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Effetto fotoelettrico
Nel 1887 Hertz aveva casualmente scoperto che, illuminando una placca metallica di zinco con una radiazione ultravioletta, il metallo si caricava elettricamente. In seguito alla scoperta dell'elettrone avvenuta nel 1897 ad opera di Thomson, si capì che il fenomeno, chiamato poi effetto fotoelettrico, era dovuto all'emissione elettronica provocata nel metallo da radiazioni elettromagnetiche di opportuna frequenza. In sintesi l'effetto fotoelettrico consiste nell'emissione di elettroni da parte di una lastra fotosensibile illuminata ad una certa frequenza.
Nel XIX secolo la fisica interpretava la luce con la meccanica ondulatoria, coerente con i principi della meccanica classica. Bombardando uno schermo con radiazioni, queste si distribuiscono su di esso con cerchi di energia detti fronti d'onda; allontanando la sorgente, aumenta l'alone dei fronti d'onda e, secondo la meccanica ondulatoria, l'energia di ognuno sarebbe dovuta diminuire: si considerava l'energia legata all'intensità (cioè alla distanza) della sorgente. Ma la fisica sperimentale contraddiceva queste previsioni: l'energia era indipendente dalla distanza e, per di più, costante.
Il fisico Albert Einstein nel
primo dei tre famosi articoli del 1905 pubblicati sugli Annalen der Physik introdusse "ufficialmente" nella struttura della
radiazione i quanti di luce (presi da
Planck) per sviluppare su basi
quantistiche l'interazione fra la radiazione stessa e la materia, spiegando
così l'effetto fotoelettrico attraverso 3 celeberrime leggi che lo portarono a
vincere il Premio Nobel per
L'innovazione di Einstein sta nel supporre l'energia dell'onda concentrata in pacchetti discreti chiamati fotoni, generalizzando così le idee di Planck.
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