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Worldbuilding | (Ri)costruire un mondo narrativo




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Worldbuilding | (Ri)costruire un mondo narrativo







TERRAFORMING | NARRATIVE COME PROGETTI DI INGEGNERIA PLANETARIA




Abituati oramai a transiti terminologici dalle scienze cognitive alla teoria della narrazione, iniziamo a invertire il vettore di prestito, partendo da un termine che è stato invece ceduto dalla narrativa, e nello specifico dalla science fiction, non alle scienze cognitive questa volta, ma all'astrofisica. In un racconto breve dal titolo di Collision Orbit, pubblicato nel

1942, lo scrittore americano Jack Williamson, firmandosi con lo pseudonimo di Will Stewart, coniò l'affascinante termine di "terraforming", per descrivere il tentativo degli esseri umani, nell'apocalittica finzione dove l'equilibrio ecologico della terra è stato distrutto, di rendere abitabili altri mondi. Nelle parole dell'astronomo Martin Beech, che all'impiego di questo concetto in campo astrofisico dedica un intero volume:



The word ''terraforming'' conjures up many exotic images and perhaps even wild emotions, but at its core it encapsulates the idea that worlds can be changed by direct human action. The ultimate aim of terraforming is to alter a hostile planetary environment into one that is Earth- like, and eventually upon the surface of the new and vibrant world that you or I could walk freely about and explore. [.] A direct translation of the word terraforming is ''Earth shaping,'' and this is further taken to mean the process by which a planet is made Earth-like, and by implication a world capable of supporting human life (2009: 7-9).



Prima ancora che un progetto scientifico, quindi, l'attività di "terraforming" impiega le risorse dell'immaginazione: si tratta di immaginare un pianeta come Marte o Venere con caratteristiche di ossigeno, acqua e temperatura simili a quelle della terra, e perciò abitabili dall'uomo. Si tratta, detta in altro modo, di immaginare un mondo come quello che conosciamo, e capire come manipolarne fisicamente lo stato attuale per renderlo coincidente con quello che abbiamo immaginato. In questo caso, però, ci sono due mondi attuali, la terra e il pianeta su cui si esercita il "terraforming", e il mondo virtuale e, in questo caso, controfattuale, in cui il pianeta inospitale viene reso simile al nostro. Che tipo di analogia possiamo trovare, allora, tra questa modalità di immaginare come trasformare un mondo che già esiste, e il procedimento cognitivo con cui costruiamo un mondo finzionale?

Un mondo narrativo non è necessariamente un mondo controfattuale. Mentre quest'ultimo è dipendente da un proprio antecedente (come nel "terraforming" su Marte ci si immagina "come sarebbe Marte se non fosse come è"), un mondo finzionale è indipendente, a livello ontologico, dal mondo reale, non esiste fino al momento in cui viene dall'autore costruito e dal lettore ricostruito. In questa direzione, la teoria che ha maggiormente indagato i fattori costituitivi di un mondo narrativo è quella, mutuata dalla metafisica di Leibniz e dalla logica modale (Lewis 1978), di una semantica dei mondi possibili. Semplificando i numerosi problemi filosofici e logici che un simile approccio alla narrativa comporta e suscita, si può dire che considerare i mondi finzionali come mondi possibili significa svincolarli dal problema mimetico e da tutti i problemi logici riguardanti la verifica di verità tra ciò che è nel testo e ciò che è nel mondo extratestuale. I mondi narrativi, infatti, vengono a essere ontologicamente consistenti come serie di eventi non- attualizzati, il cui solo rapporto di referenza è interno al mondo stesso e non da cercarsi nella verosimiglianza con il mondo esterno al testo. Questo particolare tipo d'indipendenza è ciò che Lubomir Dolezel, uno degli esponenti più significativi di questa corrente teorica applicata ai mondi narrativi, chiama una fictional reference:



Fictional worlds are ensembles of nonactualized possible states of affairs. Fictional worlds and their constituents, fictional particulars, are granted a definite ontological status, the status of nonactualized possibles. While Hamlet is not a man to be found in the actual world, he is an individualized possible person inhabiting an alternative world, the fictional world of Shakespeare's play. The name Hamlet is neither empty nor self-referential; it refers to an individual of a fictional world. By positing possible worlds as the universe of fictional discourse, our semantics gives legitimacy to the concept of fictional reference. (1998: 16)



Un mondo narrativo viene così ad essere allo stesso tempo esistente e, logicamente consistente, seppure non attualizzato, rispondendo della propria coerenza, incoerenza o verosimiglianza solo per ciò che contiene e non per ciò che rispecchia. Tuttavia, come abbiamo già detto, questi mondi non preesistono tanto all'atto creativo che, ancor di più, all'atto di lettura con cui vengono dal lettore ricostruiti.

Cognitivamente parlando, gli stimoli semiotici di un testo narrativo non sono cioè il mondo stesso della narrazione, ma appunto indicazioni che il lettore deve completare con la propria attività di risposta estetica: con una suggestiva metafora, David Herman ha così definito le narrazioni come «blueprints for worldmaking» (2009: 105-108), progetti bidimensionali che spetta all'edilizia cognitiva del lettore ricostruire dando forma, solidità e profondità fino a costituire quelli che sempre Herman definisce come storyworlds:

«Storyworlds can be defined as the worlds evoked by narratives; reciprocally, narratives can be defined as blueprints for a specific mode of world-creation. Mapping words (or other kinds of semiotic cues) onto worlds is a fundamental - perhaps the fundamental - requirement for narrative sense-making» (2009: 105)

L'idea stessa di mondo narrativo ha generato metafore geografiche e spaziali come quella dell'"essere trasportati" dalla lettura in un universo alternativo40, che potrebbero essere fuorvianti, in quanto da nessun punto di vista, né logico né cognitivo, esiste un mondo della narrazione prima che venga costruito dall'atto creativo e ricostruito dall'atto ricettivo. Il processo della lettura si basa su un sistema che convoca ciò che è al di fuori di noi, ossia lo stimolo semiotico, e ciò che è dentro di noi, l'attività mentale con cui

ricostruiamo psicologicamente e neurologicamente il testo letterario come un mondo. Dov'è, dunque, un testo narrativo? Non certo in un lontano sistema solare, ma in un più prossimo sistema cognitivo e interpretativo la cui stessa esistenza dipende dall'atto di lettura. Ecco come, alla stessa domanda, ha infatti recentemente risposto Norman Holland, lo psicologo cognitivo che maggiormente si è occupato del rapporto tra letteratura e processi mentali:


A literary work exists, so far as we will ever known, in a system. That system consist of something "out there (a physical " text" that we know only trough this same system) plus the neuronal entities that bridge inner and outer worlds. A poem, a story, a play, or a movie occurs somehow between us and the world around us. It is in both, because it is our construct. (2009:38)




Un mondo narrativo non ha, quindi, coordinate da raggiungere, ma informazioni semiotiche con cui interagire in un processo: non è localizzabile, ma edificabile. A che scopo, allora, aver scomodato un'attività come il "terraforming", per quanto ancora in senso metaforico, per descrivere la (ri) costruzione di un mondo da parte del lettore? Perché per quanto, come insegna la teoria dei mondi possibili, un universo narrativo sia indipendente in senso ontologico dal mondo reale, questo non significa che lo sia la sua interpretazione da parte del lettore, legata quest'ultima, come abbiamo ampliamente visto, a una concreta esperienza della realtà, con relativi parametri cognitivi. Inoltre, che altro non è che dire lo stesso da un'altra prospettiva, i mondi estetici poggiano non su un vuoto penumatico, ma su conformità e difformità rispetto ad altri mondi: la loro autonomia ontologica, così, non è un'indipendenza assoluta, quanto piuttosto una libertà di variare e di mentire.

Nel suo oramai fondamentale studio sulle diverse Ways of Worldmaking di arte e letteratura, Nelson Goodman ha spiegato come, infatti, ogni creazione estetica sia in realtà una ricreazione che utilizza elementi di altri mondi, reali o finzionali che siano:



The many stuff - matter, energy, waves, phenomena - that worlds are made of are made along with the worlds. But made from what? Not from nothing, after all, but from other worlds. Worldmaking as we know it always starts from worlds already on hand; the making is a remaking. (1978: 6)



In questo principio - che riecheggia il postulato fondamentale sulla materia del chimico francese Antoine Lavoisier, secondo cui «rien ne se perd, rien ne se crée tout se transforme» o il pensiero di Epicuro e Lucrezio secondo cui ex nihilo nihil fit - si suppone una contingenza produttiva tra mondi diversi, una circolazione tra i loro elementi. E arriviamo così all'idea dell'atto di lettura come un "terraforming".

Quale principio fondamentale guida il lettore nella ricostruzione di quel particolare tipo di mondo estetico che è un mondo narrativo? Integrando la teoria dei mondi possibili a un'estetica della ricezione, se non in senso cognitivo con molte aperture a riguardo, Mary- Laure Ryan ha spiegato come il lettore, salvo diversamente indicato dal testo, tenda ad assegnare al mondo finzionale caratteristiche simili al proprio universo: tenda cioè a edificare i mondi che deve ricostruire operando un earth-like shaping, il cui isomorfismo interessa non solo le leggi fisiche e la presenza di elementi contestuali come alberi, fiumi, continenti o precipitazioni, ma la stessa morfologia fisica dei personaggi (due gambe, due occhi, un cuore) e della loro psicologia (una coscienza, un'intenzionalità dietro le azioni). È una forma di economia cognitiva che, ampliando la metafora di Herman secondo cui le storie sarebbero progetti di un'edilizia planetaria, può essere descritta quindi come un "terraforming", e che la Ryan, continuando l'idea di una lettura come viaggio verso altri mondi ha invece sintetizzato come un principle of minimal departure (1991: 49-60).





Principle of Minimal Departure e Negatività | Dal poco al mondo, una passeggiata inferienziale




Naturalmente, se si potesse immaginare un testo che interamente riempie ogni possibile vuoto informativo rispetto al mondo che descrive, non ci sarebbe di che discutere, poiché il lettore non avrebbe uno spazio ermeneutico in cui giocare il proprio ruolo. Ma, fortunatamente, simili testi non possono esistere nemmeno nel più iperdeterminato romanzo realista, poiché, in quanto la narrativa è un artefatto umano, non può raggiungere la completezza che solo una narrazione di infinita lunghezza potrebbe tentare, come bene riassume Dolezel:



«A necessary consequence of the fact that fictional worlds are human constructs is their incompleteness [.]. It would take a text of infinite length to construct a complete fictional world. Finite texts, the only texts that human are capable of producing, are bound to construct incomplete worlds. (1998: 169)



È su questa natura negativa del testo narrativo che il principio proposto dalla Ryan acquista validità. Se, infatti, il lettore non potesse da solo portare il proprio mondo come modello grezzo da rimanipolare attraverso quanto via via indicato dal testo, dovremmo ipotizzare che in ogni romanzo in cui compare un personaggio si debba accennare all'ossigeno presente nell'aria e ai polmoni che gli permettono di trasformarlo, dove la descrizione di un tramonto la necessaria specifica sulla rotazione terrestre, etc.. Al contrario, ecco come la Ryan presenta in modo esteso la sua ipotesi:

Our knowledge of reality is put to similar use in the valuation of statements of fact about fiction. It is stated nowhere in Madame Bovary that Emma's husband has two legs, yet the theorist of fiction [.] agree that the statement "Charles Bovary is one-legged" is to be taken as false in the universe of the novel. The reason is that the text presents Charles as human being, and the normal number of legs for a human being is two. Since we regard "the real-world" as the realm of the ordinary, any departure from norms not explicitly stated in the text is to be regarded as a gratuitous increase of the distance between the textual universe and our own system of reality. [.] This law - to which I shall refer as the principle of minimal departure - states that we reconstrue the central world of a textual universe [.] as conforming as far as possible to our

representation of AW [sigla per Actual World, ossia il mondo reale, n.d.r.]. (1991: 51)



Dovrebbe essere chiaro quanto questo principio secondo cui il lettore porta il proprio mondo nel testo, o meglio ne fa il materiale di riempimento per quanto il testo non dice, non sia in opposizione, ma a complemento di quanto detto nei precedenti paragrafi.

Un principio di minima dipartita dal mondo reale è l'equivalente, nei termini della teoria dei mondi possibili, di quanto detto per gli altri elementi di narratologia cognitiva che abbiamo elencato. Il lettore, nel viaggio che lo porta ad attraversare il mondo che lui stesso ricostruisce dalle notazioni semiotiche del progetto narrativo, è provvisto di un bagaglio cognitivo che è l'insieme degli elementi che abbiamo fino a qui avvicinato. L'idea della Ryan anticipa e sintetizza solo un modo per indicare una forma di rappresentazione generica che transita da un mondo all'altro e che altri, come la Fludernik o Herman, hanno spinto ulteriormente verso parametri cognitivi.

Quando la Ryan sottolinea che il lettore, salvo diversamente indicato dal testo, costruisce architetture familiari per il mondo narrativo che è chiamato a interpretare, anticipa, ad esempio, i due livelli (top-down e bottom-up; dove il primo per la Ryan sarà il mondo che il lettore costruisce secondo il principio illustrato, mentre il secondo corrisponderà alle variazioni che il testo impone di operare al mondo prototipico portato dal lettore) che Jahn individua nell'atto di lettura attraverso la teoria dei frames. E ancora, i frames percettivi indicati dalla Fludernik così come i modelli mentali e le rappresentazioni concettuali chiamate in causa da Herman possono essere visti come avanzamenti teorici in prospettiva cognitiva dell'idea di un atteggiamento cooperativo del lettore rispetto alla negatività dell'informazione testuale.

La negatività narrativa, per continuare a muoverci anche cronologicamente tra gli studi che hanno contribuito al corrente assetto della narratologia, era già stata ampliamente analizzata da Wolfgang Iser (1978), nel suo pionieristico, e filosoficamente forse ancora insuperato, studio sulla fenomenologia della risposta estetica.

Appoggiandosi al concetto di indeterminatezza (Ubenstimmtheitsstellen) di un testo letterario, formulata qualche anno prima da Roman Ingarden (1973), Iser dedica buona parte del suo studio a sottolineare come l'atto costitutivo con cui il lettore ricostruisce un testo si sviluppi sui vuoti nella continuità della narrazione. Questi vuoti possono essere generati da due elementi distinti. Da un lato ci sono quelli che lui definisce come blanks testuali (mancanze di raccordo nel passaggio da una prospettiva all'altra, dallo standingpoint di un personaggio al successivo senza mediazione, o da un cambio di contesto e di situazione non esplicitato) la cui rilevanza estetica è enorme proprio perché stimolano nel lettore un atto di combinazione tra ciò che precede e ciò che segue questo black-out narrativo, dove una «suspension of connectability» (1978: 202) apre allo stesso tempo una o più «potential connection» (182). Lo stesso può dirsi del secondo elemento, ossia quello della negazione testuale, dove una serie di norme contestuali (cognitivamente parlando, oramai diremmo frames) fino a quel momento convalidate, rispetto al mondo evocato- norme sociali, temporali o fisiche, vengono di colpo invalidate dal narratore o dalla prospettiva di un personaggio, senza però che venga indicato come sostituirle: questo particolare tipo di disarcionamento percettivo «situates the reader halfway between a 'no longer' and a 'not yet'» (213).

Questi due tipi di strategie testuali, queste assenze e cancellazioni, continua Iser, permettono di ribilanciare la fondamentale asimmetria tra testo e lettore, poiché la chiusura e la superiorità d'informazioni del primo apre maglie di indeterminazione che il lettore è chiamato a suturare, mai esaustivamente, con la propria attività immaginativa. È, appunto, questa particolare qualità con cui il testo negando o tacendo i propri raccordi svela la sua complessità nascosta e convoca il lettore all'atto costruttivo e costitutivo del mondo implicito dietro le stringhe o i frammenti informativi, che Iser chiama negativity:



Blanks and negations denote the missing links and the virtual themes along the syntagmatic and paradigmatic axes of the text. They make it possible for the fundamental asymmetry between text and reader to be balanced out, for they initiate an interaction whereby the hollow form of the text is filled by the mental images of the reader. In this way, text and reader begin to converge, and the reader can experience an unfamiliar reality under conditions that are not determined by his own disposition. Blanks and negations increase the density of fictional texts, for the omissions and cancellations indicate background, and so the formulated text has a kind of unformulated double. This 'double' we shall call negativity [.] Unlike negation, negativity is not formulated by the text, but forms the unwritten base; it does not negate the formulations of the text, but- via blanks and negations-conditions them. It enables the written words to transcend their literal meaning, to assume a multiple referentiality, and so to undergo the expansion necessary to transplant them as a new experience into the mind of the reader. (225)



Il principio di minimal departure suggerito dalla Ryan può allora essere integrato, ma tuttavia non coincide con questo doppio non formulato dal testo. In sintesi, mi pare che l'integrazione possa avvenire in questo senso. Mentre la Ryan individua un'attività preliminare del lettore, quella cioè di preparare mentalmente un modello di mondo simile al proprio e che modificherà solo in seguito a segnali testuali, Iser sottolinea come ogni omissione informativa o negazione che turbi la coerenza di questo mondo porti a una riformulazione da parte del lettore. Entrambi, così, insistono sulla natura produttiva dei vuoti informativi, ma la Ryan a favore della continuità del frame costruito dal lettore (il frame familiare del proprio mondo), mentre Iser indaga la discontinuità dinamica con il lettore in continuazione vara nuove possibilità in grado di giustificare ciò che da dietro, nel silenzio del doppio testuale, ha lacerato i raccordi o prodotti le negazioni.

Per chiudere il parallelo, mi sembra che, nella diade suggerita da Herman di una lettura come processo alternato tra worldmaking e world disruption (2009: 89-136), il principio formulato dalla Ryan sia più focalizzato sulla prima attività, mentre Iser sul potenziale, comunque produttivo, di ogni spostamento indotto dalla frattura nel tessuto del testo. La negatività, in sintesi, è un doppio fondo con un doppio effetto: per la Ryan ciò che non è detto conserva il modello mentale del lettore; per Iser, non al contrario, ma in senso complementare, ogni vuoto informativo accende nel lettore una rosa cognitiva di possibilità per giustificarlo, dove ogni distruzione della continuità diventa rigenerazione di un nuovo tessuto. Di certo, ciò su cui entrambi i teorici convergono è su come il testo abbia un dorso non esplicito che il lettore è chiamato a ricostruire, quella che potremmo definire una gappiness che, come suggeriva Palmer per le fictional minds, fa della lettura una strategia cognitiva «to join up the dots» (1.3).

Un ultimo concetto, meno problematico da integrare con il principio della Ryan, e legato a quest'attività di riempimento dei vuoti da parte del lettore, è l'idea, suggerita da Dolezel, di una saturazione del testo. Questa può essere vista come una grandezza scalare, che può essere volutamente spinta verso uno dei due opposti che la determinano. La saturazione corrisponde alla quantità di informazioni e dati contestuali che il testo via via fornisce (che Dolezel riassume come fictional facts) o che, all'opposto, tace (generando i gaps del testo). A un diverso grado di saturazione corrisponderà una diversa texture, più o meno esplicita e quindi più o meno informativamente fitta, del mondo narrativo. Rispetto a questa tramatura testuale più o meno densa, che d'altra parte è molto vicina al concetto di indeterminazione di Ingarden ripreso da Iser, il coinvolgimento del lettore, spiega Dolezel, sarà variato in modo inversamente proporzionale alla quantità di informazioni che il testo porta al suo interno. Nel momento in cui il tessuto informativo si allarga fino a produrre un vuoto, si arriverà all'estremo negativo di questa grandezza che Dolezel definisce una zero texture. Lontano dall'essere una peculiarità di testi sperimentali, alcuni punti di smagliatura del mondo finzionale sono la normalità e, visto il loro rapporto dinamico con l'attività cognitva della lettura, una potenziale risorsa più che un impedimento alla partecipazione estetica:


The texture of a fictional text is the result of the choices the author makes when writing the text. When the author produces an explicit texture, he or she constructs a fictional fact [.]. If no texture is written (zero texture), a gap arises in the fictional-world structure. Gaps, let us repeat, are necessary and universal feature of fictional worlds. Yet the particular fictional texts vary the number, the extent, and the functions of gaps by varying the distribution of zero texture. [.] The variable saturation of fictional worlds is a challenge to the reader, a challenge that increases as the saturation decrease. (1999: 169-170).



Riassumendo e concludendo sull'edilizia cognitiva che il lettore compie per ricostruire un mondo dagli stimoli semiotici di una narrazione, ciò che emerge è che l'idea di mondo narrativo non vada presa né come metafora indeterminata riferita all'immaginario che un testo presenta, né unicamente all'insieme dell'informazioni che il lettore proietta su di esso. È l'ennesimo concetto che chiama in causa l'interazione ermeneutica tra le informazioni pregresse del lettore - che vari teorici hanno diversamente definito come

«enciclopedia» (Eco 1979: 13-24), «repertoire» (Iser 1978: 53-85) o «experiential repertorire» (Herman 2002: 344) - e che dimostra come il testo sia solo una metà del mondo che viene eretto dalla risposta estetica. Per chiudere con un'ultima e ariosa metafora di Umberto Eco, più che un viaggio in un altro universo, l'avventura del lettore è una «passeggiata inferienziale» (1979: 118) dove, per il tramite dell'immaginazione e con i materiali dell'esperienza, questo ricostruisce dal poco il mondo.

Il pregio della metafora di Eco mi pare sia quello di restituire quotidianità a questa pratica di inferenze che, se vero quanto detto finora, utilizzano dispositivi cognitivi che non sono riservati all'esperienza testuale, ma al nostro commercio, narrativo e non, con la nebulosa di stimoli informativi che è quotidianamente per noi il mondo reale e che, per diradarsi e farsi forma e concetto, ha bisogno del nostro contributo.

Con questo paragrafo più globale sull'idea di mondo narrativo e sulla sua formazione come ricostruzione negoziata con il repertorio del lettore, dopo aver visto elementi più locali nelle sezioni precedenti, ci sono tutti i termini per formulare l'ipotesi che verificherò, in vario modo, nella seconda parte. Prima, però, un piccolo raccordo è necessario per capire perché, per approdare alla categoria che intendo proporre, dovrò nel prossimo capitolo sostare ancora un poco nel campo delle scienze cognitive.





Raccordo | Inversione di marcia e anticipazione del secondo capitolo




In questo lungo, forse sproporzionato capitolo, ho mostrato come negli ultimi anni, ma con basi teoriche che si spingono fino alla fine degli anni settanta, una parte consistente della narratologia "post-classica", secondo la definizione di Herman anticipata nell'introduzione, abbia effettuato una svolta interdisciplinare, aprendosi alle scienze cognitive. Questo "cognitive turn", che nelle scienze cognitive ha inizio già alla fine degli anni sessanta,

sembra oramai essersi esteso all'intera aria umanistica41.


Con un'operazione di discutibile fruibilità, ho voluto prima mostrare l'ampio ventaglio d'incursioni terminologiche che le scienze cognitive hanno concesso alla

narratologia. Naturalmente, non si tratta solo di mutuare un lessico, sebbene anche una semplice operazione metaforica, con cui si prendono immagini ed esempi da discipline distanti per forzarle a illuminare problematiche narrative, possa avere un potenziale chiarificatore e una fortuna critica, com'è stato per la longeva metafora ottica con cui Genette ha parlato di "focalizzazione" nel racconto.

Il tentativo è piuttosto quello di mettere in luce come la risposta estetica stessa, così come la creazione di una narrazione, sfruttino dispositivi cognitivi e non possano così essere ridotte alla ricezione o all'espressione di un contenuto, né allo studio isolato della forma, ma vadano viste come attività e processi costruttivi, ossia che costruiscono il loro oggetto nello stesso processo di produzione o ricostruzione. Se da un lato questa svolta metodologica amplia notevolmente i confini del mondo finzionale, poiché ne situa una parte importante nell'attività mentale del lettore, dall'altra avvicina il mondo reale al testo, attraverso la condivisione di simili meccanismi cognitivi.

In questo primo capitolo, cioè, si è visto come la narratologia abbia cercato e, almeno nella mia prospettiva, trovato una posizione mediana tra il culto del testo come struttura e un eccesso di accredito o importanza assegnata a ciò che nel testo non è presente, che siano le intenzioni autoriali o le opinioni di una comunità di lettori, trasformando il triangolo autore-testo-lettore in una integrazione ermeneutica su base cognitiva.

Nel mostrare come sulla narrativa agiscano meccanismi cognitivi che utilizziamo nel mondo reale, come cioè il parlare di "esperienza" narrativa sia più di una metafora, si è attivato, tuttavia, solo un vettore di transito tra scienze cognitive e narrazione: quello, cioè, che dalle prime getta luce sulla seconda. Ora, per capire in che senso ho intenzione di definire alcuni romanzi come mondi cognitivi, occorre, però, mostrare brevemente anche il vettore di ritorno, ossia quello che vede un interesse crescente delle scienze cognitive nei confronti della pratica narrativa. A un "cognitive turn" nelle scienze umane, corrisponde, infatti, un "narrative turn" nelle scienze cognitive.

Da qui inizierò così il prossimo breve capitolo, ancora e per poco lontano dai testi, al cui termine finalmente potrò dare forma completa alla mia ipotesi di alcuni particolari tipi di mondi in cui queste due direzione di marcia, vale a dire i meccanismi cognitivi dietro la narrazione e il rapporto inverso tra narrazione e cognizione, saranno fondamentali all'analisi e all'interpretazione.



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