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La sindrome del burnout




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LA SINDROME DEL BURNOUT


L'espressione "burnout", di origine americana, ha come significato convenzionale quello di qualificare un soggetto che dopo un duro lavoro esaurisce le sue energie per arrivare al raggiungimento di una meta designata. Quest'espressione, ormai in uso anche nella nostra lingua con la traduzione di bruciato, esaurito, logorato, è impiegata in diversi ambiti di studio: lo sport, l'ingegneria meccanica, le tossicodipendenze, etc.

È solo a partire dalla metà degli anni '70 che il concetto di burnout viene utilizzato negli Stati Uniti d'America nel campo della psicologia, per indicare lo stato di esaurimento professionale degli operatori nei servizi (Rossati, Magro, 1999), una sindrome (costellazione di sintomi) che si presenta come particolare tipo di risposta ad una situazione di lavoro sentita come intollerabile (Cherniss, 1983).

È difficile stabilire chi abbia introdotto per la prima volta il termine burnout in ambito psicologico tra Herbert J. Freudenberger (1974), cui molti autori tendono ad accreditare il primato (Del Rio, 1990; Zani, Palmonari, 1996), o Christina Maslach che nel suo libro "Burnout: The Cost of Caring" afferma di essersi occupata di burnout partendo da zero e di avere esposto le sue idee al convegno dell'American Psycological Association del 1973 a Montreal (Maslach, 1982); come è, altrettanto difficile, accogliere una definizione che soddisfi le diverse teorizzazioni, applicazioni e ricerche, che fino ad oggi si sono concentrate sul fenomeno del burnout, ma che non sia limitata ad un singolo approccio scientifico.

Obiettivo di questo studio è analizzare il fenomeno del burnout nella sua complessità e multifattorialità, comprendendo un punto di vista: individuale, gruppale, organizzativo e di comunità, attraverso la cornice teorica della Psicologia di comunità.



Definizioni e prospettive


Il burnout è un fenomeno complesso, che non può essere fatto rientrare nell'ambito di una sola disciplina ma deve essere considerato come risultante di un'azione sinergica di fattori individuali, di fattori collegati alla condizione lavorativa (organizzazione) e di fattori determinati dalla situazione storico-politico-sociale.

Gli autori, che negli anni '70/'80 si sono avvicendati nello studio e nella ricerca sul burnout, concordano sugli effetti che esso produce, in pratica del deterioramento della propria identità professionale da parte dell'operatore che più o meno consapevolmente dichiara di 'non farcela più' e che ha come conseguenza una perdita del senso delle proprie capacità, riduzione del livello di autostima, sentimento di impotenza e un passivo comportamento di rinuncia e di routine.

Le prospettive eziologiche del burnout spaziano nell'antinomia tra cause endogene, che evidenziano una "attribuzione disposizionale" di debolezza del carattere e di una personale inadeguatezza, e cause esogene, che considerano una "attribuzione situazionale" in cui la causa è funzione del mal funzionamento del servizio e dei ruoli che esso delinea (Pines et al., 1981).

Per analizzare le cause che generano il burnout possiamo delineare quattro prospettive, quattro punti di vista distinti, che possono però integrarsi a vicenda (Rossati, Magro, 1999).

La psicologia dell'apprendimento, attraverso gli studi di due ricercatori americani, Overmier e Seligman, definisce il burnout come "impotenza appresa" (learned helplessness). L'impotenza appresa non permette di compiere una precisa valutazione della situazione attuale e svia il soggetto ad affermare le convinzioni preesistenti. Secondo Seligman (1975), tale impotenza, comporta tre deficit fondamentali: deficit motivazionale, in cui è compromessa la possibilità di controllare la situazione tramite delle azioni appropriate atte a modificarla; deficit cognitivo, che impedisce al soggetto influenzato da diverse aspettative di prendere coscienza del ruolo delle sue azioni nella situazione; deficit emozionale, che si manifesta con effetti di forme diverse dalla paura alla depressione, dall'agitazione ansiosa fino alla rabbia.

Il punto di vista clinico-psicoanalitico, come la psicologia dell'apprendimento, si basa su un'eziologia prettamente centrata sull'individuo. In questa prospettiva si sottolinea come la mente umana ha la capacità di difendersi rifiutando di vivere l'esperienza che è percepita come dolorosa e intollerabile. L'idea, di una tendenza a rifiutare ciò che è percepito come 'cattivo', è stata intuita in principio da Sigmund Freud e in seguito approfondita da Wilfried Bion nella sua "Teoria del pensare", con la funzione "alfa" che permette di metabolizzare un'esperienza attribuendogli nuovi significati che prima erano incomprensibili e terrorizzanti (Bion, 1962). Antonio Imbasciati (1983), riprendendo Bion, ha parlato di "autonomia" per indicare la tendenza della mente ad evacuare, ad allontanare da sé le esperienze che, troppo frustranti e dolorose, sono destinate a rimanere al di là della barriera della pensabilità.

Freudenberger (1974) considera come fattori individuali di maggiore predisposizione al burnout: «lavorare con dedizione e impegno, sentirsi impegnati nel cercare di dare risposte ai bisogni manifesti delle persone che chiedono loro aiuto».  Farber (1983) considera che i soggetti a rischio di burnout siano empatici, sensibili, umanitari, impegnati, idealisti, persone orientate con una forte motivazione verso l'aiuto del prossimo, tutti fattori che sono maggiormente evidenti in chi ha appena iniziato una professione. Infatti, da alcune ricerche risulta che l'anzianità di servizio è negativamente correlata al burnout (Di Maria, Di Nuovo, Lavanco, 2001).

La prospettiva kleiniana indica come responsabili del disagio il meccanismo dell'idealizzazione di un progetto grandioso e della proiezione sull'utente di fantasie di riuscita del problema e guarigione. È proprio il diniego di queste due forme di idealizzazione che va a destabilizzare l'idea narcisistica di onnipotenza che Laura Grasso (1985) scopre nell'operatore che pensa di 'cambiare il mondo', e che Larson e coll. (1978) evidenziano nella "attitudine sovrumana" del terapeuta.

Un fattore individuale di costruzione prettamente psicoanalitica è l'esistenza di un Super Io rigido, punitivo e persecutorio che influisce sulla risposta individuale allo stress con un quadro di "ansia nevrotica"; così nella "posizione depressiva" individuata da Melanie Klein «l'oggetto ideale, con cui l'Io ambisce ardentemente a identificarsi, diventa la parte di ideale dell'Io del Super Io, spesso anche persecutoria, per le sue richieste elevate di perfezione» (Segal, 1964).

Il senso di colpa, che scaturisce dalla voglia di riparare ciò che si è danneggiato, si trasforma in impotenza di fronte al progetto di riparazione maniacale, poiché nessuna riparazione riuscirà ad ottenere la perfezione intrinseca dell'oggetto idealizzato e a soddisfare le esigenze di un simile Super Io (Klein, 1946); da ciò deriva la successiva perdita dell'ideale e la frustrazione e il pessimismo che si assopiscono con il distacco dal lavoro e dagli utenti.

Il punto di vista psicosociale considera essenziali, per l'analisi del fenomeno, i rapporti interpersonali che il lavoratore ha con l'équipe in cui è inserito, con i colleghi e i superiori, con la struttura organizzativa dell'azienda o istituzione di cui fa parte. Cherniss (1983) considera tale prospettiva più feconda sia da un punto di vista teorico che pragmatico, perché «è più facile ristrutturare un ruolo professionale che non ristrutturare il carattere dell'individuo o della società». Il processo di stress si origina da una discrepanza percepita tra la domanda e la possibilità del lavoratore di soddisfarla; tale possibilità oltre a dipendere dalle risorse dell'individuo, dipende soprattutto dalla realtà lavorativa e, quindi, dall'organizzazione e dall'ambiente in generale. Domanda, risorse e bisogni devono essere presenti nelle varie realtà lavorative in modo appropriato e commisurato, tali da permettere il regolare svolgimento delle mansioni che il proprio ruolo professionale richiede.

I ruoli occupazionali costituiscono la struttura di qualunque organizzazione e possono essere definiti in termini di: status, ossia la posizione occupata dalla persona nella struttura organizzativa (organigramma); mansioni, cioè i veri e propri compiti che si devono espletare; atteggiamenti, quindi lo stile personale che è il frutto sia dei modelli di comportamento appresi, sia delle aspettative proprie e altrui, sia dello stato d'animo momentaneo e sia delle caratteristiche di personalità ("Sé professionale"). Sono queste tre componenti che combinandosi tra loro costituiscono l'esercizio concreto della professione e del lavoro, ed è proprio da uno squilibrio di queste che può conseguire il burnout (ivi).

I fattori che più frequentemente determinano stress e quindi aumentano la possibilità di burnout possiamo raccoglierli nei punti che seguono: sovraccarico di lavoro, eccessivo per le risorse della persona in termini di tempo e fatica; conflitto di ruolo lì dove viene richiesto, dall'esterno o dalla stessa persona, di eseguire mansioni tra loro incompatibili (come ad esempio il voler aiutare un alunno che si merita in ogni modo dei provvedimenti disciplinari); sovraccarico di ruolo quando si devono espletare insieme il segmento burocratico, che l'organizzazione richiede, e il segmento strettamente professionale; conflitto tra l'individuo e la mansione che il ruolo richiede ma che non è aderente alle idee e alle credenze personali.

Hackman e Oldham (1975) considerano altresì nell'analisi dei fattori di stress o di job saitsfaction: l'identità e la significatività del compito, la presenza di feedback, la varietà delle capacità impiegate, il grado di autonomia, etc.

Il punto di vista sociologico e di comunità si pone in modo simmetrico e opposto alla prospettiva che mette al centro delle componenti che determinano il burnout, l'individuo; tende invece a considerarlo come una delle tante conseguenze legate ai cambiamenti storico-sociali e soprattutto al declino del senso di appartenenza ad una comunità (Cherniss, 1983). L'assunto di base è che le variazioni dovute al passaggio dalla vita in "comunità" alla vita in "società", caratteristica dello sviluppo industriale hanno determinato la crescita della "anomia" alla quale si associano alti tassi di suicidio, malattia mentale, conflitti familiari e devianza sociale (Tonnies, 1979)[1]. Nella vita dei piccoli paesi di un centinaio di anni fa tra i contadini vigeva un maggior senso comunitario e i sistemi di sostegno primario quali le famiglie patriarcali, il vicinato, le parrocchie fornivano valori, aiuto morale e naturale e sicurezza all'individuo, in tutto il suo ciclo di vita. Le difficoltà erano superiori a quelle attuali, con la differenza che allora c'era un legame implicito tra le persone che alleviava parte dell'angoscia, delle sofferenze e dello stress che ora sembrano accompagnare la vita dell'uomo moderno (Cherniss, 1983).

Cherniss (ivi) fa notare che il declino del sense of community favorisce l'emergenza del burnout in quattro diversi modi:

a)     aumenta l'incidenza delle varie forme di disagio psicologico perché il tessuto sociale tende a disgregarsi, e ciò incrementa la domanda dei servizi socio-sanitari con conseguente sovraccarico di lavoro per gli operatori;

b)     viene a mancare la rete di quei sostegni informali che erano attivi in passato nonostante l'aumento del malessere psicologico;

c)     gli utenti delle istituzioni pubbliche, e quindi politiche, di sostegno e aiuto come i servizi sociali, i centri di igiene mentale, i servizi per i tossicodipendenti, non riversano su di questi fiducia e sicurezza;

d)     infine, il mutato atteggiamento dei giovani, ma forse della società in genere, nei confronti del lavoro e della vita professionale crea insicurezza e instabilità.

Farber (1983) denota l'idea di una società competitiva, fondata sulla produzione e sul consumo di beni, sulla complessificazione di organizzazioni e burocrazie, su relazioni sociali effimere e superficiali, e, rifacendosi alla "cultura del narcisismo" di Lasch (1977), considera questa cultura favorevole allo sviluppo del narcisismo. «L'isolamento, la disperazione, l'angoscia, l'etica dell'autoconservazione e la caccia al successo sono elementi comuni al narcisista e al soggetto burnout [.]; il burnout, pertanto, nella prospettiva di Lasch, può costituire un modo di presentarsi particolarmente evidente di un modello sociale diffuso» (Del Rio, 1990).





















FIGURA 1- Autori, fattori determinanti e prospettive eziologiche del burnout.

Con il blu si evidenziano le componenti che determinano il burnout, con il rosso le quattro prospettive esposte sopra e con il verde i modelli teorici principali approfonditi da alcuni autori. Lo spessore delle frecce indica quale sia la determinante più influente.



























Integrazione delle prospettive che focalizzano gli aspetti: clinici, organizzativi e psico-sociali


Essendo un processo complesso e multifattoriale, il burnout non si può leggere se non attraverso una lente, che non focalizzi e semplifichi lo studio del fenomeno sul fattore più confacente alla propria prospettiva teorica, ma che sia capace di vedere la sua complessità.

Il burnout non è un disagio esclusivamente individuale ma il prodotto di una transazione complessa tra i bisogni, le aspettative e le risorse dell'individuo e le varie richieste o domande dell'ambiente lavorativo (Cherniss, 1980). Quindi solo un modello integrato, che presta attenzione sia alle caratteristiche personali dell'operatore, sia alle caratteristiche del lavoro, sia al contesto socioculturale in cui è inserito sia l'individuo sia l'organizzazione, può comprendere le cause e/o i fattori di rischio che ne facilitano la genesi.

I tre fattori, individuo, organizzazione e società, non devono essere visti come separati nella dinamica eziologica del burnout ma si possono considerare come componenti determinanti in proporzioni, sottoposti ad una reciproca influenza. Quello che si vuole sottolineare è che tra queste tre componenti s'instaura un'alterazione a cascata degli schemi e degli eventi: la società e la comunità influenzano e modificano l'organizzazione che, in conseguenza, determina delle modificazioni della realtà lavorativa degli individui che la compongono e che ne fanno parte. Questo processo, ovviamente, non è unidirezionale ma può sussistere nella direzione inversa che va dall'individuo alla comunità.     

Lo schema sottostante (Figura 2) si propone di essere visivamente esplicativo delle componenti che determinano il fenomeno, considerando l'influenza a cascata dei tre fattori fondamentali (primo cono); delle conseguenze che il burnout produce negli stessi tre ambiti (secondo cono), in questo caso il processo è unidirezionale perché è l'individuo il primo a risentire gli effetti della sindrome.



Prospettiva eziologica: modello integrato

 
FIGURA 2 -






























I modelli teorici di riferimento


Ayala M. Pines (1996) parte da una prospettiva esistenziale per differenziare il concetto di burnout da altri, quali: stress, alienazione, depressione, crisi esistenziale, affaticamento, che lo hanno temporalmente preceduto e con cui si è spesso confuso. Pines considera essenziale per il sorgere del burnout 'la scintilla motivazionale' senza la quale non può divampare l'incendio che 'brucia' progressivamente l'operatore. Il burnout è definito come l'esito finale di uno stato di esaurimento mentale, fisico e emotivo causato da una «costante e ripetuta pressione emotiva, associata ad un intenso coinvolgimento con altre persone, per lunghi periodi di tempo» (Pines et al., 1981). Legge il burnout in termini processuali, perché solo la graduale e progressiva disillusione che segue il coinvolgimento professionale e la forte motivazione iniziale, crea nella persona quella sensazione di avere fallito professionalmente e di non poter raggiungere il significato esistenziale che all'inizio l'individuo ha cercato nel lavoro.

Le motivazioni che spingono un individuo ad intraprendere una carriera con obiettivi e aspettative elevate, sono, secondo Pines, di tre tipi:

universali, condivise da quasi tutte le persone che entrano nel mondo del lavoro;

specifiche di una data professione, come risultato dello screening che seleziona naturalmente gli individui per le particolari attitudini e motivazioni che gli sono proprie, e come risultato della socializzazione professionale, che rende gli obiettivi e i valori comuni tra i professionisti di una stessa categoria;

personali, legate alle caratteristiche di personalità.

Combinando questi tre tipi di motivazioni, l'individuo si creerà l'aspettativa di essere capace di affrontare il lavoro e raggiungere gli obiettivi prefissati. Ciò che, in ogni modo, Pines vuole evidenziare è il ruolo svolto dalle caratteristiche soggettive, la percezione del soggetto nei confronti della situazione e come egli reagisce al contesto risultante dall'interazione tra sé e il mondo oggettivo.  Da ciò si evince che il burnout non sarà provocato da un fallimento oggettivo, ma dal vissuto, dalla percezione d'inutilità e inadeguatezza dei propri sforzi (Pines, Aronson, 1988).

Cary Cherniss (1980), a differenza di Pines, tende a prediligere un livello di analisi basato sull'organizzazione come componente determinante il burnout soprattutto per i vantaggi che l'intervento a livello organizzativo può offrire, in termini di riduzione dell'incidenza del disagio su un target più numeroso.

Nello specifico, Cherniss definisce il burnout come un "processo transazionale" caratterizzato da tre fasi:

stress lavorativo: squilibrio tra richieste e risorse disponibili;

tensione (strain): risposta emotiva allo squilibrio caratterizzata da sensazioni di ansietà, nervosismo, affaticamento e esaurimento;

conclusione difensiva (coping): accomodamento psicologico caratterizzato da cambiamenti nel comportamento (rigidità, ritiro, cinismo, distacco emotivo).

Lo stress lavorativo, solo quando provoca perdita di entusiasmo, di interesse e di senso di responsabilità nei confronti dell'utente, dell'organizzazione e quindi del proprio lavoro, comporta una particolare modalità di coping e reazione che prevede ritiro, distacco ed evitamento (fuga psicologica).  Le cause della sindrome di burnout sono, in pratica, da ricercare nei fattori individuali e organizzativi che favoriscono il distacco psicologico come particolare tipo di reazione allo stress.

Cherniss (1983), nonostante metta al centro dei suoi studi i vari livelli d'indagine, individuale, organizzativo e socio-culturale, nell'analisi eziologica del burnout, finisce per privilegiare le caratteristiche della situazione lavorativa.

Secondo l'autrice, nella società competitiva e individualista come quell'attuale, è presente un forte bisogno di competenza, di successo psicologico e di efficacia personale, bisogni a loro volta influenzati dalla dimensione organizzativa attraverso: la struttura formale (normativa, di ruolo, di potere), lo stile di leadership e di supervisione, l'interazione sociale all'interno dello staff (ivi). Cherniss riprende, inoltre, alcuni concetti approfonditi da altri studiosi per spiegare le dinamiche di sviluppo dello stress e del burnout nelle organizzazioni; tra questi il concetto di "competenza" (White), di "successo psicologico" (Hall), di "impotenza appresa" (Selingman) e di "self-efficacy" (Bandura). Le aspettative di efficacia personale sono fondamentali per dare all'individuo la possibilità di interpretare e valutare il proprio contesto e sviluppare strategie per intervenire su di esso, hanno quindi molto peso sulla percezione dello stress, sulla scelta dello stile di coping (reazione) e, di conseguenza, sullo sviluppo del burnout.

La self-efficacy, considerandola come il prodotto di un'interazione biunivoca tra personalità e ambiente, riconosce, infatti, la rilevanza del contributo fornito dai fattori ambientali nella sua genesi; questo fornisce la possibilità di rivedere le precedenti teorizzazioni sull'eziologia del burnout facendo incontrare le componenti endogene ed esogene, responsabili del suo insorgere.

Christina Maslach, in collaborazione con Susan Jackson, concepisce un modello teorico che per la sua completezza e chiarezza ha avuto ampia diffusione in questo ambito di ricerca (Maslach, 1982; Maslach, Jackson, 1982). L'autrice, attraverso l'analisi di dati clinici e l'osservazione sul campo dell'interazione tra operatore e utente, particolarmente ambigua e frustrante per i problemi non sempre risolvibili di quest'ultimo, evidenzia che l'operatore che lavora continuamente con utenti in condizioni simili è soggetto ad uno stress logorante che può condurre al burnout. Su questa prospettiva il burnout si caratterizza in tre dimensioni: esaurimento emotivo, depersonalizzazione e ridotta realizzazione personale. Questi fattori si presentano con una specifica progressione e si evolvono indipendentemente e parallelamente, dando luogo a tipologie di burnout di diversa gravità (ibidem).

Coloro che svolgono una qualche attività di aiuto possono sperimentare, come conseguenza del costante sovraccarico emozionale (indotto dal lavoro in stretto rapporto con l'utente) la sensazione di ritrovarsi sfiniti, logorati, svuotati delle proprie energie e risorse emotive, caratteristica che Maslach denomina esaurimento emotivo. Venendo a mancare le risorse emotive, gli operatori sperimentano di non essere più in grado di aiutare e di continuare una relazione adeguata con gli utenti. Conseguentemente, per liberarsi da questa sensazione di incapacità e esaurimento emozionale si sottraggono al coinvolgimento personale facendo prevalere un atteggiamento di fredda indifferenza verso l'utente e i suoi bisogni, insieme con un disinteresse cinico, che contraddistingue la depersonalizzazione. Tutto ciò implica l'insorgere di sentimenti negativi anche verso se stessi, la propria competenza e la propria efficacia personale, gli operatori iniziano a provare senso di colpa per come trattano gli altri e quindi per come lavorano. La persona inizia a sentirsi inadeguata per quel lavoro, fallita e depressa con una progressiva ridotta realizzazione personale (Maslach, 1976; Maslach, Jachson, 1981, 1985).

In sintesi, l'esaurimento emotivo sembra insorgere come prima fase della sindrome, come risposta allo stress cronico di determinate caratteristiche del lavoro di 'aiuto', e scatenare una reazione difensiva di depersonalizzazione che, infine, facilita l'emergere di una sensazione di ridotta realizzazione professionale e personale.

Christina Maslach, nelle sue numerose ricerche esplorative sul campo (Maslach, 1976; Maslch, Jackson, 1981, 1985; Maslach, Pines, 1977), sostiene che nell'eziologia della sindrome del burnout sono da considerare decisivi sia le caratteristiche di personalità e le variabili individuali, sia i rapporti interpersonali e le fonti situazionali di stress occupazionale. Il punto di vista psico-sociale utilizzato dall'autrice inquadra quindi il burnout come conseguenza di un'esperienza individuale di stress, dove la tolleranza si esaurisce per le forti tensioni emotive che sollecitano l'operatore, immerso in un contesto istituzionale che influenza la situazione lavorativa, i suoi obiettivi, le sue risorse, i suoi limiti.



Lo strumento di rilevamento del burnout: Maslach Burnout Inventory (M.B.I.)


Christina Maslach e i suoi colleghi della Berkeley University della California nelle ricerche esplorative e osservazioni effettuate sul campo (Maslach, 1976; Maslach, Jackson, 1981, 1985; Maslach, Pines, 1977) hanno segnalato la pericolosità del fenomeno burnout per le conseguenze che insorgono: nella vita dell'operatore "bruciato", esaurimento fisico, insonnia, abuso d'alcool o farmaci, problemi familiari; nell'istituzione od organizzazione per il morale basso, assenteismo e, possibile, turnover dei lavoratori; nell'utente, ovviamente, per il deterioramento delle cure e del servizio prestato dagli operatori, insoddisfazione e carenze di fiducia.

A partire da queste ricerche Christina Maslach e Susan Jackson hanno postulato l'esistenza di una sindrome specifica di burnout, differente dai precedenti studi sullo stress lavorativo, e hanno messo a punto uno strumento per analizzarla: il Maslach Burnout Inventory (MBI). Grazie a tale strumento e alle ricerche sulla sua validità, dal 1981 numerose in tutto il mondo, è andato crescendo il consenso sulla definizione operazionale del burnout e si è creato un linguaggio comune tra gli studiosi e gli operatori che lavorano in questo settore (Santinello, 2001).

L'attuale versione dell'MBI è stata sviluppata durante circa otto anni di ricerca ed è costituita da un questionario di 22 item in forma di affermazione che prevedono una modalità di risposta su scala di tipo Likert a sette punti (da 0 a 6) che va da 'mai' a 'ogni giorno'. (Maslach, Jackson, 1986).

Seguendo il modello teorico delle autrici (ibidem), lo strumento è stato costruito per valutare i tre aspetti della sindrome del burnout: esaurimento emotivo, depersonalizzazione e ridotta realizzazione personale. Ogni aspetto è misurato da un'apposita sottoscala: la sottoscala "Esaurimento Emotivo" (Emotional Exaustion) esamina la sensazione di essere inaridito emotivamente, esaurito dal proprio lavoro tanto da non avere più niente da offrire a livello psicologico (nove item); la sottoscala "Depersonalizzazione" (Depersonalization) misura una risposta fredda e impersonale, un atteggiamento di distacco e di ostilità nei confronti degli utenti del proprio servizio (cinque item); la sottoscala "Realizzazione Personale" (lack of Personal Accomplishment) valuta la percezione relativa alla propria competenza e al proprio desiderio di successo nel lavorare con gli altri (otto item).

Il burnout non è da considerare una variabile dicotomica che può essere presente o meno, ma una variabile continua da basso, moderato, ad alto grado di sentimenti provati; pertanto, per le prime due sottoscale, punteggi alti corrispondono a un più alto livello di burnout, mentre per la terza sottoscala punteggi bassi sono manifestazione di tale livello.

Dati i numerosi studi, anche critici, che si sono focalizzati sulla validità di tale strumento, nelle diverse realtà territoriali, si è andata confermando l'analisi della attendibilità stimata mediante il coefficiente alfa di Cronbach e il metodo del "retest" e della validità fattoriale, convergente e discriminante[2] (Siringatti, Stefanile, 1993).

I vantaggi di questo strumento sono molteplici: fornisce, attraverso le tre scale, tre indicazioni distinte dei livelli di stress individuale; consente di essere utilizzato in diverse realtà professionali, data la sua applicazione a diversi campioni di riferimento; è facilmente utilizzabile per la sua semplicità e brevità.

Il burnout nelle helping professions?


La sindrome del burnout, fin dalla sua scoperta, ha interessato in prevalenza il settore dei servizi alla persona che svolgono un ruolo di aiuto nei confronti di un utente in difficoltà che chiede sostegno ad un determinato servizio, organizzazione o istituzione.

Successivamente alcuni autori hanno esteso il costrutto del burnout a realtà occupazionali non includibili nelle helping professions e, perfino, a contesti extra-lavorativi, come le attività di volontariato (Santinello, 2001).

Per estensione il burnout si è considerato un fenomeno riguardante il settore del terziario sociale che non trova una definizione completa in queste professioni ma che comprende tutte le professioni che si occupano di servizi offerti all'individuo e per l'individuo. È difficile definire quali siano le professioni che si possono collocare all'interno delle helping professions, sicuramente sono includibili le occupazioni del settore sanitario, assistenziale e sociale, ma la confusione aumenta se consideriamo il settore educativo, giuridico e amministrativo in cui sussiste un rapporto con l'utente, pur non configurandosi specificatamente come una relazione di aiuto. Per relazione di aiuto si intende una modalità di intervento che si propone come una forma di sostegno emotivo e/o cognitivo ad una persona in difficoltà, affinché essa ritrovi un proprio adattamento rispetto alla situazione che non è riuscito a superare.

Molte sono state le ricerche che negli ultimi anni si sono occupate di indagare la presenza della sindrome del burnout in professioni come l'insegnante, il poliziotto, e si è riscontrata la presenza di tale sindrome con un'incidenza tale da arrivare a definire queste categorie a rischio di burnout (Di Maria, Di Nuovo, Lavanco, 2001). Poche, però sono le ricerche, che si sono occupate di una professione come l'agente di Polizia Penitenziaria che svolge un lavoro in un contesto molto particolare, come è quello del carcere, e con un'utenza con cui sicuramente è difficile relazionarsi.

La questione di considerare il burnout come un fenomeno aspecifico o circoscritto alle helping profession, rimane tutt'oggi controversa, ancora da affrontare e chiarire adeguatamente come altre questioni di ordine concettuale e metodologico.



Considerazioni conclusive


L'interesse per l'approfondimento e lo studio di un fenomeno come il burnout è inevitabile in chi si accinge ad entrare in una realtà occupazionale in cui il servizio e l'aiuto prestato agli altri è centrale. Se questo 'aiuto' deve essere rivolto a coloro che si occupano già di aiutare gli altri, una profonda conoscenza e formazione sul burnout sono elementi indispensabili.

Il burnout è un fenomeno emotivo, cognitivo e comportamentale che investe e sconvolge la persona nel suo equilibrio fisico e psichico e nella sua realtà lavorativa, quindi si ripercuote sulla produttività ed efficienza dei servizi che il singolo presta all'organizzazione in cui opera. Da questo scadere dell'operare del soggetto 'bruciato' ne deriva un problema, non soltanto privato e individuale, ma anche pubblico poiché il disagio degli operatori, che in queste condizioni modificano la loro presenza nell'organizzazione (turnover, assenteismo, freddezza e distacco nei confronti dell'utente, etc.), si riversa sulla gestione del servizio che la specifica organizzazione svolge per la comunità e quindi sul benessere generale della comunità (Di Maria, Di Nuovo, Lavanco, 2001).

La sindrome del burnout negli ultimi anni ha raggiunto un'estensione allarmante. Per lo stravolgimento che si sta realizzando nella società attuale, con le forme di individualismo che prendono piede e per l'indebolirsi delle strutture di sostegno informale (come la famiglia e il vicinato), si produce un circolo vizioso in cui i servizi sociali e alla persona hanno un ruolo sempre maggiore nella vita dell'individuo ed il sovraccarico cui essi vanno incontro porterà facilmente scompensi di efficienza all'interno di questi aumentando il disagio della comunità.

Per questi motivi, il fenomeno del burnout occupa un posto di rilievo nella psicologia di comunità che è orientata alla promozione del benessere e al cambiamento sociale per migliorare la qualità della vita, ed è definita dall'OMS "la Psicologia della salute". Non limitando l'intervento ai singoli individui ma riguardando la persona nel contesto, la psicologia di comunità risponde alle richieste e difficoltà della comunità proponendo una prospettiva di interventi conseguenti, che vanno ad interrompere nel circolo vizioso il fenomeno del burnout, ma soprattutto, una prospettiva di prevenzione che migliori l'interazione tra l'individuo e il suo ambiente.





Differenza tra Comunità e Società: la "Comunità" è un organismo naturale in cui prevalgono la volontà comune, gli interessi collettivi, il senso di appartenenza e la solidarietà tra i vari membri i quali regolano la loro condotta quotidiana sulla base di costumi e norme morali e religiose; la "Società" è dominata dalla volontà individuale, la competizione tra gli individui, e sono possibili in essa solo forme di solidarietà in termini contrattuali, sulla base dello scambio di merci e servizi (ibidem).

La versione italiana del MBI è stata somministrata a circa 1800 operatori, uomini e donne, impegnati in molteplici professioni di aiuto. La verifica della coerenza interna attraverso il coefficiente alfa di Cronbach ha dato risultati simili alla versione americana nelle tre sottoscale: Esaurimento Emotivo .87, Depersonalizzazione .68, Realizzazione Personale .76. Anche l'analisi fattoriale dei dati ricavati dalla somministrazione ha confermato l'indipendenza delle tre dimensioni.

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