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Il decadentismo in Europa - Gabriele D'annunzio




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Il decadentismo in Europa

Negli ultimi decenni dell'Ottocento si sviluppa nella cultura europea - in Germania così come in Francia, Inghilterra e Italia -  una critica dei principi su cui si era fondata fino a quel momento l'idea stessa di ragione umana. L'avversario da abbattere diventa il dogmatismo scientifico positivista, viene negata la piena conoscibilità del reale e in genere di ogni obiettività  della rappresentazione del mondo esterno. La causalità e le leggi scientifiche sono considerate delle categorie mentali costruite dall'uomo e prive di un riscontro reale nella natura delle cose; viene negato il primato che il positivismo aveva assegnato alle scienze naturali.

1. Gli aspetti speculativi

Per decadentismo si intende, quindi, non solo il nuovo modo di concepire la poesia e l'arte, quale si viene affermando in Francia e poi in Europa a partire dalla metà del secolo XIX, ma, più in generale, un indirizzo di pensiero  stimolato dalla reazione al positivismo e alla 'dittatura' del sapere scientifico, alle delusioni e alle false certezze che esso proclamava. 

Il decadentismo ha sicuramente come momento più alto  l'irrazionalismo, cioè la perdita di fede nel potere della ragione. L'uomo del decadentismo non crede più nelle verità costruite dall'uomo, le quali gli appaiono false rappresentazioni della realtà, minate da insanabili contraddizioni. Tutto ciò che l'uomo ha elaborato nel corso della storia è ora visto come un cumulo di illusioni, la verità come un miraggio assurdo, lo stesso concetto di verità come idea labile e ingannatrice.

In sostituzione dei valori perduti resta l'assoluto senso dell'individualità, la coscienza della creatura umana di costituire un isolato nucleo.

2. L'arte

In un mondo privo di valori l'unico modo che ci resta per comprendere e rivelare il mistero delle cose è l'arte, in tutte le sue espressioni. L'arte si carica dunque di enormi responsabilità, dato che ad essa viene affidata una missione essenziale per la civiltà dell'uomo. L'arte, e specialmente la poesia è la sola via di salvezza e unico modo di comunicazione.

3. La nascita della poesia decadente

Nel 1857 uscì a Parigi un libro di poesie. Ne era autore Charles Baudelaire (1821-1867) e si intitolava I fiori del male. L'opera suscitò  uno straordinario scalpore: tutti rimasero stupiti per l'originalità profonda di quei versi e dal linguaggio fortemente simbolico e ricco di metafore. 

L'effetto del libro sulla società del tempo fu  sconvolgente: Baudelaire e il suo editore furono sottoposti a processo e condannati per oscenità. Il pubblico non ancora preparato ad affrontare tanta audacia di linguaggio e di contenuti. Col tempo però la lezione di Baudelaire fu accolta, prima in Francia, poi nel resto d'Europa, e ottenne il risultato di spingere i poeti verso analoghe ricerche espressive. 

4. Decadentismo: il termine

II primo a usare la parola-base di questo derivato fu Verlaine nel sonetto Languore (1883), in cui paragonava se stesso all'impero romano «alla fine della decadenza», per indicare nella sua poesia l'espressione di una civiltà non più vitale ed espansiva, ma estenuata dalla troppe esperienze culturali e giunta al capolinea della storia.

In seguito la definizione di 'poeti decadenti' fu imposta ai seguaci di Verlaine dai loro avversari (ovviamente con significato spregiativo), finché questi non fondarono nel 1886 la rivista Le Décadent, che  assumeva la parola a titolo di vanto , intesa come sinonimo di un'arte anticonformista e di rottura.

In Francia il termine 'decadentismo' ebbe breve durata, giacché assai presto fu sostituito da quello di 'simbolismo', che ne assorbì quasi tutti i significati. Invece in Italia continuò ad avere corso, anche grazie alla critica di Croce che condusse una severa analisi della poesia italiana post-carducciana, da lui condannata come portatrice di segni di 'decadenza', cioè di una malattia non soltanto artistica, ma soprattutto ideale e morale. La nostra cultura contemporanea usa il termine 'decadentismo' come semplice connotazione storico-critica.


 Gabriele D'annunzio

Nasce a Pescara 12 marzo 1863 da facoltosa famiglia borghese.

Studia animato da ambizione da l874 al 1881 e si forma una cultura classica.

Nel 1879 appena sedicenne pubblica la sua prima raccolta poetica "primo vere" di ispirazione carducciana, ma già caratterizzata da una originale sensualità.

Nel 1880 (delineandosi già come regista della propria fama) pubblica la notizia della propria morte; dopo i necrologi ne pubblicò la smentita e l'annuncio della nuova edizione di "primo vere".

Collabora con le riviste e si trasferisce a Roma dove si iscrive a lettere, ma si dedica soprattutto alla cronaca del bel mondo, cui partecipa e in cui si afferma come fascinoso letterato.

Nel 1882 pubblica canto novo e terra vergine (una raccolta di novelle abilmente propagandate che li procurano un buon successo).

Ormai celebre scrittore prosegue la scalata mondana anche con una serie di amori: Sposa la duchessina Maria Hardouin con cui ha dei figli; tornato a Roma incontra Barbarella (1997 il più grande amore) e qui nascono i primi grandi romanzi: Il piacere, Giovanni Episcopo, L'innocente.

Inizia una vita sfrenata di lussi e per bisogni economici economici pubblicherà poi anche sul 'Corriere della sera'-


1. L'affermazione storico-politica


Nel 1914 lo scoppio della guerra gli da la possibilità di affermarsi come protagonista non solo letterario, ma anche storico politico: Nel maggio del 1915 inizia una campagna infuocata per l'intervento contro gli imperi centrali (orazione per la sagra dei mille).

Cinquantaduenne si arruola volontario e partecipa a numerose ardite azioni navali e aeree come la beffa di Buccari (porto della Yugoslavia dove nel 1918 D'annunzio partecipò a una incursione contro le navi austriache) e il Raid su Vienna.

La sua guerra è una guerra fatta di gesti e di imprese spericolate e di prestigio, condotte soprattutto con funzione di propaganda (guadagna tre medaglie d'argento e una d'oro; ferito a un occhio chiede e ottiene di tornare a combattere).

Alla fine della guerra investe la sua popolarità nella marcia di ronchi che lo porta a occupare Fiume (O fiume o morte!) e a governarla per sventarne l'annessione alla Jugoslavia (la vittoria mutilata). Poi, sconfitto dall'esercito italiano (ma lo stesso vittorioso perché Fiume sarà ammessa all'Italia),  deluso nelle sua ambizioni si ritira a Gardone dove vive un triste periodo: aderisce al fascismo che lo onorava ma al contempo lo teneva isolato e sotto sorveglianza.

Infine devastato dalla "turpe vecchiezza", isolato, risolto nello stretto ruolo di poeta-vate (onorava infatti il fascismo per ottenere privilegi) muore al Vittoriale il 1 marzo 1938.


'O Fiume o morte!'

Mio caro compagno, il dado è tratto! Parto ora. Domattina prenderò Fiume con le armi. Il Dio d'Italia ci assista. Mi levo dal letto, febbricitante. Ma non è possibile differire. Anche una volta lo spirito domerà la carne miserabile. Sostenete la causa vigorosamente, durante il conflitto. Vi abbraccio

Gabriele D'Annunzio

11 settembre 1919

Così Gabriele D'Annunzio scriveva a Benito Mussolini: iniziava l'impresa di Fiume.
D'Annunzio, che non ha mai rinunciato a rivendicare i diritti dell'Italia su Fiume, organizza un corpo di spedizione. A Venezia egli raggruppa gli ufficiali che fanno parte di un nucleo d'agitazione che ha per motto 'O Fiume o morte!'. Questi ufficiali assicurano a D'Annunzio un contingente armato di circa mille uomini, ai quali altri se aggiungono poi durante la marcia sulla città irredenta.
Gabriele D'Annunzio si autonomina capo del corpo di spedizione e il giorno 12 settembre 1919 entra in fiume alla testa delle truppe. La popolazione acclama i granatieri italiani ed il 'poeta soldato'.
L'impresa di D'Annunzio riesce anche grazie alla compiacente collaborazione del generale Pittaluga, comandante delle truppe italiane schierate davanti a Fiume, il quale concede via libera al piccolo esercito. Le truppe alleate di stanza nella citta' non oppongono resistenza e sgomberano il territorio chiedendo l'onore delle armi. Di fronte al colpo di mano il presidente Nitti, nel duplice intento di salvare la nazione da un pronunciamento militare e di non provocare incidenti internazionali, pronuncia un violento discorso:
'L'Italia del mezzo milione di morti non deve perdersi per follie o per sport romantici e letterari dei vanesii'.
Mussolini, fronteggiando l'attacco contro il suo amico D'Annunzio, scrive sulle colonne del Popolo d'Italia:
'Il suo discorso è spaventosamente vile. La collera acre e bestiale di Nitti è provocata dalla paura che egli ha degli alleati. Quest'uomo presenta continuamente una Italia vile e tremebonda dinanzi al sinedrio dei lupi, delle volpi, degli sciacalli di Parigi. E crede con questo di ottenere pieta'. E crede che facendosi piccini, che diminuendosi, prosternandosi, si ottenga qualche cosa. E' piu' facile il contrario'.
D'Annunzio non reagisce agli attacchi del Presidente del Consiglio come Mussolini, ma conia per Nitti un soprannome, niente di più, ma un soprannome nel quale c'è tutto il suo disprezzo per il moderato che disapprova 'le gesta sportive'. Lo battezza 'Cagoja'.

20 settembre 1919. Gabriele D'Annunzio ottiene i pieni poteri e comincia a firmare decreti qualificandosi 'Comandante della citta' di Fiume'. Il 16 ottobre le truppe regolari dell'esercito continuano a bloccare la citta' e D'Annunzio dichiara Fiume 'piazzaforte in tempo di guerra'. Questo gli consente di applicare tutte le leggi del codice militare che in tal caso prevede anche la pena di morte con immediata esecuzione per chiunque si opponga alla causa Fiumana.
Il plebiscito del 26 ottobre segna il trionfo di D'Annunzio che ottiene 6999 voti favorevoli all'annessione su 7155 cittadini fiumani votanti.
Sull'onda del successo, D'Annunzio esprime a Mussolini un proprio progetto: marciare su Roma alla testa dei suoi uomini e impadronirsi del potere.

Mussolini lo dissuade e lo convince che la cosa finirebbe in un fallimento. In realta' la marcia su Roma è il suo grande sogno ma egli vuole ancora aspettare perche' intende essere il solo condottiero di quella marcia, e non certo l'articolista di D'Annunzio, in questo momento piu' popolare di lui. Nel frattempo le potenze alleate ammoniscono il governo italiano sulle complicazioni che l'impresa fiumana puo' portare nelle trattative ma la loro presa di posizione è abbastanza moderata, tale da indurre Nitti a non intervenire con la forza contro D'Annunzio ma a intavolare con lui pacifici negoziati.
Arriviamo così alla vigilia delle elezioni. D'Annunzio riprende la sua attivita' espansionistica ed il 14 novembre sbarca a Zara, debolmente contrastato dal governatore militare. Occupata Zara, D'Annunzio riparte pochi giorni dopo lasciando una guarnigione a presidiare la citta', mentre corre voce che egli stia per tentare altre imprese del genere a Sebenico ad a Spalato.
Gli italiani vanno alle urne ignorando le ultime imprese di D'Annunzio, perchè il governo blocca la notizia attraverso la censura, temendo che il nuovo fatto d'armi possa mutare il corso della consultazione. Le elezioni del 1919 vedono la sconfitta dei fascisti e nel giugno del 1920 Giolitti subentra come Presidente del Consiglio a Nitti.
Il 1920 vede la conclusione definitiva dell'avventura fiumana di Gabriele D'Annunzio.
I rappresentanti delle potenze alleate si riuniscono a Rapallo. Il 12 novembre viene firmato un trattato che dichiara Fiume stato indipendente e assegna la Dalmazia alla Jugoslavia tranne la citta' di Zara che passa all'Italia. Il 'poeta soldato' viene invitato ad andarsene da Fiume. Questa volta l'esercito e la marina italiana non potranno piu' mostrarsi compiacenti con D'Annunzio. Il generale Enrico Caviglia viene inviato a Fiume per far sgomberare la citta' dagli occupanti. E' Natale. D'Annunzio dichiara che quello sara' un Natale di sangue e promette che versera' anche il suo, ma il generale Caviglia ordina ad una nave da guerra di aprire il fuoco contro il palazzo del governo. Le prime bordate segnarono la fine dell'avventura di D'Annunzio che se ne va. I suoi legionari lo seguono. Portano una divisa che diverra' famosa: camicia nera sotto il grigioverde e fez nero.

2. La poetica di Gabriele D'Annunzio

Il giovane D'Annunzio assume come modelli il classicismo carducciano (primo vere) e il realismo verghiano (terra vergine), non solo per una strategia editoriale, ma anche per la natura del suo talento che lo porta ad assimilare fino all'apparente plagio i prodotti letterari altrui, che investe però di nuovi significati grazie a una sensibilità eccellente e una amore per la parola e l'immenso desiderio di esprimere se stesso attraverso l'arte (l'espressione è il mio unico modo di vivere).

Presto abbandona però il verismo accusato di non essere sufficientemente schietto, sufficientemente vero e delinea un ideale di prosa moderna che armonizza tutte le varietà del conoscimento.
L'elemento costante diventa l'esperienza sensibile che viene resa attraverso la magia della parola (magia di sensi e allusioni) che evoca la realtà insieme al suo mistero, alla sua sensuale ambiguità.
L'estetismo diventa valore supremo e unico che egli identifica con la vita stessa.

E allora inizia la ricerca per la parola raffinata, egli dichiara il proprio amore sensuale per la parola, il verso diventa tutto.

La parola possiede elementi musicali, e la musica parla direttamente all'anima; si stacca dal testo, assume valenza magica e diventa azione, gesto. Essa diventa 'incantesimo di massa' commuove, persuade, affascina e seduce.

Ecco quindi la necessità di rivelare le cose con le più sottili raffinatezze dello stile, della metrica e la scelta di ogni termine.

Il carattere dominante della poesia di D'Annunzio è dunque la sensualità intesa come gioia di vedere, di possedere e di godere.

Si è soliti periodizzare la sua produzione in fasi, la cui scansione è da considerarsi per fittizia in quanto non rappresenta un evoluzione, ma qualcosa che è nel poeta già in origine e che prevale in diversi momenti:

3. Naturalismo sensuale

Il Naturalismo sensuale è tipico delle opere del primo periodo (1879-1886); esso è caratterizzato da una breve fase di intonazione carducciana (Primo vere 1879) che però già comprende tracce della sua personalità e da cui poi rapidamente si allontana per esprimere la sua originalità (Canto novo 1881) e per approdare, anche qui per poco, a'Terra vergine' (1882), una raccolta di novelle di intonazione verghiana.

4. Estetismo sensuale

L'estetismo sensuale appartiene al secondo periodo romano, ispirato dal principio che i valori estetici e il culto della bellezza  devono avere l'assoluta priorità nell'arte e nella vita, si caratterizza da una eleganza stilistica che tenta di dare una soluzione intellettualistica al suo sensualismo.

Ci viene teorizzato nella sua forma più esplicita ne 'Il piacere' (1889) il primo romanzo dannunziano. In esso viene trattato il dramma dell'esistenza dell'autobiografico Andrea Sperelli ossessionata dall'avidità di soddisfazioni sensuali e dal tentativo di spiritualizzare questa sensualità nell'arte.

5. Superomismo

Il superuomo nasce in Italia ufficialmente nel gennaio del 1895 con la pubblicazione nel primo numero del 'convito' della prima puntata de 'le vergini delle rocce» (C. Salinari). Nel romanzo, Claudio Cantelmo si intrattiene con tre sorelle, principesse di sangue borbonico, per decidere con quale delle tre unirsi in matrimonio e fondare la razza dei nuovi «dominatori in un'epoca in cui la vita pubblica non è se non uno spettacolo miserabile di bassezza e di disonore».

La personale concezione del superuomo matura sotto l'influsso di Nietzsche, ma in realtà ne è una rielaborazione che fraintende o che, diversamente da Nietzsche, rielabora L'ubermensch (l'oltre-uomo: metafora dell'espressione, della liberazione dell'uomo dalle sue miserie e affermazione di valori come la virtù) e lo identifica con l'eroe, secondo cui l'stinto è la sola verità e la morale una menzogna; l'unica legge è il dominio. Avvicinandosi alla belva l'uomo supera l'uomo e realizza, appunto, l'eroe

Quindi le caratteristiche del superuomo dannunziano sono:

a) l'energia, la forza, che «si manifesta con la volontà di dominio, con l'amore della violenza, lo sprezzo del pericolo» (C. Salinari);

b) l'esuberanza sensuale, «il libero disfrenarsi dei diritti della carne e della natura umana» (C. Salinari);

e) la visione aristocratica della società, il disprezzo per la plebe e «contro la nuova borghesia dell'industria e del commercio», animata solo da ideali bassi e meschini di gretto guadagno;

d) rifiuto dei nuovi princìpi di libertà e di uguaglianza, in nome di un diritto superiore al dominio, che spetta a pochi eletti, i quali formino un'oligarchia tesa a difendere la Bellezza e tenere schiave le plebi, che hanno un innato bisogno di essere tenute schiave.

Ma è una vita inapplicabile, i personaggi sono collocati in un'atmosfera irreale e dominati da questi ideali risultano troppo perversi, degenerati e amorali e non suscitano quel necessario moto di simpatia verso il lettore.

A tali e tanto arroganti pretese fanno da contrappunto i fallimenti dei protagonisti (Claudio Canetelmo non riesce a decidere quale principessa sposare).



6. Naturalismo panico

Il naturalismo panico è il punto di approdo della poesia dannunziana. Teorizzato nell'Alcione, ove viene instaurato un rapporto con la natura in chiave mistico-magica (panismo: come nel mito greco del dio Pan), la natura è sentita come una forza misteriosa, terribile e attraente, a cui l'uomo può unirsi solo abbandonandosi ad un flusso istintivo ed inferiore che nulla ha di razionale e di meditato. L'Alcione è il diario poetico di una estate in Toscana, è il superamento della sensualità primaria nella ricerca del godimento completo perseguito da tutti i sensi e goduto con l'anima. Il poeta immerso nella natura, il suo canto non è più solo dell'uomo, ma è il canto stesso della natura.

Si pensi solo alla freschezza verbale de 'La sera fiesolana', o alla pura musica de 'La pioggia nel pineto': «Le parole, più che al significato verbale, tendono alla pura grazia della trama fonica, atta a suggerire la dolcezza d'immaginare una pioggia che bagna il viso, le mani, le vesti di una donna bella e amata, nel fresco di una pineta, al tempo dell'estate» (F. Flora).

Al naturalismo panico si affianca anche la prosa del 'Notturno' diario dei giorni successivi all'incidente che lo porterà al rischio della cecità; qui il poeta si accosta a una prosa meno opulenta e fastosa, nel momento di sospensione della vita pratica l'impulso creativo ha libero campo e si libera da inserti narcisisti e da pose superomiste, la scrittura si sensibilizza e acquista una nuova dolcezza melodica che conclude la sua parabola stilistica.

Inviato dal governo italiano a inaugurare il monumento dei Mille a Quarto, D'Annunzio, il 14 maggio 1915 rientra in Italia presentandosi con una orazione interventista e antigovernativa. Dopo aver sostenuto a gran voce l'entrata in guerra contro l'impero Austro-ungarico, non esita ad indossare i panni del soldato l'indomani della dichiarazione. Si arruola come tenente dei Lancieri di Novara e partecipa a numerose imprese militari


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