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IL NEOCLASSICISMO
Il Neoclassicismo non è un riallacciarsi alle fonti della storia, al classico: è invece la coscienza dell'impossibilità del recupero del classico come storia, e la malinconia, il senso del presente come vuoto che ne discendono.
L'antico è scienza, o archeologia; oppure è l'ideale, filosofia.
L'arte si mette sulla via della filosofia: e, come tale, può essere un'estetica (Canova) o un'etica (David).
Dalla scienza dell'antico, invece, non si prende che qualche spunto: l'archeologia, che assume l'arte come documento, non può indicare modelli.
Il Neoclassicismo, dunque, non è storicistico, ma antistoricistico; questo è uno dei motivi del suo diffondersi indiscriminatamente in tutti i paesi d'Europa, mettendo in crisi tutte le tradizioni nazionali.
Non è più, però, l'antistoricismo illuministico, fondato sull'idea del progresso continuo e, quindi, dell'assurdità di prendere ad esempio chi, vissuto in epoche precedenti, era meno progredito; allo scetticismo succede l'idealismo storico, fondato sul pensiero, che sarà poi romantico, del non-progresso storico, del continuo processo dell'umanità verso la 'caduta' del presente, cioè del positivismo e del materialismo dell'industrialismo in ascesa.
Il problema ha anche un altro aspetto.
Il passaggio dell'empirismo all'idealismo è anche il passaggio dal campo delle infinite possibilità a quello della necessità: si apre, con Kant, il problema del dovere, dell'imperativo categorico.
Come nell'ordine etico-politico l'individuo ha il dovere della libertà, così nell'ordine estetico l'artista ha il dovere dell'arte.
Come sempre, la libertà implica un maggiore, non un minore rigore della coscienza.
L'artista deve fare l'arte e solo l'arte; abbandona pertanto al mondo economico, allo spirito borghese, una tecnica ormai contaminata dall'industria.
Con un processo opposto a quello che era stato il processo del Barocco, l'artista non lega più l'invenzione formale alla tecnica; a rigore rinuncia anche all'invenzione (perciò si propone dei modelli) e assimila il proprio processo mentale a quello della filosofia, alla pura speculazione.
I due centri maggiori dell'Europa neoclassica sono Roma e Parigi; I due massimi protagonisti sono il Canova e il David.
Con Canova il Neoclassicismo si pone come puro ideale estetico, al di sopra della storia.
Col David si pone come assunzione del presente - la Rivoluzione, l'Impero - a valore di modello, uguagliato solo dalla storia di Roma repubblicana.
Nell'uno e nell'altro, però, più che come antistoria l'arte si pone come sublimazione della storia: perciò può dirsi che, nel suo insieme, il Neoclassicismo europeo si pone come poetica del sublime contrapposta alla poetica del pittoresco, tipica dell'empirismo settecentesco e del 'rococò'.
Urbanistica e architettura del Neoclassico
L'effetto delle teorie architettoniche di tipo illuministico, enunciate e ripetute in molti trattati della fine del Settecento, potrebbe sintetizzarsi così: una vastissima produzione edilizia, ma nessun capolavoro d'architettura.
Ma sarebbe un giudizio superficiale.
Infatti sono gli architetti stessi che non vogliono più fare capolavori.
L'architettura, per loro, non deve più essere l'espressione e, quindi, l'imposizione di una concezione del mondo o di certi valori religiosi o politici; deve essere un servizio sociale, a cui si adempie con tempestività, economia, decoro e correttezza.
Poichè l'organizzazione della società sta rapidamente mutando, bisogna rispondere alle esigenze nuove con nuovi tipi edilizi: non più soltanto la chiesa e il palazzo, ma la casa d'abitazione media, l'ospedale, la scuola, il museo, il porto, il mercato, etc.
Dall'edificio come monumento si passa all'edificio come espressione di una funzione sociale; l'insieme delle funzioni coordinate è la città; l'ordinamento della città è il coordinamento delle sue funzioni.
Poichè il principio del coordinamento sociale è la religione, i tracciati urbani tendono a razionalizzarsi, cioè a seguire schemi geometrici, a scacchiera o stellari; le vie sono larghe e diritte, con ampie piazze di smistamento, quadrangolari o rotonde.
E poichè si crede al legame profondo tra società e natura, si integrano alla città vaste zone di verde, che sono per lo più i parchi dei palazzi e i giardini dei monasteri passati, con la rivoluzione, al pubblico demanio.
La riduzione dell'architettura all'urbanistica implica una semplificazione e una tipizzazione delle forme.
L'artista che intraprende tra i primi, con una risoluta intenzione di rigore, la semplificazione dei tipi tradizionali è Jacopo Quarenghi, lombardo (1744-1817): nella chiesa di Santa scolastica a Subiaco riduce a lucida proporzionalità la prospettiva delle chiese longitudinali barocche, trasformando le cappelle laterali in nicchioni inscritti nel telaio geometrico delle lesene, sotto una volta a botte che assicura un'illuminazione chiara e uniforme.
Segue il Quarenghi, che nel '79 lascia l'Italia e va in Russia (dove sono le sue opere maggiori) il veneziano Giannantonio Selva (1754-1819), allievo del palladiano Temanza e grande amico del Canova.
Il Palladio, che il Selva studia sulle tavole già quasi neoclassiche delle edizioni settecentesche, viene a sua volta purgato, geometrizzato, semplificato.
Le membrature diventano minimi risalti delineati sulle superfici bianche tagliate a spigoli vivi: come nel teatro La Fenice a Venezia, che rompe col rettangolo candito della facciata il tessuto pittoresco del campiello e delle calli.
Le piante del Selva sono sempre di una chiarezza distributiva esemplare, pratica e matematica insieme.
La chiesa di San Maurizio, con il suo piano-luce che si anima appena nei bassorilievi del frontone, ha la bellezza lucida di una formula matematica.
Se per il Selva il centro sociale è il teatro, per Giuseppe Jappelli (1783-1852) è il caffè.
Colloca il Pedrocchi al centro di Padova e ne articola la pianta per agevolarne la funzione di luogo di ritrovo e di incontro.
Più del Selva attinge al repertorio ormai divulgato della decorazione pompeiana, con la scusa che in un ritrovo mondano anche l'eleganza è funzionale.
Il fatto è che è già un eclettico: tornato da un viaggio in Inghilterra nel 1836, introduce in Italia la moda del neogotico e del giardino all'inglese.
Il 'classico', per lui come poi per gli 'eclettici' della seconda metà del secolo, è uno 'stile' come un altro.
In Lombardia vi sono due fasi: la prima, del tempo di Maria Teresa; la seconda, napoleonica.
Protagonista della prima è il folignante Giuseppe Piermarini (1734-1808).
Allievo del Vanvitelli, ha come lui il gusto delle superfici lunghe e chiare, con gracili membrature che modulano dolcemente il chiaroscuro.
E, come il Vanvitelli, è pieno d'interesse per le questioni tecniche, pratiche, urbanistiche.
A Milano costruisce il palazzo reale, il teatro alla Scala (1778), il nobilissimo palazzo Belgioioso; e sistema vie, piazze, giardini.
A Lodi erige l'ospedale (1792), a Monza la villa reale.
A lui si connette, accogliendo anche influenze francesi, Leopoldo Pollak (1751-1806), autore della villa reale a Milano.
L'uniformità della tipologia e della decorazione edilizia, anche a livelli minori, è facilitata dalla diffusione a stampa delle tavole di tipi ed ornamenti antichi di Giocondo Albertolli (1742-1839).
La seconda fase, in cui si mira a dare a Milano l'imponenza degna della capitale del Regno Italico, deve molto alle teorie e ai progetti di riforma urbanistica di Giovanni Antolini (1754-1842), che per primo suggerì lo spostamento del centro urbano dalla piazza del Duomo, chiusa tra vecchi quartieri di vie anguste, alla più aperta zona del Castello Sforzesco, che sarebbe rimasto isolato al centro di un'immensa piazza rotonda, il foro Bonaparte.
Benchè inattuato, il progetto Antolini orientò verso quella zona vitale la progettazione di Luigi Cagnola (1762-1833).
Come architetto il Cagnola si propose bensì di far tutto all'antica, ma in pratica preferì imitare le imitazioni francesi dei monumenti romani: come si vede nell'arco del Sempione (1807) ricalcato su modelli parigini.
Il Piermarini voleva fare di Milano una città alla moda; il Cagnola vuol farne una città in uniforme.
Regnando Gioacchino Murat, Napoli segue l'esempio milanese del vasto emiciclo a colonne che circonda la piazza antistante al palazzo reale.
A Torino col Bonsignore, a Genova col Barabino, ed anche nelle città minori, l'urbanistica ufficiale dell'Impero caratterizza i rinnovamenti urbanistici anche dopo la restaurazione delle vecchie case regnanti.
Tutt'altro carattere ha, a Roma, l'opera di Giuseppe Valadier (1762-1839).
E' il migliore architetto del tempo, ma non ha presupposti ideologici né programmi sociali.
Serve con lo stesso zelo professionale il papa e la Repubblica Romana; ed anche per questo quietismo politico è il parallelo di Vincenzo Monti.
Lo è ugualmente sul piano dell'arte: stilista puro e perfetto, ma senza l'ambizione di fare opere immortali.
Per lui, il buon senso è tutt'uno col buon gusto.
Si professa allievo di Vitruvio e di Palladio, e certo ha temperamento di studioso; ma è soprattutto un architetto 'pratico' e spende la maggior parte del suo tempo in attente opere di restauro, di assestamento, di revisione edilizia.
Ha troppo gusto e senso della misura per non capire che Roma è, fondamentalmente, una città barocca: si accontenta, in sostanza, di limitare gli eccessi, il falso pittoricismo.
Quando sistema la piazza del Popolo, più che di ottenere effetti grandiosi si preoccupa di collegare con rampe e prospetti d'una eleganza discreta l'elemento architettonico al paesistico (il Pincio).
Ovunque, in numerosi e tempestivi interventi, afferra con finezza il tono della Roma del suo tempo, papalina e borghese.
Il suo solo ideale è l'equilibrio, il discorso piano e sintatticamente ben articolato, senza enfasi e senza volgarità.
Lo dimostra in quello ch'è forse il suo capolavoro, la facciata della chiesa di San Rocco, dove combina alla perfezione, incastrandoli l'uno nell'altro, il partito centrale tutto sviluppato in altezza con le due coppie di colonne scanalate, tutte sviluppate in larghezza.
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