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LA RELATIVITA', LA VERITA' FISICA DELLA VELOCITA' DELLA LUCE
Appare quasi paradossale pensare che uno scienziato come Einstein, "uomo del relativo", teorico appunto della Teoria della Relatività, sia giunto ad una verità: che non esista velocità maggiore di quella della luce.
Prima di Einstein.
Con Aristotele si riteneva l'esistenza di un quinto elemento, l'etere, che egli riteneva il costituente immutabile ed eterno del mondo celeste. Con Cartesio si identificò lo spazio con la materia e si ritenne impossibile l'esistenza del vuoto. Egli immaginò che lo spazio fra i corpi di grosse dimensioni fosse pieno di "materia sottile", l'etere, in perpetuo movimento circolare intorno a diversi centri. I vortici di etere nella concezione cartesiana, comunicavano il movimento ai pianeti e spiegavano la gravità terrestre.
Tuttavia la natura dell'etere suscitava molti interrogativi: esso doveva essere talmente tenue da essere presente anche nello spazio apparentemente vuoto e così rigido da permettere alla luce di raggiungere la massima velocità possibile in natura. Nonostante ciò, l'etere fu ritenuto reale fino alla fine del XIX secolo. Anche Maxwell, che sistematizzò le osservazioni sui fenomeni elettrici, magnetici e luminosi, ne ammise l'esistenza.
Nel novecento c'era una dicotomia irrisolta tutta interna alla fisica: una opposizione tra due modelli del mondo fisico. Da una parte la meccanica statistica, che si occupava di studiare la materia ponderabile (molecole e atomi), dall'altra l'elettromagnetismo di Maxwell: mentre le leggi di Newton della meccanica erano dipendenti dal sistema di riferimento inerziale prescelto, quelle di Maxwell, che prevedevano per la velocità della luce un valore costante c, non lo erano. Vi era la difficoltà di appianare il contrasto tra relativismo galileiano ed elettromagnetismo.
Con gli esperimenti di Michelson e Morley, che utilizzarono per primi l'interferometro, si voleva cercare conferma all'ipotesi che la velocità della luce rispetto all'etere fosse diversa da quella misurata rispetto alla Terra. Nell'ipotesi che la Terra si muovesse attraverso un etere fisso, la velocità di propagazione di un raggio luminoso parallelo alla direzione del moto della Terra in un dato istante sarebbe risultata diversa da quella di un raggio a esso perpendicolare. Nell'interferometro di Michelson-Morley, due raggi perpendicolari venivano ricongiunti per mezzo di un sistema di specchi per dar luogo a frange di interferenza chiaramente osservabili. Se l'ipotesi dell'etere fosse stata corretta, ripetendo l'esperimento con lo strumento ruotato, e invertendo quindi i ruoli dei due raggi luminosi, si sarebbe dovuta osservare una variazione nella figura di interferenza. L'esperimento, di grande rilevanza per lo sviluppo della conoscenza scientifica, diede risultato negativo e di conseguenza negò l'esistenza dell'etere.
Una soluzione, che arginasse l'imbarazzo del fallimento dell'esperimento, fu proposta da Lorentz, il quale lo criticò duramente. Infatti, elaborò nuove equazioni per trasformare le coordinate spazio-temporali di un evento da un sistema di riferimento inerziale a un altro. Mentre nelle trasformazioni di Galileo la coordinata temporale è uguale in tutti i sistemi di riferimento, in quelle di Lorentz essa si modifica al pari delle coordinate spaziali. Lorentz aveva determinato le sue trasformazioni al preciso scopo di rendere le equazioni di Maxwell valide nella stessa forma in tutti i sistemi di riferimento inerziali. Le trasformazioni di Lorentz, infatti, contengono quelle di Galileo come caso limite: quando la velocità di un oggetto in movimento e la velocità relativa dei sistemi di riferimento rispetto ai quali la velocità dell'oggetto è misurabile sono molto minori della velocità della luce, si riducono alle trasformazioni galileiane. Applicate all'esperimento di Michelson e Morley, le trasformazioni prevedono che il braccio dell'interferometro parallelo alla direzione del moto orbitale terrestre subisca una contrazione, tale da spiegare esattamente il mancato spostamento delle frange d'interferenza.
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