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Dalla deterrenza alla ri-educazione del reo
La responsabilità penale è personale
L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.
Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato
Non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra. (art. 27 Costituzione italiana)
Prima di addentrarsi in un excursus storico sulle pene e la detenzione, è da premettere che il carcere deve il suo riconoscimento come istituzione alla nascita delle leggi, e al principio di proporzionalità fra il reato commesso e la pena
Le pene difatti nascono con la valenza di deterrenti per i futuri crimini, intorno al seicento, con lo scopo di contenere la devianza, tramite il dolore che producevano nel soggetto: più c'era danno per il criminale rispetto al bene che poteva trarre dal reato, più effetto aveva la sanzione.
Lo stesso Focault, sostiene che in Sorvegliare e punire, il problema che ha voluto porre è stato «scoprire il sistema di pensiero, la forma di razionalità che, dalla fine del diciottesimo secolo, sottostà all'idea che la prigione è, in definitiva lo strumento migliore, uno dei più efficaci e dei più razionali per punire le infrazioni di una società».
Oggi, pur essendo cambiato il concetto di pena, ed essendo inoltre stati formulati e compresi anche nella Costituzione, i concetti di ri-educazione e ri-abilitazione del detenuto, i problemi inerenti le strutture penitenziarie e soprattutto l'identità delle persone, sono ancora molto forti e portano in luce nuovi aspetti su cui riflettere soprattutto per le nuove categorie di detenuti/e presenti in carcere, ed è su questo che si rifletterà durante lo sviluppo dell'elaborato.
La «devianza è una metafora che suggerisce, per via etimologica, un concetto centrale: l'esistenza di una via dalla quale uscire. [.] . Ora , la via è la norma in senso culturale e, in senso stretto, è la legge. Vale ricordare Paolo di Tarso , laddove egli sostiene che è la legge a creare, a dare adito alla trasgressione. Senza legge niente trasgressione, niente devianza, niente crimine». (Spinosi)
Per quanto concerne la pena è utile riportare il parere di Beccaria: «ogni pena che non derivi dall'assoluta necessità, dice il grande Montesquieu, è tirannica; proposizione che si può rendere più generale così: ogni atto di autorità di uomo a uomo che non derivi dall'assoluta necessità è tirannico. Ecco dunque sopra di che è fondato il diritto del sovrano di punire i delitti: sulla necessità di difendere il deposito della salute pubblica dalle usurpazioni particolari; e tanto più giuste sono le pene, quanto più sacra ed inviolabile è la sicurezza, e maggiore la libertà che il sovrano conserva ai sudditi» (Beccaria).
[La terza conseguenza è che] quando si provasse che l'atrocità delle pene, se non immediatamente opposta al ben pubblico ed al fine medesimo d'impedire i delitti, fosse solamente inutile, anche in questo caso essa sarebbe non solo contraria a quelle virtù benefiche che sono l'effetto d'una ragione illuminata che preferisce il comandare ad uomini felici più che a una greggia di schiavi, nella quale si faccia una perpetua circolazione di timida crudeltà, ma lo sarebbe alla giustizia ed alla natura del contratto sociale medesimo» (Beccaria)
A causa del crollo della società feudale, le città si erano riempite di persone in cerca di fortuna e le campagne svuotate, provocando così nel Seicento, un'ondata di mendicanti e diseredati che languivano nelle prigioni o meglio nelle case d'internamento, come erano chiamate all'epoca, colpevoli di delitti contro la proprietà.
Le punizioni usate contro chi aveva commesso reati erano di tipo corporale, sottoposte a guisa di vera e propria tortura fisica e teatralmente proposte al pubblico in modo da inibire ogni minima intenzione di commettere reato.
Questi supplizi dovevano quindi essere esemplari e portare una sofferenza calcolata a tavolino: le frustate, o l'uso di ferri roventi o le mutilazioni, dovevano lasciare cicatrici visibili perché il marchio dell'infamia commessa, perdurasse provocando un dolore non solo fisico ma anche spirituale, legato alla dignità personale degli individui, che erano così additati e riconosciuti dal popolo.
E' però nel Settecento che nasce il termine carcere con la valenza semantica di segregare, da coercere, è considerata un'istituzione totale ossia un posto in cui non solo si è separati completamente dalla società, ma dove le regole, le punizioni e le gratificazioni sono concesse dall'alto, da un potere che ammaestra e contiene, e dove tutte le attività sono svolte insieme a persone costrette a stare nello stesso posto per subire una pena.
Vi è quindi non solo la privazione della libertà ma anche l'introduzione di una routine lenta e inesorabilmente dilatata nel tempo che costringe i detenuti (dei vari ceti sociali) a vivere ogni giorno lo stesso giorno.
La relazione tra il reato e la pena andava specificata chiaramente e determinata in base alla gravità del reato stesso. Il pensiero degli Illuministi in materia di diritto penale è stato battezzato classicismo. Lo sviluppo di questo indirizzo è dovuto alla crescita del ceto borghese, per il quale la difesa contro l'ampia discrezionalità del potere della nobiltà feudale era una questione vitale. Il classicismo penale faceva parte di questa difesa. Il punto era che il cittadino e il nobile, avendo commesso il medesimo reato, dovevano ricevere una pena uguale»
Con questi principi illuministici, si volle portare alla luce anche la disperazione e l'intolleranza ai supplizi che aveva fomentato focolai di rivolta contro un regime punitivo, che ledeva la persona non solo fisicamente, ma anche moralmente e psicologicamente.
Con l'avvento della rivoluzione industriale le prigioni si adeguarono al nuovo tipo di società, divenendo più ligie, nell'imporre regolamenti e discipline meticolose e rigide che ricordavano gli assetti delle fabbriche del tempo.
Punire e mutilare chi doveva servire per lavorare nelle fabbriche e produrre, era controproducente e quindi dagli inizi dell'Ottocento la detenzione soppresse la punizione corporale contro i delitti commessi dai trasgressori.
La detenzione però non riusciva ad ottenere la "redenzione" dei rei, ma anzi fabbricava delinquenti, anche perchè la forma di cattività che essi subivano, li isolava nelle celle con le loro sofferenze e dolore personale, e in più li costringeva a svolgere dei lavori inutili e senza uno scopo che potesse in qualche modo gratificarli, e usciti dal carcere non potevano trovare impieghi.
La situazione, facendo un parallelo con l'odierno non è certo cambiata, difatti pur esistendo l'art. 46 dell'Ordinamento Penitenziario, inerente l'assistenza post-penitenziaria in cui «i detenuti e gli internati ricevono un particolare aiuto nel periodo di tempo che immediatamente precede la loro dimissione e per un congruo periodo a questa successivo.
Il definitivo reinserimento nella vita libera é agevolato da interventi di servizio sociale svolti anche in collaborazione con gli enti indicati nell'articolo precedente.
I dimessi affetti da gravi infermità fisiche o da infermità o anormalità psichiche sono segnalati, per la necessaria assistenza, anche agli organi preposti alla tutela della sanità pubblica» permangono malumori e contraddizioni che si possono notare anche in questi stralci di conversazione tra detenuti e volontari sul tema del trattamento penitenziario e della sua efficacia per cui «il trattamento dovrebbe servire a chi è in carcere per essere rieducato» ma il carcere non insegna davvero «principi solidi, sani e di onestà tali, da convincersi che quando uscirà dal carcere non andrà più a fare reati.»
La convinzione è che «pochi si salvano dalla recidiva: chi lo può fare è perché ha raggiunto in tanti anni di carcere la convinzione che il periodo di vita che gli resta da vivere lo vuole trascorrere cercando il più possibile di fare tutte le cose che stando in carcere non ha potuto fare; oppure chi si è fatto un'attenta analisi ed ha capito personalmente che non vale la pena continuare o chi in carcere c'è entrato per un incidente senza aver mai avuto frequentazioni di ambienti criminali. Le persone che appunto si salvano dalla recidiva lo fanno per scelta personale, o perché sono cambiate col passare degli anni, e non perché il carcere ha insegnato loro qualcosa o perché le ha rieducate.»
1.1.1 Il marchio del reo
Il detenuto era (e come si è visto poche righe sopra è ancora) l'escluso, colui che la gente teneva a distanza e non accettava perché diverso e marchiato dall'essere un pregiudicato e quindi non trovando un altro lavoro era gioco-forza costretto a riallacciare i rapporti con la malavita o comunque a vivere d'espedienti non sempre legali.
Anche in questo caso se si fa un raffronto immediato con l'oggi si può notare che per molti detenuti «il fine pena è la gioia per la fine di un incubo, ma può rappresentare anche l'inizio di un altro incubo». Un elenco, non certo esaustivo, dei problemi che gravano addosso a una persona che esce dal carcere nel Ventesimo secolo comprende:
«mancanza di affetti, amicizie, legami familiari, e difficile ricostruzione dei rapporti sociali;
perdita della residenza, visto che molti hanno la residenza nell'istituto di pena, ma anche elementare mancanza di un luogo dove dormire;
mancanza di un minimo di disponibilità economiche per le prime necessità e per gli spostamenti: a volte dal carcere si esce con qualche sacchetto, quelli neri per le immondizie, con i propri effetti personali, e basta;
mancanza di un lavoro, a volte anche per le persone che erano in affidamento ai servizi sociali con un discreto lavoro, ma poi si vedono messi 'alle strette' da quelle cooperative che danno lavoro solo a detenuti, e non anche ad 'ex'; assistenza medica, che a volte viene a mancare, se la persona perde la residenza che aveva fuori o in carcere;
mancanza di un 'punto' di riferimento al di fuori del carcere, che finisce per sembrare quasi un luogo 'sicuro' rispetto a tutte le insicurezze del 'dopo'; crisi di identità per chi, senza rapporti affettivi, deve raffrontarsi con un ambiente fortemente critico per i suoi trascorsi».(Ristretti orizzonti Settembre 2004).
Dopo questa intrusione nella contemporaneità, torniamo però nel Diciannovesimo secolo, nel momento in cui la posizione nei confronti dei detenuti si modificò ulteriormente, e la detenzione acquisì la funzione di trasformare il comportamento del detenuto per poterlo ri-classificare a livello sociale.
Il lavoro presente nel carcere, lungi dall'essere professionalizzante, era eseguito a scopo terapeutico per poter togliere dall'ozio i detenuti, i quali vivevano nel silenzio assoluto, nell'autocontrollo fisico, nella meditazione e nella preghiera (Toschi 2002).
Introspezione e integrità erano i valori che si cercavano di trasmettere con questo tipo di pena detentiva fatta di isolamento tra i detenuti e silenzio, il reo doveva diventare una macchina programmata, doveva obbedire agli ordini ed essere efficiente null'altro.
Con il passare degli anni, resisi conto che il lavoro non produttivo costituiva a lungo andare diseducazione e conseguente calo di produttività, si cambiò tattica introducendo il lavoro produttivo in carcere.
Durante la metà del XIX secolo il carcere si riempì di disoccupati proletari in modo così massiccio da non permettere più delle finalità ri-socializzanti, e si trasformò così in una fucina dove venivano gestite ribellioni e comportamenti devianti di chi, non potendo accedere al lavoro, era escluso dalla popolazione produttiva.
Nel 1931 venne introdotto il Regolamento Rocco per gli istituti di prevenzione e pena: con esso si stabilirono regole basate sul lavoro, l'istruzione e le pratiche religiose, furono inoltre introdotti trattamenti individualizzati per le varie tipologie di persone carcerate, l'abitudine di chiamare per nome alcune categorie di detenuti, l'uso del lavoro come mezzo ri-educativo, e l'abolizione delle segregazioni cellulari.
Un rappresentante del Consiglio di patronato doveva visitare almeno una volta alla settimana l'Istituto in modo tale da offrire supporto morale ai ristretti e assicurarsi che chi usciva dal carcere avesse un posto dove andare.
Questa figura si era ritenuta necessaria anche perché la separazione tra famiglia e detenuto era ancora presente e quindi chi usciva dal carcere doveva affrontare anche delle difficoltà di reinserimento sociale molto elevate.
E oggigiorno? Ci sono delle leggi che tutelano, o comunque questo sarebbe il loro intento, i detenuti e le loro famiglie e il legame affettivo tra di loro.
L' art. 45 dell'ordinamento Penitenziario, dice, che «il trattamento dei detenuti e degli internati é integrato da un'azione di assistenza alle loro famiglie.
Tale azione é rivolta anche a conservare e migliorare le relazioni dei soggetti con i familiari e a rimuovere le difficoltà che possono ostacolare il reinserimento sociale.
É utilizzata, all'uopo, la collaborazione degli enti pubblici e privati qualificati nell'assistenza sociale».
Eppure anche se i «cosiddetti eventi critici, suicidi, tentati suicidi, atti di autolesionismo, vengono monitorati dal Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria per la popolazione detenuta» che cosa succede poi agli ex detenuti? «non interessa quasi più nessuno. Le notizie sono quelle raccolte da ex-compagni e da operatori che agiscono nell'ambito carcerario, e quello che emerge è che gli eventi critici nel dopo carcere continuano, eccome, solo che spariscono dalle statistiche: si tratta di suicidi, a volte morti violente, morti per overdose, emarginazione totale con conseguente abuso di alcool e droghe, commissione di nuovi reati, vite ai margini nelle schiere dei senza fissa dimora, tutte situazioni per le quali a volte l'unica soluzione sembra tornare ad accettare di 'essere ingaggiati' da associazioni criminali.»
1.1.2 Il carcere oggi
Procedendo con l'excursus storico, nella quasi totalità del XX secolo, il sistema penitenziario oscillò da struttura produttiva e ri-educativa a strumento di repressione e segregazione, e così le pene carcerarie seguendo l'onda politico-economica diminuirono da un lato e aumentarono dall'altro modificando i vari tipi di repressione legati al reato.
Fu dopo gli anni Settanta che si applicò ciò che il dettato costituzionale diceva nell'art. 27 per quanto concerne l'effetto ri-educativo della pena.
Dopo ondate di proteste e ribellioni avvenute anche e soprattutto dentro il carcere, si sancì con la legge n. 354 del 26 luglio 1975 la funzione ri-educativa della pena.
In questa riforma del '75 vengono indicate le strategie tramite interventi educativi e riabilitativi che permettono di creare un ponte tra il carcere e la società esterna e introducono la figura dell'educatore penitenziario come coordinatore di queste attività (Toschi 2002).
Grazie alla legge Gozzini del 1986 (n. 663 del 10 Ottobre) il detenuto può accedere a delle misure alternative al carcere mantenendo un comportamento corrispondente al Regolamento e ottenendo altresì una valutazione positiva da parte dell'educatore.
Questa legge ha creato i presupposti per i benefici e quindi per una situazione di positività per quanto riguarda la de-carcerizzazione del detenuto e il suo contatto con il mondo esterno (anche grazie ai permessi-premio), ma anche dei problemi per quanto riguarda il rapporto di sincerità con le figure operanti nel carcere e dei reali cambiamenti che muovono il detenuto a voler beneficiare di queste pene alternative al carcere.
Si deve tenere in considerazione anche l'impatto che il mondo esterno, dopo il tempo passato in detenzione, ha sui detenuti, e quindi come alcuni, nonostante riescano a beneficiare dei permessi o delle pene alternative al carcere, spesso abbiamo comunque dei problemi legati strettamente a questa loro condizione di semi-libertà.
Ad oggi le problematiche inerenti il re-inserimento sociale sono ancora molto forti, nonostante le leggi promulgate, la mancanza di educatori e il sovraffollamento, poiché portano a non avere la possibilità di seguire tutti i casi come vorrebbe il trattamento, ossia, in modo individuale, e inoltre i tempi di attesa per le chiusure di sintesi (che danno alla possibilità per il reo di poter accedere ai privilegi di legge) sono molto lunghi.
Una volta fuori poi, i problemi si moltiplicano perchè la condizione di semi-libertà non è semplice ne facilmente gestibile, in quanto le cadute nella recidiva sono dettate soprattutto dallo stato di abbandono che sentono pesare i detenuti sulle loro vite.
Alcuni sostengono che «la questione del trattamento e della rieducazione sia di ottimo principio ma estremamente velleitaria, nel senso che pensare a un'attività di trattamento e rieducazione generalizzata è assurdo, il trattamento, e lo dice anche l'ordinamento, deve essere individuale e questo non accade (vedi mancanza di educatori, di psicologi ecc.). Cioè, continua ad esserci una dicotomia tra un principio che vuole il reinserimento sociale delle persone e il sistema di pene che invece scaraventa quelle stesse persone fuori dalla società».
Altri pur ritenendo che «dal 1975 il trattamento è la cosa più importante che sia stata fatta per i detenuti» sottolineano che «andrebbe sostenuto, rafforzato, difeso, perché è l'unica alternativa al carcere custodiale, ad un carcere dove non ci sarebbero più possibilità di crescere in qualche modo, rimarrebbero solo l'aria e la cella».
Il trattamento è finalizzato alla rieducazione ed alla reintegrazione del reo, così dice la circolare del DAP qui analizzata. Uno dei problemi maggiori che si riscontrano nel carcere, però è la «de-responsabilizzazione totale delle persone in carcere, che vanno esattamente in senso opposto». Come sostiene anche la volontaria del carcere di Padova e di Venezia narrando anche un episodio, in cui la direttrice della Giudecca, mentre era in coda a un ambulatorio per fare delle analisi, «si è accorta che ad aspettare c'era anche una semilibera, agitatissima perché evidentemente le cose andavano a rilento e lei rischiava di rientrare in carcere in ritardo. A quel punto, la direttrice si è fatta avanti e, per rassicurarla, ha chiamato il carcere avvisando del possibile ritardo, ma neppure la sua telefonata è riuscita a tranquillizzare la detenuta.»
1.1.3 La parola ai detenuti
Oltre al problema dell'infantilizzazione c'è da aggiungere anche quello dell'alcolismo che può coinvolgere anche persone prima non avvezze a bere smodatamente.
Molto spesso accade che quello che porta alla revoca di un beneficio nella maggior parte dei casi non è un reato, ma più semplicemente una trasgressione a delle regole imposte non sempre facendo un'attenta valutazione della persona. L'esempio più classico è una persona che prima di essere detenuta non ha mai avuto problemi di alcol, poi magari sei in semilibertà, bevi un bicchiere di troppo, ti ubriachi e quindi rischi la chiusura dal beneficio e per anni non puoi chiedere di essere riammesso.»
Solo una volontà interiore molto forte permette di potersi redimere, come quella di Nicola che dice di volersi riappropriare di «quella fetta di vita che mi rimane, accontentandomi di quello che la vita mi vorrà ancora offrire
Per fare questo è però importante che «non ti rendano incapace di affrontare il mondo esterno quando ti verrà data la possibilità di farlo, ma al contrario ti diano la capacità di far fronte ai disagi che immancabilmente ti si presenteranno, altrimenti in un attimo si rischia di perdere, tutto quello, per ottenere il quale si sono fatti sacrifici enormi.»
Se all'esterno del carcere ci sono problemi di re-inserimento e ritorno ad una vita di indipendenza, non solo economica ma anche sociale, all'interno della struttura penitenziaria c'è, soprattutto guardando al caso italiano, un sovraffollamento crescente, tanto più che nel 2000 su 100 detenuti c'erano 2 educatori, mentre gli agenti erano circa 80.
Alcune detenute
quando il carcere è gremito parlano di «piena alta
stagione, alla Giudecca:
I problemi di una convivenza forzata sono incrementati anche dal poco spazio disponibile per muoversi, per mangiare, per avere dell'intimità, inoltre il bagno è in comune e quando «una lo occupa, le altre già si chiedono quanto tempo ci resterà dentro, come se aspettassero che sia occupato per averne bisogno, ma quella che è dentro non sa che le altre devono entrare, e quindi fa le cose con calma, e magari si sofferma anche davanti allo specchio, mentre cresce il nervosismo tra quelle fuori, divise tra la necessità e il fatto che non è bello disturbare qualcuno mentre è in bagno»
Le categorie di persona presenti nel carcere portano alla luce ulteriori problemi a livello sociale e di relazioni interpersonali, in quanto il detenuto medio è un individuo povero a livello culturale ed economico, straniero, tossicodipendente, con malattie anche psichiatriche e queste diversità, queste emarginalizzazioni portano ad aumentare e enfatizzare i problemi che ineriscono ogni singola categoria di persone presenti nel carcere
Ci sono nomadi come Sara la quale racconta che stava da « poco al campo nomadi, ero sempre in giro per le strade, in città. Quando, alle notte, la metropolitana chiudeva, noi ragazzi ci nascondevamo all'interno. Se c'era freddo o avevamo paura, andavamo davanti al commissariato, facevamo un furto davanti alla polizia, loro ci prendevano e ci portavano in una specie di collegio, dormivamo e la mattina scappavamo. Ho cominciato a scappare da casa, e da qualsiasi altro luogo dove mi rinchiudevano, a otto anni e l'ho fatto fino ai 12, perché con i miei non stavo bene»
E soprattutto molte ragazze straniere come Solidad ventiquattrenne dell'Ecuador che ricordando la sua terra e confrontandola con l'Europa dice che la sua isola è «molto bella, ma piccola e povera: ospita 300 abitanti, tutti ci conosciamo e tutti sono pescatori, comprese le donne e i bambini. Non ci sono dei negozi di lusso come qui in Italia e in Europa, c'è solamente un negozio che non ha niente di simile ai vostri, in realtà è solo una baracca, come del resto lo sono tutte le abitazioni qui»
Oltre a straniere e nomadi ci sono anche ex-tossicodipendenti tra cui Viviana, arrivata il 3 novembre del '99 alla Giudecca, e dopo poco posta agli arresti domiciliari. Dopo soli tre giorni, di pena alternativa al carcere, visto che i suoi genitori non se la sentivano di accudirla, è stato deciso di mandarla in comunità. Come lei stessa dice «ho resistito la bellezza di 4 mesi, dopo di che sono andata dai carabinieri e ho preferito tornare in carcere, dato che all'interno di quella struttura adottavano delle regole assai dure, faccio dei piccoli esempi: se ti dimentichi di chiudere un balcone o altre cose te le fanno riaprire e chiudere per una cinquantina di volte, gridando devo essere presente.»
Alcuni casi invece sono simili a quelli di Lidana, che dopo una fujtina all'età di 15 anni ha cominciato a vivere di espedienti perchè «i soldi non bastavano mai e la famiglia diventava di anno in anno più numerosa»
Cfr. anche art. 13c.4, Costituzione Italiana « E' punibile ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà».
Focault in Sorvegliare e punire, sottolinea come analizzando un'istituzione, si debba distinguere la razionalità o fine, ossia ciò che si prefigge quest'istituzione, e i mezzi di cui dispone per raggiungere gli obiettivi, secondariamente gli effetti. Difatti secondo l'Autore succede di rado che gli effetti coincidano con il fine. Parlando di carcere come sistema correttivo si può altresì capire come questa istituzione non sia riuscita a raggiungere il suo scopo, creando invece un effetto inverso, ossia rinnovando i comportamenti criminali. L'uso della prigione, è stato quello di diventare un meccanismo di eliminazione invece di essere uno strumento correttivo. Il carcere si è cristallizzato in quanto le configurazioni strategiche non sono capite nemmeno da coloro che le elaborano.
Paolo, l'apostolo delle genti, nacque cittadino romano e predicò il Vangelo ad ebrei e gentili. Il suo stretto legame con i primi cristiani italiani è evidente dall'epistola ai santi di Roma. Paolo passò alcuni anni sul suolo italico e morì decapitato a Roma, sotto Nerone, intorno al 67-68. La conversione di Paolo fu il risultato della sua esperienza sulla via di Damasco. Gesù gli apparve e Paolo divenne cieco per pochi giorni, prima di essere guarito e battezzato da Anania (Atti 9). Cfr. anche www.bellasion.org .
Spinosi N., Devianze tra psicologia e sociologia, cinema e letteratura, saggio presente in Educatori in carcere, a cura di Concato G., 2002, Edizione Unicopli, Mi. Nel primo paragrafo l' Autore, analizza la nascita del carcere e il passaggio tra le varie modalità di detenzione e concezione della pena fino ai giorni nostri.
Nella parte introduttiva di Sorvegliare e punire, le prime pagine sono riferite ad una dettagliata e cruda descrizione di come viene giustiziato un trasgressore, in modo lento e tormentato, al punto da desiderare la morte pur di far finire la sua pena.
Anche il sociologo Goffman E. in Asylums, le istituzioni totali: i meccanismi dell'esclusione e della violenza, 1961, Edizioni Comunità ne parlerà in questi termini parallelando la struttura detentiva con quella dell'istituto psichiatrico.
Mathiesen T., Perché il carcere, titolo originale 'Kan fengsel forsvarses?', 1996, Edizioni Gruppo Abele,
E' professore di sociologia del diritto all'università di Oslo. E'anche direttore dell'istituto di ricerca sociale presso l'università. E' anche uno dei fondatori dell'associazione per la riforma penale in Norvegia. Ha pubblicato The Defense of the Weak (Tavistock, 1965), The Politics of Abolition (Martin Robertson, 1974), Law, Society and Political Action (Academic Press, 1980), 'Retten i samfunnet' (Pax Forlag, 1992), 'Makt og medier' (Pax Forlag, 1993).
Paradossalmente anche oggi che abbiamo passato il traguardo del XX secolo le cose sono abbastanza simili per quanto concerne il dopo carcere e la difficoltà a reperire un lavoro non appena usciti, ben quanto alcuni corsi siano utili per dare un'"infarinatura" di una professione, non danno abilitazioni professionali tali da avvantaggiare nel lavoro gli ex-detenuti/e.
Come si può notare la situazione in questo senso indicherebbe che le leggi si sono mosse in favore del detenuto e della sua condizione di ristretto agevolando la sua uscita dal carcere e l'aiuto che l'esterno dovrebbe dargli.
La realtà però è ben diversa da quella legislativa, ossia pur esistendo leggi che salvaguardano l'uscita dal carcere dei ristretti affinché possa esserci un reale recupero anche fuori dalla struttura penitenziaria, i detenuti si sentono invece abbandonati in quanto fuori non ci sono le possibilità concrete di trovare dei supporti effettivi per il post-pena.
La recidiva si esplica nella nostra epoca soprattutto perché chi esce dal carcere non riesce a trovare un enturage che sia disponibile a dargli fiducia e possibilità lavorativa e socializzanti.
Il
codice Rocco, è stato promulgato con Regio Decreto il 19 ottobre 1930 con n.
1398 e reso esecutivo il 1° gennaio 1931;
Cit. da Ristretti Orizzonti, Settembre, 2004. Problematiche come la cura degli affetti in carcere sono attuali e pongono in evidenza come entrando in carcere si sommino alle pene detentive delle pene "aggiuntive" che portano allo sfaldamento o all'impraticabilità di mantenere contatti con il mondo esterno, diventando mancanze di riferimenti esterni quando poi il detenuto scontata la pena potrà uscire dal carcere.
Tra le varie rivolte è da ricordare quella in cui perse la vita tra le altre persone l'assistente sociale Vassallo Gioia (episodio raccontato da Amato N., Oltre le sbarre, 1990, Arnoldo Mondadori Editore). 9 maggio 1974 nella casa di reclusione di Alessandria nell'aula della scuola per geometri dei detenuti Cesare Concu, Domenico Di Bona e Everardo Levriero, minacciando con le armi sequestrano alcuni insegnanti e detenuti e agenti per un totale di 21 persone.
L'assistente
sociale Graziella Vassallo Gioia si consegna spontaneamente per cercare di fare
da tramite con i detenuti. Al termine della reazione delle forze dell'ordine
vengono uccisi due insegnanti, due agenti e anche
Questa legge fu pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 9 agosto 1975 n. 212, S.O. e legittima le Norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà. Nel 2002 parte ci sono state delle modifiche su questa legge (il 19 Dicembre), tra le quali quella in materia del trattamento ai fini ri-educativi del detenuto: Punto 5 «Approva, con decreto, il programma di trattamento di cui al terzo comma dell'art. 13, ovvero, se ravvisa in esso elementi che costituiscono violazione dei diritti del condannato o dell'internato, lo restituisce, con osservazioni, al fine di una nuova formulazione. Approva, con decreto, il provvedimento di ammissione al lavoro all'esterno. Impartisce, inoltre, nel corso del trattamento, disposizioni dirette ad eliminare eventuali violazioni dei diritti dei condannati e degli internati.»
Questa legge fu pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 16 ottobre 1986 n. 241- S.O., e portò delle modifiche alla legge sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà.
Chiusura di sintesi: ogni detenuto viene seguito da un entourage composto da medico, psicologo, educatore e valuta il percorso individuale di tutti i detenuti per poter poi giudicare quali abbiano diritto ad avere le pene alternative al carcere trascorsa metà della pena.
Queste testimonianze, sono un esempio delle varie tipologie socio-economiche presenti nel carcere veneziano della Giudecca.
Le donne
straniere e rom hanno raggiunto una percentuale del 70% circa, come ci ha
sottolineato la volontaria, che dirige
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