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Il titolo dell'opera di Lucrezio evidentemente allude al " ì " di Epicuro ( in trentasette libri a noi non pervenuti ). Il poema lucreziano, in sei libri, intende divulgare la dottrina del Maestro. Dopo secoli di abiezione, infatti, questa ha illuminato l'umanità, liberandola dal giogo di superstizioni, vani timori, angosce di morte. Alle divinità del culto tradizionale, insulso se non pericoloso ed empio, Lucrezio sembra sostituire l'Eroe mortale che solo ha offerto una luce di conoscenza e salvezza all'uomo.
" Con le parole veraci purificò gli animi e un termine fissò al desiderio e al timore, e mise in luce qual è il bene supremo a cui tutti tendiamo, e mostrò la via che per breve sentiero ci consente di giungere ad esso con diretto cammino, e quanto male è sparso nelle cose mortali, che nasce e in vari aspetti vola attorno per cause naturali, sia caso sia forza, perché così ha disposto natura e per quali porte si debba far fronte a ciascuno; e provò che il genere umano per lo più vanamente agita nel petto torbide onde di affanni ".
I primi due libri del poema presentano la teoria atomistica epicurea nelle sue linee principali. Eternità della materia nel suo continuo movimento, avvicendamento di nascita, crescita, decadimento e morte delle cose, esclusione di ogni intervento divino nel nostro mondo, infinità dell'universo sono i temi generali che hanno maggiore spicco nella trattazione; fra tutti sembra acquistare particolare rilievo quello della morte: morte " cosmica " cui è destinata ogni cosa, morte del nostro mondo, morte di ogni individuo.
Il ritorno quasi ossessivo di questo tema sembra a non pochi studiosi sintomo dell'incapacità di Lucrezio di adeguarsi totalmente ai precetti del Maestro: la voluptas cantata e agognata nei primi versi del poema sembra lontanissima meta per il discepolo sempre inquietato e tormentato da pensieri di morte. Forse però chi legge in questa chiave così pessimistica il poema, dimentica che già fin dal primo trionfante inno ad Epicuro, Lucrezio ha precisato che la vittoria del filosofo è consistita nel prendere e dare coscienza dei limiti inesorabili posti alla vita umana. Attraverso lo studio della natura e dei suoi fenomeni l'uomo approda all'amara verità che nell'eterna vicenda di aggregazione e disgregazione degli atomi, che risponde ad un criterio di equilibrio universale ( isonomia ), tutto è destinato a perire; inutile dunque temere la morte, inutile affannarsi a vivere in vane occupazioni; la voluptas deriva appunto, come chiarisce il proemio al II libro, dalla contemplazione razionale della natura nei sereni templi della sapienza. Altri fra i contemporanei avranno diversamente inteso l 'invito alla voluptas epicurea; per il nostro poeta serenità ed equilibrio sono dati dalla fiducia illuministica nel valore della ragione e dall'entusiasmo con cui si contemplano e studiano i fenomeni cosmici. La contemplazione della natura è il punto di partenza e il punto di approdo di chi si dispone a seguire le orme di Epicuro o di indicarle agli altri; essa esige chiarezza e illuminazione, chiarezza ed illuminazione dispensa.
I libri centrali del " De rerum natura " sono dedicati all'uomo, alla sua natura composita di corpo e di "spirito ". A Lucrezio preme soprattutto di chiarire che cosa sia questo " spirito ". Sin dalle prime pagine del poema è stato messo ben in luce che alla base dell'infelicità umana stanno due principali cause: il timore degli dei e il timore della morte. Nel nome della religione si commettono atroci empietà; dal timore della morte si origina ogni angoscia o vano tentativo di evasione dal proprio stato ( ambizioni politiche, cupidigia, passioni di ogni sorta, egoismi, inimicizie.).
Bisogna perciò anzitutto chiarire all'uomo quale sia la natura dell'anima, perché appaia evidente come essa, sostanza materiale quanto il corpo, sia svincolata da ogni rapporto con la divinità e priva di destini metafisici. Ancora una volta, l'acquisizione dell'inesorabile finitezza umana è base per liberarsi di ogni paura e avviarsi al conseguimento della felicità.
E' qui evidente la polemica contro le varie correnti filosofiche che presuppongono l'immortalità dell'anima e teorizzano premi o castighi nell'aldilà, dispensati dall'intervento provvidenziale della divinità, che presiede anche alla vita terrestre.
Lucrezio nel corso del II e III libro ribadisce di continuo la natura fisica di quella parte dell'individuo che sentiamo differenziata dal corpo: in essa si distinguono animus e anima , di cui peraltro Lucrezio non definisce esattamente la diversa natura: animus, aggregato di atomi sottilissimi e mobili, è in pratica coincidente con lo " spirito " , ha sede nel petto e dà impulso a pensiero e sentimento - e alle reazioni fisiche ad essi collegate - attraverso l'anima, sostanza anch'essa sottilissima diffusa in tutto il corpo. Dunque, animus, anima e corpo sono indissolubilmente uniti fra loro; se cessa la vita fisica, animus e anima cessano anch'essi di esistere, perché partecipano col corpo alla perpetua vicenda di associazione e disgregazione degli atomi.
Il III libro insiste soprattutto sul tema della mortalità dell'anima e si chiude con un ampio discorso sulla morte dell'individuo, in cui con dialettica incalzante sono respinte tutte quelle argomentazioni che ordinariamente scaturiscono di fronte alla morte, rivelando angosce, apprensioni, vani rimpianti. Come di solito, Lucrezio appare più preoccupato di smascherare ed estirpare le false opinioni e gli errati comportamenti che vede diffusi nella società, che di annunciare la parte positiva del suo credo filosofico. Solo fugacemente, alla fine del III libro affiora il tema della ricerca filosofica come unica attività degna di interesse per l'uomo.
I libri V e VI del " De rerum natura " sono dedicati alla trattazione dei fenomeni che riguardano il mondo terrestre e la sua storia. La prima preoccupazione di Lucrezio è negare qualsiasi intervento provvidenziale della divinità negli eventi terreni. Le divinità abitano gli spazi intermundia in sereno distacco dall'uomo e dal suo mondo; quello che gli interessa anzitutto chiarire è la loro assoluta estraneità alla creazione del mondo, che quindi esiste per i suoi intrinseci meccanismi atomici, non è destinato all'uomo ( ben lontano dall'essere la creatura privilegiata ) ed è soggetto a deperimento e morte come qualsiasi cosa naturale.
Nel V libro ampia parte è dedicata alla storia della terra e dei suoi abitanti, specialmente dell'uomo. Ritorna costante il motivo della mortalità del tutto, del deperimento della terra e degli esseri che la popolano.
Lucrezio, probabilmente attingendo non solo all'insegnamento di Epicuro, ma anche al più vasto patrimonio scientifico- filosofico dell'età ellenistica, traccia un'interessante storia del genere umano, dai primordi semiferini alle più evolute forme civili. In questo ambito il poeta si discosta fermamente da ogni vagheggiamento utopistico di un'ideale età primitiva, ma anche evita ottimistiche esaltazioni del progresso umano.
La storia dell'umanità è ripercorsa razionalisticamente attraverso le sue tappe:
il progresso civile è derivato dalla successiva soluzione di bisogni elementari e di desideri indotti, in una serie di fasi che ha visto l'uomo sempre meno forte nel fisico e nella psiche e sempre più fragile, pavido, inquieto, sempre meno serenamente assoggettato al suo destino alterno di luci e ombre, di vita e morte, sempre più vanamente bramoso di affermazione, potenza, immortalità.
Parlando del progresso umano, Lucrezio alterna i toni ammirati per le faticose realizzazioni dell'ingegno e dell'arte all'amara denuncia del cattivo uso a cui queste sono state spesso volte.
Nel VI libro Lucrezio esamina una serie di fenomeni che per la loro grandiosità sgomentano gli uomini: anche qui si tratta di fornire una spiegazione razionale e fisica di essi, per escluderne qualsiasi origine divina e dissipare ogni vano timore dell'uomo. Per così dire, il poeta strappa agli dèi i loro dardi: né tuoni, né fulmini, né catastrofi naturali d'ogni sorta sono privi di una spiegazione materialistica, che rinvia ai meccanismi dell'atomo:
Lucrezio sembra superare la visione del suo Maestro, il quale proponeva gli dèi come modelli di vita saggia e di voluptas appagata: lontani e avulsi dal nostro mondo, ma degni di essere onorati dagli uomini secondo i riti tradizionali. Il poeta romano, forse per influsso di una religione assai invadente ed opprimente nella vita quotidiana, sembra ripudiare qualsiasi pratica di culto per una concezione di religiosità assai elevata: pietas è restare impassibili di fronte ad ogni evenienza ( così come impassibili sono gli dèi nei loro intermundia ). Sulla vera pietas, però, Lucrezio qui sembra sorvolare, tutto preso dalla rievocazione a tinte fosche delle paure che inducono l'uomo a credere nella presenza degli dei accanto a lui. La lettura di questo passo ci riporta a quell'epoca mitica in cui la religio schiacciava l'umanità prostrata ai suoi piedi, prima dell'avvento di Epicuro: epoca che - sembra dire Lucrezio- non è ancora tramontata per gran parte degli uomini.
" Ora, qual causa ha diffuso tra le moltitudini i numi degli dèi e ha gremito le città di altari e ha indotto ad accogliere i riti solenni - quei riti che ora fioriscono in grandi imperi e in grandi sedi, donde anche oggi s'annida nei mortali l'orrore, che su tutta la terra innalza nuovi templi agli dèi e spinge ad affollarli nei giorni festivi - non è certo difficile spiegare con le parole. Già in quel tempo i mortali vedevano con la mente desta le immagini degli dèi bellissime e, più ancora in sogno, di mirabile corporatura. A esse dunque, attribuivano il senso, perché sembravano muovere le membra e proferire parole superbe, conformi all'aspetto sovrumano e alle forze possenti. E attribuivano loro vita eterna, perché la loro immagine si rinnova sempre e la forma restava immutata, ma più ancora perché riflettevano che, dotati di tanto vigore, non potevano facilmente esser vinti da alcuna forza. Per felicità li pensavano molto superiori agli uomini, perché la paura della morte non turbava nessuno di loro, e anche perché nel sonno molte mirabili azioni li vedevano compiere senza risentirne fatica. Per giunta vedevano succedersi in un ordine fisso le vicende del cielo e le varie stagioni dell'anno, né potevano intendere da quali cause ciò procedesse. Dunque avevano per sé unico scampo affidare ogni cosa agli dèi e pensare che tutto si piegasse al loro cenno. E in cielo collocarono le sedi e le dimore degli dèi, perché nel cielo si vedono volgersi la notte e la luna, la luna il giorno e la notte gli astri severi della notte, e le faci che a notte trascorrono nel cielo, e le fiamme volanti, e le nubi, e il sole, la pioggia, la neve, i venti, i fulmini,la grandine, e i rapidi fremiti e i lunghi murmuri di minacce.
O sventurata stirpe degli uomini, quando agli dèi attribuì tali opere e aggiunse ire crudeli! Quanti gemiti prepararono allora a se stesi, e a noi quante sventure, quante lacrime causarono ai nostri figli!
Non è pietà mostrarsi spesso col capo velato, volgendosi ad una pietra e accostando ogni altare, né gettarsi a terra prostrato a tendere le palme davanti ai templi degli dèi, né sparger le are con molto sangue di animali, né intrecciar voto a voto; ma è piuttosto poter guardare con mente tranquilla. Quando solleviamo lo sguardo agli spazi celesti del vasto mondo, e più in alto all'etere fitto di tremule stelle, e ci sovviene delle vie del sole e della luna, allora nel petto da altri mali oppresso anche questa angoscia comincia ad ergere il capo ridesto, che non ci sia forse su noi un potere immenso dei numi, che con vari moti volga i fulgidi astri. Difetto di raziocinio assilla la mente, dubbiosa se mai ci sia stata un'origine prima del mondo, e insieme, se ci sia un termine fino a cui le mura del mondo e i loro taciti moti possano reggere a questo travaglio, o se, dal valore divino dotati di esistenza eterna, possano, trascorrendo per l'indifesa distesa del tempo, disprezzare le forze imperiose di un'età immensa. E a chi non si stringe il cuore per paura dei numi, a chi non si agghiacciano per lo spavento le membra, quando al corpo orrendo del fulmine la terra arsa sussulta e murmuri percorrono la vastità del cielo?
Non tremano popoli e genti, e ire superbi non rannicchiano le membra percossi da timore dei numi, che per qualche azione empia o parola superba il tempo gravoso del castigo sia maturato?
E quando l'immensa forza del vento scatenato sul mare spazza sull'onde il comandante d'una flotta insieme con le forti legioni e con gli elefanti, non ricorre con voti alla benevolenza degli dèi, e nella preghiera non chiede pavido tregua dai venti e brezze benigne, inutilmente, chè spesso ghermito dal violento turbine è tuttavia trascinato nei gorghi della morte?
Tanto è vero che una forza ignota calpesta le cose umane e sembra atterrare e prendere a scherno i nobili fasci e le scuri tremende.
E quando sotto i piedi tutta la terra vacilla e squassate cadono le città o malcerte minacciano, qual meraviglia se stesse le stirpi mortali e fan posto nel mondo al grande potere e alla forza sovrumana degli dèi, che governino tutte le cose? ".
Lucrezio ci dice, dunque, che gli uomini sin dai primordi hanno attribuito agli dèi eternità, bellezza, potenza. Da loro hanno pensato provenissero i vari fenomeni di cui non sapevano darsi ragione. Immaginando erroneamente che i beati Numi potessero essere coinvolti nei fenomeni naturali, hanno reso infelici se stessi e i loro discendenti. La vera devozione ( pietas ) non consiste nel render continui atti di culto agli dèi, ma nell'essere in grado di contemplare tutto con mente serena. Invece quando contempliamo gli spazi celesti ci assale nella nostra ignoranza un'angoscia che ci porta al timore degli dèi. Così un temporale scatenato, un'azione o una parola colpevole, una bufera marina, un terremoto ci spingono ad ammettere la presenza di straordinarie potenze che governano il mondo.
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