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"lavoro e lavoratore nella societa' industriale" - tesina




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"LAVORO E LAVORATORE NELLA SOCIETA' INDUSTRIALE"












Lavoro è prima di tutto energia; lo dicono le leggi fisiche, lo dice l'esperienza di ogni persona. E' un'opportunità per migliorare il mondo a partire dalla vita propria e altrui.

Il lavoro presuppone uno stato di attività, ma non è necessariamente "labor", cioè fatica, travaglio. Può e deve essere "opera", produzione creativa costruzione, realizzazione di sé.

Ho scelto questo tema perché il lavoro è attività, movimento non solo in senso spaziale, ma soprattutto impegno umano. Purtroppo sono poche le volte che il lavoratore può averne consapevolezza.

(Dal testo della Costituzione italiana)

Art. 1

L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. [.]

Art. 36.

Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa.

La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge.

Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi.

Art. 37.

La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.

La legge stabilisce il limite minimo di età per il lavoro salariato.

La Repubblica tutela il lavoro dei minori con speciali norme e garantisce ad essi, a parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione.







italiano

 

filosofia

 

inglese

 

storia

 

arte

 
LAVORO E LAVORATORE NELLA SOCIETA' INDUSTRIALE

















La società che si afferma fra il XIX e il XX secolo è una società industrializzata: il luogo di lavoro è la fabbrica, con rigidi tempi e modi di produzione. I lavoratori, soprattutto operai sottopagati, sentono la pressione di un sistema che non argina, ma incrementa il divario tra ricchi e poveri. In Italia le proteste si fanno particolarmente violente nella fase del "biennio rosso". La prima guerra mondiale ha lasciato in Italia miseria, disoccupazione e la politica liberale dei governi si rivela incapace di risolvere la situazione. Ideologicamente gli scioperi e le manifestazioni di quegli anni si ispirano al marxismo, agli ideali di uguaglianza sociale ed economica, impossibili da concretizzare -secondo il pensiero di Marx- nella società capitalista. Un dissenso è espresso anche nella letteratura inglese dell'età vittoriana: Dickens nel romanzo "Hard Times" ironizza sulle cupe ciminiere di Coketown.

Esiste però anche il lavoro costruttivo, esiste il piacere di un lavoro ben fatto, come testimonia Levi ne "La chiave a stella" con la figura del montatore Faussone. In ambito artistico, nei Paesi più progrediti di Europa e America si tenta una fusione tra creazione dell'oggetto 'bello' e la produzione industriale. Il design segue le influenze culturali e le mode del tempo, ma riflette anche sul significato di 'produzione' e sul ruolo che l'artista-designer assume in questo sistema.













(FILOSOFIA)

MARX Marx tratta il tema del lavoro sia analizzando il meccanismo economico alla base, sia interessandosi alle condizioni dei lavoratori; approfondisce i vari aspetti e le complicazioni che derivano da un sistema industriale - capitalista sempre più diffuso in Europa.

Salario è mezzo di sussistenza, è ciò che permette all'operaio di vivere o sopravvivere. Per Marx è determinato dal conflitto tra operaio e capitalista: il capitalista è indipendente dal lavoro che l'operaio svolge mentre non vale il contrario. Pur di avere quel lavoro così necessario l'operaio deve lottare e farsi merce in cerca di un acquirente, merce che viene pagata con quel tanto che basta per la sopravvivenza. Qualunque siano le circostanze storico-economiche prima o poi a essere maggiormente svantaggiata è la classe operaia perché i prezzi dei mezzi di sussistenza aumentano molto più velocemente di quanto non sia per i salari. Ciò accade anche in fase di crescita economica di un paese (intesa come il momento in cui aumentano capitali e redditi), al lavoratore salariato viene espropriata parte del suo prodotto e la divisione del lavoro riduce l'operaio a macchina o bestia. Ad arricchirsi sono sempre i maggiori possessori di capitali, mentre i piccoli proprietari entrano a far parte della classe operaia e una parte di questa è ridotta alla fame. La situazione è resa più grave dall'introduzione della macchina che sottrae all'operario parte del salario o lavoro. Ma per ottenere un maggiore profitto, il capitalista tende anche ad aumentare il numero delle ore lavorate dagli operai. Le conseguenze sono gravi, prima fra tutte l'aumento delle morti sul lavoro, che Marx attribuisce anche alla natura alienante del lavoro specializzato della società industriale. E' una realtà in cui non è più chiaro il limite fra uomo che lavora con la macchina e uomo che lavora come macchina. Marx tratta anche altri problemi, ancora diffusi nel mondo: la prostituzione (le prostitute sono definite "disgraziate", non peccatrici o cose simili), il lavoro femminile e infantile, ovviamente anche all'epoca sottopagato.

Il salario, come Marx approfondirà ne "Il Capitale", non corrisponde al valore del lavoro prodotto. Una parte è trattenuta dal capitalista per il profitto e il reinvestimento dei capitali: è questa l'origine del plusvalore, principio alla base della filosofia economica marxista. La teoria del lavoro-merce è in realtà una forma di schiavitù mascherata. Il lavoratore non è di fronte al datore di lavoro nella posizione di un libero venditore. Il capitalista è sempre libero di assumere il lavoro, e l'operaio è sempre obbligato a venderlo.

La società che descrive è divisa in due: da una parte ci sono i proprietari, dall'altra il proletariato; ciò non può essere spiegato in modo esauriente dall'economia politica perché essa è estranea al movimento storico e considera quindi i problemi sociali legati al lavoro come conseguenze accidentali. Secondo Marx invece tanto più l'operaio produce merce, tanto più inevitabilmente si impoverisce egli stesso. IL LAVORATORE è così ALIENATO RISPETTO AL PRODOTTO DEL SUO LAVORO: l'oggetto prodotto gli è estraneo, gli si contrappone e finisce poi per dominarlo. L'operaio produce oggetti di cui non può usufruire. Un altro aspetto dell'alienazione è L'ALIENAZIONE DEL LAVORATORE RISPETTO ALLA PROPRIA ESSENZA: svolgendo un lavoro costrittivo sente negata la propria natura umana, mentre il lavoro dovrebbe essere ciò che dà all'uomo la possibilità di realizzarsi come tale: in realtà è solo un mezzo per ottenere quel che serve alla sopravvivenza. Il lavoratore alienato si sente una bestia sfruttata e cerca appena possibile di sottrarsi al suo lavoro che appartiene a un altro. L'operaio si estranea così dalla sua specie, dal suo essere uomo e non animale: a questo proposito Marx parla di ALIENAZIONE RISPETTO ALLA PROPRIA ATTIVITA'. Di conseguenza l'uomo si estranea dall'uomo è ALIENATO RISPETTO AL PROSSIMO; questa forma di alienazione rispecchia i rapporti che una persona si trova ad avere sul lavoro. L'"altro" è soprattutto il proprietario che si impossessa del prodotto del suo lavoro, della sua fatica. Il lavoro alienato è provocato dalla proprietà privata il e la proprietà privata è il mezzo con cui si mantiene il sistema del lavoro alienato.

Nel sistema capitalista - privatistico ciascun uomo produce per creare negli altri uomini nuovi bisogni, nuove dipendenze economiche che faranno inevitabilmente l'arricchimento del capitalista e l'impoverimento dei proletari, anche se il produttore maschera questo fatto presentandosi come colui che soddisfa i bisogni della massa. In realtà, questa economia politica genera bisogno di denaro in misura sempre maggiore.

Marx dedica un passaggio alle condizioni di vita degli operai delle città europee, allo squallore delle fabbriche in cui lavorano. Percepiscono il minimo indispensabile alla sopravvivenza perché sono considerati macchine per la produzione. I loro bisogni sono necessità vitali, quelli della classe agiata desideri di oggetti di lusso o abitudini costose: se l'industria specula sul lusso, in misura maggiore specula su beni di prima necessità per i più poveri. I mezzi di sostentamento degli operai appartengono ad altri, i quali possono facilmente espropriare il lavoratore salariato e ridurlo alla fame, senza un'abitazione o altro. Le associazioni operaie in un primo momento dicono di avere come scopo un ideale egualitario, ma in seguito l'unico scopo possibile si rivela quello che sembrava essere solo un mezzo: la società, la fratellanza.

La divisione del lavoro, che all'epoca si stava diffondendo per incrementare la produzione, ha per presupposto la proprietà privata. Se in un primo tempo la divisione del lavoro ha permesso un'evoluzione della società, ora, secondo il pensiero di Marx, è necessaria la soppressione della proprietà privata: era l'egoismo che spingeva allo scambio reciproco. Se nei secoli precedenti la divisione del lavoro riguardava la manifattura, nel XIX secolo riguarda le industrie. L'inevitabile concorrenza fra i singoli operai diventa associazione, un'unione in vista di un'azione rivoluzionaria. Per Marx la lotta di classe è ciò che fa la storia, prima la lotta fra liberi e schiavi, poi patrizi e plebei, padroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni fino al contrasto tra capitalisti e classe operaia. È sempre un contrasto tra oppressori e oppressi. Gli operai si trovano in condizioni analoghe a quelle dei più umili lavoratori della terra o degli schiavi nel mondo antico.

Marx scrive che il proletariato si sviluppa in corrispondenza dello sviluppo di borghesia e capitale. Il lavoro degli operai non è indipendente; l'introduzione della macchina e dell'industria moderna ha fatto della piccola officina dell'artigiano patriarcale la grande fabbrica del capitalista, ha reso possibile il lavoro dei più deboli (donne e bambini) perché non è più un lavoro manuale che necessita di forza fisica da parte dell'operaio. Capita che i lavoratori, oppressi da questo sistema, protestino contro il borghese, si rivolgano contro i mezzi di produzione: in ogni caso qualsiasi mossa di questo tipo finisce per avvantaggiare la borghesia. Se invece gli affari vanno male per il borghese capitalista a perdere valore è prima di tutto il salario degli operai. Le vittorie che di tanto in tanto gli operai conseguono non durano a lungo, il vero risultato delle loro lotte non è il successo immediato, ma la loro unione sempre più estesa. Si arriva così alla lotta nazionale che è lotta di classe, lotta politica.

Il prodotto del lavoro salariato è il capitale, cioè la proprietà che sfrutta il lavoro salariato e che può aumentare solo grazie alla produzione di nuovo lavoro salariato. L'operaio nella società industriale secondo Marx vive quel tanto che serve all'interesse della classe dominante, esiste solo per accrescere il capitale.


(STORIA)

IL BIENNIO ROSSO Dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, l'Italia dovette affrontare gravi difficoltà economiche. La disoccupazione, la riconversione industriale da militare a civile, il ritorno dei reduci furono problemi di enorme portata. I ceti medi e le classi a reddito fisso furono particolarmente colpiti dalla crisi economica, anche perché danneggiate più delle altre dall'inflazione e deluse dal mancato aumento degli stipendi.

Nel gennaio 1919, i Cattolici diedero vita al Partito Popolare Italiano, il primo vero partito di ispirazione cattolica. Fondatore e ispiratore della nuova formazione fu Don Luigi Sturzo. Intanto il 23 marzo del 1919 Mussolini fondava i fasci di combattimento, a Milano.
Le elezioni politiche del '19 dimostrarono la voglia di novità del popolo italiano, facendo registrare: la crisi del sistema politico liberale, la crescita del partito popolare di don Sturzo, la forza del partito socialista.

Tra il 1919 e il 1920, la classe operaia esplose con scioperi, dimostrazioni e agitazioni a livelli impressionanti nelle fabbriche italiane, contro il taglio degli stipendi e le serrate. Tra le cause di questa ondata di scioperi ci fu la crisi economica conseguente alla guerra appena terminata, ma ebbe un ruolo importante anche il mito della rivoluzione bolscevica. Agli scioperi causati dalle difficoltà economiche e volti a ottenere migliori condizioni di lavoro e salari più alti, si aggiunsero manifestazioni di contenuto dichiaratamente politico.
Richieste economiche e ideale politico, finirono col mescolarsi e confondersi. Si diffusero parole d'ordine come le fabbriche agli operai e la terra ai contadini. Nel mezzogiorno gruppi di braccianti tentarono di occupare le terre incolte.

Contemporaneamente cresceva il partito dei nazionalisti fra cui molti reduci della guerra. Questi consideravano il risultato della prima guerra mondiale una "vittoria mutilata" perché la Dalmazia e Fiume erano rimaste in mano straniera. D'Annunzio si fece portavoce di questa parte e procedette all'occupazione di Fiume, fino al momento in cui l'intervento di Giolitti fece tramontare l'iniziativa. I liberali guardavano con sospetto il nazionalismo che si andava diffondendo, ma erano anche preoccupati a fronte delle nuove idee socialiste-comuniste d'ispirazione sovietica. Questo aspetto era particolarmente sentito anche dagli industriali e dai proprietari terrieri, che detenevano gran parte delle ricchezze del paese. L'indecisione dei governanti italiani fece il resto.

La storia del Biennio Rosso iniziò a Torino il 13 settembre 1919 con la pubblicazione sulla rivista Ordine Nuovo del manifesto Ai commissari di reparto delle officine Fiat Centro e Brevetti.  Qui si ufficializzava l'esistenza e il ruolo dei Consigli di fabbrica, cioè nuclei di gestione autonoma delle industrie da parte degli operai, problema affrontato precedentemente da Gramsci e Togliatti.

Torino, culla dell'industrializzazione italiana e sede della Fiat, fu la città in cui si formarono i primi Consigli di fabbrica, in parte ricalcati sul modello dei soviet russi. Le proteste iniziarono nelle fabbriche di meccanica, per poi continuare nelle ferrovie, trasporti e in altre industrie, mentre i contadini occupavano le terre. Le agitazioni si diffusero anche nelle campagne della pianura padana e della Romagna. Nelle fabbriche non si ebbe un'occupazione, come era già successo anche in altre zone, ma gli operai sperimentarono forme di autogestione operaia: 500.000 scioperanti lavoravano, producendo per se stessi. Durante questo periodo, l'Unione Sindacale Italiano (USI) raggiunse quasi un milione di membri. Il fenomeno si estese rapidamente ad altre fabbriche del Nord, coinvolse il movimento anarchico, ma venne solo in parte appoggiato dal P.S.I., diviso tra riformisti e massimalisti.

Dal 28 marzo 1920 si delinearono i due schieramenti, da una parte gli operai, dall'altra i proprietari, che adottarono la serrata come reazione alle richieste operaie. Dopo alcuni mesi di trattative sugli aumenti salariali, sempre respinti dalla Confederazione Generale dell'Industria, si arrivò all'inasprimento dei contrasti, con l'occupazione armata delle fabbriche da parte degli operai.

Mentre il Partito Socialista tentava la trattativa con il governo presieduto da Giolitti, gli industriali e i latifondisti, cominciarono a garantire il loro appoggio economico alle squadre fasciste.

E così agli scioperi agrari nella Pianura Padana, allo sciopero generale dei metallurgici in Piemonte e all'occupazione delle fabbriche in molte città italiane, il fascismo rispose con la violenza. Squadre fasciste intervennero per spezzare gli scioperi aggredendo i partecipanti, pestando deputati e simpatizzanti socialisti. A novembre, in occasione dell'insediamento del nuovo sindaco di Bologna, un socialista di estrema sinistra, la parte sconfitta protestò con spari e bombe a mano. Morirono nove persone sulla piazza, mentre un consigliere nazionalista fu ucciso in pieno Consiglio comunale. Le spedizioni punitive estesero il loro raggio d'azione fino alla Toscana, al Veneto, alla Lombardia e all'Umbria. Vennero assaltate le sedi delle amministrazioni comunali socialiste e le leghe cattoliche. Prefetti, commissari di polizia e comandanti militari tolleravano e, in alcuni casi, agevolavano le 'operazioni' delle squadre fasciste contro il "pericolo rosso". 

Giolitti rifiutò di far intervenire la polizia e l'esercito nelle fabbriche e aspettò che il movimento si esaurisse da sé. Nello stesso tempo favorì le trattative fra gli industriali e sindacati e spinse gli industriali a concedere gli aumenti salariali richiesti. Così all'inizio di ottobre del 1920 Giolitti riuscì a far accettare un compromesso tra le parti sociali. Le agitazioni operaie ebbero in conclusione risultati economici positivi: i lavoratori ottennero miglioramenti nel salario e nelle condizioni di lavoro; la durata massima della giornata lavorativa passò da 10-11 ore a 8 ore.

Si ebbero tuttavia anche degli effetti politici negativi, perché le agitazioni operaie spaventarono fortemente la borghesia, non solo i grandi proprietari d'industrie o di terre ma anche il ceto medio, i piccoli borghesi che cominciavano a costituire una classe sociale notevolmente numerosa e non protetta né dai vertici dello Stato, né dalle organizzazioni sindacali. Il timore di una possibile rivoluzione comunista di lì a breve li portò ad appoggiare il fascismo.

(INGLESE)

FACTORIES IN DICKENS'S NOVEL The reign of Queen Victoria is a period of political stability, development of the British Empire progress and social reforms. However it is also marked by injustice and poverty. The Victorian system of values consists of a strict code of behavior based on personal duty, hard work, respectability, prudery and charity. There is hypocrisy in this way of life because men and women are judged only on the basis of the appearances. According to the Victorian moral the perfect man should be a good father, a virtuous man and -last but not the least- a perfect worker. In that period most of the people work in factories and even if the Trade Unions fight to give the working class better living conditions, the poorest strata of population continue to live in the appalling quarters of the industrial towns, where pollution and disease are big problems.

Dickens is perhaps the novelist who better describes the Victorian society. We know he has had an unhappy childhood because he was forced to work in a factory. His novels are often autobiographical or deal with social issues.

In the novel "Hard Times" he talks about an industrial town which is called Coketown. It is the story of a young daughter of a clown, who has been abandoned by the father and Mr. Gradgrind decides to take care of her. Even if the Mr. Gradgrind's children are very nice towards the poor Sissy, Mr. Gradgrind is a "man of facts", who thinks that the only important things are numbers, study, work. According to him not only fun, but also feelings and emotions have no sense.  Dickens wants to criticize this system: we can understand that by the narrator's comments included in the narration, which are often ironic. Although the novel is full of funny passages, it shows a real problem: living conditions in the industrial cities during the Victorian age. The description of Coketown in the fifth chapter is one of the most famous passages in the novel. The town appears in its standardization of buildings and people, in its alienation, loss of identity. Dickens does not describe an invented place: British cities were not so different from Coketown. The images and the colours (red and black) suggest and idea of sadness, isolation, of a life that is not a true life. The enormous factories seem monsters Life of the poor workers is terrible: in the tenth chapter Dickens describes the factory in which one of the characters (Stephen Blackpool) works. Stephen leads an unfortunate life: his house is small, but it is the only possibility for people with hardly any money. Here the industrial town means not only alienation of work and poverty, but also a pragmatic way of thinking among the ruling class. This pragmatism is extreme in Mr. and Mrs. Gradgrind and in their friend Bounderby. The same pragmatism makes the ruling class consider the poor numbers, numbers for statistics.

At the end of the novel the only character who has a happy life is Sissy: so she proves that imagination and emotion and not "facts", they make people happy.


(ARTE)

IL DESIGN INDUSTRIALE La parola inglese design significa progettazione (e non disegno) e indica un insieme di conoscenze, azioni, metodologie e strumenti finalizzati al raggiungimento di uno scopo, che rappresenta l'aspetto fondamentale di ogni attività di progettazione per l'industria, le infrastrutture, l'edilizia, ma anche la produzione di oggetti d'uso comune. Si tratta di un processo completo e articolato che parte dalle primissime fasi di esplorazione e generazione di un'idea e si svolge fino alla definizione finale di un prodotto e la sua collocazione sul mercato.

La storia della progettazione industriale è molto lunga e articolata, quasi quanto la storia stessa della produzione industriale. Uno dei punti più discussi è proprio la nascita di questa disciplina, per cui esistono diversi approcci. Una spinta decisiva per la nascita del design è stata data dalla rivoluzione industriale, la fabbrica diventa il principale centro di produzione, parte della popolazione si trasferisce dalla campagna alla città dove le possibilità di lavoro sono maggiori. Questo comporta un cambiamento dell'assetto sociale: con l'urbanizzazione aumentano le esigenze individuali e sociali, occorre costruire fabbriche per produrre beni, case per ospitare gli operai, reti di vie di comunicazione. Contemporaneamente si accentua la divisione tra gli strati sociali, si forma la classe operaia, spesso sottopagata e sfruttata. Si arriva a lotte sociali, più o meno violente per opporsi al meccanismo dell'industrializzazione.

Nelle fabbriche la produzione di oggetti è seriale, il prodotto standardizzato. Il mondo dell'arte si divide: alcuni artisti operano per il progresso industriale, altri vogliono conservare la tradizione. Per quanto riguarda l'origine del design industriale, solitamente è associata al movimento "Arts & Crafts". Questo movimento nasce in Inghilterra e si propone di recuperare la semplicità e la creatività del lavoro artigianale. A fondare il movimento a metà del XIX secolo circa sono Ruskin e Morris. Essi credono che la funzione dell'arte sia il miglioramento della società e della qualità della vita, sia dell'artista-artigiano, sia di chi usufruisce del suo prodotto. L'ideologia a cui i designer dell'Arts & Crafts si ispirano è quella socialista. Gli esiti di questo movimento sono significativi anche nel resto dell'Europa, anche grazie alla diffusione delle carte da parati ideate dalla Morris & Co, ditta che produce mobili e tappezzerie. Il lavoro artigiano è particolarmente importante anche per il gruppo austriaco della "Wiener Werkstatte", uno sviluppo della Secessione viennese. Per la Wiener Werkstatte il lavoro del designer che progetta l'opera e quello dell'operaio che sviluppa il progetto non c'è differenza. Ogni singolo prodotto riporta il nome di entrambi. Nonostante gli ideali egualitari la diffusione sul mercato è limitata a causa dei prezzi alla portata di pochi, motivati dal voler sempre realizzare opere di altissima qualità. Lo stile proposto dalla Wiener Werkstatte è geometrico negli anni precedenti alla prima guerra mondiale, mentre negli anni successivi si preferisce uno stile ornamentale più ricercato.

I campi di applicazione del design sono i più svariati, dall'arredo urbano alla moda alla progettazione di autoveicoli. La logica alla base del design è moderna, razionalistica, il valore estetico dell'oggetto deve conciliarsi con la produzione industriale e con riproducibilità in serie, in vista di una diffusione sul mercato e una fruizione non troppo esclusiva, di un consumo sempre più allargato.

La storia del design caratterizza tutto il XX secolo, numerose scuole si sono succedute, alcune delle quali ancora operative i designer si accostano alle correnti artistiche e culturali.

Il design futurista celebra le nuove tecnologie di produzione industriale le sue forme sono sempre dinamiche ed espressive, spesso ispirate agli eventi bellici o volte a celebrare la guerra. E' il primo movimento a imporsi non come lavoro artistico, ma come attività imprenditoriale.

L'impegno sociale è invece la strada della "Bauhaus", vera e propria scuola in cui i maestri guidano gli allievi nell'apprendimento di teoria e tecnica; e nettamente funzionalista perché si preferisce alla valenza estetica l'utilità del prodotto, la forma artistica è solo a servizio della funzione. Fondata da Gropius a Berlino subito dopo la prima guerra mondiale e chiusa dal regime nazista, è attenta al mondo del lavoro industriale: nel curriculum formativo dei suoi allievi sono comprese anche visite alle fabbriche. Con Meyer la Bauhaus assume un orientamento decisamente marxista e i designer si propongono di realizzare oggetti accessibili anche alle classi lavoratrici. La stessa ideologia è alla base del Costruttivismo russo, che vuole integrare arte e design nel meccanismo industriale. L'artista è prima di tutto lavoratore che deve progettare oggetti nuovi e funzionali. I materiali utilizzati sono moderni e le forme dinamiche.

Nel tempo entrano nel ciclo produttivo tecnologie sempre più nuove, come nel caso del Biomorfismo, che fonde forme naturali con materiali ultramoderni o lo stile "High Tech" che mette in evidenza meccanismi e ingranaggi dell'oggetto, mentre nel Moderno americano l'estetica industriale cela il meccanismo che sostiene lo sostiene. Anche il Decostruttivismo analizza montaggio e smontaggio dei prodotti, spezzando le linee strutturali. Il sistema di produzione industriale è invece rifiutato dal Postmodernismo, che a partire dagli anni '80 mette in discussione il funzionalismo, riallacciandosi all'arte del passato.


(ITALIANO)

<<LA CHIAVE A STELLA>> - Primo Levi - 1978

Levi, che aveva parlato della tragedia del lavoro coatto ad Auschwitz, non ha mai ceduto alla demonizzazione del lavoro. In La chiave a stella Levi sembra raccontare o, meglio, farsi raccontare le esperienze di un altro. La voce narrante è quella dell'amico del protagonista, un chimico esperto in vernici. Il personaggio principale di cui Levi riporta le parole è Libertino Faussone, detto Tino, un operaio piemontese altamente specializzato nel montaggio dei tralicci e dei ponti di ferro. Egli va in giro per il mondo a montare gru, ponti sospesi, strutture metalliche, impianti petroliferi. Levi si immedesima nel suo personaggio, e vive le avventure di quello con disponibilità e gusto. Faussone erige ovunque monumenti con la sua ' chiave a stella', l'utensile che serve per verificare il serraggio dei bulloni, un passepartout che va bene per tutti i bulloni, morbidi, duri, ostinati. Non c'è mai il rischio che sfalsi la filettatura, perché sa dosare i suoi strappi e avverte sempre la mano che quello è l'ultimo giro e oltre non si può andare. La chiave a stella conosce bene le sue funzioni, accoppiando forza e delicatezza, decisione e precisione derivata da anni di esperienza. Su Faussone è stata decisiva l'influenza del padre stagnatore di pentole: più che la tecnica dal genitore ha imparato il piacere per il proprio lavoro. Prima di fare il montatore di tralicci, Faussone era alla Lancia, alla catena di montaggio come tanti altri, lavoro alienante come spesso è nelle grandi industrie, e non gli piaceva troppo, ma ne è uscito reagendo, formandosi una professionalità. Ricordando la prima giovinezza, Faussone ripensa a come il padre desiderava per lui -nella vita e sul lavoro- la libertà, condizione impossibile quando si lavora sotto padrone come nel caso della grande industria automobilistica. Il lavoro di saldatore è invece ciò che permette al protagonista di realizzarsi come uomo, servirsi delle proprie competenze per produrre qualcosa di utile agli altri. Negli episodi che rendono avvincente, mai noioso, il racconto delle sue avventure di lavoro, l'autore descrive le avversità del caso o gli ostacoli frapposti dagli uomini o dalla natura fino alla vittoria che sancisce la valenza morale del lavoro ben fatto.

Raccontare del modo in cui una persona vive il proprio lavoro, rende possibile tutta una serie di riflessioni. Il rapporto con il proprio lavoro dipende solo in parte da tipo di attività svolta, molto più dalla storia personale, dal modo di porsi di fronte alla realtà da parte del lavoratore: l'odio verso la propria attività non fa che rendere quella ancora più intollerabile. Il motivo per cui Faussone giudica il suo lavoro il più bello e soddisfacente in assoluto, creativo, è che tralicci e ponti sospesi non svantaggiano nessuno: un ponte o una strada mettono in comunicazione gli uomini.

Il lavoro non serve solo alle persone che usufruiscono del prodotto, ma anche al lavoratore stesso. A questo proposito l'autore, riportando le parole del protagonista, scrive: "Io credo proprio che per vivere contenti bisogna per forza avere qualche cosa da fare, ma che non sia troppo facile: oppure qualche cosa da desiderare, ma non un desiderio così per aria, qualche cosa che uno abbia la speranza di arrivarci". Faussone, diversamente dai tanti non liberi che lavorano per vivere e assicurare la vita ai loro cari, veramente vive per lavorare.

Una parte del romanzo è dedicata anche al lavoro di chimico, che spesso nelle opere di Levi accomuna l'autore e i suoi personaggi. Scrive in uno dei passaggi più belli del libro che il lavoro di chimico è un po' come quello del montatore: si separano i componenti di un "oggetto" nelle loro parti più semplici, si assemblano per creare un prodotto nuovo e diverso, ma il chimico, elefante cieco davanti al banco di un orologiaio, ha a che fare con pezzi invisibili, per cui le sue dita sono sempre troppo grossolane. I chimici possono essere analisti e scomporre la materia nelle sue parti più semplici o, come Faussone nel mondo dell'edilizia, "montatori" ed eseguire la sintesi partendo da un modello dato. "La chiave stella" è il primo romanzo d'invenzione di Levi, la prima opera da scrittore di professione: ripensa anche a questo aspetto pensa alla differenza tra il lavoro dello scrittore e quello dell'operaio. Lo scrittore non ha strumenti sensibili per verificare la qualità della materia scritta, così che se qualcosa non funziona, se ne può accorgere solo a libro già scritto, quando ormai è troppo tardi.

Questo modo di rapportarsi al lavoro fa de "La chiave a stella" il libro più ottimista di Levi, che ad Auschwitz aveva conosciuto l'inferno e la negazione dell'uomo. Diversamente dalle opere sull'olocausto ("Se questo è un uomo", "I sommersi e i salvati" e "La tregua") il lavoro che rende liberi non è solo l'insegna che con macabra ironia accoglie i deportati nel campo di sterminio, ma è allo stesso tempo atteggiamento abituale e scopo di una vita.


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