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AppuntiMania.com » Tecniche » Appunti di Forensics » Compiti e competenze dell'educatore operante all'interno di una istituzione totale: uno sguardo alla realtÀ italiana

Compiti e competenze dell'educatore operante all'interno di una istituzione totale: uno sguardo alla realtÀ italiana




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COMPITI E COMPETENZE DELL'EDUCATORE OPERANTE ALL'INTERNO DI UNA ISTITUZIONE TOTALE: UNO SGUARDO ALLA REALTÀ ITALIANA


- Analisi della situazione penitenziaria italiana.


Innanzitutto è necessaria una precisazione concettuale: il lettore si potrebbe chiedere che cosa sia mai una istituzione totale. La si può definire con le parole di Erving Goffman "come il luogo di residenza e di lavoro di gruppi di persone che - tagliate fuori dalla società per un considerevole periodo di tempo - si tro­vano a dividere una situazione comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime chiuso e formalmente amministrato"[1]. Le istituzioni nel significato co­mune del termine, sono luoghi in cui viene svolta con regolarità una certa attività. Ogni istituzione si appropria di parte del tempo e degli interessi delle persone che vi sono inserite, tendendo così a circuire i suoi componenti in una sorta di azione inglobante. Ora, le istituzioni totali agiscono con un potere inglobante - seppur discontinuo - più penetrante di altre. E maggiore è la sua forza penetrante, mag­giore sarà anche l'impossibilità di scambio sociale e di uscita verso il mondo esterno .

Il carcere è indubbiamente un'istituzione totale,[3] che attualmente vede vi­vere all'interno del contesto italiano , 56.403 persone recluse, distribuite sul territorio nazionale in 204 strutture, fra 34 Case di Reclusione, 162 Case Circondariali, 6 Ospedali Psichiatrici Giudiziari e 2 Case Lavoro (Tab. 1).


Tabella 1. Distribuzione per regione e per tipologia degli istituti penitenziari al 30 giugno 2003.


Regione


C.R

C.R.F*

C.C

C.C.F*

O.P.G

C.L

Totale

Regione

Abruzzo


1


7




8

Basilicata


0


3




3

Calabria


1


10




11

Campania

1


12




16

Emilia Romagna

1


9




13

Friuli Venezia Giulia

0


5




5

Lazio


3


10




14

Liguria


0


7




7

Lombardia

3


14




18

Marche


1


5




6

Molise


0


3




3

Piemonte


3


10




13

Puglia


1


9




11

Sardegna


4


8




12

Sicilia


4


21




26

Toscana


5


12




19

Trentino Alto Adige

0


3




3

Umbria


2


2




5

Val d' Aosta

0


1




1

Veneto


1


8




10

Totale nazionale









Fonte: rielaborazione dati DAP. *Istituti per sole donne.


Nel 1990 le persone private della libertà erano poco più di 26.000. Questo significa che nel corso di tredici anni la popolazione ristretta è aumentata all'incirca del doppio (Tab. 2), avvicinandosi così alle quote del 1949, anno in cui la popolazione detenuta raggiungeva le 58.000 unità[7].


Tabella 2. Presenze detenuti al 31.12 anni 1990-2003 (per il 2003, 30 giugno)





































Fonte: rielaborazione dati DAP.


Da questi pochi dati si evince immediatamente che una delle principali caratteristiche del sistema penitenziario italiano, è costituita dalla presenza di un costante e tendenzialmente in aumento sovraffollamento: gli edifici adibiti alla privazione della libertà infatti, hanno capienza regolamentare di 41.583 unità, il che significa ben 14.820 posti in meno rispetto a quelli effettivamente occupati.


Tabella 3. Presenze per Regione al 30.06.03 e Capienza Regolamentare

Regione

30-giu.03

C.Reg.

Regione


30-giu.03

C.Reg.

Abruzzo


1339

Molise


348

266

Basilicata

439

439

Piemonte


4.685

3.383

Calabria



Puglia


3.682

2.399

Campania



Sardegna


1.801

1.972

Emilia Romagna



Sicilia


6.219

4.205

Friuli Venezia Giulia

669

449

Toscana


4.094

2.952

Lazio




Trentino Alto Adige

387

272

Liguria



Umbria


1.008

958

Lombardia



Val d' Aosta

266

163

Marche

836

725

Veneto


2.560

1.421

Totale nazionale








Fonte:rielaborazione dati DAP


La distribuzione della popolazione varia poi da regione a regione (Tab. 3), ma tratto comune rimane il numero di detenuti eccessivo rispetto alla capacità di contenimento delle strutture: uniche eccezioni la Sardegna (con 1.801 detenuti per una capienza regolamentare di 1.972) e la Basilicata (in cui numero effettivo dei presenti e numero previsto si equivalgono)[8].

Si tratta di dati indicativi, che servono comunque a dare un'idea abbastanza chiara del fenomeno. Ovviamente si potrebbero fare considerazioni più precise sulla base di una effettiva conoscenza non solo del rapporto numerico fra detenuti previsti e detenuti presenti, bensì anche della tipologia degli istituti che li ospitano, ovvero come sono costruiti e disposti gli spazi, ivi comprese le celle in cui i detenuti "soggiornano". Ad esempio, ci sono non poche differenze fra una struttura penitenziaria come la Casa di Reclusione femminile di Venezia, denominata "Giudecca", ricavata da un vecchio convento trasformato in carcere sin dalla seconda metà dell'Ottocento, ed una come la Casa Circondariale di Bologna, i cui attuali locali sono in uso dal 1986. Il primo edificio è costituito di cameroni contenenti fino a 8-9 posti letto; il secondo di celle a capienza singola di 13 m²[9].

Conoscere il numero dei detenuti è importante anche sotto un altro punto di vista. Nel momento in cui lo si rapporta all'organico esistente a livello nazionale che si relaziona quotidianamente con le persone recluse, svela un'altra sua possibile funzione: l'essere indicatore di fattibilità di quanto previsto per legge. Le norme sono importanti perché dicono cosa andrebbe fatto e cosa non, divenendo così punto di riferimento, parametro attraverso il quale misurare e verificare ciò che si fa e non si dovrebbe fare, ciò che non si fa pur se previsto, e cosa invece è effettivamente in linea con quanto normativamente delineato. Una delle disposizioni su cui si è fondato tutto l'impianto normativo che regolamenta l'istituzione penitenziaria, è di natura costituzionale: l'articolo 27 della Costituzione, infatti, al terzo comma, dice che "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato"[10]. A partire da questo principio, e a conclusione di un ventennio tormentato dal punto di vista giuridico, nasce nel 1975 la Legge 26 luglio 1975 n. 354, che delinea quale debba essere il trattamento penitenziario, - ovvero il modo in cui ogni detenuto deve (o dovrebbe) essere trattato - ed il trattamento rieducativo, specificatamente rivolto ai condannati ed agli internati. Se il trattamento penitenziario nei suoi aspetti generali si ispira alla prima parte dell'art. 27³, il trattamento più propriamente e specificatamente rieducativo è legato alla seconda parte dello stesso . L'espletamento concreto di tali istanze costituzionali è stato affidato, nell'Ordinamento Penitenziario del 1975, all'opera dello staff penitenziario, cui appartengono anche gli educatori. L'educatore penitenziario è, assieme agli Agenti di Polizia Penitenziaria , una delle figure più presenti all'interno degli Istituti di Prevenzione e di Pena. O almeno dovrebbe esserlo. Soffermandoci un attimo a stimare le cifre, notiamo che se gli appartenenti all'Area della Sicurezza sono passati dalle 28.000 unità circa del 1990 alle 43.000 unità attuali, altrettanta evoluzione non ha interessato gli addetti all'Area educativa . Infatti il loro numero è rimasto praticamente invariato nel corso di questi ormai oltre 25 anni di formale ed ufficiale esercizio professionale: l'organigramma attuale (Tab. 4) prevede Educatori coordinatori di VII qualifica (C1), Direttori di Area Pedagogica di VIII qualifica (C2) e Direttori Coordinatori di Area Pedagogica di IX qualifica (C3), per un totale di 1.393 operatori. Di effettivi in servizio, in data 12 febbraio 2002, erano 591. Bisogna tener conto del fatto che non tutti sono destinati a lavorare all'interno degli Istituti: questo numero di educatori comprende, ad esempio, anche coloro che esercitano presso il PRAP (Provveditorato Regionale dell'Amministrazione Penitenziaria) .

A quanto si riduce il rapporto numerico fra educatori e detenuti? Prendendo in considerazione il personale effettivo nel suo complesso, la media si aggira intorno a un educatore ogni novantacinque detenuti.

Basterebbe anche soltanto impiegare il numero di educatori previsto dall'organigramma per far sì che tale rapporto raggiunga un valore pari a uno su quaranta.


Tabella 4. D.P.C.M 04.10.00 e D.P.C.M. 11.04.01

Situazione al 12.02.2002



Org.

U.

D.

Tot.

Vacante

Dirigente di Pedagogia



17

0


0

-17

Direttore Coord. Area Pedagogica

236

20


46


Direttore Area Pedagogica



390

0


0


Educatore Coordinatore



750

219




Totale nazionale









Fonte: rielaborazione dati DAP


Altro fattore da tenere presente è la distribuzione effettuata sul territorio nazionale degli operatori appartenenti all'Area pedagogica, che unito al precedente - la carenza di educatori - fa sì che sussistano realtà in cui dell'educatore non c'è neppure l'ombra.

Per meglio comprendere il rapporto che si instaura fra educatore e detenuti è necessario prima tentare di visualizzare quali siano le caratteristiche della popolazione detenuta, in termini di dati socio-economici (sesso, età, provenienza), tipologia dei reati commessi (per quali azioni/omissioni si finisce prevalentemente in carcere?), posizione giuridica e tutte le variabili che sono importanti dal punto di vista del trattamento rieducativo[16], essendo il "trattamento" di queste persone ai fini della loro risocializzazione e del loro reinserimento sociale (art. 1 O.P) uno dei principali compiti cui l'educatore penitenziario è chiamato a rispondere.


1.1.1 - Dati socio-demografici.


Sesso: le donne, al 30 giugno 2003, risultano essere 2.565, pari al 4,5% del totale nazionale; gli uomini con 53.838 unità, costituiscono il 95,5% della popolazione totale[17].


Provenienza: il carcere sta sempre di più divenendo sede di incontri fra diversità culturali. La popolazione detenuta è oramai una popolazione multietnica, destinata - se non si invertirà la tendenza attuale in campo normativo[18] - a vedere sempre più la componente "straniera" ingrossare le fila delle istituzioni penitenziarie. Fino ai primi anni novanta, non vi erano persone immigrate all'interno del carcere: esse hanno cominciato a fare la loro comparsa entro il circuito penitenziario proprio in quegli anni, rimanendo però ad un livello contenuto tra il 10-15% fino al 1997; da questo anno in poi, la percentuale degli immigrati inizia a salire, per arrivare ai valori attuali che li vedono costituire all'incirca il 30% della popolazione penitenziaria (anche qui la media non tiene conto di grosse differenze a livello locale; vi sono carceri in cui la concentrazione di persone straniere arriva e supera l'80%, altre - specialmente al Sud - in cui sono pochissimi) . Il 31 dicembre 2002 erano presenti 16.788 stranieri; il 30 giugno di quest'anno sono in lieve flessione, con 16.636 unità .

Grafico 1. Provenienza per Aree geografiche. Situazione al 31.12.2002 e al 30.06.2003


Fonte: rielaborazione dati DAP.


Come si può evincere dal Grafico 1 la tipologia di detenuti per luogo di origine è veramente variegata: comprende rappresentanti - anche se in percentuale differente - delle diverse realtà umane esistenti, con una accentuata presenza delle popolazioni del cosiddetto Sud del mondo e dell'Europa dell'Est. Ciò significa linguaggi diversi, costumi ed abitudini culturali[21] diverse, credenze e pratiche religiose diverse. Le implicazioni da un punto di vista educativo sono notevoli .

Anche le regioni italiane risultano rappresentate all'interno dell'istituzione penitenziaria con una prevalenza di persone del Sud d'Italia, in particolar modo Campania (15,12%), Sicilia (14,69%), Puglia (9,27%) e Calabria (6,16%). Seguono Lombardia (5,69%), Lazio (4,26%) e Sardegna (3,04%)[23].


Età: la popolazione detenuta è prevalentemente una popolazione giovane. In data 30 giugno 2003 il picco più elevato si rileva fra i 30 e 39 anni (37,2%, 20.973 persone); segue la fascia d'età che va dai 21 ed i 29 anni (25,5%, 14.359 persone) e quella dai 40 ai 49 (20,0%, 12.434 persone). La concentrazione maggiore di persone sottoposte a misure privative della libertà riguarda perciò quella porzione di popolazione che potrebbe costituire parte della forza lavoro più attiva a livello nazionale: infatti, se il totale nazionale degli occupati era, nel 2002, del 44,4%, le fasce d'età maggiormente coinvolte nel processo produttivo erano quelle comprese fra i 25-34 anni (67,5%) e i 35-54 (71,4%). Il tasso di disoccupazione per le stesse fasce d'età, nello stesso anno, era rispettivamente dell'11,9% e del 5,1%, su un totale nazionale del 9%[24].


Grafico 2. Distribuzione per età, al 30.06.2003.

Fonte: rielaborazione dati DAP/Ministero Giustizia


Condizione lavorativa: su 56.271 persone detenute in data 30 giugno 2002, la quota di coloro che risultavano occupati prima dell'arresto era, in valore assoluto, di 14.044 (25,0% della popolazione ristretta). I disoccupati in senso stretto erano 15.135 (26,9%), cui vanno aggiunti coloro che erano in cerca di occupazione, 1.583 unità pari al 2,8% della popolazione detenuta.


Grafico 3. Detenuti ripartiti secondo la condizione lavorativa precedente l'arresto, 30.06.2002.

Fonte: rielaborazione dati DAP.


Per quanto riguarda il tipo di impiego in cui erano occupati, in data 1° luglio 2001, il 71,50% dei detenuti ricopriva la mansione di operaio, pari a 12.271 persone; 2.262 i lavoratori in proprio o coauduvanti; 1.436 i liberi professionisti, 828 gli imprenditori e 544 i dirigenti o gli impiegati[25].

Ciò rende conto del fatto che uno degli strumenti trattamentali previsti dal legislatore ai fini del reinserimento e della rieducazione dei condannati, degli internati e degli imputati (se da questi ultimi richiesto) sia il lavoro.

Anche sotto questo punto di vista, le differenze fra un carcere e l'altro sono notevoli e, allo stesso modo, sono diversificate le "risorse" di cui ciascun istituto dispone insieme alle eventuali "opportunità" concrete che può offrire alle persone detenute. Mi riferisco, oltre che alla possibilità di praticare un lavoro infra-murale - sia esso alle dipendenze dell'Amministrazione penitenziaria o di altro Ente con quella convenzionato -, anche alla possibilità offerta di partecipare a delle attività culturali, ricreative o sportive e di effettuare dei corsi professionali. L'insieme di tutte queste possibili (ma tutt'altro che scontate) attività e la loro effettiva realizzazione, dipende da vari fattori, tra cui: la struttura del carcere (numero e disposizione degli spazi, esistenza di dispositivi di controllo tecnologici o meno, rapporto numerico personale-popolazione detenuta.), la sua organizzazione interna; quantità di fondi stanziati all'Amministrazione penitenziaria stessa da parte del Ministero della Giustizia e modalità di gestirli da parte della stessa; fondi stanziati a livello regionale e provinciale; interesse dell'Ente locale in cui si trova il carcere a stabilire un legame con la struttura presente entro il suo contesto sociale; possibilità di poter usufruire o meno di corsi finanziati dal Fondo Sociale Europeo e forse altro ancora.

In linea generale, si può comunque dire, per quanto riguarda il lavoro[26], che le attività lavorative realizzate in carcere ma modellate su quelle esistenti nel mercato esterno erano, al 31.12.2002, soprattutto quella di falegnameria, l'attività di fabbro, la sartoria, e poi scendendo drasticamente di numero, tutte le altre, per un numero di posti lavoro veramente esiguo (nemmeno mille unità), come si può evincere dalla tabella alla pagina successiva.


Tabella 5. Lavorazioni nelle officine penitenziarie al 31.12.2002.





Posti di lavoro

Tipo di lavorazione

N.lavorazioni

funzionanti

Disponibili

Occupati

Assemblaggio


3

3

50

50

Autolavaggio

1

0

1

0

Calzetteria

2

1

3

3

Calzoleria


7

4

68

33

Carrozzeria


1

1

7

7

Confezioni


1

0

7

0

Ditte Esterne

0

0

0

0

Fabbri


20

14

141

63

Falegnameria

27

21

327

170

Lanificio


2

1

30

23

Legatoria


2

1

4

0

Metalmeccanica

1

1

12

4

Meccanica


3

3

21

21

Radio Tv


2

2

4

5

Rilegatoria


8

5

16

11

Sartoria


23

17

256

149

Tappezzeria

0

0

0

0

Tessitoria


6

4

141

46

Tipografia


7

4

55

41







Fonte: rielaborazione dati DAP (sito www.giustizia.it


Si può anche dire che la maggioranza dei lavori effettuati alle dipendenze dell'Amministrazione Penitenziaria sono quelli dedicati ai servizi domestici ed alla Manutenzione Ordinaria dei Fabbricati (M.O.F.)[27].

Il quadro della situazione lavorativa entro le istituzioni penitenziarie non risulta essere brillante né troppo incoraggiante: pochi posti di lavoro per un numero sempre maggiore di detenuti, pochissime aziende che investono sulle lavorazioni penitenziarie nonostante l'introduzione della legge 22 giugno 2000 n. 193, sulle "Norme per favorire l'attività lavorativa dei detenuti", che attraverso una serie di agevolazioni fiscali, avrebbe dovuto aumentare l'appetibilità dell'attuazione di servizi o attività produttive all'interno degli istituti penitenziari, da parte delle aziende pubbliche o private. La situazione è in stallo.

I corsi professionali attivati nelle carceri italiane nell'anno 2002, secondo i dati forniti dal Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, sono stati complessivamente 675, con un numero di iscritti pari a 8.263. Di questi 675, ne sono terminati 362, ai quali erano iscritti 4.257 detenuti. La questione principale relativamente ai corsi professionali cui i detenuti partecipano - sempre in numero inferiore rispetto al bisogno - sta nella loro spendibilità nel dopo carcere, pur rappresentando una opportunità formativa in senso lato, un modo per scoprire aspetti nuovi di se stessi, oltre che una possibilità di evasione se non dal carcere, almeno dalla cella. Anche in questo caso, nonostante gli sforzi non si può considerare raggiunta una effettiva oculata distribuzione delle risorse[28].

I corsi professionali, la cui tipologia è veramente vasta, spaziando da corsi legati ad attività propriamente espressive artistiche ad altri più tecnici, scaturiscono nella maggior parte dei casi da accordi promossi da parte delle direzioni di istituto con la Regione e gli Enti locali competenti al riguardo e dovrebbero tener conto delle esigenze della popolazione detenuta[29].


Grado di istruzione: nel corso di questi ultimi tre anni il panorama della preparazione scolastica delle persone recluse è rimasto pressoché invariato, con oscillazioni minime. Se analfabeti e laureati sono coloro che abitano meno gli istituti penitenziari, il numero dei primi è comunque due volte circa quello dei secondi. Al 30 giugno 2003 gli analfabeti in carcere risultano 794. Coloro che non possiedono alcun titolo di studio sono ben 3.684, ma le fasce maggiormente rappresentate all'interno della popolazione detenuta sono, con il 29 ed il 37%, quelle che hanno conseguito la licenza elementare ed il diploma di scuola media inferiore.

Sin dall'osservazione di questi primi indicatori sembra emergere l'immagine di un carcere funzionante quale discarica sociale[30], come allontanamento e isolamento degli aspetti meno gradevoli e contraddittori di una realtà sociale - la nostra e, più in generale, quella di stile occidentale - che se da un lato fatica ad ammettere l'esistenza delle proprie imperfezioni e delle proprie sacche di povertà ed emarginazione, dall'altro evita di confrontarsi con la propria parte di responsabilità nel generarle, limitandosi così ad espellerle dallo stesso circuito di relazioni, di atteggiamenti e convinzioni o credenze che ha contribuito a formarle . È il tipico atteggiamento nei confronti del quale eravamo stati messi in guardia ben 2000 anni fa: la tendenza a soffermarsi sulla pagliuzza nell'occhio altrui, senza esserci prima preoccupati di liberarci della trave conficcata nel nostro .

L'immagine di discarica sociale viene confermata quando si vada ad osservare un'altra della categorie di persone che popola abbondantemente il carcere: le persone dipendenti da sostanze stupefacenti.

Come si può osservare dalla Tabella 5 sono ben 15.429 le persone tossicodipendenti sottoposte a misura privativa della libertà, mentre 906 sono gli alcoldipendenti, per un totale di 16.335 persone, ovvero il 29,3% della popolazione penitenziaria. Vengono definiti detenuti "multiproblematici", poiché sono persone che, oltre a soffrire per i disagi derivanti dalla privazione della libertà[33], presentano delle difficoltà "aggiuntive". Il fatto di dipendere da sostanze è una delle possibili difficoltà aggiuntive. Ma non è l'unica: infatti, fra le condizioni di malessere aggiuntive rientrano anche le malattie a livello psichico, oppure la condizione di sieropositività (il 31 dicembre 2002 le persone detenute affette da HIV erano 1.375, pari al 2,5% dei detenuti presenti) .


Tabella 5. Detenuti tossicodipendenti, 31.12.2002.

Sesso

Tossicodipendenti

Alcoldipendenti

In tratt. Metadonico


valori assoluti

valori % (*)

valori assoluti

valori % (*)

valori assoluti

valori % (*)

Donne







Uomini







Totale








(*) Nota: Le percentuali sono calcolate rispetto ai detenuti presenti suddivisi in base al sesso.


Vi rientrano inoltre i detenuti extracomunitari, poiché portatori e scopritori ad un tempo, di mentalità e di linguaggi profondamente diversi, difficilmente penetrabili. Nei confronti di tutte queste persone, siano esse ritenute "multiproblematiche" o no, si pone per l'educatore penitenziario (ma non solo per lui), la questione della capacità di costruire un rapporto che sappia realmente svilupparsi lungo la direzione dell'aiuto, il cui presupposto dovrebbe essere quello di riuscire a rendersi inutili. Un educatore professionale - e l'educatore penitenziario è un educatore professionale che lavora in un contesto ben specifico - deve porre come suo obiettivo ultimo quello "di rendersi non più indispensabile, anzi del tutto inutile"[35], e alla luce di esso costruire tutto il suo lavoro. Per poter svolgere questo tipo di professione in vista di tale obiettivo primario, sono necessari tempo, autenticità relazionale, voglia di assumersi il rischio del coinvolgimento umano ed emotivo, onestà intellettuale, consapevolezza dei propri limiti .

Viene da chiedersi come possa un educatore che lavora all'interno del carcere trovare il tempo per poter almeno tentare di dare vita ad una relazione di questo tipo. Tralasciando per ora l'impianto normativo su cui si poggia il contesto detentivo, con tutte le dinamiche di simulazione e manipolazione che vi conseguono, e ammesso e concesso che la realtà di un luogo di lavoro non la fa la struttura fisica in sé e per sé ma la fanno anche le persone che vi sono inserite, rimane il problema che le persone per costruire suddetta realtà devono esserci, innanzitutto, fisicamente. Ora: l'educatore penitenziario è una figura professionale numericamente presente all'interno dell'universo carcerario in misura tale da servire soltanto a rendere formalmente - ma non sostanzialmente - rispettato il dettato costituzionale. Perciò, tutto quanto andrò a sviluppare nei capitoli successivi, specialmente quando mi soffermerò ad analizzare nel quarto capitolo le competenze ed i compiti cui l'educatore penitenziario è chiamato a rispondere, lo si dovrà considerare come una mera disquisizione teorica, basata su presupposti che a tutt'oggi mancano all'appello, fra cui, quella dell'esistenza di un numero di educatori realmente adeguato alle ambiziose finalità che, in ambito penitenziario, lo Stato si ripropone di perseguire da oltre 25 anni[37].


1.1.2 - Dati giuridici: posizione giuridica, tipologia dei reati.


L'interesse per la posizione giuridica delle persone detenute deriva dal fatto che ad essa è legata la possibilità di "movimento" dell'educatore penitenziario nell'espletare le sue mansioni, influenzata anche dalle indicazioni della norma giuridica : infatti, basandosi sul principio costituzionale della presunzione di innocenza sino a prova contraria (art. 27²) l'Ordinamento Penitenziario, nel ribadirlo al quinto comma del primo articolo[38], traccia poi un confine abbastanza netto nel dare indicazioni circa le modalità trattamentali e le finalità che lo devono informare. Infatti, l'art. 15, che delinea in maniera più precisa quelli che il legislatore ritiene essere gli elementi principali del trattamento, afferma che "gli imputati sono ammessi, a loro richiesta, a partecipare ad attività educative, culturali e ricreative e, salvo giustificati motivi o contrarie disposizioni dell'autorità giudiziaria, a svolgere attività lavorativa o di formazione professionale, possibilmente di loro scelta e, comunque, in condizioni adeguate alla loro posizione giuridica".

Ancora più preciso si rivela il regolamento di esecuzione del 2000 che sin dal primo comma dell'art. 1 sottolinea che "Il trattamento degli imputati sottoposti a misure privative della libertà consiste nell'offerta di interventi diretti a sostenere i loro interessi umani, culturali e professionali". Quindi, seppur esistono legittimi presupposti per non poter attuare un trattamento specificatamente "rieducativo" nei confronti degli imputati[39], nell'operare a sostegno dei loro interessi umani, culturali e professionali e nell'espletare il fondamentale principio relativo alla individualizzazione del trattamento penitenziario , cui anche l'imputato è sottoposto, è necessario l'apporto dell'educatore penitenziario, in quanto operatore del trattamento penitenziario stesso, in concomitanza con tutte le altre figure professionali che ruotano attorno all'istituzione penitenziaria ed in particolar modo, alla vita delle persone che ivi sono rinchiuse.

Ma quante sono le persone in attesa di giudizio? La legge stabilisce che una persona sotto imputazione debba essere sottoposta alla privazione di libertà solamente per motivi cautelari[41]. Il 30 giugno 2002 erano sottoposte a misure cautelari 22.235 persone, pari al 40% della popolazione detenuta totale (di cui 11.949 in attesa di primo giudizio, 6.887 appellanti e 3.399 ricorrenti). I condannati definitivi erano 32.893, gli internati 1.143 (di cui 271 "provvisori") .


Grafico 3. Detenuti distribuiti per posizione giuridica al 30 giugno 2002


Fonte: dati DAP/Ministero giustizia (sito internet www.giustizia.it


Questo significa che per 22.235 persone risulta esservi o pericolo di fuga, o di inquinamento prove, o di commissione di altri reati. Di fronte a un numero così elevato di persone, la domanda cui si dovrebbe dare risposta è la seguente: di quali reati sono accusate? Quali imputazioni sono elevate a loro carico? Tali da far rimanere in custodia cautelare - che al lato pratico significa in carcere - per periodi che vanno da un mese ad oltre 18 mesi un numero di persone così elevato da essere equivalente ad un paese di grosse dimensioni?[44] Delle persone, ribadisco, presunte innocenti?


Tabella 6. Reati ascritti alla popolazione detenuta, 30 giugno 2003.


Tipologia dei reati

Totale

Italiani 


Totale

Stranieri


Totale generale


Associaz. di stampo mafioso (art. 416bis c.p.)

5.118






Legge droga







Legge armi







Ordine pubblico

2.728






Contro il patrimonio







Prostituzione

369






Contro la pubblica amministrazione

4.956






Tipologia dei reati

Totale

Italiani 


Totale

Stranieri


Totale generale


Incolumita' pubblica

1.709






Fede pubblica

6.285






Moralita ' pubblica

235






Contro la famiglia

1.030






Contro la persona







Contro la personalita' dello Stato

526






Contro amm.ne della giustizia

5.719






Economia pubblica

535






Libro terzo delle contravvenzioni

4.637






Legge stranieri

200






Contro il sentim. religioso e la pieta' dei def.

1.094






Altri reati

3.720

2,2





Totale

172.603




211.514



Fonte: elaborazione dati DAP

*Percentuali calcolate sul totale parziale dei reati commessi infracategoria (italiani e degli stranieri).


Osservando la tabella qui sopra e tenendo conto del fatto che ad una persona può essere ascritto più di un reato, si deduce che in linea di massima i reati per cui si rischia maggiormente di essere sottoposti a misura privativa della libertà sono: i reati contro il patrimonio (30,4%, specialmente furti, rapine, truffe.); i reati contro la legge sulle armi (in incremento in questi due ultimi anni, passando dai 12.904 casi del 31.12.2001 ai 37.075 del 30.06.2003); i reati commessi in violazione delle norme del testo unico sulle sostanze stupefacenti; i reati contro la persona (14,1%). Purtroppo però, statistiche di questo tipo permettono di effettuare considerazioni estremamente generiche, giacché aggregano i reati in categorie che al loro interno contengono molte specificazioni (trattando di delitti contro la persona, ad esempio, c'è una bella differenza fra un omicidio - a sua volta diversificabile in volontario, preterintenzionale o colposo, un'ingiuria o una diffamazione).

Risulterebbe essere maggiormente chiarificante un'analisi che associasse ciascun detenuto ad un singolo reato, in modo da poter effettuare sia una analisi più dettagliata che prenda in considerazione le molteplici fattispecie di reato esistenti all'interno di una stessa categoria sia un confronto fra italiani e stranieri, così da poter avere un quadro almeno un pizzico più rispondente alla complessità del fenomeno.

È quanto ha fatto l'Amministrazione Penitenziaria, anche se non recentemente: i dati costruiti in questo modo, infatti, si fermano al 31 dicembre 1999. Esaminandoli, si constata che l'apporto della criminalità straniera è strettamente correlata al reato di spaccio di stupefacenti, mentre i reati più gravi compiuti nei confronti di altre persone, risultano compiuti maggiormente dagli italiani; la stessa considerazione si può fare sui reati contro il patrimonio, che vedono una percentuale maggiore di italiani impegnati in rapine ed estorsione (16,0% e 6,1% contro 8,5% e 1,4% per gli stranieri), mentre gli stranieri compiono in media più furti (7,5% contro il 5,2% degli italiani)[45].


- Prime considerazioni conclusive.


Alla luce di quanto emerso si possono trarre alcune conclusioni di carattere generale: la popolazione penitenziaria è in costante aumento, ed i reati per i quali essa entra a far parte del circuito penitenziario sono prevalentemente "reati minori", ovvero quelli che toccano in maniera più diretta ed immediata la vita quotidiana delle persone. Infatti, la maggior parte dei reati a causa dei quali si finisce in carcere appartengono specialmente a due delle quattro categorie di delitti delineate da Amato: i delitti della malattia e i delitti del bisogno. Fra i primi sono compresi i delitti compiuti in conseguenza di disagio psichico o di dipendenze di sorta (tossicodipendenza, alcoldipendenza); i secondi sono dovuti prevalentemente all'emarginazione, alla miseria, all'angoscia, alla solitudine e alla frustrazione "di chi non trova un lavoro, una identità, un posto nella società" [46] (quindi extracomunitari ed una buona parte dei detenuti italiani, in bilico fra lavori precari, disoccupazione cronica e miserie esistenziali). Riguardo ai delitti del bisogno, non posso non condividere quanto dall'autore espresso, quando afferma che "la società ha il diritto morale, la legittimazione, di reprimere, soltanto se, e nella misura in cui, prima dei delitti si sia seriamente impegnata per rimuoverne le cause ed evitarne, quindi, la commissione, offrendo ai potenziali trasgressori la possibilità di una scelta diversa dalla scelta criminale" . Infatti, i furti, lo spaccio di droga - soprattutto marijuana ed hashish - nei giardini pubblici, gli scippi e le rapine[48] sono spesso legati a realtà esistenziali caratterizzate da depauperamento economico, sociale e culturale, oltre che relazionale, quelle tipiche delle aree periferiche sviluppatesi nel contesto dei grandi insediamenti urbani come Napoli (i rioni napoletani come Sanità, Forcella.), Milano con Quarto Oggiaro e La Barona, Palermo con i quartieri Zen I, Zen II, Settecanoli e Albergherai, Roma .

È con queste persone che l'educatore penitenziario verrà a confrontarsi prevalentemente, all'interno di strutture diverse per collocazione geografica ed anche spaziale (in centro o in periferia?)[50], per struttura architettonica e per possibilità offerte all'espletamento di tutto quanto concorre a "reinventare" l'immagine che la persona reclusa ha di se stessa e dei propri rapporti con il mondo circostante. Dire prevalentemente non equivale ad esclusivamente: in quanto educatore penitenziario può capitare di trovarsi di fronte anche ad uomini che hanno commesso crimini di natura ben diversa ed appartenenti ad altre categorie sociali, non facenti parte della popolazione nata e cresciuta entro i vari "bronx" di periferia delle città italiane: ci sono, infatti, - anche se è raro - persone appartenenti alla media o alta borghesia, ma sarà difficile conoscerli in carcere durante la fase processuale. Si avrà modo di incontrare persone che hanno commesso reati come l'omicidio, o lo spaccio di grosso calibro o altri ancora, come lo stupro, i delitti legati alla criminalità organizzata o la pedofilia. Esistono anche ed ancora i detenuti politici, ovvero uomini e donne che rivendicano o hanno rivendicato finalità politiche nella commissione dei propri reati. Come esistono persone con problematiche a livello psichico. Fra coloro che spacciano, scippano o rubano, l'educatore penitenziario incontrerà una buona parte di persone provenienti dai paesi extracomunitari - ovvero non appartenenti alla Comunità Europea -, i cui reati "tipici" sono inoltre quello legato allo sfruttamento della prostituzione e quelli contro l'attuale legge sugli stranieri. Persone il cui trattamento penitenziario rispecchia, nei fatti, la forte discriminazione che su di esse pende anche al di fuori delle mura del carcere, discriminazione che rischia di far divenire la presenza della componente extracomunitara entro le carceri, la nuova "emergenza" cui lo Stato e l'Amministrazione Penitenziaria dovranno fare fronte. Sulla scorta della lezione proveniente da un passato poi non così lontano, quello degli "anni di piombo", sappiamo che lo Stato risponde alle situazioni di emergenza con un ulteriore inasprimento delle normative e delle prassi penitenziarie, che pur non comportandolo direttamente, sicuramente favoriscono un innalzamento dei livelli di tensione e violenza fra detenuti e fra detenuti e personale penitenziario, sul quale - non dimentichiamolo - concretamente si abbatte, con effetti anche devastanti, l'effetto delle scelte di politica criminale e sociale .

Una buona parte di queste persone sarà in attesa di giudizio, quindi in una condizione mentale profondamente diversa da quella di coloro che al contrario, avranno già visto la propria sentenza passare in giudicato.

A fronte di tutte queste diversità, di questi diversi gradi di colpevolezza e responsabilità, di sofferenza e miserie, cosa può e deve fare l'educatore penitenziario? Ricordando e sottolineando che l'educatore in carcere è solo un anello piccolissimo di una catena lunghissima e riguardante molte più persone di quelle appartenenti al contesto strettamente penitenziario[54], quali sono le sue responsabilità?

Per poter rispondere a questo interrogativo, oltre che ad una conoscenza approfondita di quanto per legge viene richiesto all'educatore penitenziario, non meno importante è cercare di avvicinarsi un po' di più di quanto non riescano a fare le statistiche alla componente umana che dai quei numeri è rappresentata. A questo intento è dedicato il capitolo successivo.




Goffman Erving, Asylums. Le istituzioni totali: I meccanismi dell'esclusione e della violenza, Comunità, Torino 2001, p. 29. Goffman, nella sua analisi, individua cinque categorie di istituzioni totali: istituzioni nate a tutela di incapaci non pericolosi; luoghi istituiti per coloro che incapaci di badare a se stessi, costituiscono un pericolo, anche se inconsapevolmente e senza intenzionalità, per la comunità; istituzioni atte ad allontanare dalla società ciò che si rivela essere un pericolo intenzionale nei suoi confronti (comprendendovi, oltre al carcere, anche i campi di concentramento ed i campi di prigionieri di guerra); istituzioni create per svolgervi una certa attività, che giustificano il loro esistere sul piano strumentale; infine quelle organizzazioni preposte alla preparazione per religiosi, definite "staccate dal mondo" (crf. pp. 34-35).

Crf. Goffman E., op. cit, pp. 33-34. Per un'impostazione alternativa all'analisi del nesso tra i dispositivi mortificanti all'opera nelle istituzioni totali e le istituzioni ordinarie - le famiglia, l'ospedale e la scuola, ad esempio - vd. Curcio Renato, Valentino Nicola, Nella città di Erech, Sensibili alle foglie, Dogliani 2001.

Sull'appartenenza della realtà carceraia alle istituzioni cd. totali, vd. oltre ai già citati Goffman e Curcio-Valentino: Serra Carlo, Il posto dove parlano gli occhi. Come comunicare le emozioni anche nel carcere, Giuffrè, Milano 2002, Mosconi Giuseppe, L'altro carcere, Cleup, Padova 1982, Melossi Dario, Pavarini Massimo, Carcere e fabbrica. Alle origini del sistema penitenziario, Il Mulino, Bologna 1977 e Amato Nicolò, Diritto delitto carcere, Giuffrè; Milano 1987.

I dati informativi e numerici che si presenteranno nel corso del capitolo, sono stati ricavati attraverso l'analisi di diverse fonti. Vd. a cura di Anastasia Stefano e di Gonnella Patrizio, il testo Inchiesta sulle carceri italiane, edito da Carrocci, anno 2002; vd. anche Concato Giorgio (a cura di), op. cit, pp. 25-26; vd. il testo curato da Stivanello Antonio, TESEO. Quando Arianna lascia il filo. Tossicodipendenza e carcere, Società Cooperativa Tipografica 2002 (realizzato con il contributo dell'Assessorato alle Politiche Sociali della Regione Veneto e la ULSS 16 di Padova), ed infine il testo Il collasso delle carceri italiane. Sotto la lente degli ispettori europei, edito da Sapere 2000 nel 2003 e curato da Astarita Laura, Gonnella Patrizio, Marietti Susanna. Sono state inoltre utilizzate fonti multimediali, ovvero il sito internet https://www.giustizia.it/statistiche/statistiche_dap nella raccolta dei dati relativi all'anno 2002 ed il primo semestre del 2003 ed il sito https://www.cpt.coe.int nel rilevamento dei rapporti effettuati dal Comitato Europeo per la prevenzione della Tortura al Governo italiano a partire dal 1992, anno in cui si è verificata la prima visita dei suoi commissari alle strutture penitenziarie italiane.

Rilevazione DAP, in sito internet https://www.giustizia.it (aggiornamento del 07.08.2003).

Le Case lavoro e gli Ospedali psichiatrici giudiziari sono due delle quattro tipologie di istituti previsti per l'attuazione di misure di sicurezza detentive: introdotte con il "codice penale Rocco" nel 1930, con R.D 10 ottobre n. 1398, le misure di sicurezza sono disciplinate dall' art. 199 all'art. 240 del C.P. L'ospedale psichiatrico giudiziario ospita sia internati (soggetti sottoposti a misure di sicurezza), sia detenuti mandati in "osservazione" per motivi psichiatrici. Crf. Canepa M., Merlo S., Manuale di diritto penitenziario. Le norme, gli organi, le modalità dell'esecuzione delle sanzioni penali, Giuffrè, Milano 2002, p. 411 ss.

Il significato corrispondente a tale quantità era di segno affatto diverso da quello di questi ultimi anni. Infatti, con il 1949, inizia un periodo storico di deflazione della popolazione detenuta che all'esordio della Repubblica Italiana, nell'immediato dopo guerra, contava oltre 73.000 persone recluse. Tale fenomeno è proseguito fino agli anni settanta, che hanno registrato un'inversione di tendenza in relazione al verificarsi dei cosiddetti "anni di piombo". L'attuale cifra di 56.000 unità invece rivela una tendenza di cifra opposta, ovvero di nuova inflazione del numero delle persone sottoposte a misura privativa della libertà. Crf. Anastasia S., Gonnella P., Inchiesta, op. cit., pp. 14 ss.

Per una visione più precisa della spartizione della popolazione dei detenuti entro le singole regioni, vd. sito internet www.giustizia.it/statistiche/statistiche_dap in relazione al primo semestre 2003.

Per una maggior completezza sulla struttura del carcere femminile di Venezia vd. Straffi G, Tossicodipendenza in detenzione. custodia attenuata o custodia diversificata?, p.49, in Stivanello A., op. cit.; per quanto riguarda la descrizione delle celle alla Casa Circondariale di Bologna, vd. Astarita L., Gonnella P., Marietti S., Il collasso delle carceri italiane, op. cit, pp. 100-101.

Per un'analisi critica dell'origine storica dell'articolo 27 e della funzione della pena che esso sottende -quella specialprevetiva - si veda Fassone Elvio, La pena detentiva in Italia dall'800 alla riforma penitenziaria, Il Mulino, Bologna, 1980.

Crf. Canepa M., Merlo S., op. cit., pp. 107-110. Per un approfondimento critico del concetto di rieducazione e di quello ad esso connesso di risocializzazione rimando ai cap. 4 e 5 di questo libro.

Questa figura professionale è nata con la Legge 15 dicembre 1990 n. 395, recante l'Ordinamento del Corpo di Polizia Penitenziaria, (pubblicata nella G.U. n. 300 del 27 dicembre 1990 - S.O. n. 88) sostituendosi così al Corpo degli Agenti di Custodia, nato con il R.D. 30 dicembre 1937 n. 2584 - e successive modificazioni -. Funzioni ad essa attribuite sono (art. 5, L. 395/90): assicurare l'esecuzione dei provvedimenti restrittivi della libertà personale; garantire l'ordine all'interno degli istituti di prevenzione e di pena e tutelarne la sicurezza; partecipare, anche nell'ambito di gruppi di lavoro, alle attività di osservazione e di trattamento rieducativo dei detenuti e degli internati; espletare il servizio di traduzione dei detenuti ed internati ed il servizio di piantonamento dei detenuti ed internati ricoverati in luoghi esterni di cura, secondo le modalità ed i tempi di cui all'articolo 4 dello stesso ordinamento. Vd. per una disamina dell'evoluzione normativa e dei cambiamenti di prospettiva da essa comportati Canepa M., Merlo S, op. cit., pp. 91-98.

La suddivisione per Aree è stata introdotta tra il 1991 e il 1992, quando incaricato della Direzione Generale dell'Amministrazione Penitenziaria era l'ex P.M. Amato Nicolò, attraverso l'emanazione del messaggio del 31 Agosto 1991 e la circolare 7 febbraio 1992, n. 3337/5787. Tali Aree sono, per gli Istituti di Prevenzione e Pena per adulti: Area della segreteria, Area educativa (attività di istruzione scolastica e professionale, lavorative, culturali, ricreative, sportive, e, in genere, miranti al trattamento rieducativo dei condannati e degli internati ed alla offerta agli imputati di interventi diretti a sostenere i loro interessi umani, .) cui va preposto un Direttore di area pedagogica o, in mancanza, un Educatore coordinatore, Area sanitaria, Area della sicurezza, cui è preposto il capo del reparto di polizia penitenziaria dell'istituto. In AA.VV., Le aree operative degli istituti penitenziari e dei centri di servizio sociale. Il messaggio del 31 agosto '91 e la circolare del 7 febbraio '92 sulla costituzione e sul funzionamento della aree. Norme e disposizioni sui profili professionali, Ministero di Grazia e Giustizia, 1992.

Per il cambiamento dell'impianto contrattuale del personale appartenente al Comparto Ministeri dello Stato - amministrativo e tecnico - vd. Anastasia S., Gonnella P., Inchiesta sulle carceri italiane, op. cit., p. 160.

Il Provveditorato Regionale dell'Amministrazione Penitenziaria (P.R.A.P.) è un organo periferico dell'Amministrazione, le cui competenze sono state definite con decreto legislativo n. 444 del 30 ottobre 1992, in sostituzione degli ispettorati distrettuali. Tra le varie funzioni espletate vi è quella di verifica e controllo sul funzionamento degli istituti penitenziari presenti nella loro area. I Provveditorati Regionali, le cui sedi sono indicate nella Tabella "E" allegata alla L. 395/90, sono 16. Crf. Canepa G., Merlo S., op. cit., pp. 82-83.

Questa differenziazione della popolazione detenuta per categorie vuole solo avere una funzione orientativa, senza alcuna pretesa di esaustività e di completezza, essendo propria di ogni visione che voglia dirsi pedagogica ed educativa la consapevolezza che nessun uomo può essere "spiegato" né tanto meno compreso entro parametri più o meno specifici e rigidi. Sul tema della irriducibilità dell'essere umano ad alcune categorie astratte (età, provenienza, titolo di studio, lavoro, condizione psico-fisica..) vd. Tramma Sergio, L'educatore imperfetto. Senso e complessità del lavoro educativo, Carrocci Faber, Roma 2003, Milan Giuseppe, Educare all'incontro: la pedagogia di Martin Buber, Città Nuova, 2000, Orlando Cian D., op. cit., Rossi Bruno, Identità e differenza, La Scuola, Brescia, 1994. Sullo stesso tema, vd. Caldin Pupulin Roberta, Introduzione alla pedagogia speciale Cleup, Padova 2001. Si veda anche Maritain Jacques, L'educazione al bivio, La Scuola, Brescia, 1963.

Fonte: DAP, sito internet www.giustizia.it/statistiche/statistiche_dap La percentuale della popolazione femminile era al 31.12.02 pari al 4% del totale, così pure nell'anno 2001.

L'appunto si riferisce alla Legge 30 Luglio 2002 n. 189, entrata in vigore dal 26 Agosto 2002 (data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale), relativa alla "Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo", ancor più oppressiva ed opprimente negli intenti della legge che l'aveva preceduta (il decreto legislativo del 25 luglio 1998, n. 286), ed ancora più irresponsabile nei confronti di un dato di fatto che non si può pensare di eliminare a suon di espulsioni e malcelate chiusure mentali, prima ancora che "di frontiera": che la globalizzazione sta realmente divenendo globale, ovvero sta coinvolgendo anche quella parte del mondo - e chiamiamola pure Sud del mondo, ricordando però che la terra è una sfera sospesa e roteante nello spazio - che è stata - ed è tuttora - soprattutto oggetto di invasioni e soprusi vari, seppure nei testi di scuola che ho avuto modo di studiare venivano denominate "conquiste". Così la definisce Livio Pepino, in La legge Bossi-Fini. Appunti su immigrazione e democrazia, in Diritto, immigrazione e cittadinanza n. 3/2002, p. 9: "Fuor di metafora, la legge n. 189/2002 rappresenta - non ingannino l'apparente buonismo dei centristi e la contestuale sanatoria (o regolarizzazione che dir si voglia) - un salto di qualità inedito, un attacco durissimo ai valori di equità, solidarietà, democrazia". Continua poi con una descrizione relativa agli aspetti principali dell'intervento modificativo della legge.

Vd. la ricerca di Baccani Beatrice "Gli extracomunitari e la sanzione penale, disponibile sul sito www.ristretti.it.areestudio/stranieri

Di questo 30% sulla popolazione detenuta complessiva, la distribuzione per sesso vede un maggior apporto di detenute: al 30 giugno del 2003 le donne recluse nate all'estero sono il 39,8% della popolazione femminile, gli uomini il 29,0% di quella maschile (Fonte: elaborazione dati DAP).

Ciò che più sinteticamente denominiamo cultura, nel significato antropologico dato a questo termine da Tylor Edward nel 1871, definendola "quell'insieme complesso che comprende conoscenze, credenze, arte, morale, diritto, costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall'uomo in quanto membro di una società". Crf. Marazzi Antonio, Lo sguardo antropologico. Processi educativi e multiculturalismo, Carocci, Roma 1999, p. 47.

L'importanza del rispetto delle peculiarità proprie di ciascuna cultura e tradizione è sancita a livello costituzionale, all'art. 3, 1° co., il quale richiama alla pari dignità sociale e alla eguaglianza dei cittadini, a prescindere dal sesso, dalla razza, dalla lingua, dalla religione, dalle opinioni politiche e dalle condizioni personali e sociali. Vista da sola, questa norma potrebbe ritenersi incapace di accogliere tutta la tipologia della popolazione detenuta, essendo la maggioranza dei detenuti stranieri privi della cittadinanza italiana e quindi non cittadini. Ma la Corte Costituzionale ha argomentato che quando si riferisca al godimento di diritti inviolabili dell'uomo, il principio costituzionale di eguaglianza non tollera discriminazioni tra la posizione del cittadino e quella dello straniero. Vd. in proposito Oliveri del Castello Roberto, L'ambito penale della legge 30 luglio 2002 n. 189: la costruzione della muraglia, in Diritto, immigrazione e cittadinanza n. 3/2002, p. 89. Argomentazione recepita dall'O.P, il quale, al secondo comma art. 1 afferma che "Il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose", senza ulteriori specificazioni, il che vuol dire che si rivolge a chiunque capiti di vivere l'esperienza della detenzione, cittadini e non. Vi sono inoltre entro il Regolamento di esecuzione del 2000 degli articoli rivolti e tutelanti specificatamente i detenuti stranieri o apolidi (art. 18², art. 35, art. 62³, art 69²).

Le percentuali sono proporzionali al numero totale di detenuti presenti negli istituti penitenziari il 1° luglio 2001, che erano 56.735. Fonte: Anastasia S., Inchiesta, op. cit., p. 20.

Fonte relativa ai dati sul tasso di occupazione e disoccupazione: ISTAT, Rapporto annuale 2002, Tavole A. 17 e A. 18, disponibili sul sito https://www.istat.it/Prodotti-e/rapporto2002/volume/tavole.pdf

Fonte: Anastasia S., Gonnella P., Inchiesta, op. cit., p. 19.

Il lavoro viene indicato come uno degli elementi fondamentali del trattamento penitenziario nonché di quello rieducativo. Infatti all'articolo 15, 2° co. dell'O.P., leggiamo che "Ai fini del trattamento rieducativo, salvo casi di impossibilità, al condannato e all'internato è assicurato il lavoro".

Innanzitutto una precisazione riguardante le due principali tipologie di lavoro che si possono riscontrare all'interno degli istituti. L'una, definibile il lavoro tipico del carcere, consiste in tutte le attività necessarie allo svolgersi della vita quotidiana dell'istituto (servizio cucina, servizio pulizia locali, .); l'altra, consiste nel lavoro organizzato su base industriale (le lavorazioni, per l'appunto) la cui destinazione finale dei prodotti non è, tuttavia, il vasto mondo del "mercato", bensì l'Amministrazione Penitenziaria stessa. Sull'argomento specifico crf. Canepa M., Merlo S., op. cit., p. 128; per una visione completa degli aspetti giuridici attinenti il lavoro penitenziario vd. Vitali Monica, Il lavoro penitenziario, Giuffrè, Milano, 2001.

Secondo i dati forniti dall'A.P., al 31.12.2002 il numero complessivo dei detenuti lavoranti era di 13.474 persone, pari al 24,4% della popolazione detenuta totale, di cui 11.413 alle dipendenze dell'A.P. (626 occupati nel settore industriale; 426 in Aziende agricole; 9.302 in quelle che vengono definite "mansioni domestiche", cioè fare lo scopino, il portavitto, il barbiere, il bibliotecario - se c'è la biblioteca -, il cuoco.; 840 impiegato alla Manutenzione Ordinaria Fabbricati; caso a parte il Piemonte in cui 19 detenuti, tra semiliberi ed ammessi all'articolo 21 dell'O.P., sono impiegati in opere socialmente utili a protezione dell'ambiente presso Enti e Comunità Montane della Regione). 3.630 gli stranieri lavoranti alle dipendenze dell'A.P. Per una verifica della situazione disomogenea della distribuzione del lavoro penitenziario a livello regionale, vd. www.giustizia.it./statistiche_dap/2sem2002/lavorocorsi/lavoranti_dati_regionali.xls

Rimando al sito indicato nella nota precedente per riscontro.

Nell'anno 2002 sono stati realizzati corsi di arte e cultura, di arti grafiche e televisive, di artigianato, di cucina e ristorazione, di edilizia, di estetica, di falegnameria, di giardinaggio, di idraulica, di informatica ed altri ancora. Fonte DAP.

Tenendo ben presente che l'immagine di qualcosa non coincide con la cosa: in questo caso, anche se le persone rinchiuse all'interno del carcere, vengono immaginate e rappresentate come se fossero dei rifiuti, non lo sono. Sono persone. L'immagine di discarica sociale si connette tanto all'oggetto "rifiuto-immondizia" quanto al gesto del rifiuto, all'atto di chi rifiuta e getta via.

Crf. Mosconi Giuseppe, Criminalità, sicurezza e opinione pubblica in Veneto, Cleup, Padova 2000, cap. 1 e, per un approccio più pedagogico che sociologico sul tema del riconoscimento o meno dell' "altro" e del suo bisogno - ma anche delle sue risorse - vd. Canevaro Andrea, Chieregatti Arrigo, La relazione di aiuto. L'incontro con l'altro nelle professioni educative, Carrocci, Roma 1999, cap 1., spt. pp. 34-51. Legata alle tematiche dell'esclusione sociale e del correlato fenomeno della devianza è la "teoria dell'etichettamento sociale", di stampo sociologico, che considera la devianza non come un insieme di caratteristiche attribuibili ai singoli individui o ai gruppi, bensì come un processo di interazione tra devianti e non devianti. Di conseguenza, secondo questa teoria, per riuscire a comprendere la natura stessa della devianza, è necessario capire preliminarmente perché alcuni individui vengono etichettati come devianti. Crf. Giddens Anthony, Sociologia, Il Mulino, Bologna 1995, pp. 135-137.

Luca, 6, 42 (2): "Come puoi dire al tuo fratello: Permetti che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio, e tu non vedi la trave che è nel tuo? Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e allora potrai vederci bene nel togliere la pagliuzza dall'occhio del tuo fratello". Vd. anche Mt., 7, 3-5.

Perché, di fatto, esiste la pena carcere e le pene derivanti dal carcere, ovvero in conseguenza delle dinamiche che lo caratterizzano in quanto istituzione totale tra le più nocive. Crf. Amato Nicolò, Diritto, op. cit., cap. XI, escluso l'ultimo paragrafo, in cui avendo già precedentemente mostrato perché ed attraverso quali meccanismi il carcere comporta un sovraccarico di afflizione, inizia a prospettare delle soluzioni, passando dalla pars destruens alla pars costruens.

Bisogna tenere presente che il test dell'HIV è volontario, e che quindi il numero degli affetti può risultare sottostimato. Fonte: DAP.

Quaglino Silvana, Bert Giorgio (a cura di), Il counseling nelle professioni di aiuto, in Animazione sociale, n. 98/1996, p. 28.

Crf infra cap. 5.

Dal lontano 1948, con la promulgazione della Costituzione della Repubblica Italiana, a livello di intenti; dal più recente 1975 e 1976, a livello non solo programmatico, bensì esecutivo. Nel 1976, infatti, è stato emanato il primo regolamento di esecuzione dell'O.P., il D.P.R n. 431, che regolamenta le procedure atte a rendere esecutivo - e quindi concreto - quanto previsto dall'Ordinamento stesso. Regolamento modificato nel 2000 per renderlo più rispondente ai cambiamenti sociali verificatesi in questo ultimo decennio. Crf. Canepa M., Merlo S., op. cit.

"Il trattamento degli imputati deve essere rigorosamente informato al principio che essi non sono considerati colpevoli sino alla condanna definitiva", art. 1, 5° comma. Sottolineo il fatto che questo articolo appartiene al Capo I, riguardante i "Principi direttivi" dell'O.P., tesi quindi a indicare i capisaldi attorno ai quali tutta la normativa viene poi costruita ed ai quali, successivamente, si deve ispirare il lavoro svolto dagli operatori penitenziari.

Il trattamento rieducativo è infatti riservato, come precedentemente affermato, ai detenuti condannati ed internati. In proposito l'art. 1 dell'O.P., ultimo comma, dice: "Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l'esterno, al reinserimento sociale degli stessi". Il trattamento è attuato concretamente attraverso delle attività che costituiscono i cosiddetti elementi del trattamento. Tali attività, individuate dall'ordinamento penitenziario all'art. 15, primo comma, sono principalmente l'istruzione, il lavoro, la religione, le attività culturali, ricreative e sportive unite all'agevolazione di "opportuni contatti con il modo esterno ed i rapporti con la famiglia". Ciò è ribadito dall'art. 1 del regolamento di esecuzione penitenziaria, il D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, che ne specifica altresì la finalità al comma due (promuovere un processo di modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti personali, nonché delle relazioni familiari e sociali che sono di ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale, nei confronti dei condannati ed internati).

"Il trattamento penitenziario deve rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto" cit. art. 13, 1° comma O.P.

Vd. ivi, Introduzione p. 4.

Potendo individuare di chi si compone questa massa di persone in attesa di giudizio, si nota che, in data 31 maggio 2001, per il 60% era composta da detenuti stranieri, anche se la situazione per gli italiani, non poteva né può certo dirsi rosea, dal momento che costituivano il restante 40%. Maggiore la quantità di imputabili stranieri soprattutto in primo e secondo grado, con rispettivamente il 29% ed il 23% di presenze (contro il 23 e l'11% per gli italiani). Le distanze si allentano al terzo grado del giudizio, che vede rispettivamente il 7,6% per le persone straniere e il 5,2% per gli italiani. Crf. Anastasia S, Gonnella P., Inchiesta, op. cit., p. 35-36.

Dal sito https://www.giustizia.it sezione statistiche, aggiornato al 26/02/2003.

Ibidem. Crf. Anastasia S., Inchiesta, op. cit., pp. 15-17.

Crf. Anastasia S., Gonnella P., Inchiesta, op. cit., pp. 36-39.

Amato N., Diritto, op. cit., pp. 229-232. Le altre due categorie di delitti individuate dall'autore sono quelle dei delitti professionali (o strumentali) e dei delitti occasionali, detti anche espressivi. Crf. Ibidem., pp 224-229.

Amato N., Diritto, op. cit., p. 231.

Scippi, furti e spaccio soprattutto di piccolo calibro (la "rivendita al dettaglio") sono i reati più frequentemente commessi dalle persone dipendenti da sostanze stupefacenti.

Nel testo Di Salierno Giulio Fuori margine. Testimonianze di ladri, prostitute, rapinatori, camorristi edito da Einaudi 2001, si rileva che in Italia ogni anno si commettono all'incirca tre milioni di reati tra i quali un milione e settecentocinquantamila sono furti. Il colpevole viene scoperto solo nel 3,5 per cento dei casi. Crf. pp. VI-XI dell'Introduzione al testo summenzionato, nelle quali viene anche esposto l'emblematico caso del fabbricato di Corviale, sorto nella periferia sud-ovest a Roma nella prima metà degli anni Ottanta.

La posizione della struttura penitenziaria rispetto al contesto sociale in cui è collocata può rivelarsi un fattore favoreggiante - o al contrario ostacolante - l'apporto della società esterna e l'interscambio fra chi sta dentro e chi sta fuori, altro principio caro all'O.P. ed al suo reg. esec.

Sul concetto di reinventare se stessi, o altrimenti detto, "rifarsi il ritratto", vd. Demetrio Duccio, Educatori di professione. Pedagogia e didattiche del cambiamento nei servizi extra-scolastici, La Nuova Italia, Firenze 1999, pp. 67-68.

Sul tema della discriminazione degli extracomunitari entro il circuito penitenziario, dalla fase processuale per arrivare a quella esecutiva, vd. Anastasia S, Inchiesta, op. cit, pp. 33-51; gli articoli 13, 14, 15 della legge 30 Luglio 2002, n. 189, prevedendo l'espulsione quale strumento privilegiato di risoluzione del problema immigrati in ambito di esecuzione penale, stroncano sul nascere - per il detenuto immigrato - qualsiasi tipo di speranza relativa ad un proprio effettivo reinserimento sociale sia qui in Italia che nel proprio paese di origine. Crf. Oliveri del Castello Roberto, cit., p. 81 ss. Per quanto riguarda invece i fenomeni discriminatori e le tendenze xenofobe esistenti nel contesto sociale italiano da ben prima che il numero degli immigrati fosse pari al 4,5% della popolazione italiana, vd. Ciotti Luigi, Persone non problemi., op. cit., pp. 130-139, pp. 192-194 e dello stesso autore, Chi ha paura delle mele marce? Giovani, droghe, emarginazione., edizioni Gruppo Abele, Torino 1992, pp. 133-159.

Crf. Amato N., Oltre le sbarre, Arnoldo Mondadori, Milano 1990, pp. 65-100.

Anche se viene definito "pianeta carcere" sullo stesso sito del Ministero della Giustizia, quasi a decretarne l'appartenenza ad un mondo altro, il carcere è un'istituzione di questa società, creato in questa società, con determinati connotati comprensibili solo in relazione a questo contesto sociale e culturale, con il quale il legame ed il rapporto non può essere eluso, pena un atteggiamento fortemente superficiale e poco realisticamente storicizzante.

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