l'equilibrio della madre né quello del bambino.
La situazione si presenta, pertanto, difficile e complessa e proprio la mancanza di strutture interne create per l'assistenza ai bambini fa nascere nelle detenute un grande interrogativo: tenere il figlio con sé o affidarlo a terzi?
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