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La cultura, la letteratura, le ideologie, la societÀ e le linee di pensiero che si evolvono con il progresso




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La cultura, la letteratura, le ideologie, la società e le linee di pensiero che si evolvono con il progresso


Dall'Ottocento Naturalista alla nuova letteratura nel Novecento


In questo senso è evidente il collegamento col periodo che va dalla metà circa dell'Ottocento sino ai giorni nostri, segnato da un rapido e tumultuoso sviluppo della società, del suo sistema economico, dei rapporti politici e anche delle correnti di pensiero.

E' significativo, nel panorama italiano, l'affermarsi della poetica del Verismo, che riprende gli assunti del Naturalismo francese e direttamente ispirata ad una concezione deterministica secondo la quale l'uomo è determinato dalla natura, dall'ambiente in cui vive, da ciò che lo circonda, quindi anche e soprattutto da ciò che lo ha preceduto, ed egli determinerà profondamente ciò che lo seguirà.

In questo periodo (1878-1890) l'Europa vive appieno gli effetti della rivoluzione industriale e la nuova classe borghese si afferma soprattutto sul piano economico. Cambiano gli scenari socio-economici, si afferma un nuovo sistema di mercato (il capitalismo) e nuovi rapporti politici spodestano più o meno ovunque lo strapotere aristocratico.   
Il letterato di questo periodo, fiducioso per la crescente alfabetizzazione portata dalla borghesia, spera di poter finalmente trovare un pubblico adeguato al quale divulgare le proprie idee e di riuscire a vivere della propria passione-professione.

Queste condizioni effettivamente si realizzano entrambe, ma in termini nettamente distanti dalle speranze degli intellettuali. Infatti, mentre il pubblico si allarga come previsto e la nuova economia favorisce la nascita della figura indipendente dello scrittore (in Italia si affermerà soltanto dopo, dato il ritardato sviluppo economico e sociale), il controllo dell'editoria passa nelle mani della borghesia, la quale finisce col sottometterla alla propria mentalità affaristica. La letteratura si trasforma in un vero e proprio mercato, regolato dai principi della vendita di massa e condizionato dalle ideologie socio-politiche correnti: soddisfare il pubblico diventa l'obiettivo principale, spesso accompagnato da precisi intenti ideologici volti a plagiare l'opinione generale secondo il volere borghese. Questa trasformazione permette così alla classe proprietaria dell'editoria di divenire "proprietaria" della cultura, in grado di decidere quale messaggio divulgare e quale impostazione ideologica trasmettere, con evidenti fini politici.

Molti letterati rifiutano sdegnati tale situazione, altri la accettano spontaneamente, altri ancora scelgono il compromesso; in ogni caso, però, l'artista e l'arte perdono la sacralità che avevano mantenuto sino ad allora, trasformandosi in merce da vendere sul mercato o allontanandosi dalla società, rinunciando così al proprio ruolo civilizzatore. Una situazione in un certo senso differente si registra in Italia dove, a causa dell'arretratezza sociale ed economica del Paese, i letterati, e soprattutto le figure di Carducci prima e Pascoli in seguito, riescono a mantenere ancora alto il valore del poeta-vate: essi si confermano portatori dei valori classici della tradizione, ma già in Pascoli sono presenti posizioni più vicine al periodo nuovo del Decadentismo.

Il quindicennio nel quale si manifesta il Decadentismo (1890-1904) segna il passaggio tra due periodi, la fine definitiva del Romanticismo e della borghesia liberale e l'avvio verso un periodo nuovo, quello che sarà delle avanguardie.
Letterato del suo periodo, Pascoli esprime bene con la sua poetica il declino della corrente romantica, mentre il suo sperimentalismo lessicale e metrico rivela l'esigenza di una forma nuova di poesia che si manifesterà in forma matura solo con l'avvento delle avanguardie. Per questo suo particolare atteggiamento, quindi, Pascoli viene considerato l'ultimo poeta dell'Ottocento, colui che ha dato vita ad una poetica la cui evoluzione è stata influenzata, più di ogni altra, dalla condizione storica e sociale di questo periodo.


Proprio in questi anni, infatti, si verifica la "grande depressione" e l'industria europea va in crisi. Dopo un consistente periodo di progresso, praticamente in ogni settore, la società europea si trova ad affrontare un momento di regresso nel quale si riduce la spinta economica e cambiano gli assetti politici.

Per limitare i danni e riavviare l'economia, ciascuno Stato mette in pratica politiche di protezionismo e di espansione coloniale, mentre le grandi industrie finiscono con l'assorbire quelle minori eliminandone la concorrenza. Così, mentre il potere economico si concentra nelle mani dei grandi imprenditori, la politica colonialista si trasforma in imperialismo e invita alla conquista militare in massa. Il regresso economico si trasforma così in progresso politico-militare; quest'ultima fase del mutamento, che caratterizza il passaggio al nuovo secolo, viene ben rappresentata nel discorso di Pascoli La grande Proletaria si è mossa, nel quale l'autore manifesta tutto il suo entusiasmo per la partecipazione dell'Italia alla conquista coloniale, divenuta ormai questione di prestigio e di riscatto nazionale necessaria e richiesta anche dal popolo.         
Ne vengono riportati alcuni passi:


La grande proletaria si è mossa.
Prima ella mandava altrove i suoi lavoratori che in patria erano troppi e dovevano lavorare per troppo poco. Li mandava oltre alpi e oltre mare [.] a fare tutto ciò che è più difficile e faticoso, e tutto ciò che è più umile e perciò più difficile ancora[.]
Il mondo li aveva presi a opra, i lavoratori d'Italia; e più ne aveva bisogno, meno mostrava di averne, e li pagava poco e li trattava male e li stranomava. [.]

- L'apertura del discorso dimostra chiaramente la dura condizione degli Italiani, costretti ad emigrare per mancanza di lavoro, senza la possibilità di riuscire a trovare però una condizione migliore: i Paesi ospitanti, infatti, vedono ormai gli Italiani come una massa di inetti e li giudicano inferiori, costringendoli a svolgere i lavori più difficili senza riconoscer loro alcun merito. La grande Proletaria è l'Italia, nazione povera, ma con una numerosa prole costretta ad emigrare (gli Italiani).


Lontani o vicini alla loro patria, alla patria nobilissima su tutte le altre, che aveva dato i più potenti conquistatori, i più sapienti civilizzatori, i più profondi pensatori, i più ispirati poeti, i più meravigliosi artisti, i più benefici indagatori, scopritori, inventori, del mondo, lontani o vicini che fossero, queste opre erano costrette a mutar patria, a rinnegare la nazione, a non essere più d'Italia. [.]I miracoli del nostro Risorgimento non erano più ricordati, o, appunto, ricordati come miracoli di fortuna e d'astuzia. [.]

- Il desiderio di riscatto diventa ancora più intenso pensando all'immensa gloria di cui l'Italia è stata protagonista in passato, ammirata da tutto il resto del mondo: Roma, il Rinascimento Italiano, Da Vinci, Machiavelli, Colombo e tante altre personalità di grandissimo rilievo, adesso ricordati "come miracoli di fortuna e d'astuzia".


Così queste opre tornavano in patria poveri come prima e peggio contenti di prima, o si perdevano oscuramente nei gorghi delle altre nazionalità.
Ma la grande Proletaria ha trovato luogo per loro: una vasta regione bagnata dal nostro mare, verso la quale guardano, come sentinelle avanzate, piccole isole nostre; verso la quale si protende impaziente la nostra isola grande; una vasta regione che già per opera dei nostri progenitori fu abbondevole d'acque e di messi, e verdeggiante d'alberi e giardini; e ora, da un pezzo, per l'inerzia di popolazioni nomadi e neghittose, è per gran parte un deserto

- Questa regione è la Libia, alla conquista della quale l'Italia si era lanciata già da qualche anno, senza ottenere grandi risultati. Come si nota, Pascoli non mente sull'attuale condizione della Libia, che adesso si trova ad essere solamente un deserto; tuttavia, lui e tutti gli interventisti favorevoli alla conquista sono ben fiduciosi che ciò sia dovuta alla negligenza delle popolazioni che l'hanno dominata, e che adesso l'Italia ha la possibilità e il dovere di farne rifiorire l'antico splendore ("per opera dei nostri progenitori fu abbondevole d'acque e di messi")


Là i lavoratori saranno, non l'opre, mal pagate mal pregiate mal nomate, degli stranieri, ma, nel senso più alto e forte delle parole, agricoltori sul suo, sul terreno della patria; non dovranno, il nome della patria, a forza, abiurarlo, ma apriranno vie, colteranno terre, deriveranno acque, costruiranno case, faranno porti, sempre vedendo in alto agitato dall'immenso palpito del mare nostro il nostro tricolore.[.]

- Alla delusione del mesto ritorno in patria, oggi l'Italia vuole proporre al suo popolo una strada migliore, la soluzione a tutti i suoi problemi, senza che essi siano più costretti a lavorare per altri, ma solo per la propria patria ("sempre vedendo [.] il nostro tricolore"); Pascoli cita tutti i lavori difficili che ha già condannato all'inizio del discorso, ma li pone adesso sotto una luce positiva proprio perché in favore della madrepatria: è altissimo, in questo passo e in tutto il discorso, il senso patriottico che ne traspare, fenomeno che in questo periodo è diffuso più o meno in tutta la nazione, fino a pochi anni prima ancora divisa al suo interno.


Ora l'Italia, la grande martire delle nazioni, dopo soli cinquant'anni ch'ella rivive, si è presentata al suo dovere di contribuire per la sua parte all'umanamento e incivilimento dei popoli; al suo diritto di non essere soffocata e bloccata nei suoi mari; al suo materno ufficio di provvedere ai suoi figli volenterosi quel che sol vogliono, lavoro; [.]

- Sono passati cinquant'anni dall'Unità d'Italia (1861, il discorso è del 1911) e per Pascoli è arrivato il momento che la sua nazione si adoperi per portare la civiltà nei popoli arretrati e per dare al proprio popolo la possibilità di lavorare: la guerra in Libia ha il principale compito di estendere il potere italiano e trovare importanti risorse minerarie, ma tutta l'opinione pubblica preferisce vederla come una guerra "portatrice di civiltà", e questo concetto verrà ripetuto spesso nel discorso.


In tre minuti i cavalli sono staccati, gli affusti tolti, i cannoni appostati; e la tempesta di ferro e fuoco tuona formidabilmente.
Quale e quanta trasformazione! Giova ripeterlo: cinquant'anni fa l'Italia non aveva scuole, non aveva vie, non aveva industrie, non aveva commerci, non aveva coscienza di se, non aveva ricordo del passato, non aveva, non dico speranza, ma desiderio dell'avvenire [.]

- Il passo si commenta da solo: Pascoli elogia nell'intero discorso la modernità e le nuove scoperte tecnologiche, evidenziando come le ultime invenzioni militari rendano ancora più potente la sua Italia; è significativo anche il paragone con cinquant'anni prima: l'Italia "non era Italia", ma era una nazione divisa, legata solo a livello locale e diffidente della tanto acclamata Unità; adesso invece il senso patriottico è penetrato nei cuori di tutti gli Italiani, favorendo anche correnti interventiste e nazionaliste. Il progresso tecnologico e sociale ha trasformato radicalmente una nazione in soli cinquant'anni: le condizioni per questi sentimenti non si sarebbero mai potute verificare prima di adesso, e a loro volta ispireranno, in futuro, ideologie nuove.


Noi [.] combattiamo e spargiamo sangue, e in prima il nostro, non per disertare ma per coltivare, non per inselvatichire e corrompere ma per umanare e incivilire, non per asservire ma per liberare. Il fatto nostro non è quello dei Turchi. La nostra è dunque, checché appaiono i nostri atti singoli di strategia e di tattica, guerra non offensiva ma difensiva. [.]

- Ritorna la difesa della guerra in Libia in quanto guerra "civilizzatrice", ma in realtà persino Pascoli sa che questo tema è il più debole tra tutti; tuttavia, forse proprio per questa debolezza, il poeta decide di marcarlo più profondamente così da rendere l'impresa libica giustificata su ogni punto.


Il bersagliere, di quelli fulminati di fronte e pugnalati alle spalle, raccoglie di tra i cadaveri una bambina araba: la tiene con se nella trincea, la nutre, la copre, l'assicura. Tuonano le artiglierie. Sono il canto della cuna. Passano rombando le granate. La bambina è ben riparata, e le crede, chi sa? balocchi fragorosi e luminosi. Ella è salva: crescerà italiana, la figlia della guerra. [.] E colui che la salva e la nutre e la veste non è l'esercito nostro che ha l'armi micidiali e il cuore pio, che reca costretto la morte e non vorrebbe portar che la vita?

- Qui il tema della guerra civilizzatrice e portatrice di pace raggiunge il suo massimo livello, con l'esempio portato da Pascoli: un soldato italiano, che tra i cadaveri scorge una bambina araba, non può che prenderla e accudirla, darle un futuro migliore; egli infatti è "costretto a recare la morte", quando invece il suo volere è quello di portare la vita e salvare quegli stessi popoli contro i quali sta combattendo. Le convinzioni nazionaliste sono più forti che mai, e persino Pascoli, solitamente socialista, cade nella ricorrente trappola di giustificare una guerra di morte come portatrice di vita.


Benedetti, o morti per la Patria! Voi non sapete che cosa siete per noi e per la Storia! Non sapete che cosa vi debba l'Italia! L'Italia, cinquant'anni or sono, era fatta. Nel sacro cinquantennario voi avete provato, ciò che era voto de' nostri grandi che non speravano si avesse da avverare in così breve tempo, voi avete provato che sono fatti anche gl'italiani.

Giovanni Pascoli[1]

- Pascoli conclude ovviamente con un ulteriore richiamo al senso patriottico: cinquant'anni prima l'Italia veniva unita dall'impresa di Garibaldi, ma persino le parole del poeta testimoniano che il popolo italiano rimaneva ancora profondamente diviso. Adesso, grazie ai morti per la patria, ai soldati caduti in onore del tricolore, anche gli Italiani si sono uniti nel patriottismo ("voi avete provato che sono fatti anche gl'italiani").


Si nota bene come Pascoli insista spesso sulla differenza tra il periodo che ha visto la realizzazione dell'Unità d'Italia e quello in cui vive: nonostante la distanza di soli cinquant'anni, i numerosi cambiamenti sociali, politici e tecnologici che si sono susseguiti hanno favorito le condizioni necessarie alla nascita di una nuova Italia, dotata di un forte senso patriottico, con evidenti convinzioni interventiste e nazionaliste. Il popolo italiano è cambiato radicalmente, nei costumi, nelle abitudini, nelle condizioni sociali, nelle idee: e partendo da questo periodo di passaggio, cambierà ancora più radicalmente negli anni che seguiranno, segnati dalle due guerre, dal fascismo, e dai due pesanti dopoguerra.


Come evidenziato in Pascoli, la corsa alle colonie diventa quasi una "moda" che tutti gli Stati seguono nei primi anni del XX secolo: la politica imperialista favorisce un atteggiamento nazionalista sempre più diffuso e di conseguenza l'aggressività tra gli Stati in conflitto per il controllo delle colonie genera numerose tensioni, le quali culmineranno infine nello scoppio della Prima Guerra Mondiale.

E' il periodo in cui maturano le nuove ideologie, si consolidano quelle correnti di pensiero ostili al periodo precedente e si diffondo sentimenti di rinascita e di rottura con il passato. L'ambiente letterario sente tutto il peso della tradizione precedente e capisce che la società, ormai nuova, cambiata, non può più rivolgersi al passato ma ha l'obbligo di guardare al futuro. Si diffonde largamente una nuova visione del progresso visto principalmente come sviluppo scientifico e tecnologico, portatore di migliori condizioni di vita e simbolo di una continua evoluzione positiva. La fiducia nel presente e nel futuro rafforza definitivamente le correnti del nuovo secolo, ed esplode così il fenomeno delle avanguardie.  


Il termine avanguardie indica quegli artisti più rivoluzionari e polemici verso la tradizione, le norme e i canoni delle opere d'arte. Essi rappresentano la massima espressione di quella corrente avversa all'idea borghese dell'arte come merce da vendere, professando un linguaggio più istintivo e diretto con l'intento di provocare disgusto e scandalo. Il loro scopo è quello di sperimentare nuove forme e nuovi linguaggi e dare risalto alla creatività dell'artista, accompagnati da un Manifesto di gruppo nel quale viene esposto il programma: per tutti, anche se in modi diversi, esso consiste nella rottura con il passato e nella creazione di nuove forme letterarie, lontane dalle tradizioni, giovani, volte al futuro. Ma mentre alcuni limitano la loro azione al solo campo letterario e altri si concentrano di più sulla crisi della letteratura piuttosto che su quella sociale, solo un gruppo di avanguardia, che ottiene anche un largo successo internazionale, trova la forza e la determinazione di investire ogni ambito della vita sociale con la propria rivoluzione: il Futurismo.     
Il Futurismo nasce in Italia nel 1909 (quest'anno cade il suo centenario) quando Filippo Tommaso Marinetti pubblica il Manifesto del Futurismo: esso si fonda su un'entusiastica accettazione del futuro e della modernità e sostiene con estrema fiducia il progresso e le sue invenzioni, che a loro volta lo ispirano. Così come le scoperte scientifiche e tecnologiche hanno influenzato questo particolare atteggiamento, esso stesso ne è divenuto il principale sostenitore e ha favorito così la nascita di una mentalità dinamica, amante della modernità e disponibile ad accogliere il mutamento sociale in corso: le città si riempiono di macchine, tram elettrici e altri servizi innovativi; il Futurismo infatti nasce proprio nella città italiana più modernizzata: Milano.
La profonda carica innovatrice di questa corrente si diffonde in tutta Europa e influisce pesantemente sulla nascita delle nuove avanguardie, sia in campo letterario che in tutte le altre forme artistiche. Per quanto scarsa di capolavori, la storia del Futurismo rimane quindi basilare per il fondamentale contributo fornito dalle sue tecniche sperimentali e dalle idee indiscutibilmente innovative, che per tutto il secolo ispireranno nuove ideologie e quelle nuove forme letterarie che il panorama culturale attendeva sin dalla fine dell'Ottocento.

Vengono riportati di seguito alcuni passi del sopracitato manifesto per rendere l'idea del programma futurista, così distante dalla tradizione precedente e ricco di nuove ispirazioni:


1. Noi vogliamo cantare l'amor del pericolo, l'abitudine all'energia e alla temerità.

2. Il coraggio, l'audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia.

4. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova; la bellezza della velocità

7. Non v'è più bellezza se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro. La poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all'uomo.

9. Noi vogliamo glorificare la guerra - sola igiene del mondo - il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei liberatori, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna.

11. È dall'Italia che noi lanciamo per il mondo questo nostro manifesto di violenza travolgente e incendiaria col quale fondiamo oggi il FUTURISMO perché vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida cancrena di professori, d'archeologi, di ciceroni e d'antiquari. Già per troppo tempo l'Italia è stata un mercato di rigattieri. Noi vogliamo liberarla dagli innumerevoli musei che la coprono tutta di cimiteri.[2]


Risulta bene evidente dai punti riportati la tendenza dei futuristi a celebrare la velocità, la dinamicità, l'azione: riguardo quest'ultima, inoltre, emerge con forza una visione aggressiva, superba, la quale condanna tutta la tradizione e la cultura letteraria precedenti ("Già per troppo tempo l'Italia è stata un mercato di rigattieri") e propone un'innovazione violenta, mostrando quelle chiare tendenze interventiste e nazionaliste che già si erano intraviste nelle testimonianze pascoliane ("Noi vogliamo glorificare la guerra, il militarismo, il patriottismo"). Viene ribadita l'aspirazione patriottica e la tendenza al cambiamento, alla modernità, alla guerra. Per tutti questi motivi, il Futurismo è l'avanguardia che suscita maggior scalpore, e in futuro diventerà la corrente ispiratrice del Fascismo.


Nella maggior parte dei casi, comunque, il ruolo delle avanguardie è semplicemente di proposta e si limita a fornire i presupposti per la nascita della nuova letteratura, i cui caratteri però devono essere ancora definiti in mezzo alla "massa confusa e ingarbugliata" di idee che le stesse avanguardie trasmettono euforicamente alla generazione successiva.

Il movimento che era nato dal superamento della letteratura ottocentesca, influenzato profondamente da quei temi culturali e da quella società, diventa a sua volta promotore del nuovo periodo novecentesco, base ideologica e culturale delle nuove correnti. Da ispirato, il momento delle avanguardie diventa ispiratore: dopo aver subito l'influenza della società sulla quale è nato, adesso è lui ad influire sugli eventi del grande Novecento: il progresso continua, inarrestabile, il suo corso, e ciascun momento, scaturito da quello precedente, determina quello futuro.                  

Il periodo di tensioni e contrasti che caratterizza i primi anni del Novecento porta inesorabilmente ad un conflitto europeo di dimensioni mai viste: gli eserciti schierati superano di gran lunga le formazioni viste sino ad un secolo prima, mentre il progresso tecnologico in campo bellico ha dato luce a nuove armi che attendono solo di essere finalmente sfruttate; il potenziale distruttivo di ciascuna nazione è cresciuto esponenzialmente e chiunque crede di poter sopraffare l'avversario senza il minimo sforzo: lo pensa soprattutto la Germania, che intende dimostrare la propria forza ed imporsi come potenza mondiale sull'Europa.

L'Italia, allo scoppio della guerra, decide di rimanere neutrale e ciò la favorisce: il suo esercito è tra i meno disciplinati e addestrati del mondo, mentre il suo arsenale militare continua ad essere di second'ordine; inoltre l'industria e l'economia italiana non sono in grado di sostenere una guerra, ma presto le convinzioni della classe dirigente cambiano.

La partecipazione alla guerra finisce con l'essere vista da molti come occasione di riscatto della propria identità, in un'epoca in cui l'uomo non ne possedeva più una, immerso in un sistema anonimo e meccanizzato. Per questo stesso motivo anche i letterati vedono con entusiasmo l'ingresso in guerra, mentre le industrie belliche, sicure dei larghi profitti ottenibili da un conflitto di tale portata, spingono ancora di più per una partecipazione immediata e totale. E' orientativamente questa la situazione che vige in Italia, quando gli interventisti prendono il sopravvento sui neutralisti e dichiarano la loro entrata nel conflitto.

La guerra-lampo della Germania sembra mettere la Francia subito in ginocchio, e l'entusiasmo dell'Alleanza sale alle stelle; ma a causa dell'intervento della Russia contro la stessa Germania, quest'ultima è costretta a spezzare le sue truppe. La guerra di movimento diventa guerra di trincea: lunga, estenuante, sanguinosa e letale non solo per le perdite in combattimento, ma anche per le pessime condizioni igieniche e per la mancanza di rifornimenti alimentari. La guerra pronosticata dall'Alleanza cambia radicalmente facies e si trasforma in un incubo, un terribile massacro che si protrae senza fine.          

Tra i letterati che si arruolano e partecipano nelle file italiane abbiamo Giuseppe Ungaretti, che con le sue poesie testimonierà la condizione dei soldati e la perdita, ormai definitiva, di un ruolo per l'uomo in questa società: anche il soldato ha perso la sua dignità e il suo nome, trasformandosi in numero, anonimo, la cui impresa resterà un ricordo: "Nella mia poesia [.] c'è la presa di coscienza della condizione umana, della fraternità degli uomini nella sofferenza, dell'estrema precarietà della loro condizione[3]".

Ungaretti vive appieno la rivoluzione avanguardistica, ma allo stesso tempo, oltre ad assimilarla, la rielabora e  la supera.

L'avvento delle avanguardie infatti porta numerose innovazioni letterarie, ma la loro azione tumultuosa e rivoluzionaria non può sostituire completamente la tradizione: si avvia così una tendenza di "ritorno all'ordine"; progetto, però, che non può più ispirarsi totalmente all'ordine classico dell'Ottocento, in quanto il rinnovamento promosso dalle avanguardie ha agito profondamente nell'intera cultura europea. L'effetto di queste due correnti dà lentamente forma alla nuova letteratura del Novecento, secondo un percorso complesso e vario che la produzione artistica di Ungaretti vive quasi parallelamente: costruito intorno alle avanguardie negli anni Dieci, esso tende sempre di più a spostarsi verso un ordine classico, ma rivisto in chiave moderna e condizionato dalla produzione del primo periodo. Quest'ultimo è caratterizzato da uno stile rivoluzionario: Ungaretti attua una frantumazione della metrica e della sintassi, abolisce quasi del tutto la punteggiatura e sfrutta abbondantemente l'analogia (elementi ben visibili ne "L'allegria"); nella seconda fase, invece, le nuove condizioni storico-sociali e il bisogno da parte del poeta di un ritrovato equilibrio e di una serenità nuova lo inducono a mutare il proprio stile, ricercando un taglio più classico e tradizionalista.

La poesia di Ungaretti, dunque, riprende l'avanguardia e la fa propria, donandole caratteri più definiti alla luce della nuova cultura novecentesca.

La sua grande opera è L'allegria, pubblicata prima nel 1916 con il titolo Il porto sepolto, poi riveduta, ampliata e corretta sino all'edizione finale del 1931 intitolata appunto L'allegria. In essa il poeta raccoglie poesie che vanno dal periodo precedente al conflitto mondiale sino al 1919, momento nel quale decide di aprirsi ad una nuova fase che porterà poi al Sentimento del tempo. Le cinque sezioni, che coprono dunque un arco di tempo di oltre cinque anni, dimostrano con variazioni nei temi e nello stile i profondi cambiamenti di quel breve periodo, che Ungaretti subisce tutti: inoltre, le tre sezioni centrali riguardano da vicino il tema della guerra, alla quale il poeta partecipa come soldato semplice nelle trincee.

Come spiega in Vita d'un uomo (cfr. nota 3), inizialmente egli provava un forte entusiasmo per la guerra, vista come occasione di riscatto dell'identità dell'uomo, ma questo mito viene definitivamente cancellato dall'immaginario non solo del poeta, ma di tutta l'Europa. Il nuovo metodo di combattimento non lascia più spazio a eroismi e onore, non permette più il confronto fisico e diretto con l'avversario, ma alterna momenti di terrore nelle trincee a massacri anonimi sul campo di battaglia. L'arma, la macchina, sconfigge ciò che resta dell'uomo. Questo forte disagio è ben visibile nel testo Soldati, dove, con una secca similitudine, il poeta dichiara la condizione sospesa e precaria dei soldati nella guerra di trincea, la guerra del nuovo secolo; nei quattro versi liberi che compongono il testo, Ungaretti assegna un'incredibile forza espressiva all'unica similitudine, paragonando la condizione dei soldati all'immagine della foglia in autunno, entrambi costretti a cadere e a staccarsi dalla vita.

Soldati

Si sta come
d'autunno
sugli alberi
le foglie

Bosco di Courton luglio 1918[4]


Come si evince dal testo, il titolo è decisivo per la decifrazione del senso; i versi, brevissimi, caricano ciascuna parola di un'importanza fondamentale, sia sul piano del significato, che nella disposizione del significante (non a caso sono presenti altre varianti di questo brano). La condizione del soldato è definitivamente compromessa: partito in cerca d'identità, si accorge che anche il mito della guerra è stato ormai distrutto dal progresso dei tempi, dalle nuove armi, dai nuovi imponenti eserciti, dalla mortificazione materialistica della vita umana; in guerra, ancor più che nella società, egli non ha più un'identità, è costretto a rimanere anonimo, ignoto, un numero.

In questa nuova realtà, paradossalmente, ciò che diviene prioritario per il poeta è il valore della vita: accanto ai compagni caduti, e di fronte agli orrori del conflitto, nasce in Ungaretti una pulsione istintiva allo "slancio vitale": il poeta si sente, in quelle circostanze estreme, maggiormente legato alla vita; non c'è il recupero dell'identità, quindi, ma del desiderio di vivere e di felicità.

Questi sentimenti trovano la loro massima espressione nella poesia Veglia, tra le più intense della raccolta ungarettiana. In questi versi liberi, il poeta racconta una sua esperienza di guerra, quando si ritrovò a passare "un'intera nottata" accanto al cadavere di un suo compagno.                             

Veglia

Un'intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d'amore

Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita

Cima Quattro il 23 Dicembre 1915[5]


Ungaretti insiste spesso su termini crudi che rendono l'immagine della morte, ai quali spesso dà maggiore risalto isolandoli in un unico verso: così il compagno massacrato, la sua bocca digrignata, la congestione delle mani penetrata nel suo silenzio, trasmettono con grande forza espressiva l'esperienza-limite della morte che Ungaretti si trova a testimoniare da vicino. Eppure questa cruda condizione non porta ad una resa di fronte alla morte, ma all'assunzione di tale realtà e ad un intenso slancio vitale: il poeta esprime un bisogno di armonia, un desiderio di vita che si traduce nell'allegria della spinta vitale; egli, infatti, mai tanto attaccato alla vita, scrive lettere piene d'amore.


Conclusasi la Prima Guerra Mondiale, Ungaretti si addentra in una nuova fase della propria poetica che lo porterà ad un recupero della metrica tradizionale, pur mantenendo invariato il culto della parola, caricata in ogni componimento di una grande forza espressiva.

Così come la fine del conflitto ristabilisce la pace in Europa, così la società esprime il bisogno di un ritorno alla calma e all'ordine, che influirà profondamente anche sulla letteratura. In Italia, tra le avanguardie sopravvive solo il Futurismo, mutato in una sorta di "accademia di Stato" dal Fascismo. Continua ancora la tendenza all'innovazione letteraria, ma il panorama propriamente italiano ha già dato il proprio importante contributo. Tuttavia, spostandosi nella Trieste austro-ungarica, si può notare come la semplice "differenza di nazionalità" si riveli determinante per lo sviluppo di una poetica diversa. Trieste è in realtà città d'italiani, ma a causa del dominio austriaco vengono drasticamente ridotti i contatti con le città culturalmente più fiorenti d'Italia (Milano, Firenze).

Questa condizione è alla base dell'arretratezza culturale di Umberto Saba, poeta triestino la cui formazione non ha potuto spingersi oltre lo studio della tradizione lirica italiana (sino a Leopardi). Tuttavia, il legame con la cultura austriaca e tedesca permette una più rapida circolazione delle opere di autori come Nietzsche e Freud: dallo studio di quest'ultimo e della sua psicanalisi Saba acquisisce gli strumenti conoscitivi adeguati ad affrontare in modo originale la problematica dell'uomo contemporaneo.

Secondo il poeta triestino la poesia deve aiutare l'uomo a ritrovare la propria identità, ridandogli anche la possibilità di partecipare proficuamente alla vita sociale. Concentrandosi sul significato (piuttosto che sull'estetica), la produzione di Saba (e soprattutto il Canzoniere) vuole sfruttare il metodo psicanalitico per una ricerca della verità intima e nascosta, da leggere e interpretare nell'interezza di ciascun'opera: per comprendere il vero significato del messaggio del poeta, il lettore deve conoscere non solo il singolo componimento, ma l'intera opera, in quanto ciascun testo, la sua precisa collocazione, la tematica affrontata influiscono in maniera determinante sull'interpretazione del testo.


Anche nella letteratura di Saba, quindi, ogni elemento è determinato da ciò che lo circonda, dalla sua posizione rispetto agli altri e dalla sua comprensione in un senso piuttosto che in un altro; ma ciò che assume maggior risalto dallo studio del poeta di Trieste è che proprio la collocazione geografica è un elemento profondamente determinante per lo sviluppo e l'evoluzione di un soggetto: se Saba non fosse nato sotto l'impero austro-ungarico e non fosse venuto a conoscenza di Freud, con ogni probabilità il suo bisogno di realismo psicologico non avrebbe trovato lo sbocco adatto e la sua letteratura non avrebbe assunto questi caratteri: ciò, a sua volta, avrebbe influito sulla poetica successiva, è così via per uno sviluppo continuo e inarrestabile che in ogni istante è determinato dall'attimo precedente e determina l'attimo successivo.


In questa sezione del percorso diviene evidente, quindi, come in ogni istante il mondo sia in continuo progresso, e come l'influenza di quest'ultimo sulla società sia totale; a sua volta la società (principale fonte delle microevoluzioni) esercita un ruolo determinante per l'evoluzione del progresso in un senso piuttosto che in un altro, rivelando un intreccio inscindibile tra evoluzione della società e, appunto, evoluzione del progresso.






Giovanni Pascoli, La grande Proletaria si è mossa, 21 Novembre 1911, discorso tenuto al Teatro comunale di Barga

Filippo Tommaso Marinetti, Manifesto del Futurismo, 20 Febbraio 1909, su Le Figaro


Giuseppe Ungaretti, Vita d'un uomo, Mondadori, Milano 1969, p.

Giuseppe Ungaretti, L'allegria, in Vita d'un uomo, a cura di L.Piccioni, Mondadori, Milano 1969

Giuseppe Ungaretti, L'allegria, in Vita d'un uomo, a cura di L.Piccioni, Mondadori, Milano 1969

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