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La parola democrazia comparve in Grecia per designare, all'origine, non tanto un particolare tipo di organizzazione dello Stato, quanto una concezione politica sostenuta da un partito, che, come partito democratico, si opponeva in loco al partito aristocratico, cioè alla concentrazione del potere nelle mani di poche grandi famiglie. È quindi logico che il trionfo della democrazia potesse, talora, manifestarsi con l'avvento al potere di un ristretto numero di "demagoghi", cioè di capipopolo. La modesta estensione e la limitata popolazione delle città-Stato della Grecia, nonché la porzione ridotta degli abitanti che formavano il "popolo", spiegano come fosse possibile una democrazia diretta, cioè un'assemblea del popolo cui partecipavano tutti i cittadini. Questa assemblea, che era il simbolo stesso del governo popolare, veniva assistita da altre istituzioni rappresentative (assemblee e magistrati eletti dal popolo o estratti a sorte in seno al popolo).
D'altra parte, il popolo, come lo concepivano i Greci, non comprendeva l'insieme della popolazione e neppure la totalità degli uomini adulti: il popolo era l'insieme dei cittadini, concetto fortemente restrittivo, che escludeva gli schiavi, i forestieri domiciliati nella polis (meteci) e quelli a loro assimilati, come coloro che avevano un solo genitore in possesso del diritto di cittadinanza. Da tutto ciò risulta che non esisteva, in diritto, una differenza reale fra il sistema ateniese, considerato sovente come il tipo stesso di regime democratico, e il sistema spartano, denunciato già dagli Ateniesi come aristocratico.
I poteri che detenevano i Lacedemoni propriamente detti erano altrettanto larghi, se non più larghi, di quelli dei cittadini di Atene. Fu il medesimo spirito che privò dei diritti politici gli iloti e i perieci a Sparta, gli schiavi e i meteci ad Atene. La differenza consisteva nell'assise diversamente numerosa del corpo dei cittadini, che oscillava sulle 40.000 persone ad Atene, mentre a Sparta, per processo di involuzione, si ridusse progressivamente a qualche centinaio. Un altro elemento d'opposizione fra le due città era costituito dai diversi metodi di governo. Per distinguere la democrazia da un altro regime si è dunque obbligati, nell'antichità, a tener conto non solo delle forme del governo, ma anche dello spirito che presiedeva al suo funzionamento e, insieme, dell'evoluzione del corpo dei cittadini.
Atene fu una città democratica, perché restò aperta: il suo corpo civico non si irrigidì in una cerchia ristretta, ma si rinnovò di continuo, almeno in parte, e la proporzione di esso in rapporto all'assemblea popolare si mantenne ragionevole. (Il regime detto "aristocratico" dei Trenta, dopo la disfatta del 405 a.C., ebbe come caratteristica, appunto, la restrizione del corpo dei cittadini.) Essa fu pure democratica perché il popolo ateniese non fu oppressivo nei riguardi dei non cittadini con cui conviveva.
Sparta fu una città aristocratica, per la rigidezza del suo sistema politico e perché, per difetto di rinnovamento, i suoi cittadini divennero di anno in anno meno numerosi, assumendo ben presto l'aspetto di una piccolissima classe privilegiata in mezzo a una massa di non- cittadini oppressi. In essa il popolo divenne una vera aristocrazia, al punto di far causa comune con i partiti aristocratici delle altre città; ad Atene, invece, rimase "popolare" e la democrazia poté funzionare per qualche secolo, sebbene ci siano stati periodi in cui il libero gioco delle istituzioni democratiche fu interrotto (da un tiranno, da un demagogo onnipotente, o dall'influsso di forze esterne). Roma non conobbe mai la democrazia del tipo ateniese; ma è inesatto definirla una repubblica aristocratica o vedere in essa, come Polibio, un equilibrio fra la democrazia dei comizi, l'aristocrazia del senato e la monarchia collegiale dei consoli; un tale equilibrio, già assai difficile a discernersi, non rappresentò che un momento dell'evoluzione dello Stato romano, tra il iii e il ii sec. a.C. All'inizio l'abbattimento della monarchia etrusca condusse sì al potere il "popolo", cioè l'insieme delle gentes romane, in opposizione al rimanente della popolazione formata da non-cittadini, per cui si ebbe una democrazia di principio; ma l'estensione di Roma e del numero di individui che popolavano il suo territorio fece delle gentes un'aristocrazia di fronte alla plebe. È vero che questa, progressivamente, acquistò la parità dei diritti; non solo, ma di mano in mano che l'Urbs si espandeva fino ai limiti dell'Orbis, anche la cittadinanza romana si estendeva nei medesimi limiti e, qualunque fosse il regime, prima repubblicano poi imperiale, era sempre il Senatus populusque romanus che veniva considerato il reggitore di Roma e del mondo; ma a due riprese le regole istituzionali svuotarono questa pretesa democrazia del suo contenuto.
Con l'organizzazione del sistema centuriato comparve a Roma un regime censuario che distingueva fra i cittadini i ricchi, i meno abbienti e i poveri e che, di fatto, dava il potere ai ricchi. Poi, a partire soprattutto dal iii sec. a.C., quando la plebe parve aver ottenuto tutti i diritti dei patrizi, si costituì una casta nobiliare, patrizio- plebea, che aveva il suo fondamento sia nella ricchezza sia nell'esercizio tradizionale delle cariche pubbliche; e così si ricreò una vera aristocrazia. Alla fine della repubblica si formò una seconda classe aristocratica, rivale della prima, quella dei cavalieri. A un regime aristocratico quindi, di contenuto differente secondo i secoli, restò di fatto legata la "democrazia" romana. Lo stesso avvenne al tempo della creazione dell'Impero: per reazione contro l'aristocrazia, alcuni capi del partito popolare avevano cercato, fin dal ii sec. a.C., di occupare il potere, prima in modo temporaneo e disinteressato (i Gracchi), poi a proprio beneficio (Mario, Silla, Pompeo, Cesare). La democrazia a Roma sembrò da allora condannata a cedere il posto, più o meno rapidamente, a un regime o aristocratico o autocratico. Nell'ultimo senso, di fatto, si evolsero le istituzioni romane, quando Augusto instaurò il "principato"; tuttavia, egli riuscì a imporre il suo potere personale tanto più facilmente in quanto lasciò una larva di democrazia, assicurando, da un lato, il sostegno alle classi dirigenti blandite e domate a un tempo, e mantenendo, dall'altro, le istituzioni democratiche, che però, in realtà, perdettero ogni importanza politica (così i comizi che continuarono, sotto di lui, a eleggere i magistrati).
Nel mondo medievale il riferimento, o l'aspirazione, a forme collettive di esercizio del potere fu costante; esso fu rappresentato dal vario atteggiarsi del termine populus (popolo) cui con una ricca gamma di contenuti venne assegnato il diritto di far leggi. L'Edictum Pistense (864) precisava che la lex consensu populi et constitutione principis fit (la legge viene emanata dal consenso popolare e da un atto di impero del sovrano); richiedeva quindi come atto necessariamente precedente all'emanazione delle leggi la convocazione di un'assemblea. Popolo era, in quel tempo, il complesso dei titolari di diritti feudali.
Dopo secoli di invasioni, di regimi autocratici "feudali" a base terriera, i centri di direzione politica della cosa pubblica andarono spostandosi, in alcune parti dell'Europa, dai castelli feudali alle città. Lo spostamento fu determinato essenzialmente dal passaggio del potere economico a una nuova classe dirigente, la borghesia mercantile. Reminiscenze storiche, la somiglianza del nuovo quadro urbano con la polis greca, il desiderio di dare una patente di nobiltà a nuove strutture e istituzioni, ma soprattutto l'esigenza di esautorare le vecchie caste feudali determinarono il ricorso alle forme e allo stesso vocabolario democratico antico ("popolo", "assemblea del popolo", ecc.), a tal punto che le nuove città, come unità politiche, vennero talvolta indicate come "democrazie urbane" (per es. i Comuni italiani, le città mercantili delle Fiandre e del basso Elba, ecc.). Il sorgere dei Comuni ebbe carattere almeno in parte democratico: corrispose all'affermazione della preminenza di un altro populus, di quella parte cioè della popolazione dedita ad attività artigianali e commerciali, e di massima non fornita di beni immobili ma portatrice di ricchezza mobiliare. Nell'ambiente dei canonisti si venne nello stesso tempo formando, con diretta applicazione alla gestione dei patrimoni conventuali, la massima quod omnes tangit ab omnibus approbari debet (ciò che tocca tutti deve essere approvato da tutti), destinata ad avere lunga vita e applicazione nei più svariati campi. Essa rappresentava un progresso rispetto alla coscienza civile; recava tuttavia in sé i germi pericolosi della spartizione della popolazione in due gruppi, sotto il profilo del censo, portando a identificare i diritti politici nell'assunzione degli oneri della vita collettiva. Va notato comunque che il principio che una parte almeno dei poteri derivasse dalla popolazione presa nel suo complesso, coesisteva con l'altro, derivante da una massima di san Paolo, secondo il quale ogni potere deriva da Dio (omnis potestas a Deo); per san Tommaso il potere legislativo appartiene alla popolazione nel suo complesso o a chi la rappresenta, e almeno in linea di principio tutti devono inqualche modo partecipare al governo del paese. Sulla stessa direzione, specialmente in occasione di conflitti fra Stato e Chiesa, si posero filosofi e polemisti medievali (i quali però, più che a un'effettiva democrazia, miravano al raggiungimento di un regime oligarchico ampliato, alla costituzione di minoranze numerose ma pur sempre minoranze, in grado di guidare la massa della popolazione). Una spinta più accentuata verso concezioni democratiche derivò dalla riforma protestante, nei luoghi almeno ove essa prese piede, ma la definitiva affermazione dell'idea di democrazia si ebbe solo con la Rivoluzione francese.
Per i filosofi del xviii sec., ispiratisi al modello di forma di governo nato con la rivoluzione inglese del 1688, l'essenza della democrazia fu il diritto del popolo di designare il governo della nazione e di controllarlo. L'immagine di una "democrazia pura" che essi cercarono di delineare offrì, dopo la Rivoluzione americana e specialmente dopo quella francese, i princìpi fondamentali di libertà a cui si ispirarono le nuove democrazie e, soprattutto, i princìpi della divisione dei poteri (legislativo, esecutivo, giurisdizionale) e della sovranità popolare, elaborati, rispettivamente, da Montesquieu e da Rousseau.
In questo senso, la democrazia è un modo di designare i governanti che realizza il più ampiamente possibile l'esercizio del potere da parte del popolo, inteso come l'insieme di tutti i cittadini della nazione. Poiché questo esercizio non può quasi mai essere diretto, si tengono elezioni a suffragio universale, che permettono ai candidati delle diverse tendenze e dei vari partiti di raccogliere i voti dei cittadini. Va notato che il diritto di voto ebbe per lungo tempo un'estensione ristretta solo ad alcuni settori del popolo, ai cittadini cioè detentori di un certo patrimonio e in grado di corrispondere una determinata imposta minima allo Stato (limitazione per censo) o provvisti di un determinato titolo di studio. Restavano perciò esclusi i non abbienti e gli illetterati parziali o totali oltre che, quasi sempre, le donne. Soltanto a partire dalla seconda metà del secolo scorso tali limiti incominciarono a scomparire. In Italia, il suffragio universale fu introdotto nel 1911 e l'estensione del voto alle donne nel febbraio 1945.
L'elezione periodica, a suffragio universale, di rappresentanti che accettano il carattere transitorio del loro mandato e lo esercitano secondo le norme fissate dalla costituzione, è dunque la traduzione effettiva della sovranità popolare. L'elezione non ha senso se non quando vi siano vari candidati fra i quali scegliere, cioè vari programmi, vari partiti: la stretta interdipendenza fra democrazia e pluralità dei partiti è nella natura delle cose. Il concetto di Stato democratico è quindi inseparabile dal rispetto di un certo numero di libertà fondamentali; soprattutto di pensiero, di espressione (stampa, riunioni), di movimento, di associazione, di incremento dell'istruzione e dei mezzi di informazione dei cittadini. Senza queste premesse non possono esistere né opinione pubblica, né partiti, né vera e libera scelta elettorale.
I regimi presidenziali, nei quali chi detiene il potere esecutivo è scelto per suffragio universale e i regimi parlamentari, nei quali, con procedure diverse, tale potere emana in ultima analisi dalla maggioranza di assemblee elette a suffragio universale, sono regimi democratici. Non lo sono, invece, i regimi "totalitari", anche quando siano stati approvati da larghissimi plebisciti, poiché l'abdicazione, da parte del popolo, alla propria sovranità, sia pure attraverso un voto perfettamente libero, è la negazione stessa del concetto di democrazia.
Numerose sono le difficoltà, di fatto o istituzionali, che possono ostacolare la retta applicazione dei princìpi democratici: sfruttamento dell'ignoranza di una parte dei votanti, pressioni dei pubblici poteri, minacce contro determinate categorie di elettori (gli "aristocratici", o pretesi tali, durante la Rivoluzione francese; gli afroamericani o i Portoricani in talune zone degli Stati Uniti, ecc.), corruzione e brogli elettorali, costrizioni sociali o economiche. Tuttavia nel corso degli ultimi 150 anni si sono apportati costanti miglioramenti alla pratica e alla dottrina della democrazia moderna o "classica" (come ormai viene spesso indicata). Dai club politici della Rivoluzione francese, embrioni di partiti esprimenti gli interessi di una parte ristretta del popolo (anche se molto più estesa delle caste nobiliari e clericali prima dominanti), si giunse a partiti politici veri e propri, esprimenti le opinioni e le aspirazioni di strati molto più larghi di cittadini.
La democrazia moderna, tuttavia, ha trovato non pochi critici; questi possono essere distinti in due categorie principali: una, costituita da coloro che negano in blocco il sistema democratico, ritenendo il popolo incapace di governarsi da sé e bisognoso di un capo di qualità eccezionali, che lo guidi e ne coordini la vita (fascismo, nazionalsocialismo); l'altra, da coloro che non negano la democrazia in generale, ma ritengono insufficiente e fittizia quella moderna (o "borghese" com'essi la chiamano), considerandola strumento del dominio della classe borghese su tutta la società. Auspicabile essi invece ritengono una democrazia "socialista", possibile soltanto in una società senza classi "sfruttatrici" e "sfruttate", nella quale sia data una concreta possibilità a ciascun cittadino di esercitare i suoi diritti fondamentali di eguaglianza, libertà, ecc.
Le democrazie popolari e le repubbliche democratiche si richiamano anch'esse al diritto di autogovernarsi da parte del popolo; profondamente diversa è, tuttavia, la loro concezione di "popolo" e del modo in cui esso può esprimere la propria volontà.
Per queste democrazie, al popolo appartiene soltanto il proletariato, nel cui nome si è compiuta la rivoluzione sociale e politica donde il regime è sorto: è quindi inconcepibile che ai "nemici del popolo" venga riconosciuto il diritto di pronunciarsi. Il popolo si manifesta attraverso il partito, che da esso è nato e che nello stesso tempo gli fa da guida. La struttura piramidale del partito assicura, teoricamente, la trasmissione della volontà popolare fino al vertice e la ritrasmissione della sintesi di tale volontà popolare da questo alla base. Non può esistere opposizione, dato che opporsi al partito equivale a opporsi al popolo e i dissidenti vengono considerati fuori della comunità. Ogni restrizione della libertà di esprimersi o di agire da ciò derivante, fino al potere assoluto dei quadri del partito, o del suo capo, è considerata "democratica", perché voluta dal "popolo", che si esprime attraverso il partito, e destinata ad assicurare la salvaguardia del regime democratico popolare. Nella pratica, i paesi che affermarono nei loro testi costituzionali di reggersi secondo una forma di democrazia "socialista" furono innanzitutto l'Unione Sovietica, la prima Federazione Iugoslava e la Cecoslovacchia, regimi attualmente tutti disciolti.. In altri paesi, dopo la seconda guerra mondiale, si instaurarono forme di governo anch'esse ispirate alle dottrine di Marx e di Lenin, dette democrazie "popolari" o "progressive". La differenza fra questi due tipi di democrazia sta principalmente nel fatto che le democrazie "socialiste" erano caratterizzate dall'esistenza di un partito unico, omogeneo, il partito comunista, mentre nell'altro caso era al potere una coalizione di forze risultanti dall'unificazione di diversi partiti, esprimenti interessi di diverse categorie sociali ed economiche, benché tutti fondamentalmente affini.
La rapida esposizione delle diverse forme di democrazia succedutesi dall'antichità ai nostri giorni mostra quanto sia difficile trovarne una definizione comune: il concetto di popolo in una data società politica può variare e addirittura escludere una o un'altra parte della popolazione. Non sembra possibile quindi fissare un elenco preciso delle forme che la sovranità popolare e il suo modo di esprimersi possono assumere di volta in volta. Ogni democrazia, infine, è permanentemente esposta al duplice pericolo di cedere il potere a una o più caste, o di abbandonarlo nelle mani di un dittatore o di un partito.
In mancanza di una definizione assoluta, è possibile almeno stabilire ciò che la democrazia non deve essere: non deve essere l'asservimento dello Stato, più o meno consapevole, a una casta, a un partito, a un gruppo, a un individuo; non deve essere, in nome della libertà, il dissolvimento anarchico di tutti i legami e di tutte le gerarchie. Deve permettere l'espressione effettiva e libera della volontà di tutti gli individui retti dallo Stato, al quale spetta, una volta espresse e rese note tali volontà, distinguere fra tutte quella della maggioranza e applicarla nel rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, riconosciuti e garantiti a tutti.
Ciò presuppone la difficile conciliazione di libertà, uguaglianza e autorità; presuppone, altresì, che la democrazia, almeno come tendenza astratta, sia il governo dei migliori.
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