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Morbo di Parkinson




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Morbo di Parkinson




INTRODUZIONE

Malattia neurodegenerativa a decorso progressivo. Colpisce di norma individui di età superiore ai 50 anni (rari casi sono stati segnalati prima dei 35 anni), con una leggera preferenza per i soggetti di sesso maschile. Descritta per la prima volta nel 1817 dal medico inglese James Parkinson, questa patologia è diffusa in tutto il mondo ed è la più frequente fra le malattie che comportano disordini motori.



SINTOMI

Il morbo di Parkinson, le cui cause sono ancora ignote, è caratterizzato dalla degenerazione di neuroni di alcuni gangli (locus coeruleus e substantia nigra) presenti alla base del cervello. In questa regione si ha la diminuzione della concentrazione del neurotrasmettitore chiamato dopamina; in tal modo, la trasmissione degli impulsi nervosi viene alterata. I tre sintomi caratteristici sono il tremore, la rigidità e la bradicinesia, cioè la lentezza dei movimenti; generalmente, interessano un lato del corpo. Il tremore compare come prima manifestazione della malattia nel 70% dei casi. Si verifica tipicamente in condizioni di riposo e in una mano; solo in tempi lunghi, mesi o anni, può colpire entrambe le mani e, più raramente, uno o entrambi i piedi; si localizza poi alla mandibola e alle labbra e talvolta a collo e testa. Il tremore scompare quando il paziente compie un movimento finalizzato, come afferrare un oggetto, per ripresentarsi nella successiva fase di riposo; in alcuni casi, comunque, esiste anche un "tremore di azione", che risulta disturbante per lo svolgimento delle attività quotidiane; può verificarsi anche un "tremore interno" che, pur se non avvertito dall'esterno, rappresenta per il malato una sensazione assai fastidiosa.

La rigidità è causata dall'aumento del tono muscolare, e riduce l'escursione dei movimenti, particolarmente degli arti e del tronco; i parkinsoniani procedono a passi brevi e veloci, mantenendo il capo flesso per compensare la sensazione di caduta in avanti. La bradicinesia riguarda i movimenti che richiedono una manualità fine e che, a causa della malattia, divengono sempre più lenti e impacciati. La lentezza colpisce anche l'articolazione del linguaggio, che si fa difficoltosa e monotona (bradilalia), la capacità di scrivere, per cui la calligrafia diviene incerta e minuta (micrografia), la mimica facciale, che diventa più limitata.

Disturbi secondari, connessi ai sintomi principali o anche ai farmaci assunti per contrastare il Parkinson, possono comprendere scialorrea (eccesso di saliva dovuto a scarsa deglutizione), diminuzione di peso, disturbi della funzione urinaria (come l'eccessiva frequenza delle minzioni), crampi muscolari agli arti (distonie), alterazione della sudorazione, disturbi dell'umore (depressione nella metà dei pazienti) e del sonno. Circa il 40% dei malati lamenta, a uno stadio di Parkinson avanzato, anche stati confusionali e forme di demenza che non raggiungono mai la gravità degli analoghi sintomi nel morbo di Alzheimer.

Tremori e comportamenti analoghi a quelli dei malati parkinsoniani possono riscontrarsi anche in soggetti non affetti dalla sindrome, a seguito dell'assunzione di particolari sostanze psicoattive, come l'ecstasy.



DIAGNOSI

L'accertamento del morbo di Parkinson avviene mediante visita neurologica mirata a individuare almeno due dei sintomi tipici della malattia; esami di tipo farmacologico, nei quali l'uso di farmaci come la levodopa e l'apomorfina permettono di verificare la funzionalità dei recettori per la dopamina. L'attività della regione cerebrale interessata dalla malattia viene indagata anche con tomografia a emissione di positroni (PET) e tomografia a emissione di singolo fotone (SPECT), che forniscono informazioni sul flusso sanguigno, e la risonanza magnetica nucleare (NMR), che dà immagini anatomiche preziose sulle condizioni del tessuto cerebrale.

Lo stadio della malattia viene definito con un punteggio. La scala di valutazione più nota è quella di Hoehn e Yahr, che stabilisce cinque gradi di progressione del Parkinson. Una possibile complicazione è rappresentata dalla sindrome da trattamento cronico con levodopa, cioè dal quadro sintomatologico che può comparire dopo un trattamento prolungato con il farmaco che, dagli anni Sessanta, ha rappresentato una svolta nella terapia del Parkinson.



TERAPIA

Le terapie del morbo di Parkinson negli anni Cinquanta e Sessanta si basavano su interventi chirurgici mirati a interrompere alcuni circuiti neurali (in particolare, i circuiti extrapiramidali) e a ridurre il tremore. Dal 1969 fu introdotto un nuovo farmaco, la levodopa che, convertita in dopamina a livello della substantia nigra cerebrale, inizialmente permette un controllo quasi totale dei sintomi. Tuttavia, dopo un periodo di assunzione variabile a seconda del paziente e compreso tra i cinque e i dieci anni, il controllo del Parkinson sembra più precario; la risposta alla levodopa sembra ridursi e attraversare fasi alterne (chiamate periodi di "blocco e sblocco" oppure "on e off"). Possono comparire alterazioni motorie, del tronco e degli arti e altri disturbi che, nel loro complesso, costituiscono la sindrome da levodopa. Molti autori ritengono necessario iniziare il trattamento con altri farmaci, detti genericamente dopaminoagonisti (cioè che agiscono in modo simile alla dopamina), associati con basse dosi di levodopa; alcuni associano anche un farmaco sperimentato da molto tempo, chiamato amantadina.



La stimolazione cerebrale profonda (DBS)

Nel 1987 nel cervello di pazienti parkinsoniani in stadio avanzato sono state trapiantate per la prima volta cellule della midollare del surrene, che producono dopamina; inoltre, fu introdotta una nuova tecnica, detta stimolazione cerebrale profonda o DBS. Questo tipo di terapia prevede l'introduzione di un elettrodo all'interno di zone predefinite del cervello (alcuni nuclei del talamo), collegato a un particolare pacemaker che viene posizionato a livello sottocutaneo in prossimità di una clavicola. Il pacemaker stimola la zona cerebrale in modo da provocarne un blocco funzionale. Possono essere sottoposti a questo intervento i malati nei quali la terapia farmacologica ha provocato importanti effetti collaterali. Sembra che nell'80-85% dei casi si assista a un notevole miglioramento dei sintomi e alla scomparsa del tremore.



Prospettive

La ricerca sul trattamento del Parkinson è focalizzata su due filoni: il rallentamento della degenerazione del tessuto cerebrale (neuroprotezione) e la possibilità di ripristinare le funzioni perse.

Tra i composti sperimentati per la possibile azione neuroprotettiva, vi sono quelli che potenziano l'azione di un potente antiossidante, il glutatione; quelli che agiscono contro i radicali liberi, molecole responsabili di fenomeni ossidativi cellulari; ancora, quelli che agiscono contro la funzione ossidativa della dopamina e quelli che eliminano gli eccessi di ferro (elemento ossidante e perciò dannoso se non legato ad altri composti).

Il recupero delle funzioni neurologiche potrebbe ottenersi con l'impiego di fattori neurotrofici, cioè composti che intervengono durante lo sviluppo fetale nella crescita del sistema nervoso; tra questi, le molecole proteiche di tipo GNDF (fattore neurotrofico di origine gliale) che, in corso di sperimentazione negli Stati Uniti, non sembrano possano trovare una concreta applicazione perché devono essere inoculate direttamente nel tessuto cerebrale. Allo studio anche le proteine note come immunoneurofilline che, al contrario delle precedenti, possono essere somministrate per via orale e quindi, in futuro, potrebbero essere indicate non solo ai malati ma anche ai soggetti a rischio di Parkinson. Un altro gruppo di farmaci sono gli inibitori del glutammato, sostanza che normalmente è presente nel cervello ed è coinvolta nella sintesi di radicali liberi ed acqua ossigenata. Poiché questi composti sono prodotti in eccesso nei parkinsoniani e risultano dannosi, farmaci che limitano l'azione del glutammato potrebbero avere effetti positivi; tra questi, la remacemide che in Italia viene già usata negli ospedali per il trattamento della sclerosi laterale amiotrofica.

Allo studio anche la possibilità di effettuare una terapia cellulare impiegando cellule staminali indotte a differenziarsi in cellule di tipo neuronale.

Se non è ancora stato trovato il farmaco definitivo anti-Parkinson, un agente protettivo dalla potente azione ritardante nei confronti della degenerazione neurologica sembra essere un enzima, il cosiddetto Q10. Ciò almeno è quanto emerge dai risultati di uno studio triennale condotto dal medico statunitense Clifford Shults all'Università di San Diego (California), resi noti nell'ottobre 2002. La molecola è già presente fisiologicamente nell'organismo umano e risiede nei mitocondri, dove svolge un'azione antiossidante e inibisce la sintesi di radicali liberi, assai dannosi per la cellula. Si trova anche in molti integratori alimentari in commercio. Lo studio del team californiano si è basato sull'osservazione che molti pazienti parkinsoniani possiedono livelli insolitamente bassi di enzima Q10; ciò potrebbe essere correlato al processo degenerativo. I risultati di Shults hanno suscitato molto interesse nella comunità scientifica, ma anche perplessità determinate dal fatto che la sua ricerca ha misurato il rallentamento della malattia nei pazienti attraverso la valutazione dei sintomi visibili, mentre non ha potuto fornire dati certi sulla reale condizione neurologica dei malati. Dunque, l'enzima potrebbe secondo alcuni solo alleviare i sintomi. I National Institutes of Health statunitensi stanno valutando di sottoporre questa molecola e altre, come i farmaci antinfiammatori, a trials clinici su ampia scala.


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