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Il carcere
Il più sicuro, ma
più difficile mezzo di
prevenire i delitti, si è
di perfezionare l'educazione
Cesare Beccaria
1 - Introduzione
Il carcere "è una realtà che costringe a fare verità"[1] dentro se stessi, dato che pone ogni individuo davanti ad una domanda fondamentale, quella del valore della vita umana. Atei e credenti sono uniti innanzi a quest'aspetto della convivenza civile; davanti a questo 'specchio rovesciato di una società' . Il carcere è l'ambiente in cui emergono concretamente le contraddizioni e le sofferenze di una società malata. Il valore attribuito dalla società alla carcerazione è la misura della sua concezione dell'uomo.
Per i cristiani, la persona umana è il massimo valore e la sua dignità non può essere svalorizzata, snaturata o alienata nemmeno dal peggiore male che l'uomo possa compiere: "l'errore indebolisce e deturpa la personalità dell'individuo, ma non la nega, non la distrugge, non la declassa al regno animale, inferiore all'uomo[3]".
Ogni uomo è parte vitale del tessuto sociale in cui vive; opprimere, emarginare,
disconoscere o addirittura sopprimere chi compie un reato non favorisce il bene comune, ma contribuisce a mantenere un clima sociale instabile e lacerato; è necessario, invece, seguendo le riflessioni sul significato della detenzione del Cardinal Martini, percepire il carcere come una delle tappe civili di un percorso di sofferenza.
Le tappe possono essere così suddivise:
La prima è quella delle sofferenze arrecate alle vittime dei reati, ferite fisiche o morali provocate ai danni dei cittadini o alla collettività. E' l'aspetto più clamoroso, quello che colpisce più da vicino le persone ed il loro immaginario.
Secondariamente occorre porre l'attenzione sui livelli di difesa, cioè su come una società difende efficacemente i cittadini aggrediti, tema su cui attualmente è posta molta enfasi. E' l'aspetto della socialità, della solidarietà e della prevenzione. E' sentimento comune che in una società profondamente frammentata come la nostra, è possibile esercitare la prevenzione dei reati soltanto infondendo nei cittadini una coscienza diffusa di resistenza e condanna del crimine.
Successivamente occorre riflettere su come le istituzioni prevengono l'insorgenza del crimine e quali deterrenti usano per incoraggiare il rispetto delle leggi. E' l'area della politica e del bene comune. Quali indirizzi politici per una reale prevenzione? Quali priorità assegnare a chi si occupa direttamente di prevenzione? Quanto investire, anche economicamente, in questo ambito? Queste sono le gravi domande che è necessario si ponga chi si assume la responsabilità politica di guidare ed ispirare le leggi dello Stato. A questo proposito Eugen Wiesnet affermando che "un ordinamento che dialoga con la cittadinanza solo in termini di forza, di minaccia intimidativa e di neutralizzazione, non è in grado di ottenere una buona prevenzione"[4], mette a nudo le contraddizioni presenti e passate di molti ordinamenti giuridici penali.
Infine va considerato come la società punisce i colpevoli, con quali mezzi, con quali operatori, con quali scopi e, soprattutto, come pensa di risocializzare e ristabilire chi ha sbagliato.
Questi sono grandi problemi che coinvolgono molteplici aspetti della vita civile e sociale di tante persone e, per affrontarli, è necessario un senso di "corresponsabilità sociale"[5] fra tutti i cittadini.
Un aspetto importante da mettere in risalto è l'attuale affidamento esclusivo del carcere ai soli addetti ai lavori. E' in atto una specie di privatizzazione del sistema carcerario il quale, pur essendo gestito dallo Stato, non viene considerato alla pari di altre istituzioni pubbliche (sanità, scuola, forze armate, ecc.). La realtà carceraria esce dal "cono d'ombra" dell'esclusione, solo in casi particolari: evasioni, arresti eccellenti, situazioni di particolare disagio, suicidi o violenze all'interno dei penitenziari. Di ciò che succede all'interno delle Case Circondariali, conosciamo solo il lato negativo o quello che fa "audience". E' importante sottolineare, sotto quest'aspetto, lo sforzo quotidiano di migliaia di persone (agenti del corpo di polizia penitenziaria, funzionari ministeriali, impiegati, volontari) che faticano e si interessano di questa varia umanità a loro affidata, senza avere un riconoscimento dell'alto valore morale, sociale e civile del servizio che rendono alla comunità civile; servizio svolto per quella stessa società civile che, per paradosso, esclude ed isola quella parte di sé, cioè i cittadini reclusi, per la quale dovrebbe essere motivo e modello per una positiva integrazione sociale.
L'opinione pubblica, che spesso è malamente informata dai mass media, "oscilla fra la soddisfazione emotiva per la punizione, il meccanismo del capro espiatorio, la fiducia nell'efficacia della retribuzione e dall'altro lato, nel riconoscimento poco convinto della necessità dell'aiuto sociale"[6]. Nondimeno gli edifici penitenziari, spesso, sono posti ai limiti estremi dei territori delle città, dove non vi approdano neanche i mezzi pubblici; quasi a rinforzare, in modo tangibile, l'idea di espulsione, di isolamento sociale, di allontanamento dagli spazi principali della città e dalla comunità degli uomini.
"Appare oggi più evidente l'inadeguatezza di misure repressive o punitive che un tempo la società non poneva in questione"[7], il Cardinale, con queste parole, indica la strada per un superamento della visione dello stato di detenzione come una vendetta dello Stato nei confronti di chi ha sbagliato, di chi ha infranto le regole della società civile. Lo Stato ha il diritto-dovere di difendersi dalle persone che portano disordine, ma questa difesa non può esser avvilente, non deve schiacciare la dignità della persona.
L'esperienza mondiale della pena "retributiva", basata esclusivamente sulla privazione della libertà del condannato ai fini della espiazione della colpa, è del tutto fallimentare. Innanzitutto per l'alto tasso di ricadute: circa il 70% degli attuali detenuti ha già avuto un'esperienza di carcerazione. In aggiunta a questo, è necessario considerare che "gli effetti sfavorevoli sulla personalità del detenuto, di sanzioni privative della libertà personale, superano di gran lunga qualsiasi portata positiva per la sua socializzazione"[8]. Il risultato della permanenza in carcere è l'abbruttimento spirituale, la rabbia, il profondo rancore verso quella società già prima odiata o non compresa, che ora punisce, rinchiude ed isola senza offrire strumenti per comprendere gli errori commessi, senza guidare il detenuto attraverso il difficile percorso di risocializzazione. Come è possibile, si chiede Albinati, in questo tipo di carcere, "ammettere come sbagliata la propria vera vita e come giusta la sua mortificazione, la sua punizione "?
Il grande pathos di cui l'idea retributiva riveste la punizione si converte in modo perverso, nel suo esatto contrario; infatti, grazie all'internamento, il detenuto dovrebbe abbandonare la sua condotta antisociale assumendo un nuovo atteggiamento sociale integrato, ma il risultato è per la maggior parte delle volte l'assoluta mancanza di socializzazione. La detenzione si trasforma in un soggiorno in una "casa del nulla"[10]nello spazio più "non-luogo" che esista.
E. Wiesnet ha definito le prigioni europee negli ultimi duecento anni come "efficienti fabbriche di desocializzazione ad alto tasso di recidivismo", questo perché molte persone anziché migliorare divengono maggiormente asociali ed antisociali (carcere = scuola di crimine). E' ormai un fatto storico che dopo l'ultimo indulto del 1989/90, una gran parte degli ex carcerati è ritornata in cella dopo breve tempo, a causa di nuovi crimini. Tutto questo mette in discussione oltre all'istituto della carcerazione-isolamento come pena ai fini di una risocializzazione, ma anche il nostro modo personale di vivere il "castigo",perché è vero che "siamo un po' tutti prigionieri di modelli sanzionatori" e facciamo fatica ad immaginare prospettive alternative di punizione.
"Le leggi e le istituzioni penali di una società democratica hanno senso solo se sono tese al ricupero di chi ha sbagliato, se operano in funzione dell'affermazione e sviluppo della sua dignità"[14]. L'affermazione del Cardinale Carlo Maria Martini punta diritto al cuore del problema: è davvero possibile credere che nella persona detenuta ci sia un uomo od una donna da rispettare, salvare, promuovere ed educare?
Su questo "campo" si gioca tutta la "partita", anche politica, del valore della risocializzazione che coinvolge tutte le istituzioni pubbliche, iniziando dallo Stato, e passando alle Regioni, le Provincie, i Comuni, ma anche i quartieri, i rioni e le associazioni dei cittadini. Visto da questa angolazione, la questione della risocializzazione delle persone detenute, non rimane un problema solo per addetti ai lavori, ma si presenta come una questione per la società tutta; dal momento che l'espressione di una buona qualità della vita nella nostra società è data dal grado di coinvolgimento della gente alla vita pubblica. In una società vivibile il carcere diventa accettabile, diventa causa di riscatto, importante motivo per un futuro migliore; una pena, quindi, che comporti una ricomposizione tra la società ed il reo e non una ulteriore frattura, che va ad aggiungersi alla frattura creata dal colpevole.
L'orientamento al recupero sociale del condannato, non costituisce un cedimento rispetto alle esigenze di prevenzione del crimine, ma al contrario, mira all'obiettivo di consolidare in maniera rilevantissima l'autorevolezza dei precetti normativi e delle leggi.
Non più un'idea di giustizia come bilancia, come aggiunta di male ad altro male, ma come risposta sanzionatoria che cerchi di ristabilire un equilibrio precedentemente sconvolto dal colpevole: chi ha sbagliato deve percorrere un cammino di ritorno verso la realtà di partenza, verso il recupero della propria dignità ed il rientro nella comunità. Riconoscere il valore della società, insegnare ad appagare i propri bisogni fondamentali e relazionali (amicizia, amore, reciprocità, scambio, solidarietà) ed educare alla responsabilità di se' stessi e degli altri, sono gli ambiziosi obiettivi da perseguire per una reale e duratura risocializzazione.
2 - La popolazione detenuta
Il 31 settembre 2001[15], nei 205 istituti penitenziari, 51 case mandamentali, 6 Ospedali Psichiatrici Giudiziari italiani, erano presenti 55.539 persone. La cifra comprende imputati, condannati "a tempo pieno" e semiliberi. Del totale 53.082 sono uomini, 2.457
donne, 14.500 circa sono gli stranieri. Dall'anno 1983 (punto d'apice della detenzione a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta) al 2000, la popolazione detenuta in Italia è cresciuta di più di 13 mila unità. Il tasso di detenzione è di circa 90 detenuti ogni 100.000 abitanti. Era dal 1952 che non si aveva un tasso così elevato.
Centosei tra gli istituti di pena italiani[16], il 48% del totale, hanno una percentuale di sovraffollamento superiore del 120% rispetto al numero dei posti disponibili. Diecimila presenze in più significano una serie di pessime cose: più sofferenza per i detenuti che in termini di legge sono condannati alla privazione della libertà, ma a questa privazione si aggiunge il sovraffollamento che è una pena accessoria non prevista dalla legge»[17].
Per gli operatori penitenziari, diecimila presenze in più, significa condizioni di lavoro, già di per sé stesse difficili, rese ancora meno sopportabili
Il sovraffollamento di 10-15.000 unità significa, per il sistema carcerario italiano, riduzione degli spazi fisici e non comporta solamente letti a castello o materassi per terra, ma significa anche «avere meno stanze, o non avere letteralmente stanze, locali per le scuole, per i laboratori, per le attività trattamentali»[18].
Il Consiglio d'Europa[19] descrive una situazione di diffuso sovraffollamento nel vecchio continente. Nelle carceri italiane vi sarebbe una densità globale di 129.6 detenuti per 100 posti disponibili. Il sovraffollamento risulta più grave in Estonia (163 detenuti per 100 posti), in Bulgaria (157), in Romania (140) ed in Portogallo (133). Negli altri grandi Paesi dell'Unione europea la situazione è sensibilmente migliore: in Francia 109, nel Regno Unito 108 e in Germania 103 detenuti per posti disponibili.
Al 31 dicembre 1999 i detenuti in attesa di giudizio erano 23.949, il 46.22% del totale, contro i 27.865 condannati definitivi: 14.055 in attesa di primo giudizio, 7.206 appellanti, 2.688 ricorrenti i Cassazione.
Il sistema penitenziario deve sostenere dunque il carico di circa 25mila persone presunte innocenti recluse. Ciò a causa sia dell'estrema lentezza dei processi che della inapplicabilità delle misure cautelari non detentive nei confronti di persone prive di riferimenti utili all'esterno, in quanto socialmente emarginate.
Si pensi che la percentuale dei detenuti stranieri in attesa di giudizio è il 63% del totale degli stranieri detenuti. Nei confronti di queste persone, in quanto non colpevoli , non è attivabile un percorso di reinserimento e risocializzazione e dunque le stesse condizioni di detenzione finiscono per essere paradossalmente più frustranti che per i condannati.
Dei 13.726 detenuti in attesa di primo giudizio al primo gennaio 2000, 1.510 hanno trascorso oltre 18 mesi di custodia cautelare, mentre 6.221 meno di tre mesi. Per i primi la pena è in parte scontata già prima dell'eventuale condanna.
I detenuti condannati all'ergastolo al 10 febbraio 2000 erano 1.193, di cui 672 definitivi
Sempre al primo gennaio 2000, tra i reati ascritti alla popolazione detenuta, i più ricorrenti sono quelli contro il patrimonio (furto, rapina, danneggiamento, truffa), pari al 25.14%. Seguono i reati commessi in violazione della legge sugli stupefacenti, pari al 20.39% del totale. I reati contro la persona (omicidio, lesioni, violenza sessuale, ecc.) sono il 13.46%. Solo il 2.42% sono i detenuti per i reati di "associazione a delinquere di stampo mafioso". L'area dei detenuti per fatti risalenti agli episodi di terrorismo e di lotta armata degli anni Settanta e Ottanta, un tempo particolarmente ampia, è ormai significativamente ristretta. Nella sua dimensione complessiva (che comprende gli appartenenti sia a organizzazioni di sinistra, sia a quelle di destra) riguarda 192 persone, di cui 103 usufruiscono di benefici quali semilibertà o ammissione al lavoro esterno o affidamento in prova ai servizi sociali. Il complessivo numero comprende 94 condannati all'ergastolo, alcuni dei quali ammessi ai benefici previsti dalla legge.
La percentuale di donne sulla popolazione carcerata al 31 dicembre 1999 era del 4.12%.
Tendenzialmente la componente femminile è condannata a pene inferiori rispetto alla popolazione totale detenuta. Il 17.60% delle detenute è priva di titolo di studio e un quinto di esse è analfabeta. Il 33% possiede il diploma di scuola media inferiore. Un altro 33% ha il diploma di scuola media superiore o titoli di formazione professionale, il 5.5 % è laureata. Il numero di disoccupate o in cerca di occupazione è molto alto ed è vicino al 70%.
Il 33.70% dei reati commessi da donne è legato a violazioni della legge sulla tossicodipendenza, il 22.24% da reati contro il patrimonio, il 12.82% da reati contro la persona. 33 sono le donne detenute per reati di "associazione a delinquere di stampo mafioso".
Al primo gennaio 2000, dei 52.854 detenuti, 14.841 ( il 28% del totale) erano nati all'estero: le comunità più rappresentate, quelle che superano le mille unità , sono quella albanese (2.104 detenuti), algerina (1.180), jugoslava (1.000), marocchina (3.096), tunisina (2.148).
La maggioranza assoluta delle persone detenute rientra nella fascia giovanile. 27.732 detenuti, pari al 52,4% della popolazione in carcere al primo gennaio 2000, hanno un'età compresa fra i 18 e i 35 anni.
La percentuale complessiva dei disoccupati e degli inoccupati, precedentemente all'ingresso in carcere, è del 33.9%, a cui si deve aggiungere un 41.91% con una condizione lavorativa non rilevabile. Si tratta generalmente di extracomunitari o di persone fuori da ogni contesto integrato. 12.951 sono i detenuti che all'ingresso in carcere risultavano titolari di una posizione lavorativa definita.
Fra i non rilevati, privi di qualsiasi titolo di studio, gli analfabeti e coloro i quali hanno il solo titolo di licenza scuola elementare, si raggiunge la percentuale complessiva di chi non ha assolto l'obbligo scolastico del 56.34% del totale della popolazione detenuta. Solo lo 0.84% ha una laurea e il 3.67% ha un diploma di scuola media superiore. La licenza media costituisce il livello di istruzione raggiunto dal 35.64% dei detenuti, mentre il 3.5% ha conseguito un diploma di scuola professionale.
Ecco quindi che il maggior numero di persone "selezionate" per il carcere è: giovane, senza lavoro e con un livello di istruzione molto basso. E' l'area del disagio sociale che, purtroppo, ingrossa le file della criminalità.
Tabella n° 2
POPOLAZIONE PENITENZIARIA SECONDO LE POSIZIONI GIURIDICHE |
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Data |
Imputati |
Condannati |
Internati |
Totale |
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Giudicabili |
Appellanti |
Ricorrenti |
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N.B. Giudicabili = In attesa di giudizio
3 - Che cos'è il trattamento penitenziario
Il trattamento penitenziario è il regime cui è sottoposta la generalità dei detenuti ed è un diritto sancito dall'Art. 27 della Costituzione Italiana:
La responsabilità penale è personale.
L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.
Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
Non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra
Nello specifico è necessario distinguere i contenuti del trattamento per persone in attesa di giudizio, che devono essere "trattati" in assoluto ossequio del principio di non colpevolezza ed i condannati in via definitiva. Il trattamento verrà individualizzato, dopo aver verificato le effettive risorse e necessità della persona, in vista di una concreta risocializzazione.
Sotto l'accezione di risocializzazione si comprendono tutte quelle attività culturali e ricreative, formative e lavorative che dovrebbero coinvolgere l'intera popolazione carceraria e consentire a tutti i "ristretti" di costruirsi il proprio percorso rieducativo. Nel trattamento rientrano sia attività che hanno come scopo quello di impegnare la giornata delle persone detenute, mantenendo vivi i loro interessi o stimolandone di nuovi, sia interventi finalizzati a favorirne il reinserimento sociale, soprattutto attraverso l'apprendimento o la pratica di una attività lavorativa.
La differenza tra "interventi di trattamento" penitenziario, diretti genericamente a tutta la popolazione detenuta e il "trattamento rieducativo", riservato specificamente ai condannati in via definitiva, è esplicitata nel primo articolo del DPR n° 230 del 30/6/2000 - Regolamento ordinario Penitenziario
ART. N° 1 - Interventi di trattamento -
Il trattamento degli imputati sottoposti a misure privative della libertà consiste nell'offerta di interventi diretti a sostenere i loro interessi umani, culturali e professionali.
Il trattamento rieducativo dei condannati e degli internati è diretto, inoltre, a promuovere un processo di modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti personali, nonché delle relazioni familiari e sociali che sono di ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale.
Le disposizioni del presente regolamento che fanno riferimento all'imputato si estendono, in quanto compatibili, alla persona sottoposta alle indagini.
- Gli attori del trattamento
La promozione di attività per i detenuti è l'ambito in cui maggiormente si realizza l'interazione tra l'istituzione carcere e la comunità esterna, sia per le finalità ultime di queste attività e sia per il fatto che molte di esse sono promosse, organizzate o realizzate con l'apporto di operatori volontari o comunque non appartenenti allo staff penitenziario.
Resta comunque prioritario il ruolo dell'istituzione penitenziaria che, tramite i Provveditorati Regionali e le Direzioni degli Istituti, effettua la selezione, pone dei vincoli e sottopone a controllo quantitativo e qualitativo tutte le attività che si svolgono all'interno delle mura del carcere, da quelle di formazione-lavoro a quelle più genericamente culturali e ricreative.
Un ruolo importante nel definire, orientare e valutare i percorsi trattamentali del singolo detenuto, è affidato alla figura dell'educatore, che è chiamato, insieme ad una apposita equipe formata da operatori penitenziari e da esperti (psicologi e criminologi), ad effettuare quello che la legge chiama l'"osservazione scientifica della personalità". (Art. 27 DPR 230/2000)[i]
3.2 - Il contributo al trattamento da parte di agenzie esterne al carcere
L'apporto della comunità esterna può assumere la forma del contributo di un ente istituzionale, che svolga all'interno del carcere le proprie competenze ordinarie, ad esempio la Scuola Statale, oppure del contributo di un'istituzione che abbia accesso alle mura penitenziarie per la realizzazione di interventi specifici, come avviene per esempio con i progetti delle ASL rivolti ai detenuti tossicodipendenti.
Altra forma di apporto della comunità esterna è quella del volontariato e del privato sociale che è regolata dall'art. 68 del DPR 230/2000[ii].
Gli operatori volontari in carcere si dividono tra chi svolge un'opera di tipo assistenziale e chi si impegna nell'ambito di specifici progetti di intervento per la realizzazione di attività culturali, ricreative o formative.
Il volontariato penitenziario è prevalentemente di matrice cattolica anche se cominciano ad organizzarsi anche gli esponenti della religione musulmana.
Nella realizzazione di attività di tipo culturale, ricreativo e di tipo formativo, il volontariato confessionale è sempre più affiancato dall'apporto di volontari del terzo settore di matrice non religiosa.
Secondo il SEAC (organismo che riunisce enti e associazioni del volontariato penitenziario di orientamento cattolico) sarebbero 473 le organizzazioni no profit che operano in questo campo e 16.724 i volontari che prestano la loro opera all'interno delle mura degli istituti penitenziari e sul territorio.
3.3 - I destinatari del trattamento
Una cospicua parte della popolazione detenuta incontra molte difficoltà ad accedere al trattamento penitenziario.
Solo un quarto[20] del totale dei detenuti in Italia ha accesso alle attività lavorative; molto più basse sono poi le percentuali di coloro che hanno la possibilità di frequentare corsi scolastici o professionali; le attività culturali e ricreative sono presenti presso gli istituti solo "a macchia di leopardo".
Quando l'Istituto carcerario offre attività "trattamentali", con riferimento all'art. 49 del DPR 230/2000[21], effettua delle selezioni tra i potenziali fruitori del trattamento. I criteri di scelta possono essere: durata della pena, previsione dei tempi di permanenza all'interno dell'istituto, coerenza con il percorso individuale di trattamento, parere degli operatori carcerari e di eventuali insegnanti scolastici.
Le principali attività di trattamento sono:
il lavoro dentro e fuori il carcere
la frequenza a corsi scolastici
le attività di formazione professionale
le attività culturali e ricreative
- Il lavoro
Il lavoro effettuato dal detenuto non deve essere di carattere afflittivo o strumento di punizione, ma al contrario mezzo di reinserimento.
L'attività lavorativa è prevista e regolata dall'art. 49 dell'Ordinamento penitenziario, che distingue anzitutto tra lavoro interno ed esterno.
Il lavoro interno è quello che si effettua dentro l'istituto penitenziario e si distingue, a sua volta, in lavoro domestico e di produzione[22].
Per lavoro domestico si intendono quelle mansioni di media o bassa qualifica (scopino, portavitto, spesino, bibliotecario, barbiere, giardiniere) necessarie affinché sia garantito il mantenimento dell'istituto e sono di scarsa qualificazione dal punto di vista professionale.
Il lavoro interno in attività produttive, industrie e aziende agricole, è concentrato in pochi istituti ed occupava, al 30 gennaio 2000, esclusivamente 675 persone[23].
I lavoranti interni sono dipendenti dell'Amministrazione penitenziaria e sono regolarmente retribuiti per il lavoro svolto. Il detenuto lavorante è equiparato al comune lavoratore, godendo, in linea di massima, delle medesime garanzie.
Periodo 30/6/90 - 30/6/2000
Il lavoro esterno è caratterizzato dalla possibilità data ad una persona detenuta di prestare la propria opera all'esterno del carcere a seguito di autorizzazione della Direzione e approvazione della Magistratura di Sorveglianza.
Il lavoro all'esterno del carcere è considerato una "misura alternativa impropria" dall'Ordinamento, e quindi sganciato dalla progressione dell'opera rieducativa, ma, è opinione comune che l'attività lavorativa abbia anche una valenza pedagogica e quindi faccia parte del programma individuale di trattamento[24].
La funzione del lavoro, in generale, è quella di favorire la concreta possibilità di un soggetto detenuto alla risocializzazione ed al reinserimento sociale. Da un lato, dovrebbe servire a rendere meno disagevole la condizione della detenzione, garantendo ai detenuti un minimo guadagno utile per le proprie necessità quotidiane e qualche volta per aiutare la famiglia all'esterno; dall'altro, dovrebbe dare la concreta speranza di reinserimento al momento del ritorno alla libertà, magari con l'acquisizione di competenze specifiche spendibili sul mercato del lavoro[iii].
Lavorare, anche se in una mansione scarsamente qualificata, offre due concrete ed immediate possibilità alla persona detenuta:
T trascorrere qualche ora in più fuori dalla cella variando i ritmi della quotidianità detentiva;
T ottenere una fonte di reddito con cui accedere al sopravvitto, pagarsi le spese legali e pesare meno sul bilancio della famiglia di origine.
Quest'ultima voce non è da sottovalutare, considerato che gran parte della popolazione detenuta è non abbiente o proviene da contesti familiari non ricchi.
La Legge del 22 giugno 2000 n. 193 (Legge Smuraglia) mira ad incentivare la domanda di lavoro penitenziario, prevedendo degli sgravi fiscali per le imprese che assumono i detenuti (sia all'interno degli Istituti di pena, sia ammessi al lavoro esterno) e gli ex detenuti (nei sei mesi successivi alla scarcerazione).estendendo le agevolazioni fiscali già previste per le cooperative sociali.
Tabella n°4 - Detenuti lavoranti e detenuti presenti
3.5 - Scuola e formazione
Scuola e formazione rappresentano esempi di attività che vengono svolte all'interno degli istituti penitenziari pur restando di competenza di istituzioni esterne, che mantengono il controllo sull'organizzazione, la gestione e la programmazione di queste attività.
Il finanziamento di queste attività può arrivare dall'Amministrazione penitenziaria o dall'Ente gestore, attraverso il sostegno di fondi europei o di altro tipo.
E' da segnalare, inoltre, la presenza di volontari che sostengono i detenuti nella preparazione di esami da privatista, provvedendo ad un coordinamento organizzativo per rendere disponibili più persone per il sostegno didattico.
I percorsi scolastici e formativi risultano essere spesso "in salita", poiché numerosi motivi possono limitare la partecipazione: ad esempio la permanenza in carcere per pene brevi o brevissime, oppure i trasferimenti da una casa circondariale all'altra.
Le statistiche ci segnalano che, davanti alle tante emergenze quotidiane del "sistema carcere", il problema della formazione e dell'insegnamento rimane in secondo piano, e fatica ad inserirsi organicamente nell'attività trattamentale.
Detenuti presenti anno 2000 |
Corsi professionali attivati |
Detenuti iscritti |
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3.6 - Attività culturali e ricreative
Il Regolamento di esecuzione esplicita la possibilità di realizzare attività trattamentali in senso lato, non strettamente connesse alle attività rieducative, finalizzate a "sostenere gli interessi umani, culturali e professionali" delle persone detenute, indipendentemente dalla loro posizione giuridica di condannati o imputati. Tra queste rientrano le attività di tipo culturale e ricreative.
Per legge, i penitenziari devono:
T disporre di una biblioteca accessibile a tutte le persone detenute[26]
T organizzare attività culturali, ricreative e sportive, usufruendo per questo di spazi appositamente attrezzati oppure di spazi all'aperto.
Le carenze strutturali sono uno dei principali limiti all'organizzazione ed alla realizzazione di attività di tipo culturale e ricreativo, e così anche se in modo variegato, il panorama delle carceri italiane mostra situazioni del tutto disomogenee quanto a quantità e qualità dell'offerta di attività interne.
Le iniziative principali sono generalmente:
gruppi di recitazione e teatro
sport e attività fisiche all'aperto
redazione di giornali interni al carcere
laboratori di cucito e ricamo
laboratori di hobbistica
yoga e pratiche di meditazione
Una delle più tradizionali, conosciute e diffuse è la redazione dei giornali interni.
Giornali dal carcere e non del carcere: la maggior parte del giornalismo penitenziario esistente si propone come obiettivo di rompere l'isolamento tra 'interno' ed 'esterno' per promuovere e favorire il dialogo tra queste diverse realtà.
In Italia, sin dai secoli scorsi, la letteratura carceraria vanta illustri precedenti autobiografici. I libri realizzati in carcere, che ne testimoniano le condizioni di vita a partire dal vissuto soggettivo dei suoi ospiti, sono numerosi, ma la nascita di un giornale carcerario, con redazioni permanenti negli istituti è una conquista relativamente recente.
"Ristretti Orizzonti", periodico di informazione e cultura del Carcere Due Palazzi di Padova, "Magazine 2" di San Vittore a Milano, "Effatà" dell'Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Reggio Emilia, "Informatutto" foglio di informazione interno della Casa di reclusione Ranza di San Gimignano, "Il cammino" bimestrale del carcere di Secondigliano, lo storico "La Grande Promessa" (nata nel 1948) rivista della Casa di Reclusione di Porto Azzurro, sono solo una parte dei titoli dei periodici "dentro".
Il giornale dal carcere è un modo di raccontare con un'immagine più realistica la situazione carceraria; uno strumento capace di diventare punto di riferimento e di aggregazione per tutte quelle figure in grado di produrre iniziative culturali a favore del carcere.
Una novità in questo campo è caratterizzata da Internet.
Alcuni periodici hanno creato la propria pagina WEB, cercando di ampliare maggiormente il confronto con chi sta fuori, facendo conoscere la realtà del carcere.
Questa risulta essere un'attività abbastanza particolare, poiché, attualmente, ai singoli detenuti, è negato l'accesso ad Internet e quindi occorre molta fantasia e creatività per poter apprendere in pieno le potenzialità della Rete.
Su questo argomento, i giorni 16 e 17 novembre 2001, si è svolto il 2° convegno nazionale "Informazione e Carcere - I giornali del carcere e altro" a Firenze; i giornali e le altre realtà dell'informazione dal carcere si sono ritrovati con l'obiettivo di stare insieme per contare di più e per contribuire con forza a rendere il carcere più trasparente. Vogliono uscire dallo stereotipo di essere considerati dei 'giornalini', forse lo sono anche, ma ora vogliono uscire dall'età dell'infanzia insieme ai detenuti che li scrivono (non a caso, in carcere si parla spesso con i diminutivi: spesino, domandina, giornalino.). Da circa tre anni esiste un coordinamento dei giornali che lavora per tenere insieme le 60 testate esistenti nelle carceri italiane: giornali che si occupano di informazione, ma che raccontano anche storie personali che servono a sfogare la rabbia e il disagio. Informare di più e meglio dal carcere significa, per i detenuti, vivere un po' più serenamente ed essere meno isolati.
Gli impegni concreti sviluppati nel convegno sono stati:
rafforzare le strutture regionali di coordinamento dei giornali e il loro rapporto col territorio. Esiste già un coordinamento in Campania, ne stanno nascendo in Toscana e nel Veneto, con l'obiettivo di dare maggior forza e incisività ai giornali esistenti e stimolare la nascita di altre realtà dell'informazione, là dove non ne esistono ancora. Le iniziative proposte sono molteplici ed affidate alla creatività ed alle possibilità delle redazioni. Si possono realizzare dei TG, come il TG Due Palazzi di Padova, o trasmissioni radio (direttamente dal carcere, come Radio Evasione a Padova, o all'esterno, ma con spazio dedicato a interviste dei detenuti, come fa Radio Popolare a Milano). O ancora siti Internet, come www.ristretti.it (Centro di Documentazione Due Palazzi) e www.ildue.it (San Vittore) o www.opgaversa.it. Un'altra possibilità è quella di promuovere campagne di informazione che coinvolgano giornali "esterni". A questo proposito, è da segnalare, l'esperienza promossa dal giornale di strada "Terre di Mezzo" in collaborazione con "Ristretti Orizzonti" e "Magazine 2", con l'inchiesta sulle 'Famiglie incarcerate';
cercare un rapporto dialogante, come coordinamento giornali, con il Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria, in modo da poter 'contrattare' proposte condivise;
creare un Ufficio Stampa Nazionale dei giornali del carcere (idea avanzata dal detenuto Francesco Morelli di "Ristretti Orizzonti") in grado di coordinare iniziative impegnative, come ad esempio, la campagna di informazione su AIDS e carcere organizzata dal Gruppo Abele in collaborazione con il Coordinamento dei giornali del carcere, ma anche denunce sui suicidi, inchieste sui problemi delle famiglie dei detenuti, produzione di materiale informativo su questi temi;
dare vita a una Federazione Nazionale dei giornali del carcere e del territorio (è stata presentata da Sergio Segio e Sergio Cusani), che raccolga tutte le realtà dell'informazione del carcere, i giornali di strada ed altri, che abbia una veste giuridica e possa far meglio conoscere le iniziative di informazione nel carcere e dal carcere.
C.M. Card. Martini, Per un ripensamento della giustizia penale, Intervento al Convegno "Colpa e pena", 2 maggio 2000, Centro Congressi Giovanni XXIII, Bergamo.
L. Eusebi, Tesi per la riforma del Codice Penale, Intervento al Convegno "Colpa e pena", 2 maggio 2000, Centro Congressi Giovanni XXIII, Bergamo
L. Ferrari, Intervento al Convegno "Colpa e pena", 2 maggio 2000, Centro Congressi Giovanni XXIII, Bergamo
G. Acquaviva, Intervento al Convegno "Colpa e pena", 2 maggio 2000, Centro Congressi Giovanni XXIII, Bergamo
G. Caselli, ex direttore generale del dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, Intervento al Convegno "Colpa e pena", 2 maggio 2000, Centro Congressi Giovanni XXIII, Bergamo
A. Sofri, Rapporto degli ispettori europei sullo stato delle carceri in Italia, Sellerio, Palermo, 1995
"Il direttore dell'istituto assicura imparzialità e trasparenza nelle assegnazioni al lavoro avvalendosi anche del gruppo di osservazione e trattamento".
L'art. 51 del Regolamento prevede inoltre anche la figura di artigiano in proprio, ma si tratta di una figura residuale.
[i] Art. 27
Osservazione della personalità
L'osservazione scientifica della personalità è diretta all'accertamento dei bisogni di ciascun soggetto connessi alle eventuali carenze fisico-psichiche, affettive, educative e sociali, che sono state di pregiudizio all'instaurazione di una normale vita di relazione. Ai fini dell'osservazione si provvede all'acquisizione di dati giudiziari e penitenziari, clinici, psicologici e sociali e alla loro valutazione con riferimento al modo in cui il soggetto ha vissuto le sue esperienze e alla sua attuale disponibilità ad usufruire degli interventi del trattamento. Sulla base dei dati giudiziari acquisiti, viene espletata, con il condannato o l'internato, una riflessione sulle condotte antigiuridiche poste in essere, sulle motivazioni e sulle conseguenze negative delle stesse per l'interessato medesimo e sulle possibili azioni di riparazione delle conseguenze del reato, incluso il risarcimento dovuto alla persona offesa.
All'inizio dell'esecuzione l'osservazione è specificamente rivolta, con la collaborazione del condannato o dell'internato, a desumere elementi per la formulazione del programma individualizzato di trattamento, il quale è compilato nel termine di nove mesi.
Nel corso del trattamento l'osservazione è rivolta ad accertare, attraverso l'esame del comportamento del soggetto e delle modificazioni intervenute nella sua vita di relazione, le eventuali nuove esigenze che richiedono una variazione del programma di trattamento.
L'osservazione e il trattamento dei detenuti e degli internati devono mantenere i caratteri della continuità in caso di trasferimento in altri istituti.
[ii] Art. 68
Partecipazione della comunità esterna all'azione rieducativa
La direzione dell'istituto promuove la partecipazione della comunità esterna all'azione rieducativa, avvalendosi dei contributi di privati cittadini e delle istituzioni o associazioni pubbliche o private previste dall'articolo 17 della legge.
La direzione dell'istituto esamina con i privati e con gli appartenenti alle istituzioni o associazioni le iniziative da realizzare all'interno dell'istituto e trasmette proposte al magistrato di sorveglianza, con il suo parere, anche in ordine ai compiti da svolgere e alle modalità della loro esecuzione.
Il magistrato di sorveglianza, nell'autorizzare gli ingressi in istituto, stabilisce le condizioni che devono essere rispettate nello svolgimento dei compiti.
La direzione dell'istituto cura che le iniziative indicate ai commi precedenti siano svolte in piena integrazione con gli operatori penitenziari. A tal fine, le persone autorizzate hanno accesso agli istituti secondo le modalità e i tempi previsti per le attività alle quali collaborano.
In caso di inosservanza delle condizioni o di comportamento pregiudizievole all'ordine e alla sicurezza dell'istituto, il direttore comunica al magistrato di sorveglianza il venir meno del proprio parere favorevole, per i provvedimenti conseguenti, disponendo eventualmente, con provvedimento motivato, la sospensione dell'efficacia del provvedimento autorizzativo.
Al fine di sollecitare la disponibilità di persone ed enti idonei e per programmarne periodicamente la collaborazione, la direzione dell'istituto e quella del centro servizio sociale, di concerto fra loro, curano la partecipazione della comunità al reinserimento sociale dei condannati e degli internati e le possibili forme di essa.
[iii] Sempre al 30 giugno 2000, i detenuti impegnati in attività lavorativa, con lavoro esterno o interno erano 12591, pari al 23,61% della popolazione detenuta. Gran parte dei lavoranti (l'87,55%), lavorava alle dipendenze dell'Amministrazione penitenziaria, tolto il 5% che operava nelle officine penitenziarie, si evidenzia che l'82,55% dei lavoranti è generalmente impiegato in mansioni di basso livello professionale, funzionali più al mantenimento dell'istituto penitenziario che alla qualificazione professionale dei detenuti.
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