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Stati Uniti d'America




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Stati Uniti d'America


Stati Uniti d'America Stato (United States of America; sigla USA) dell'America

Oceano indiano


OCEANO INDIANO Superficie 73 milioni di km² Profondità massima 7.725

Germania


Germania (tedesco: Deutschland) Repubblica federale (Bundesrepublik Deutschland)
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Stati Uniti d'America


Stato (United States of America; sigla USA) dell'America Settentrionale.

Superficie: 9.372.614 km

Popolazione: 248.710.000 ab.

Capitale: Washington.

Lingua: inglese.

Religione: protestanti in maggioranza, quindi cattolici, ebrei (ca. 6 milioni), ortodossi e di altre relig.

Unità monetaria: il dollaro USA.

Confini: confina a nord col Canada, a sud col Messico; le coste sono bagnate a est dall'Oceano. Atlantico; a ovest dall'Oceano Pacifico e a sud dal golfo del Messico. Fanno parte dell'Unione anche i due Stati non contigui dell'Alaska e delle Hawaii.

Ordinamento: Repubblica presidenziale, confederazione di 50 Stati e un distretto federale. L'ordinamento si basa sulla Costituzione del 1787 (la più antica fra le Costituzioni scritte ancora in vigore). Il potere legislativo spetta al Senato e alla Camera dei rappresentanti che insieme formano il Congresso e vengono eletti entrambi con voto popolare diretto. Il potere esecutivo spetta al presidente, eletto per quattro anni. Dagli USA dipendono, sotto varia forma, nell'America Centrale lo Stato associato di Puerto Rico, le dipendenze delle Isole Vergini e la baia di Guantanamo a Cuba; nell'Oceano Pacifico l'isola di Guam e l'arcipelago delle Marianne, le isole Midway, Samoa Americane, Caroline e Marshall.


GEOGRAFIA

n Morfologia. Le coste atlantiche sono alte e frastagliate da ramificate insenature (estuario del fiume Hudson, baia di Baltimora) fino a Capo Hatteras, a sud del quale diventano basse e orlate da dune sabbiose e lagune. Anche la penisola della Florida ha coste sabbiose e si prolunga verso sud con un festone di isolette coralline (Florida Keys). La costa del golfo del Messico, bassa e paludosa, è interrotta dall'ampio delta digitato del fiume Mississippi. All'interno, si innalza il sistema montuoso appalachiano, costituito, nella Nuova Inghilterra, da una serie di rilievi di modesta altitudine che conservano nel loro profilo tracce evidenti della glaciazione quaternaria; più a sud, oltre il solco del fiume Hudson, si estendono con direzione nord-est - sud-ovest i monti Adirondack (monte Marcy, 1629 m) e le catene parallele degli Allegheny e delle Blue Ridge (monte Mitchell, 2037 m), digradanti verso la costa con un dolce penepiano e verso l'interno con aridi altipiani (monte Catskill, Altopiano del Cumberland). Fra il sistema appalachiano e il rilievo delle Montagne Rocciose si allarga la vasta regione delle Pianure Interne, acquisita alle colture e all'insediamento umano. Le Montagne Rocciose, di origine cenozoica, si innalzano bruscamente con una serie di catene, compatte nella sezione meridionale (Front Range, Sierra Sangre de Cristo), più disordinate e basse nella sezione centrale, ove i monti Laramie, Absaroka, Big Horn e Wasatch racchiudono l'altopiano del Wyoming, e nella sezione settentrionale, ove si estende l'altopiano della Columbia. A ovest le Montagne Rocciose delimitano le regioni dei Bacini Interni, bassopiani interrotti da catene montuose: a nord il bacino del Columbia, nel centro il Gran Bacino, caratteristico per le profonde depressioni (Valle della Morte, -86 m), e i laghi salati (Gran Lago Salato, lago Utah, lago Lahontan) che lo costellano, e a sud il bacino del Colorado. La regione dei Bacini Interni è chiusa a ovest da una serie di catene parallele: Catena delle Cascate e Sierra Nevada (monte Whitney, 4418 m) all'interno, Catena Costiera lungo la costa, divisa nettamente in due tronconi dal fiume Sacramento. Fra esse si allunga un allineamento di fosse tettoniche (valli del Sacramento e del San Joaquin nel centro). Una stretta fascia pianeggiante, interrotta dalla baia di San Francisco, è compresa fra la Catena Costiera e l'Oceano Pacifico.

n Clima. La sezione settentrionale della costa atlantica, interessata dall'afflusso di aria fredda, provocato dalla corrente del Labrador, ha un clima di tipo marittimo con inverni rigidi, estati calde e piovosità abbondante; a sud di Capo Hatteras si fa sentire la benefica influenza della Corrente del Golfo e la temperatura media si innalza fino ad assumere caratteristiche subtropicali e, in Florida, tropicali, con piogge prevalentemente estive. La regione appalachiana ha un clima di montagna, umido sul versante orientale, ma arido e ventoso verso le Pianure Interne. È caratterizzata da tempeste di vento e cicloni (hurricanes). La regione delle Montagne Rocciose ha un clima d'altitudine. Nei Bacini Interni l'aridità raggiunge valori massimi, mentre la temperatura estiva è elevatissima (Valle della Morte, max. 58 °C). La costa dell'Oceano Pacifico, per l'influenza della corrente calda della California, ha un clima mite e piovoso a nord, più arido a sud.

n Idrografia. Il principale asse idrografico è costituito dal sistema Mississippi-Missouri, che convoglia al golfo del Messico anche le acque di affluenti, quali il Wisconsin, l'Illinois, l'Ohio, il Tennessee da sinistra, il Platte, il Kansas, l'Arkansas e il Red River da destra. Al golfo del Messico scendono anche il Rio Grande, il Trinity, l'Apalachicola. Uno sviluppo minore hanno i fiumi del versante atlantico (Hudson, Potomac, Savannah), di grande importanza economica in quanto sfruttati per la produzione di energia elettrica e per la navigazione. All'Oceano Pacifico scendono il Columbia, che raccoglie anche le acque dello Snake e del Willamette, il Sacramento cui tributa poco prima della foce il San Joaquin, e infine il Colorado, che incide una spettacolare valle d'erosione (canyon) e sfocia nel golfo di California. I laghi sono molto numerosi: i più estesi sono il Michigan, l'Huron, l'Erie, l'Ontario e il Superiore, dei quali soltanto il primo appartiene interamente agli USA.

n Popolazione. La grande maggioranza dell'attuale popolazione è costituita dai discendenti degli immigrati europei affluiti a partire dagli inizi del XVII sec. In questo secolo e nel successivo prevalsero gli immigrati anglosassoni, che diedero, oltre alla lingua, un'impronta caratteristica alla cultura e alla mentalità statunitensi. Col XIX sec., il flusso immigratorio crebbe progressivamente per raggiungere la massima intensità tra il 1880 e il 1914. In totale, tra il 1820 e il 1984, 50 milioni di persone provenienti da tutti i Paesi europei (con alte percentuali di Tedeschi, di Slavi, di Italiani) sono entrate nel crogiolo americano. Il flusso immigratorio venne frenato con le leggi del 1924, tuttora in vigore. La popolazione negra (11,5% del totale), discendente dagli schiavi importati dall'Africa fino al secolo scorso, è insediata ancora oggi prevalentemente negli Stati del Sud. La popolazione originaria amerindia costituisce ormai un'esigua minoranza: poco più di un milione di individui vive in parte nelle riserve e in parte sono insediati nella società. Sulla costa dell'Oceano Pacifico (San Francisco) è numerosa la colonia asiatica (Giapponesi, Cinesi, Filippini). La popolazione è insediata in grandi complessi urbani nella regione della costa settentrionale atlantica e dei Grandi Laghi. La densità diminuisce rapidamente (10 ab./km ) nelle Pianure Interne. Nel settore occidentale del Paese solo le aree di Los Angeles e di San Francisco sono densamente popolate.

n Economia. L'economia statunitense è stata a lungo e sino alla soglia degli anni Novanta la più sviluppata del mondo. Alla base di questa potenza si trovano innanzitutto l'ambiente e le risorse naturali, ma un contributo non meno importante hanno dato i fattori non economici, d'ordine politico e sociale soprattutto, che hanno consentito l'organizzazione di un tipo di società e di sistema economico assolutamente originali rispetto a quelli europei. Indicativi dell'alto livello di benessere raggiunto dalla società statunitense sono i redditi nazionale e pro-capite, tra i più elevati in assoluto, che coesistono tuttavia con sacche di persistente, notevole miseria, individuabili in diverse zone urbane, nelle comunità di immigrazione e soprattutto di quelle di colore, i cui redditi familiari sono nettamente inferiori alla media nazionale (il 15% della popolazione è considerato povero). La ripartizione della popolazione attiva in base alle fonti di reddito mostra una bassissima percentuale (attorno al 3%) nel settore agricolo, altamente specializzato e meccanizzato, mentre il settore industriale è pari a circa il 27%. Ne deriva che il grosso dei redditi è rappresentato dalle attività terziarie. La superficie agraria degli USA si estende su poco più di 428 milioni di ha, pari cioè a ca. il 45% del territorio nazionale. Oltre la metà di essa è destinata stabilmente alle foraggere, ca. 190 milioni ai seminativi, il rimanente al pascolo; la foresta si estende su ca. 284 milioni di ha. L'agricoltura è esercitata da poco più di 2,3 milioni di aziende (farms) che hanno una media di ca. 150 ha per unità. Tenuto presente che ca. un milione di aziende ha un'estensione inferiore a 10 ha, appare evidente il carattere estensivo dell'agricoltura statunitense. La grande disponibilità di terreni da un lato, e la progressiva riduzione di manodopera, hanno reso indispensabile la meccanizzazione dei lavori agricoli; gli USA vantano il più grande parco di macchine del mondo. Il settore agricolo più sviluppato è il cerealicolo, che ha nel frumento e nel mais i prodotti base. Per quanto riguarda il frumento, il Paese si suddivide in quattro grandi regioni: le Pianure Interne o Great Plains (Kansas, Nebraska, Oklahoma e Texas); la regione orientali (Missouri, Illinois, Arkansas ecc.); l'altopiano del Columbia (Washington, Idaho, Oregon ecc.), con produzione di grano invernale; la regione nordoccidentale (Dakota, Minnesota, Montana ecc.), con produzione di grano primaverile. Il più importante cereale è tuttavia il mais, la cui produzione è pari a ca. un terzo di quella mondiale; è concentrato nella fascia centrale del Paese, detta appunto corn belt. Seguono poi l'avena, l'orzo, la segale, il sorgo, usati come foraggio. Notevole è pure la produzione del riso, specialmente in California, di patate e di barbabietole da zucchero. Diffusissima la frutticoltura, con notevoli produzioni di mele, pere, ciliegie, prugne. In California, accanto ai vigneti, la cui produzione pone gli USA al sesto posto nel mondo, si trovano ricchissimi agrumeti. Gli USA sono uno dei massimi produttori di cotone. Le coltivazioni sono concentrate nel settore meridionale (Texas, Alabama, Louisiana, Arkansas, Mississippi), nella zona detta appunto cotton belt. Abbondante e di qualità la produzione del tabacco, la cui coltura si concentra negli Stati orientali (Carolina del Nord, Kentucky, Virginia, Connecticut, Florida, Maryland). Un posto a sé occupa l'allevamento del bestiame. Il patrimonio zootecnico statunitense è costituito soprattutto da bovini e suini (rispettivamente 115 e 54 milioni ca. di capi). L'allevamento dei bovini (reso possibile dalla grande disponibilità di pascoli e di foraggi) è praticato secondo due diversi tipi di organizzazione. Lungo tutta la corn belt e tutte le regioni orientali prevale l'allevamento intensivo. Lungo la fascia occidentale, invece, è praticato nelle classiche forme estensive, organizzato nei grandi ranches. L'allevamento dei suini è invece praticato soprattutto da fattorie delle regioni nordorientali, in prossimità delle grandi industrie per la conservazione delle carni. Notevole il patrimonio forestale, soprattutto negli Stati del Nord, che fa degli USA il massimo produttore mondiale di legname. La pesca, diffusa particolarmente nell'Oceano Atlantico settentrionale, è praticata con mezzi modernissimi e dispone di porti attrezzati (Boston sull'Oceano Atlantico, Seattle e San Diego sull'Oceano Pacifico). Imponenti le risorse minerarie e le fonti di energia. Tra i minerali, occupa il primo posto il ferro (depositi nella zona del Lago Superiore). La produzione tende a diminuire e comunque non soddisfa le crescenti esigenze dell'industria nazionale, che ricorre a importazioni da giacimenti sudamericani posti sotto il diretto controllo di società statunitensi. Ciò vale anche per il rame, relativamente abbondante. Le più importanti miniere si trovano nel Montana, nell'Utah e nell'Arizona. Piombo e zinco sono concentrati nel Missouri, nel Kansas e nell'Oklahoma. Il fabbisogno industriale è coperto da importazioni assicurate da alcuni grandi monopoli, che controllano molte fonti di produzione all'estero. Tra i minerali preziosi, va ricordato l'oro, abbastanza diffuso; buona la produzione di argento, radio, uranio, vanadio e mercurio. Alla base della potenza industriale statunitense è tuttavia la larghissima disponibilità di fonti energetiche. A prescindere dal carbon fossile, diffuso in particolare nella vastissima regione degli Appalachi e il cui sfruttamento non sempre è economico, il pilastro dell'economia energetica degli USA è il petrolio, seguito dal gas naturale. La produzione di petrolio (oltre 440 milioni di t annue) pone gli Stati Uniti al secondo posto nel mondo. L'area più ricca è costituita dagli Stati centromeridionali (tra cui Texas, Arkansas, Nuovo Messico, Kansas); ricchissimi sono pure i giacimenti della California e dell'Alaska. Tutto il Paese è percorso da una fitta rete di oleodotti che fanno capo a grandi raffinerie. Il consumo locale è integrato da importazioni di greggio, proveniente da varie regioni del mondo sotto il controllo delle grandi società petrolifere americane. Ingentissima e in continua espansione la produzione di gas naturale (oltre 530 miliardi di m ). Il ruolo industriale degli USA nel mondo si è ulteriormente ridimensionato di fronte alle nuove potenze orientali e tedesca, ma può essere efficacemente sintetizzato nel fatto che ancor oggi la produzione complessiva del settore è pari a oltre un quarto di quella mondiale. La siderurgia, base dell'industria, si concentra in alcune grandi zone della fascia centrorientale; la più vasta è quella dei Grandi Laghi, che comprende i centri di Chicago, Cleveland, Buffalo, Duluth, ma molto importanti sono pure quelle di Pittsburgh e Birmingham. In diretta dipendenza da questo settore è l'industria meccanica, che ha i suoi tradizionali centri lungo la costa atlantica e nella fascia nordorientale. Al primo posto si pone il settore automobilistico, che impiega un milione di addetti e che, negli ultimi anni, ha raggiunto una media superiore ai 9 milioni di autoveicoli. Il centro automobilistico più famoso è Detroit. Altri comparti sviluppati sono quelli navale, aeronautico, delle macchine utensili, agricole e tessili. Un posto importantissimo occupa pure l'industria chimica, molto avanzata. Concentrata in poche grandi società, essa ha altresì forti compartecipazioni in altri settori produttivi, anche all'estero, e rappresenta una potenza finanziaria e politica notevole. L'industria tessile, in larga parte automatizzata, lavora lana e cotone di produzione nazionale, nonché le moderne fibre sintetiche e artificiali, di cui essa, prima nel mondo, iniziò la produzione di massa. Anche il comparto alimentare appare fortemente concentrato: poche grandi società controllano infatti gran parte del settore conserviero (carni, ortaggi e frutta) e dei latticini. L'elevato reddito medio dei cittadini americani consente poi il prosperare di tutta una serie di industrie per la produzione di beni di consumo i più diversi. Sotto il profilo strettamente commerciale, dalla metà degli anni Ottanta gli USA si sono progressivamente trasformati da principale Paese creditore (con ingentissimi investimenti all'estero) a principale debitore, non riuscendo a contrastare la concorrenza giapponese ed europea, tanto da far tornare in vita forti spinte protezionistiche e nazionalistiche. New York e Chicago restano tuttavia punti cruciali del sistema finanziario mondiale.


LETTERATURA

La letteratura americana del periodo coloniale, che è solo un ramo periferico di quella inglese, è di carattere religioso e consiste, il più delle volte, in raccolte di sermoni a uso dei colonizzatori e dei colonizzati (R. Williams, W. Penn, J. Woolman, M. Wigglesworth, E. Taylor, J. Edwards). Nella prima metà del XVIII sec. emerge la personalità di B. Franklin, mentre la seconda metà è dominata dagli scrittori della rivoluzione, e tra questi spicca la figura di Th. Jefferson, con A. Hamilton, J. Madison, J. Jay, Th. Paine. I poeti più importanti di questo periodo di transizione tra l'Illuminismo e il Romanticismo sono Ph. Freneau e W. C. Bryant. Con la nascita della nazione, si assiste anche al sorgere di una letteratura nuova che tende a liberarsi dei suoi legami europei. W. Irving rappresenta un esempio della nuova cultura; gli è accanto, nella scoperta del volto dell'America, J. F. Cooper. L'influsso della rivoluzione romantica europea si sente nella poesia aristocratica di H. W. Longfellow e di J. R. Lowell e soprattutto nell'opera di R. W. Emerson e di H.D. Thoreau. Allo spirito della loro opera si contrappone l'avventura estetica di E. A. Poe e di N. Hawthorne, ai quali spetta il compito di dare una coscienza critica all'arte letteraria. Sono momenti di fede e di disperazione che troveranno la loro fusione nell'opera di H. Melville e di W. Whitman. La lotta per l'abolizione della schiavitù trova espressione in una vasta letteratura e ha il suo momento più popolare con la Capanna dello zio Tom (1852), di H. Beecher Stowe. Appaiono in questo periodo anche le prime figure di riformatori neri, come F. Douglass, che daranno vita a una ricca tradizione di scrittori e di poeti come W. E. Du Bois, J. W. Johnson, C. Cullen ecc. W. D. Howells porta lo spirito dell'Ohio nella Boston puritana e M. Twain fa straripare lo humour maturato nel suo nativo Mississippi fino ai due oceani. La poesia intimista di E. Dickinson e i romanzi introspettivi di H. James appaiono in contrasto con questo movimento espansivo della nuova letteratura. Agli inizi del XX sec. la cultura americana scopre nel pragmatismo di W. James una filosofia che dischiude nuove vie all'indagine sullo spirito umano: a essa si ricollegherà, più tardi, lo strumentalismo di J. Dewey. Il rapporto dell'uomo con la natura diventa il tema dominante dei romanzi di F. Norris, di S. Crane e di J. London, nei quali si inserisce in maniera violenta anche la problematica dell'artista dinanzi alla società moderna. R. Bourne, V. W. Brooks, H. L. Mencken dominano la scena critica di questi anni, mentre V. L. Parrington traccia il primo esauriente ritratto della tradizione americana. I romanzi realisti di Th. Dreiser sono al centro della battaglia anticonformista e i racconti di O. Henry aprono la strada a un genere che diverrà sempre più popolare. La rivista Poetry di H. Monroe scopre intanto la poesia di E. Lee Masters, di C. Sandburg, di V. Lindsay e rende omaggio all'opera ignorata di R. Frost; l'imagismo si afferma con A. Lowell, Th. S. Eliot, E. Pound. Sono gli anni della scoperta di Parigi, di Sh. Anderson, di F. Scott Fitzgerald, di J. B. Cabell e del romanzo proletario, di S. Lewis, J. Dos Passos, R. Lardner, E. Hemingway, Th. C. Wolfe, J. Steinbeck, W. Faulkner. Vivace è la critica, con J. E. Spingarn e J. C. Ransom (New Criticism), E. Wilson, Matthiessen, M. Cowley. Gli anni dell'immediato dopoguerra vedono il moltiplicarsi del numero dei narratori in un'America indecisa, messa improvvisamente a contatto con nuove responsabilità mondiali. La generazione dei combattenti produce una serie di romanzi, ispirati alla guerra, che porta alla ribalta scrittori come J. Jones, N. Mailer, T. Capote, P. Bowles, J. Hersey ecc. L'incruenta rivoluzione della beat generation, capeggiata dai narratori J. Kerouac e W. Burroughs e dal poeta A. Ginsberg, contribuisce a popolarizzare anche in America l'opera del loro padre spirituale H. Miller, pubblicata quasi tutta in Francia, e agli inizi degli anni Sessanta un altro gruppo di scrittori (W. Styron, S. Bellow, J. D. Salinger, M. McCarthy, J. Updike, B. Malamud, R. Ellison e J. Baldwin) ci offre un ritratto allucinante dell'artista americano del nostro tempo in lotta con la realtà che lo circonda. Gli ultimi due fra gli autori citati sono di colore e la loro crisi personale si rivela con maggiore drammaticità, come in R. Wright e in J.L. Hughes. Il teatro americano moderno, nato con i potenti drammi di E. O'Neill, si sviluppò nel decennio 1920-1930 con drammaturghi quali C. Odets, M. Anderson, E. Rice, R. Sherwood, T. Williams, A. Miller, W. Inge, G. S. Kaufman, M. Hart, G. Kanin, E. Albee. Accanto alle produzioni di parodistico sperimentalismo di J. Barth o di D. Barthelme, nascono nuovi best-sellers lanciati o creati dall'industria culturale. Il riferimento va alle opere di E. Segal, come Love Story, o di M. Puzo, come Il padrino, o di A. H. Haley, come Radici. Inoltre un cenno va fatto all'importante corrente femminista che fa capo a Joan Didion e a Joyce Carol Oates. Nella prosa gli anni a cavallo tra gli Ottanta e Novanta hanno visto un crescente successo degli autori di origine messicana, i cui romanzi sono legati dal dilemma dell'identità e dell'inevitabile tradimento della propiria identità culturale. La narrativa di Toni Morrison, dedicata alla doppia alienazione sofferta dalla donna nera a causa dei pregiudizi razziali e della sua condizione stessa diappartenente al sesso femminile ha ottenuto il riconoscimento del premio Nobel per la letteratura nel 1993. A parte questo esempio di scrittrice e di altre afro-americane, la carenza di nuovi autori ha segnato i primi anni Novanta che hanno assistito al predominio della junk literature (letteratura spazzatura) impostasi già nel decennio precedente. Sono stati i veterani come S. Below, J Updike, T. Pynchon, G. Vidal e P. Roth a far salire il livello qualitativo della prosa statunitense.


ARTE

La prima fase dello sviluppo dell'architettura negli USA si suole dividere in quattro periodi: primo periodo coloniale (1607-1713) nel quale la dominante architettonica è lo stile Giacomo I. Esempi sono la Boardman House (1651), in legno; la Hutchinson House di Boston (1681-1691) di tendenza classicheggiante e la chiesa di S. Lucia a Smithfield (Virginia), in muratura. Nel secondo periodo coloniale (1713-1789), sempre nell'ambito del gusto architettonico europeo, si ha uno sviluppo dell'oreficeria e del mobilio. Il primo periodo repubblicano (1789-1829), pur non rivelando mutamenti sostanziali, risente dell'influsso di R. Adam, sensibile soprattutto in S. MacIntyre e, in relazione alle vicende della lega anti-inglese, del gusto francese che si diffonde anche nell'arredamento: mobili di D. Phyfe in cui si nota l'influsso dello stile Direttorio. In questo periodo l'edilizia subisce un grande impulso: in particolar modo efficace l'opera svolta dall'architetto-presidente Th. Jefferson (Campidoglio di Richmond, casa di Monticello in Virginia). Secondo periodo repubblicano (1829-1876), caratterizzato dal culturalismo europeo. L'architettura americana trova, negli ideali neoclassici, una fonte di ispirazione che si adegua al nuovo spirito repubblicano. Il neo-gotico si manifesta con J. Renwick (cattedrale di S. Patrizio, 1858, a New York). Gli architetti R. Morris Hunt e H. Hobson Richardson rimangono validi esempi di quel movimento che sfocerà nella Scuola di Chicago caratterizzante una maggior autonomia e un rinnovamento dell'architettura americana. Un altro interprete della rinnovata stagione architettonica statunitense è L. H. Sullivan, al quale si deve la qualificazione espressiva di quella costruzione tipicamente americana che è il grattacielo. Figura di primo piano è quella di F. L. Wright, allievo di Sullivan, assertore di un'architettura organica, integrata con l'ambiente, umanamente qualificata, realizzata con materiali naturali. Il razionalismo europeo si afferma negli USA a opera di Neutra, Gropius, Mies van der Rohe, Saarinen, Le Corbusier e ne impronta l'aspetto architettonico attuale. La pittura e la scultura arrivano a risultati autonomi e originali molto più tardi. In scultura, solo dalla metà del XVIII sec. si ha il primo artista di rilievo: W. Rush (1756-1833). Come architettura e pittura, la scultura riesce a dire qualcosa di originale solo nel XX secolo e soltanto a opera di artisti d'avanguardia: D. Smith, S. Lipton, Louise Nevelson. A. Calder con le sue geniali creazioni lancia una nuova concezione dello spazio come entità liricamente dinamica e apre un periodo sempre più originale e vivo di fermenti. A partire dalla metà del XVIII sec. J. S. Copley, B. West, G. Stuart possono essere considerati iniziatori della pittura di storia. Nella prima metà dell'800 una nota originale è data dalla Scuola dell'Hudson, caratterizzata dalla pittura di paesaggio di tono romantico, di cui fanno parte T. Cole, A. Durant, T. Doughty. Con J. S. Sargent e J. Whistler si definisce il rapporto tra pittura americana ed europea, con accenti di forte originalità. Le avanguardie di fine secolo riflettono le influenze sempre presenti negli Stati Uniti dei movimenti europei. A questi movimenti d'avanguardia un apporto originale dà il movimento sincromista per opera di Morgan Russel e Stanton MacDonald Wright, entrambi assai vicini alle poetiche di Picabia e Delaunay. Fra espressionismo, impressionismo, cubismo ed esperimenti dadaisti, emerge per purezza lirica e linguaggio assolutamente originale l'opera di J. Marin, forse uno dei più significativi pittori americani del primo Novecento. Durante la crisi del '29 emerse un gruppo di pittori sociali (J. Levine, Ben Shahn, W. Gropper). Il contributo dato dagli Stati Uniti all'arte immediatamente postbellica è tra i più significativi e validi. Fra gli artisti M. Tobey, F. Kline, W. De Kooning, M. Rothko emerge la figura di J. Pollock, la cui opera risulta determinante per la creazione e l'affermazione dei caratteri della pittura informale, di gesto e d'azione, genericamente riassumibili nella definizione di espressionismo astratto introdotta da Hans Hoffman. Dal 1955 si è sviluppata la pop-art (R. Rauschenberg, J. Johns). Da essa ha tratto origine l'iperrealismo (R. Estes, D. Eddy, J. De Andrea e altri). AI confini tra pittura e scultura i mobiles di A. Calder, alla ricerca di forme e spazi aperti e dinamici. Non va infine dimenticata l'arte concettuale, che rifiuta l'opera d'arte come effetto, ma si esprime con azioni, documentazioni ecc. Si vedano a questo proposito la body art e la land art.


STORIA

La colonizzazione dei territori che ora costituiscono gli Stati Uniti, sino ad allora popolati da stirpi indigene di scarsa entità numerica, fu iniziata dalle nazioni europee nel XVI sec. Gli Spagnoli si insediarono in varie regioni dalla Florida alla California; i Francesi arrivarono a controllare una larga fascia che andava dal golfo del Messico ai Grandi Laghi; gli Olandesi si stabilirono nella valle dell'Hudson; infine gli Inglesi, che furono i trionfatori nella competizione per il controllo del Nordamerica. Dal 1607 (creazione della prima colonia inglese, la Virginia) l'espansione inglese proseguì rapida, tanto che, prima della metà del XVIII sec., esisteva già un vasto e sicuro possedimento britannico. Col tempo l'immigrazione dall'Europa moltiplicò la popolazione, l'economia prosperò e le tredici colonie originarie ebbero sempre meno bisogno della lontana madrepatria. Nacque, così, un sentimento nazionale, che rese inevitabile la frattura quando si accentuò il contrasto di interessi economici con gli Inglesi, soprattutto per le tasse e per le restrizioni commerciali imposte da Londra, che attuava una politica mercantilistica tendente a rendere subordinata l'economia coloniale ai suoi interessi. Dopo la guerra franco-inglese (teatro americano della guerra dei Sette anni), conclusasi nel 1763 favorevolmente alla corona inglese, che con il trattato di Parigi annetteva il Canada e ampi territori delle regioni centrali e meridionali, il governo inglese non solo limitava fortemente la colonizzazione delle nuove regioni, incurante della pressione esercitata dalla crescente popolazione locale, ma decise di applicare una serie di nuove tasse per rifarsi delle spese del conflitto, aumentando il già diffuso malcontento. Dopo alcune azioni di boicottaggio economico ai danni di navigli inglesi (Boston tea party del 1773), nel 1774 i rappresentanti delle colonie (tranne la Georgia), riuniti a congresso a Filadelfia, affermarono il loro esclusivo potere di condurre i propri affari. Prima del secondo Congresso (1775) a Filadelfia avvenne il primo scontro armato a Lexington e gli Inglesi furono assediati a Boston; ciò indusse il Congresso a nominare Washington comandante di un esercito coloniale. Dopo le prime azioni militari (Bunker Hill, 1775; occupazione di Boston, 1776), il Congresso adottò (4 luglio 1776), la Dichiarazione di Indipendenza redatta da Th. Jefferson. Ottenuto, grazie all'abilità diplomatica di B. Franklin, l'aiuto francese (1778), dopo alterne vicende, il successo di Washington a Yorktown (1781) convinse il governo inglese a por fine alla guerra. Con la pace di Versailles (1783), l'Inghilterra rinunciava ai territori fra gli Allegheny e il Mississippi, conservando il Canada. Le tredici colonie, trasformatesi in Repubbliche confederate (Delaware, Pennsylvania, New Jersey, Rhode Island, Georgia, Connecticut, Massachusetts, Maryland, Carolina del Sud, New Hampshire, Virginia, New York, Carolina del Nord), conobbero un periodo di incertezza politica e istituzionale in relazione alla formalizzazione dei rapporti reciproci, finché si riunì una Convenzione a Filadelfia (maggio 1787) che preparò la Costituzione federale che, con alcuni emendamenti posteriori, vige tuttora. In essa era previsto un governo federale comune per i problemi di politica estera, commerciale e finanziaria, nonché per la regolamentazione dei rapporti interni tra Stati della confederazione, e governi nazionali per la gestione e l'indirizzo delle singole Repubbliche. Il 4 marzo 1789 nascevano gli Stati Uniti di cui Washington fu primo presidente. Gli anni della presidenza di Washington (1789-1797) e di J. Adams (1797-1801) furono dominati dal problema dell'organizzazione dell'esecutivo federale (concentratosi fisicamente nella nuova capitale, Washington, inaugurata nel 1801) e dell'organizzazione e sviluppo dei nuovi territori via via annessi (Vermont, 1791; Kentucky, 1792; Ohio, 1803; Louisiana, acquistata da Napoleone I nel 1803 ed elevata a nuovo Stato nel 1842). Le violazioni da parte dell'Inghilterra, durante la guerra di questa con la Francia, della sovranità delle navi americane, e soprattutto la volontà dei coloni della frontiera di eliminare l'appoggio inglese agli Indiani, furono all'origine del conflitto con gli Inglesi (1812) terminato con la pace di Gand (1814) con un sostanziale nulla di fatto, se non il definitivo distacco dalla madrepatria e la coscienza americana della potenza raggiunta, che portava anche ad una diversa percezione del proprio ruolo internazionale da svolgere, chiaramente espressa nella cosiddetta dottrina di Monroe (1823), che negava all'Europa il diritto di stabilire in America nuove colonie e affermava la non-ingerenza negli affari americani. Sotto la presidenza dello stesso Monroe iniziava intanto la colonizzazione del West, attraverso continui scontri con le popolazioni indiane (fondazione degli Stati Indiana, 1816; Mississippi, 1817; Illinois, 1818; Alabama, 1819; Missouri, 1821). Nel 1829 fu eletto, con il sostegno degli operai dell'Est e degli Stati dell'Ovest, A. Jackson, che riportava in auge le spinte contro il centralismo federalista abolendo la Banca degli Stati Uniti e rilanciando la funzione dei singoli governi nazionali. Dopo l'annessione dei territori dell'Arkansas (1836) e del Michigan (1837), nel 1845 venivano ammessi il Texas e la Florida, mentre dopo la breve guerra contro il Messico (1846-1848), anche California e Nuovo Messico entravano nell'Unione. Allorché si trattò di considerare i nuovi Stati dell'Ovest come schiavisti o antischiavisti, nacquero gravi contrasti fra il Sud schiavista e il Nord che (anche in ragione della diversa struttura del sistema produttivo, dove l'industria aveva parte preponderante e in agricoltura non si aveva il latifondo, e l'attività cominciava ad essere meccanizzata) aveva abolito la schiavitù. Il compromesso (1850) fallì per il rifiuto delle popolazioni del Nord di riconsegnare i negri fuggitivi e per la campagna antischiavista, condotta soprattutto dal nuovo Partito repubblicano (fondato nel 1854) che prendeva il posto dei whigs avviando a fianco del Partito democratico il sistema bipartitico continuato fino ad oggi. L'elezione del repubblicano Lincoln (1861), favorito dalla scissione dei democratici, accelerò la secessione. Nel febbraio 1861 sette Stati sudisti costituirono a Montgomery gli Stati confederati dell'America sotto la presidenza di J. Davis. La guerra susseguente si svolse su tre fronti: sul mare, ben presto dominato dai Nordisti che attuarono il blocco delle coste; nella valle del Mississippi, in cui le forze unioniste di U. Grant conobbero numerosi successi; infine in Virginia, dove gli unionisti subirono diverse sconfitte di fronte agli abili generali confederati R. Lee e T. Jackson, che sapevano sfruttare alla perfezione il territorio ricco di fiumi. Passati all'offensiva nel 1862, i confederati di Lee furono fermati ad Antietam e sconfitti, con gravi perdite, a Gettysburg (1863). Grant, nominato comandante degli eserciti dell'Unione (1864), non diede tregua alle forze sudiste che gli si arresero ad Appomattox ponendo fine alla guerra civile (1865). Nell'aprile 1865 il presidente Lincoln, che due anni prima aveva proclamato l'abolizione della schiavitù, veniva assassinato. Il suo successore Johnson non seppe condurre una politica di conciliazione verso il Sud. La reazione dei Sudisti si organizzò nel Ku-Klux-Klan, organizzazione razzista e terrorista che si pose l'obiettivo di intimidire con ogni mezzo i negri impedendone di fatto l'emancipazione. La guerra trasformò completamente il Paese: nel Sud, distrutto quasi completamente, i latifondi furono spezzati e si formò una struttura rurale simile a quella del Nord; il Nord dal canto suo, favorito dai provvedimenti del governo repubblicano, conosceva un gigantesco sviluppo economico. La frontiera veniva spinta sempre più a Ovest con la creazione di sempre nuovi Stati (saranno 48 nel 1912), calpestando i diritti degli Indiani che, dopo una lunga resistenza, nel 1890 erano ormai sconfitti definitivamente e i superstiti chiusi in riserve. La presidenza del generale Grant suscitò varie opposizioni, soprattutto degli agricoltori per la corruzione dei funzionari amministrativi e per lo sfacciato favoreggiamento di speculatori nell'acquisto delle terre nei nuovi territori, attraversati dalle ferrovie delle grandi compagnie. Ma nonostante la crisi finanziaria del 1873, il Partito repubblicano, appoggiato dall'industria e dagli ambienti finanziari, si mantenne al potere fino al 1885. La reazione allo strapotere dell'industria che si era sviluppata in modo prodigioso alimentando una imponente corrente immigratoria specialmente da Irlanda, Italia ed Europa centro-orientale, e ai trusts che detenevano il monopolio in vari settori industriali, portò allo Sherman antitrust Act (1890) e alla formazione di un movimento sindacale organizzato (1886, fondazione dell'American Federation of Labor). Mentre si radicalizzavano all'interno i conflitti operai (nel 1894 una manifestazione operaia a Chicago fu, per la prima volta, soffocata nel sangue, il 1° maggio), l'esaurirsi della frontiera a Ovest spinse il governo americano alla ricerca di nuovi sbocchi commerciali. Lo stato di anarchia a Cuba, che minacciava le piantagioni americane, e l'affondamento di una corazzata americana furono pretesto per la guerra alla Spagna (1898) conclusasi con la conferenza di Parigi (1898): Puerto Rico passò sotto la diretta dipendenza USA, Cuba fu organizzata in repubblica, ma sottoposta a protettorato; anche le Filippine e Guam e poi le Hawaii e Samoa (1898) passarono agli Statunitensi. Gli USA diventarono così una potenza imperiale mondiale. Il nuovo presidente Th. Roosevelt (1901) accentuò la politica di potenza in campo internazionale con l'intervento diplomatico a protezione del Venezuela contro la Germania e l'Inghilterra e soprattutto con la costruzione del canale di Panama; il perseguimento della politica del grosso bastone (big stick) giunse a stabilire il predominio americano su tutta l'America Latina, a garanzia dei solidi interessi economici che intendeva difendere dagli Europei (invasione di Santo Domingo, 1904), mentre Roosevelt accrebbe il suo prestigio e quello nazionale intervenendo come mediatore nel conflitto russo-giapponese e nella conferenza di Algeciras (1906). In politica interna, con lo Square Deal, si tentò di moderare lo strapotere dei trusts e la pressione delle associazioni operaie, in un primo tentativo di ordinamento federale delle dinamiche delle relazioni industriali. La divisione dei repubblicani favorì, nelle elezioni del 1913, il democratico Wilson, che attuò grandi riforme: la diminuzione dei dazi protettivi, la riforma del sistema bancario, una più efficace legge antitrust (Clayton Act, 1914) e misure protettive per gli operai e gli agricoltori. Allo scoppio della prima guerra mondiale, gli USA si mantennero neutrali anche se divennero i grandi fornitori di munizioni e di viveri dell'Inghilterra e della Francia. Dopo un tentativo fallito di conferenza tra belligeranti, la guerra sottomarina scatenata dai Tedeschi convinse Wilson a entrare in guerra (aprile 1917), contribuendo in modo decisivo alla vittoria dell'Intesa e al definitivo affermarsi degli USA come potenza mondiale leader. Wilson si presentò alle trattative di pace con un programma di 14 punti, ma ormai non aveva più dietro di sé la maggioranza del Paese; nel 1918 erano stati eletti una Camera e un Senato repubblicani che non ratificarono il trattato di Versailles e aprirono la lunga fase dell'isolazionismo americano, rafforzato dallo scoppio della crisi economica del 1929 che provocò milioni di disoccupati e il crollo dei prezzi. Franklin D. Roosevelt, eletto nel 1933 e riconfermato nel 1936 e 1940, affrontò la crisi attuando una politica economica e sociale (v. New Deal) che prevedeva un massiccio intervento regolatore dello Stato. Nonostante i legami tradizionali di amicizia con l'Inghilterra e la Francia e l'avversione al nazismo, gli USA si mantennero neutrali all'inizio della seconda guerra mondiale, pur sostenendo in diversi modi le forze democratiche. L'attacco giapponese a Pearl Harbor (7 dicembre 1941) determinò l'entrata in guerra. La presenza degli Americani fu decisiva per le sorti del conflitto. La fine della resistenza del Giappone fu affrettata dall'uso di una nuova terrificante arma: la bomba atomica (6 e 9 agosto 1945 su Hiroshima e Nagasaki). Nel dopoguerra, i presidenti Truman ed Eisenhower si impegnarono soprattutto nella competizione mondiale con il blocco comunista ponendosi alla testa del mondo occidentale (dottrina Truman, 1947; creazione della NATO, 1949; guerra di Corea, 1950-1953). Kennedy, eletto nel 1960, superato con la crisi dei missili di Cuba (1961) uno dei momenti più critici della guerra fredda, avviò una politica di distensione unita ad uno sforzo riformistico interno teso anche a fare progredire la causa dei negri, ma fu assassinato il 22 novembre 1963. Lyndon Johnson, suo successore, si trovò di fronte a gravi problemi di politica interna ed internazionale. Il conflitto vietnamita lo portò a un ampliamento dell'impegno militare, conclusosi in un completo fallimento e in un netto deterioramento dell'immagine degli USA in tutto il mondo. Le nuove elezioni videro la vittoria di Richard Nixon (1969-1974), conservatore, abile politico, costretto tuttavia a rassegnare le dimissioni perché implicato nello scandalo del Watergate. Nixon ebbe tuttavia il merito di aver avviato a soluzione il problema vietnamita (accordi a Parigi del 1973) e di aver favorito l'apertura alla Cina. Sotto la presidenza di Gerald Ford si concluse nell'aprile 1975 la guerra vietnamita con la vittoria di Hanoi. Il successore, il democratico Jimmy E. Carter, realizzò l'accordo di Camp David (1979) tra Egitto e Israele, mentre l'invasione sovietica dell'Afghanistan (1979) raffreddò i rapporti con l'URSS e quelli con l'Iran di Khomeini raggiungevano la soglia di pericolo a seguito della vicenda del sequestro di numerosi funzionari diplomatici. Sul fronte interno, intanto, proseguiva la crisi economica e la caduta del dollaro. Battuto alle elezioni del 1980, Carter venne sostituito da Ronald Reagan, esponente della destra conservatrice repubblicana. Le scelte del nuovo presidente, tendenti soprattutto a un deciso riarmo, acuirono nuovamente i rapporti con Mosca. Dopo aver ottenuto la riconferma nel 1984, Reagan (che all'interno perseguì una politica di liberismo incondizionato) tuttavia rilanciò ad alto livello i rapporti con l'URSS. L'8 dicembre 1987 firmò a Washington con il nuovo leader sovietico Gorbaciov il trattato sull'eliminazione degli euromissili (INF). La politica di distensione con l'URSS (firma del trattato START, sulla riduzione dei missili nucleari intercontinentali, 1991) proseguì con il suo successore, George Bush (1988), che impegnò direttamente gli USA nella guerra del Golfo (1990-1991). Nel 1992 gravi disordini razziali a Los Angeles e in altre città segnalarono il grave disagio sociale dei neri americani, le cui condizioni si erano aggravate negli anni '80. Nel 1992 il democratico Bill Clinton è stato eletto alla presidenza su un programma di rilancio economico e di parziale recupero di servizi sociali a favore dei ceti più deboli. Negli anni 1993-1994 Clinton non è riuscito a far passare il suo progetto di riforma sanitaria, mentre gli USA sono alla ricerca di una linea di politica estera che mantenga efficacia alla loro posizione di paese-guida in un mondo in cui si moltiplicano i focolai di instabilità e di conflitto dopo la caduta del comunismo e della contrapposizione Est-Ovest. Nel gennaio 1995 si è insediato il 104 Congresso, il primo a maggioranza repubblicana dopo oltre quarant'anni. Ciò ha significato per l'amministrazione Clinton la perdita dell'iniziativa politica e legislativa esercitata nei primi due anni di presidenza. I repubblicani hanno presentao un progetto imperniato soprattutto sul tentativo di abbassare la pressione fiscale attraverso drastici tagli alla spesa sociale. Su questo aspetto la maggioranza repubblicana e il presidente Clinton si sono trovati maggiormente in disaccordo.




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