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La matematica e il linguaggio: il problema della completezza
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Formalismo David Hilbert Logicismo Gottlob
Frege Bertrand
Russell
Intuizionismo Henri Poincarè Luitzen Egbertus Brouwer
Studiare la storia della matematica sembra essere una disciplina completamente diversa dal sapere, quasi tecnico, per cui questa materia si caratterizza. La prima infatti si contraddistingue per studiare soprattutto i contesti culturali in cui si colloca l'evoluzione di questa disciplina, apparendo quindi anche opinabile. La seconda invece ha un taglio più specialistico e per questo appare meno fallibile, appunto più "matematica". In realtà tra queste due materie si riscontra un particolare rapporto di forza, che porta a subordinare la seconda alla prima. Questo legame evidenzia la stretta vicinanza, e spesso anche compenetrazione, esistente tra la matematica e la filosofia. Come in questa mia breve trattazione cercherò di evidenziare, i problemi di una disciplina diventano anche i problemi dell'altra.
Dopo avere definito la struttura (o per meglio dire la sintassi) che caratterizza questo mio progetto si tratta ora di esporne il contenuto. Il periodo storico scelto è quello che va dalla fine dell'Ottocento agli anni '30 del Novecento, un lasso di tempo in cui la matematica si è evoluta in modo consistente. Il problema centrale attorno a cui verte questo sviluppo è quello della certezza che dovrebbe caratterizzare la disciplina. Con la scoperta delle geometrie non euclidee infatti venne anche meno la validità del criterio di evidenza su cui potere fondare la verità e la coerenza della geometria, così come dell'aritmetica. Nei vari tentativi che si fecero per ovviare a questo problema tre furono le vie sperimentate, che corrispondono ad altrettante "scuole": il logicismo, il formalismo e l'intuizionismo. Paradossalmente tutte e tre però fallirono. Il fine di questo progetto si lega proprio a questi risultati e al suo artefice, Kurt Gödel, grazie al quale la matematica, non potendo determinare dall'interno la propria coerenza, può affermare con certezza soltanto i propri limiti. Un risultato che si unisce anche all'opera di Ludwig Wittgenstein, di cui costituisce una profonda critica: il suo fine era quello di purificare il linguaggio eliminandone gli asserti contraddittori e insensati e dandogli una forte armatura logica. Il fallimento di questo progetto è forse uno dei risultati più fecondi della matematica del Novecento.
La crisi dell'intuizione
La scoperta delle geometrie non euclidee (Gauss, Lobačevskij e Bolyaj) aveva determinato una messa in discussione dell'intera matematica, che si fondava proprio sulla geometria. Come Kant stesso aveva scritto nella Critica della ragion pura la geometria euclidea era a priori alla pari dei numeri naturali, perché direttamente derivati dai concetti di spazio e tempo, anch'essi posti a priori. In queste convinzioni si faceva derivare la verità, quindi anche la coerenza dell'intera disciplina, soltanto sull'evidenza degli assiomi. Con il venir meno di questo criterio, rimaneva però inalterato l'obiettivo di dare comunque alla matematica coerenza e l'unica disciplina che poteva prendere il posto della geometria era l'aritmetica. Chiaramente la struttura fondamentale della matematica sarebbe stata costituita da assiomi scelti in modo arbitrario, purché non contraddittorio. Ma il tentativo di assolvere a questo problema avrebbe rivelato molte difficoltà.
La base su cui si cerca di definire l'aritmetica è logica e si basa sulla teoria dei sistemi formali. Un sistema formale è costituito da un linguaggio L e da un universo di oggetti U. Il linguaggio specifica quelli che sono gli usi dei suoi oggetti, i criteri con cui si uniscono le proposizioni e i diversi simboli, gli assiomi scelti e le regole di inferenza. Tra tutti i sistemi formali, quelli che sono maggiormente da considerare sono le metateorie. Una metateoria è costituita da un suo linguaggio, detto metalinguaggio e da un linguaggio - oggetto, che costituisce il suo universo, l'oggetto a cui si riferisce. L'intera trattazione verterà appunto su questo genere di teorie, in cui cioè la matematica possa parlare di se stessa. Una metateoria di T(a sua volta teoria) può a questo punto concentrarsi: sulla sintassi di T, ovvero soltanto sul suo linguaggio che punta ad essere coerente, o sulla semantica di T, ovvero sul rapporto tra linguaggio ed universo di oggetti che punta invece alla verità, all'aderenza tra oggetti e linguaggio. Altra caratteristica di una teoria è il sapere sfruttare il minor numero di assiomi, e il ricercare:
Coerenza; non deve essere possibile che un enunciato e la sua negazione siano teoremi.
Completezza; deve essere capace, dato un enunciato, dimostrare quello o la sua negazione.
Decidibilità; esiste un processo meccanico che dimostri se un qualunque enunciato è un teorema.
Sono questi i tre problemi che anche la matematica, dovendo ricostruire le proprie basi, si pone. Prima però occorre definire l'evoluzione della stessa aritmetica, della teoria dei numeri, che arriva fino alla fine dell'Ottocento.
Dai numeri naturali ai complessi
Kronecker sosteneva come "Dio ha dato i numeri naturali, tutto il resto è opera dell'uomo". Questa potente affermazione la si può giustificare considerando come, a partire dai numeri naturali, vengano poi definiti tutti gli altri. Gli strumenti di cui ci si serve sono le operazioni tra i vari numeri, per esempio sfruttando la moltiplicazione si definiscono diverse proprietà dei numeri naturali, a partire dalla sottoclasse dei numeri primi, a proposito della quale occorre ricordare alcuni teoremi e congetture:
Teorema fondamentale dell'aritmetica di Euclide: ogni numero naturale è scomponibile univocamente in un prodotto di numeri primi.
Congettura dei numeri primi gemelli, per cui non solo i numeri primi sono infiniti, ma sono infinite anche le coppie di numeri primi che differiscono di due unità.
Congettura di Goldbach, ogni numero pari è la somma di due numeri primi.
Congettura di Goldbach, ogni numero dispari è la somma di tre numeri primi.
Sfruttando le operazioni tra numeri naturali si definiscono i numeri razionali, che si ottengono dalla divisione tra due numeri naturali. Mentre irrazionali sono quei numeri che non sono esprimibili sotto forma di frazione. E' ancora più evidente come, partendo dai numeri naturali si definiscano tutti gli altri, se si considerano i numeri irrazionali algebrici, che sono le soluzioni di equazioni algebriche, ovvero equazioni definite da coefficienti interi. Il quadro dei numeri irrazionali è completato da quelli trascendenti. I numeri irrazionali vennero per la prima volta definiti da Richard Dedekind nel 1858. Egli notò che dei numeri irrazionali si utilizzano sempre le approssimazioni razionali, di conseguenza definì gli irrazionali come quei numeri che causano delle "sezioni" nella sequenza dei razionali. Un esempio può essere la radice quadrata di 2, essa separa i numeri che hanno quadrato maggiore e minore di 2. Chiaramente questa è una operazione che confonde le cause con gli effetti, in quanto non afferma che la radice quadrata di 2, nel nostro esempio, causa una suddivisione nei numeri razionali, ma è la suddivisione suddetta. Georg Cantor propose poi un'alternativa a questa definizione, caratterizzando i numeri irrazionali come le successioni convergenti di due numeri razionali la cui distanza tenda a zero. Oltre i numeri reali si collocano i numeri immaginari, ovvero le soluzioni di equazioni che sarebbero impossibili se considerate nell'ambito dell'insieme R. Quindi: i = √(-1). Ne derivano i numeri complessi, che sono anch'essi soluzioni di equazioni algebriche, e sono composti da una parte reale e da una immaginaria. E' importante per la successiva trattazione evidenziare come, se i numeri reali si ordinano su una retta, i numeri complessi si collocano sul piano (e le coordinate sono date dalla parte reale e da quella immaginaria rispettivamente).
Discorsi sull'infinito
La domanda fondamentale che a questo punto si pone è relativa alla "quantità" dei numeri razionali in relazione agli altri. Una prima dimostrazione del genere la si può riscontrare in Duns Scoto, che aveva cercato di dimostrare come le circonferenze non fossero costituite da punti perché altrimenti tutte ne avrebbero la stessa quantità. Infatti si può realizzare una corrispondenza biunivoca tra i punti di una circonferenza e quelli di un'altra concentrica.
Un altro esempio è quello della dimostrazione, data da Galileo, che esistono tanti numeri pari quanti dispari e quanti quadrati. Paradossalmente quindi viene a cessare uno degli assiomi euclidei, l'ottavo, che afferma che "la parte è minore del tutto". Il problema eventualmente stava nella correttezza nell'applicare le stesse proprietà del finito all'infinito ("illusione naturale della ragione" kantiana). Nel 1816 John Farey mostrò come i numeri razionali potessero essere messi in corrispondenza biunivoca con i numeri naturali orinandoli nel modo seguente: 1/1 1/2, 2/1 1/3, 2/2, 3/1 1/4, 2/3, 3/2, 4/1 .
Un altro modo per ordinarli è quello di realizzare una tabella in cui i margini di riga e colonna siano numeri naturali e i vari valori inseriti nella tabella siano ottenuti facendo il rapporto tra intestazione di riga e quella di colonna. I numeri così ottenuti vengono ordinati tramite una linea diagonale serpeggiante, tenendo conto che devono essere eliminati i numeri che vengono ripetuti. Il risultato evidente è che esistono tanti numeri interi quanti numeri razionali, quanti numeri naturali. Diverso è il discorso per i numeri irrazionali, che sono caratterizzati da un infinito "più grande" di quello dei numeri razionali. La dimostrazione che prova questa affermazione fu data da Cantor con il famoso argomento diagonale. Si procede in questo modo: si scriva una lista di numeri a caso compresi tra 0 e 1; indipendentemente dalla lunghezza di questo elenco esiste sempre almeno un valore che non è stato considerato, e lo si ottiene (considerando che i numeri tra 0 e 1 siano in ordine crescente) scrivendo un numero che ha la prima cifra decimale diversa dalla prima cifra decimale del primo numero della serie, la seconda cifra decimale diversa dalla seconda cifra decimale del secondo numero e così via. E' un numero che non appartiene alla lista perché ha almeno una cifra diversa da tutti quelli contenuti. Quindi ne deriva che i numeri reali non sono numerabili, non esiste una corrispondenza biunivoca con i numeri naturali. Tuttavia considerando i numeri irrazionali algebrici è possibile creare una corrispondenza biunivoca con i numeri naturali, in quanto essi sono legati ad una terna di coefficienti, quelli dell'equazione algebrica di cui sono soluzione. Quindi ne deriva che sono solo i numeri irrazionali trascendenti a non essere numerabili. Nel tentativo di indicare la cardinalità dei diversi insiemi numerici, Cantor definì con quella dei numeri naturali. è poi solo il primo della successione dei numeri transfiniti , א . che sono collegati alle diverse versioni di infinito. A tal proposito Cantor formulò quella che poi fu definita ipotesi del continuo, secondo la quale la cardinalità dei numeri reali è , il transfinito immediatamente successivo a quello che indica la cardinalità dei numeri naturali (che poi Paul Cohen, dimostrò essere indecidibile) (a tal proposito anche Giordano Bruno aveva indicato l'esistenza di due diverse infinità, ne La cena delle ceneri immaginando di allontanarsi dalla Terra e di continuare a vederla, all'infinito la vedrebbe soltanto per metà, andando oltre l'infinito immagina invece di poterla vedere tutta, coprendo anche l'altra metà nascosta). Le conseguenze di questa trattazione indicano che i punti su un segmento sono innumerabili (come i numeri reali), e si ha sempre la stessa innumerabilità indipendentemente dalla lunghezza del segmento considerato. Lo stesso numero di punti è anche contenuto in un quadrato di lato qualunque così come in un cubo con spigolo qualunque, appunto perché è possibile creare una corrispondenza biunivoca tra i punti di uno e i punti di un altro.
Il programma del logicismo
Dopo avere definito i diversi insiemi numerici e le loro cardinalità si tratta ora di considerare la definizione stessa di numero, che sta alla base del ragionamento precedente. La base sicuramente è data dalla teoria degli insiemi di Cantor che venne poi ripresa da Peano e Frege. Il primo cercò di assiomatizzare l'aritmetica con soli cinque enunciati:
Zero è un numero.
Il successore di un numero è un numero.
Zero non è il successore di alcun numero.
Due numeri, i cui successori siano uguali, sono anch'essi uguali.
Se un insieme N di numeri contiene zero e contiene anche il successore di ogni numero contenuto in N, allora ogni numero è contenuto in N.
L'ultimo asserto costituisce il principio di induzione matematica, applicato ad una particolare proprietà: "x appartiene a N". I limiti di questi assiomi sono legati al fatto che Peano si proponeva di caratterizzare univocamente i numeri naturali, ma come Bertrand Russell notò è possibile ottenere una qualsiasi successioni di numeri dagli stessi assiomi sostituendo per esempio allo zero un qualsiasi altro numero, così come a "a+1 successore di a", "a+2 successore di a". Quindi se un problema sta nel non avere definito cosa si intenda per successore di un numero, un altro limite sta nel non avere definito il numero stesso. Questi due problemi sarebbero poi stati risolti da Gottlob Frege sfruttando la teoria degli insiemi di Cantor, poi raffinata da Zermelo e Fraenkel. Il cardine della sua trattazione è il concetto di estensione di una proprietà, che è l'insieme di tutti gli oggetti che godono della stessa. Inoltre sono equipotenti gli insiemi che hanno la stessa cardinalità. Così Frege puntava a definire i numeri naturali:
0 è la cardinalità dell'insieme vuoto, estensione della proprietà "x diverso da x".
1 è la cardinalità dell'insieme costituito dall'insieme 0.
2 è la cardinalità dell'insieme costituito dagli insiemi 0 e 1.
In questo modo tutti i numeri naturali vengono definiti sulla base della teoria insiemistica. Un altro aspetto rilevante emerge: l'insieme è definito come estensione di una proprietà, quindi è collegato alla logica. La convinzione di Frege a questo punto era quella di ridurre l'aritmetica proprio alla logica, come emerge in Begriffschrift ("Ideografia"), in cui si proponeva una formalizzazione del linguaggio imitando quello aritmetico e rifacendosi alla characteristica universalis di Leibniz. Frege quindi credeva di potere costruire la teoria degli insiemi sulla base della logica, a sua volta l'aritmetica sulla teoria degli insiemi e la teoria dei numeri sull'aritmetica: quindi la matematica sulla logica. Tuttavia fu questo un risultato tutt'altro che raggiunto. Frege si era infatti illuso di potere ricondurre la complessità dell'aritmetica ad una logica più ampia di quella aristotelica, basata sull'utilizzo di soggetti multipli (un po' come il superamento dell'ars iudicandi con l'ars inveniendi). La crisi del suo programma fu evidente poco prima della pubblicazione, nel 1902, del secondo volume del Die Grundgesetze der Arithmetik, ovvero "i principi dell'aritmetica", in una lettera che Bertrand Russell inviò proprio a Frege. Nella lettera Russell diede una delle tante formulazioni equivalenti del paradosso che porta il suo nome; la sua forza fu tale da abbattere l'intero programma fregeano. Nella lettera Russell parla di:
Sia ω il predicato: essere un predicato che non può essere predicato di se stesso.
Può ω essere predicato di se stesso?
Paradosso che può essere anche spiegato in questo modo: si consideri un aggettivo, esso può essere autologico se si applica a se stesso (es. "astratto" è astratto), eterologico se non si applica a se stesso. Allora che tipo si aggettivo è "eterologico"? Non può essere autologico perché si applicherebbe a se stesso, ma non può neppure essere eterologico, perché altrimenti si applicherebbe a se stesso. A livello insiemistico invece questo paradosso si esprime come: l'insieme degli insiemi che non appartengono a se stessi, appartiene a se stesso? Anche in questo caso non è risolvibile, perché se l'insieme appartiene a se stesso allora non dovrebbe appartenere a se stesso per definizione, se invece non appartenesse a se stesso dovrebbe appartenere a se stesso sempre per la sua definizione. Questo paradosso ha anche le sue versioni divertenti, come nel caso del paradosso del barbiere: una comunità ha un solo barbiere, che rade gli uomini che non riescono a farsi la barba da soli, il problema si pone se ci chiediamo: chi fa la barba al barbiere? Lo sviluppo del paradosso è esattamente identico alle altre versioni prima affrontate.
Al di là delle versioni divertenti di questo asserto, la sua forza è però tale da avere messo in crisi l'intero logicismo. Infatti se partendo da assiomi prestabiliti, come quelli dell'insiemistica, si raggiungono contraddizioni, è un teorema della logica che tutti gli enunciati del sistema sono teoremi. Infatti, si parte dal teorema:
p implica che non-p implica q
Infatti se dagli assiomi si deriva una contraddizione, nel caso specifico p e non-p, allora il teorema si riduce a q, dato che p e non-p sono validi. Q è valido allora indipendentemente dal suo enunciato. Russell, nonostante le profonde critiche portate alla teoria fregeana, non si allontanò per nulla dal programma logicista, tanto che i suoi testi redatti ad inizio Novecento si collocano nel solco di quelli di Frege. L'unica differenza sta nel fatto che Russell puntava a superare la sua stessa antinomia. La soluzione che credeva di avere trovato è nota come teoria dei tipi e venne formulata nei Principia Mathematica insieme a Whitehead. Questa teoria crea una gerarchia tra i diversi elementi logici, per cui un insieme può contenere soltanto elementi di ordine inferiore e si evita l'autoreferenzialità che è alla base del paradosso russelliano. Più che risolvere problemi però questa teoria ne crea di nuovi. Anzitutto non era in grado di affrontare altri paradossi come quello di Berry:
Si considerino tutte le frasi che definiscono numeri interi positivi e
sia K l'insieme costituito dalle frasi che con meno (per esempio) di 50 parole definiscono i numeri naturali.
Tale insieme è finito e possiamo individuare il più grande dei numeri interi in esso definito, che indichiamo con b.
Allora esiste l'enunciato:
b+1 è il successore del numero più grande definibile con una frase di 50 parole al massimo.
Questa è una frase di 17 parole e quindi anch'essa dovrebbe appartenere a K.
Russell dovette risolvere questo paradosso ricorrendo alla teoria ramificata dei tipi, che però aveva la caratteristica di essere una ipotesi ad hoc. Le sue debolezze sono legate al fatto che non sia possibile dire che ogni numero naturale ha un successore, né che esiste una infinità di numeri naturali (in questo modo si ovviava al paradosso di Berry). Per questo era necessario introdurre l'assioma dell'infinito (che afferma che l'infinito esiste), l'assioma di riducibilità per definire i numeri naturali. Forse il più complesso è però l'assioma di scelta, che afferma che data una famiglia di insiemi non vuoti e tra loro disgiunti è possibile creare un nuovo insieme prendendo un elemento da ciascuno degli insiemi di partenza. La paradossale neutralità di questo assioma viene presto abbandonata quando si considerano le sue conseguenze con gli insiemi infiniti. Infatti, considerando l'insieme degli infiniti numeri reali compresi tra 0 e 1, quello dei numeri reali compresi tra 1 e 2, e così via, non è possibile scrivere alcun insieme in quanto i suoi elementi sono infiniti, e non possiamo neppure indicare una regola con cui sono scelti perché la scelta è casuale. Questo assioma è posto ad hoc, e per questo motivo è particolarmente malvisto da qualsiasi matematico.
Il programma logicista raggiunse quindi la sua conclusione, i suoi limiti rimasero infatti tali per circa tre decenni, fino a quando Gödel non dimostrò l'impossibilità di ridurre la logica alla matematica, in quanto la complessità della seconda non può essere espressa dalla prima.
Il formalismo di David Hilbert
Se Frege e Russell si proponevano di fare derivare l'aritmetica dalla teoria degli insiemi e quindi dalla logica, David Hilbert ricercava invece di fondare l'intera conoscenza matematica su una struttura assiomatica. L'obiettivo era ovviamente quello di costruire una teoria dotata non di coerenza relativa ma assoluta, indipendente cioè da qualsiasi riferimento esterno. Anche per Hilbert era l'aritmetica la disciplina più adatta a questo tipo di compito, ma a differenza di Frege cercò di definirla evitando rimandi ad altre teoria o discipline, preoccupandosi soprattutto di definirne il linguaggio e cercando di dimostrare come fosse il fondamento dell'intera matematica. E' la geometria ad essere la prima branca della matematica di cui Hilbert si interessa, in particolare inserendosi nel dibattito circa la validità della geometria euclidea e di quella non euclidea. Nel corso dell'Ottocento infatti la discussione sui limiti degli Elementi di Euclide si fece molto serrata, molti matematici ma anche filosofi (si pensi a Shopenhauer) avevano evidenziato come alcuni postulati erano stati letteralmente dimenticati (spesso questo emerge dall'analisi delle 48 proposizioni che Euclide dimostra a partire da assiomi e postulati). Hilbert cercò di porre rimedio a questi limiti formulando nel 1899, nel Grundlagen der Geometrie ("Fondamenti della geometria"), 20 postulati che rendevano conto di tutte le proposizioni euclidee. Inoltre inserì anche una dimostrazione della completezza del sistema, evitando quindi possibili critiche sul suo lavoro. Un aspetto importante di quest'opera non è però legata ai risultati, quanto al modo con cui viene condotta la trattazione: si supera lo studio di ciò che si può dimostrare nel sistema a favore di uno studio del sistema. Dalla matematica alla metamatematica. Secondo Hilbert infatti la geometria, e più in generale la matematica stessa, doveva essere in grado di porre postulati arbitrari, svincolati dai segni, dall'universo di oggetti di cui definisce il significato, l'unico vincolo è quello della consistenza, della coerenza. Non a caso Hilbert utilizzo come prefazione del suo libro una frase di Kant: "La conoscenza umana comincia con le intuizioni, continua con i concetti, e finisce con le idee" (per la geometria i primi sono i postulati euclidei, i secondi sono quelli non-euclidei, i terzi sono invece i postulati arbitrari). Il problema diventa quindi quello della completezza, che per la logica proposizionale e per quella predicativa era stata già dimostrata rispettivamente da Post nel 1921 e da Gödel nel 1930.
Hilbert dimostrò una grande fiducia nella risolvibilità del problema della completezza della matematica, e questo può essere reso chiaro citando quanto da lui pronunciato al Congresso di Parigi del 1900:
La convinzione della risolubilità di ogni problema è un potente incentivo per il ricercatore.
Dentro di noi sentiamo il perpetuo richiamo: c'è un problema, cerchiamone la soluzione.
E la si può trovare con la sola ragione, perché in matematica non c'è nessun "ignorabimus".
La stessa cosa, in modo molto più incisivo emerge da quanto affermato a Königsberg, sua città natale, nel 1930:
Dobbiamo sapere, e sapremo.
Tra il 1900 e il 1904 Hilbert aveva pronunciato i famosi 23 problemi che la matematica del Novecento avrebbe dovuto cercare di risolvere. Alcuni di essi erano molto vaghi, come l'assiomatizzare tutta la fisica, altri invece sono stati dimostrati, come il secondo problema, relativo alla consistenza dell'aritmetica. Quest'ultimo non è però stato risolto come prospettato da Hilbert. Gödel infatti nel 1931 dimostrò come il suo programma fosse irrealizzabile. Altro problema incluso tra quelli formulati ad Hilbert è la dimostrazione dell'ipotesi del continuo di Cantor.
Hilbert può essere considerato il padre della metamatematica moderna. Infatti egli concepiva la matematica costituita da un lato da simboli, semplici segni privi di significato di per sé. L'altro lato è costituito appunto dalla metamatematica, che dà significato ai simboli, definisce le operazioni tra gli stessi, indica come, a partire da assiomi accettati, si possano derivare gli altri enunciati. Ma la sua fiducia nella realizzabilità di questo programma si scontrò ben presto con la dimostrazione dell'incompletezza di ogni sistema in grado di esprimere l'aritmetica, e la dimostrazione era talmente lineare, rigorosa e, appunto, elementare (nello stile dello stesso Hilbert) da non potere lasciare scampo a obiezioni. Potevano soltanto rimanere dubbi irrisolvibili (tra l'altro anche l'antinomia di Russell rappresentò per Hilbert una vera spina nel fianco, in quanto a partire da assiomi accettati si costruiscono enunciati paradossali):
Certamente l'attuale stato di cose, nel quale ci imbattiamo in paradossi, è intollerabile.
Ma ci pensate, le definizioni e i metodi deduttivi che tutti imparano, insegnano e usano in matematica, portano ad assurdità! Se il pensare matematico è erroneo, dove dobbiamo trovare verità e certezze?
(discorso del 4/6/1925 tenuto al Westphalian Mathematical Society a Munster)
La resa dei conti
Kurt Gödel rappresenta di fatto la chiusura del cerchio sia per quanto riguarda la trattazione sul programma logicista che per quello formalista. Formatosi nella Vienna post imperiale, frequentò per un certo periodo il circolo di Vienna (all'epoca caratterizzato da una vera e propria divinizzazione di Wittgenstein) e se ne allontanò anche per profonde divergenze intellettuali. Gödel infatti, a differenza dei neopositivisti logici del circolo era un platonista, o, come si diceva all'epoca, un realista (il platonista non inventa nulla ma scopre: i numeri sono per loro come oggetti reali). La sua posizione era anche completamente diversa da quella degli intuizionisti, come avrò modo di esporre. Non condivideva neppure il programma del logicismo nel rendere la matematica una branca della logica. Sintomatico è il fatto che Gödel, denunci l'assoluta incompletezza della matematica proprio per mettere in crisi il neopositivismo. Questa sfaccettatura della sua opera venne però capita dai suoi contemporanei con molta difficoltà, non a caso ancora nel 1974 Gödel si trovava a dovere spiegare il reale significato del suo maggiore risultato:
E' vero che il mio interesse per il i fondamenti della matematica fu suscitato dal "Circolo di Vienna", ma le conseguenze filosofiche dei miei risultati, come pure i principi euristici che conducono a loro, non hanno nulla di positivistico o empiristico. [.]Io sono stato un realista concettuale e matematico circa dal 1925.
Non ho mai sostenuto la visione per cui la matematica è sintassi del linguaggio.
Piuttosto tale visione, intesa in ogni senso ragionevole, può essere confutata dai miei risultati.
(lettera a Grandjean, mai spedita, 1974)
Dalle parole dello stesso Gödel si può quindi riassumere quanto detto precedentemente.
Il primo problema che Gödel affrontò fu quello enunciato da Hilbert nel 1928 a Bologna, ovvero la completezza della logica predicativa. Un risultato che può apparire stonato rispetto alla dimostrazione dell'incompletezza del 1931, invece entrambi evidenziano come la matematica non possa essere ridotta alla logica, proprio perché la logica non è in grado di contenerla. Alla completezza dell'una corrisponde l'incompletezza dell'altra. Ironia della sorte, la prima enunciazione del teorema dell'incompletezza avvenne nel 1930 a Königsberg, e il suo intervento si collocò il giorno prima dell'intervento di Hilbert, in cui pronunciò la famosa affermazione: "dobbiamo sapere, e sapremo". Prima di concentrarsi su una lettura più tecnica dei risultati gödeliani, occorre darne una prima esposizione:
PRIMO TEOREMA DI INCOMPLETEZZA: sotto certe ipotesi un sistema corretto è incompleto.
SECONDO TEOREMA DI INCOMPLETEZZA: sotto certe ipotesi un sistema corretto non può dimostrare la propria correttezza.
Storia di un teorema (dalla Grecia a Gödel)
Sembra paradossale ma i risultati di Gödel non sono assolutamente isolati nella storia della matematica, anzi per certi aspetti sono stati anche anticipati. In particolare, oltre a un legame stretto con la Grecia antica, si può cogliere una continuità con il lavoro di Cantor e di Russell, con le loro teorie insiemistiche e antinomie. Le prime avvisaglie di paradossi sono legate all'uso dei concetti di verità e falsità; per esempio il cretese Epimenide affermava: tutti i cretesi dicono sempre il falso. Affermazione a cui si ricollega la tradizione delle antinomie, ma che non è una antinomia: è semplicemente un enunciato falso. Da essa deriva anche il paradosso del mentitore del tipo: io sto mentendo. E' chiaro che affermazioni del genere non possono essere né vere né false. Un'ultima evoluzione di questo paradosso è rappresentata dall'utilizzo del termine "cretese", che venne affibbiato ai coloro che si riteneva dicessero sempre il falso (si veda appunto Epimenide). Nell'Odissea Ulisse si finge cretese più volte, come nella conclusione, affermando così di dire la verità mentendo. Forse l'evoluzione più interessante del paradosso è quella di Eubulide, che evita il rischio dell'autoreferenzialità con gli enunciati: Socrate: Platone mentirà nella frase seguente e Platone: Socrate ha detto il vero nella frase precedente. Questa breve esposizione è molto utile per comprendere termini ma soprattutto meccanismi che si ritrovano anche nell'antinomia di Russell e anche nel teorema di Gödel.
Verso la fine dell'Ottocento fu Georg Cantor, nel tentativo di dimostrare che non esiste un infinito assoluto, più grande di tutti, ad utilizzare per la prima volta una dimostrazione che ricorda quella gödeliana. Cantor affermava che: preso un qualunque insieme a, l'insieme P(a), costituito dai sottoinsiemi di a, ha una cardinalità maggiore dello stesso (perché contiene anche i sottoinsiemi costituiti da un solo elemento di a). La dimostrazione di Cantor è per assurdo: si immagini che esista una corrispondenza biunivoca tra l'insieme a e l'insieme P(a), ciò vuol dire che hanno la stessa cardinalità quindi. Si definisce con f la funzione che collega ogni x di a con ogni sottoinsieme di a.
A questo punto ci si chiede se x appartiene al sottoinsieme indicato con f(x). Chiaramente l'insieme degli elementi x di a, che non appartengono a f(x) a sua volta costituisce un sottoinsieme di a. Tuttavia esso deve corrispondere all'elemento R di a, perché abbiamo supposto che esista una corrispondenza biunivoca tra x e f(x). Quindi
Che chiaramente genera una contraddizione e quindi si dimostra che non può esistere una corrispondenza biunivoca tra gli elementi di un insieme a e l'insieme dei sottoinsiemi di a. L'eleganza di questa dimostrazione è ancora più evidente se si considera che anticipa di fatto l'antinomia di Russell. Infatti:
L'insieme degli insiemi che non appartengono a se stessi appartiene a se stesso?
Equivale a:
Proprio perché contemporaneamente non è possibile che l'insieme appartenga e non appartenga a se stesso.
I teoremi di Gödel si basano sulla distinzione tra quattro differenti concetti, che è opportuno presentare:
correttezza semantica: il sistema formale dimostra solo verità;
completezza semantica: il sistema dimostra tutte le verità;
correttezza sintattica (definita anche come consistenza): il sistema non dimostra un formula e la sua negazione;
completezza sintattica: il sistema dimostra una formula o la sua negazione.
Consideriamo un sistema corretto F e GF una formula che dice di se stessa di non essere dimostrabile. Allora se GF fosse dimostrabile si creerebbe una contraddizione perché l'enunciato afferma l'esatto contrario. Allora è necessario che l'affermazione sia vera e per questo non dimostrabile, rendendo il sistema semanticamente incompleto. Essendo però GF vera, la sua negazione è necessariamente falsa e non può essere dimostrata in F, per la correttezza sintattica. Questo però rende il sistema sintatticamente incompleto. Questo risultato è appunto conosciuto come primo teorema di incompletezza e richiede, per potere essere riferito all'aritmetica che:
Sia possibile una aritmetizzazione degli enunciati e dei termini;
Sia possibile per un enunciato riferirsi a se stesso.
Riassumendo questo primo risultato, che poi farà da base per il secondo teorema:
Quindi:
Questo secondo enunciato è noto come secondo teorema di incompletezza: sotto certe ipotesi, un sistema corretto non dimostra la propria correttezza. Rispetto al primo enunciato questo richiede che non soltanto sia soddisfatto il primo teorema, ma che il sistema sia anche conscio di soddisfarlo. Allo stesso modo si potrebbe dire che:
Soltanto se GF è indimostrabile è infatti possibile per il sistema avere correttezza semantica e sintattica (detta anche consistenza). Quindi GF è equivalente alla consistenza del sistema F. Questi risultati vennero poi entrambi perfezionati alcuni anni dopo da Rosser, in quanto Gödel aveva dedotto conseguenze sintattiche da osservazioni di natura semantica. Rosser invece rese la trattazione interna alla sintassi di F.
Se RF fosse dimostrabile in F allora nessuna dimostrazione sulla sua negazione la potrebbe precedere, per la consistenza di F. Questo però significa che RF è dimostrabile prima della sua negazione, contraddicendo RF stessa. La stessa cosa varrebbe se fosse possibile dimostrare la negazione di RF. Allora nessuna dimostrazione su RF la può precedere. Ma questa è una dimostrazione di RF stessa, e per la consistenza di F ciò è impossibile. Questa dimostrazione è relativa al primo teorema di incompletezza di Rosser, il secondo teorema prende le mosse dal primo come nel caso di quello di Gödel.
Il problema dell'autoreferenzialità in Gödel
Ultimo cavillo da dovere affrontare è cercare di rendere gli enunciati presentati sotto forma di asserti matematici, o più precisamente aritmetici. Come già detto questo tipo di problema si unisce anche alla necessità di rendere autoreferenziali tali enunciati. Per chiarire questo tipo di difficoltà occorre portare alcuni esempi, poi ripresi da Willard Quine verso gli anni Sessanta, che sottolineano la differenza tra uso e menzione di un enunciato:
"un monosillabo" è costituito da sei sillabe
un monosillabo è costituito da sei sillabe
Tra le due la prima è chiaramente vera mentre la seconda falsa, la prima menziona il termine "un monosillabo", applicandovi l'enunciato seguente, la seconda utilizza il termine "un monosillabo" per definire l'enunciato e i termini a cui si riferisce. Quindi:
"ha la proprietà P se preceduta dalla sua menzione" ha la proprietà P se preceduta dalla sua menzione.
"Q"Q
Una affermazione dice in questo modo di possedere una data proprietà P. Quindi si può rendere il primo teorema di Gödel così come il paradosso di Russell nella forma logica:
Ovvero, G possiede la proprietà P se e solo se "G possiede la proprietà P" possiede la proprietà P, dove:
P(G): G non è vera
Ora si pone il problema di formalizzare, secondo il linguaggio matematico, l'enunciato G.
(Con questa simbologia si indica appunto un enunciato che viene formalizzato) Si rendeva allora urgente per Gödel definire un criterio di formalizzazione. Nel modo seguente ad ogni simbolo viene associato un numero naturale, in modo tale da
identificarlo univocamente. Poi si costruisce il numero di Gödel corrispondente a quell'enunciato, sfruttando il teorema dei numeri primi di Euclide. Così viene creato un numero che indica univocamente una e una sola
formula. Es. (5+2)+3=10
G((5+2)+3=10)=23∙321∙57∙715∙115∙137∙1717∙199∙2313∙3111
In questo modo si ottiene il numero di Gödel della formula sopra citata. Un altro elemento importate è il fatto che in questo modo si supera la divisione tra uso e menzione, quindi un numero di Gödel, indicante una determinata formula può essere anch'esso soggetto ad un'altra formula, risolvendo anche il problema della autoreferenzialità.
Wittgenstein e Gödel
Fu l'opera di Russell e Whitehead a spingere Wittgenstein a dedicarsi completamente alla filosofia e alla logica soprattutto, anche se i suoi risultati furono differenti da quelli dei due inglesi. Il Tractatus, pubblicato nel 1922, si prestò a diverse interpretazioni. I positivisti logici videro nell'opera una sorta di Bibbia, e in Wittgenstein un loro simile, generando l'ira del suo autore. Wittgenstein infatti nel Tractatus aveva soltanto purificato dal linguaggio tutti gli asserti metafisici, ma non aveva negato la metafisica di per sé, con la famosa "settima proposizione": su ci ò di cui non si può parlare si deve tacere. A testimonianza di come fu l'opera di Russell a spingere Wittgenstein alla stesura di quest'opera, alcune proposizioni si riferiscono proprio alla teoria dei tipi:
3.33: Nella sintassi logica il significato d'un segno non deve mai assolvere una funzione; la sintassi logica deve stabilirsi senza parlare del significato d'un segno, essa può presupporre solo la descrizione delle espressioni.
Da qui deriva il grande errore di Russell, che può già essere visto come un'anticipazione della settima proposizione.
3.331: Movendo da questa osservazione gettiamo uno sguardo sulla teoria dei tipi di Russell: l'errore di Russell si mostra nel fatto che egli abbia avuto la necessità di parlare, stabilendo le regole dei segni, del significato dei segni.
Quindi Wittgenstein si sbarazza anche del paradosso di Russell:
Nessuna proposizione può enunciare qualcosa sopra se stessa, poiché il segno proposizionale non può essere contenuto in se stesso (ecco tutta la 'teoria dei tipi').
Quindi Wittgenstein in questo modo crede di avere definitivamente ovviato al problema che lo aveva attratto a studiare la filosofia della logica. Un altro aspetto che mi preme mettere in evidenza e che poi è quello che più di ogni altro verrà confutato da Gödel è relativo alla logica che Wittgenstein paragona ad una tautologia:
5.43: Tutte le proposizioni della logica dicono lo stesso. Ossia nulla.
6.1251: Perciò nella logica non possono mai esservi sorprese. (A differenza di quanto evidenziato da Gödel)
Wittgenstein inoltre nel Tractatus dà poco spazio alla matematica, in quanto, secondo le pretese del logicismo, la matematica può essere ridotta alla logica.
6.2: La matematica è un metodo logico.
La produzione del "secondo" Wittgenstein è invece diversa rispetto a quella del Tractatus, si supera il linguaggio monolitico per approdare ai "giochi linguistici". Da questo punto di vista allora ci si concentra molto di più sugli aspetti sociali del linguaggio stesso, e gli eventuali errori o paradossi vengono giustificati sulla base di una confusione di regole tra i diversi "giochi". Tra queste due produzioni si colloca l'opera di Gödel, che rappresentò un vero e proprio scacco per Wittgenstein. La prima divergenza evidente, che già è stata presentata, è legata al fatto che, secondo il filosofo austriaco, non è possibile parlare della forma logica del linguaggio.
6.54: Le mie proposizioni illustrano così: colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è salito per esse - su esse - oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo che v'è salito).
Quindi anche il Tractatus ha del paradossale al suo interno, in quanto non si può parlare della forma logica del linguaggio ma l'intera opera è basata su di essa. Non è un caso che Gödel fosse particolarmente critico rispetto ad esso, tanto che in una delle riunioni al Circolo di Vienna in cui si studiava quest'opera Menger riporta:
Dopo un incontro in cui Schlick, Hahn, Neurath e Waismann avevano parlato del linguaggio,
ma né Gödel né io avevamo detto parola, dissi tornando a casa:
"Oggi, ancora una volta, abbiamo sconfitto questi wittgensteiniani sul loro stesso terreno: abbiamo taciuto".
"Più penso al linguaggio", rispose Gödel, "più mi stupisco che la gente riesca a capirsi".
(Menger Reminiscences of the Vienna Circe and the Mathematical Colloquia)
Wittgenstein, nonostante non nomini mai apertamente Gödel nei suoi testi, fu molto influenzato dai suoi risultati, e per evitarli, per negarne l'importanza, li definì "trucchi logici".
La matematica non può essere incompleta; non più di quanto un senso può essere incompleto.
Tutto quello che posso capire, devo capirlo completamente.
Questo si riallaccia al fatto che il mio linguaggio è in ordine come sta, e che le analisi logiche non hanno nulla da aggiungere al senso presente nelle mie proposizioni per arrivare alla chiarezza completa.
(Wittgenstein, Osservazioni sopra i fondamenti della matematica)
Wittgenstein in particolare, negando la possibilità di parlare della forma logica del linguaggio, negava anche qualsiasi importanza ai paradossi e alla possibilità che la matematica potesse avere conseguenze extramatematiche.
Nessun calcolo può decidere un problema filosofico.
Un calcolo non può darci informazioni sui fondamenti della matematica.
(Wittgenstein, Anchilostoma Remarks)
Per Wittgenstein quindi tutta la conoscenza matematica è sistematizzabile, ciò che sfugge da questa rigida impostazione è l'indicibile, il mistico. Gödel invece afferma che la conoscenza matematica sia più grande di qualsiasi sistema formalizzato. Quindi si potrebbe tradurre la settima proposizione del Tractatus come:
Di ciò che non possiamo formalizzare, possiamo ancora sapere.
(Goldstein R., Incompletezza)
L'intuizionismo di Brouwer
Una terza via si presenta tra il formalismo e il logicismo ed è quella che considera ancora Kant e la Critica della ragion pura il proprio modello. Nonostante la formulazione delle geometrie non euclidee avesse dimostrato come spazio (euclideo) e tempo non sono posti a priori alcuni matematici, rifacendosi al tempo, cercarono di fondare in questo modo l'aritmetica. L'olandese Luitzen Brouwer sosteneva che Kant avesse sbagliato nell'indicare la geometria euclidea come necessariamente vera, ma accettò la componente temporale. Così i numeri naturali nascono dall'osservazione distinta di oggetti, ordinati cronologicamente rispetto alla nostra percezione. Da ciò poi derivano anche le operazioni tra i singoli numeri. Il problema abbastanza importante legato all'intuizionismo è che esso non tiene conto dell'infinito, fondamentale per la matematica. Inoltre si rifiuta il principio del terzo escluso, in quanto è possibile che esista un enunciato non ancora dimostrato o indecidibile. Da questo punto di vista Gödel sembra avere molto in comune con gli intuizionisti, dato che affermazioni come G: "G è indimostrabile" sono a metà tra la dimostrabilità e l'indimostrabilità, sono appunto indecidibili. Un altro pilastro dell'intuizionismo è l'impossibilità di ridurre la matematica alla logica (altro aspetto che condivide con Gödel). Già Poincaré, affermava che: con la logica si dimostra, con l'intuizione si inventa. Lo spinoso argomento delle geometrie non euclidee, venne da Poincaré risolto affermando che la geometria è convenzionale, e la scelta è solo di convenienza. Inoltre Poincaré considerava l'assiomatizzazione artificiale ed eccessiva. La linea intuizionista si rafforza con Brouwer, soprattutto per quel che riguarda la raffinata distinzione tra "l'esistere" e il "non potere non esistere". Questo comportò anche il rifiuto della legge della doppia negazione, e il definitivo superamento della logica dal concetto di verità, quasi metafisica (Odifreddi).
BIBLIOGRAFIA
Atkins Peter (2004), Il dito di Galileo, le dieci grandi idee della scienza, Raffaello Cortina Editore, pp. 399-450.
Bergamini, Trifone, Neri, Tazzioli (2003), Le geometrie non euclidee e i fondamenti della matematica, Zanichelli.
Goldstein Rebecca (2005), Incompletezza, la dimostrazione e il paradosso di Kurt Gödel, Codice edizioni, pp. 1-108 141-146.
Odifreddi Piergiorgio (2003), Il diavolo in cattedra, la logica da Aristotele a Gödel, Einaudi tascabili, pp. 197-237.
Odifreddi Piergiorgio (2004), Le menzogne di Ulisse, Longanesi.
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