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La febbre di Seattle
Un diffuso malessere ha colpito in America le classi di mezzo e l'aristocrazia operaia. Di fronte ad un Capitale sempre più impersonale e globale, questi strati sociali sono particolarmente danneggiati dalla mutata ripartizione del reddito, il quale, come previsto dalla legge della miseria relativa crescente, si concentra in una fascia sempre più ristretta della popolazione. L'aristocrazia operaia, con la globalizzazione, sente il suo salario in pericolo, confrontato com'è con quello dei proletari dei paesi periferici, dove il differente grado di sviluppo e il diverso valore sociale medio della forza-lavoro innalzano la competitività delle industrie che v'investono. Il processo di mondializzazione è ormai irreversibile, quindi crescerà la febbre causata dalle preoccupazioni delle classi d'occidente che hanno qualcosa da perdere.
Le manifestazioni di piazza iniziate lo scorso anno a Seattle e proseguite a Davos, Washington, Genova, Bologna, continueranno. Gli organizzatori hanno dichiarato che non perderanno nessun appuntamento del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale, dell'Organizzazione Mondiale per il Commercio, o altri incontri al vertice organizzati dalle maggiori potenze, tutti accusati di 'saccheggio del pianeta'.
La partecipazione è stata massiccia. A Seattle si erano radunate più di mille organizzazioni non governative provenienti da ogni parte del mondo, da quelle del volontariato a quelle degli ambientalisti, da quelle di tipo sindacale a quelle dei giovani rampanti della piccola borghesia. Questi ultimi, nel propugnare un impossibile capitalismo dal volto umano, esprimono l'essenza utopica della loro classe, che è incapace di immaginare un cambiamento reale ed è perciò inchiodata all'ideologia riformista del rattoppo. Molti, dal punto di vista individuale, hanno persino trovato un lavoro fisso dato che queste manifestazioni sono diventate un fenomeno permanente e richiedono competenza tecnica e afflusso di capitali. Solo per Seattle furono pubblicati su Internet 20 siti sull'argomento e si costituì un'organizzazione potente tesa ad influenzare gli organi di stampa, sfociata poi in una struttura logistica dello stesso tipo di quelle utilizzate dagli Organismi Non Governativi del volontariato per l'intervento in zone di crisi.
Tutto ciò non ha nulla di strano, è anzi coerente con la tendenza in corso, che vede la moltiplicazione dei conflitti locali e quindi dei profughi e della miseria. Al modo moderno di combattere non basta più la Croce Rossa, perché il 'fronte' non esiste più, o almeno comprende l'intero paese coinvolto dalla guerra; perciò tutta la popolazione è vulnerabile ed è necessario l'intervento di veri e propri eserciti per gli 'aiuti' che, al di là delle intenzioni, vengono integrati nella strategia militare dei belligeranti come elementi indispensabili ad essa. Del resto gruppi eco-pacifisti internazionali alquanto efficienti, come Greenpeace, hanno sempre vantato metodi militari simili a quelli dei reparti incursori.
Da Seattle in poi, le organizzazioni più o meno istituzionali della sinistra di tutto il mondo hanno applaudito alle manifestazioni, vedendo, negli scontri con la polizia e nelle occupazioni di piazza, il ritorno di una opposizione al capitalismo coordinata. Si tratta di un fronte molto vasto - e perciò interclassista - in cui interessi diversi sono unificati dalla crociata contro la globalizzazione sotto la parola d'ordine: 'Il mondo non è una merce'. Ma il mondo è una merce, o meglio un cumulo di merci, e quindi ogni discussione sulla loro produzione e distribuzione differenziata per aree geografiche deve per forza avere come perno la concorrenza, la si chiami come si vuole. La concorrenza è sinonimo di guerra, commerciale o guerreggiata. Perciò gli obiettivi generali del movimento antiglobale si riassumono in una serie di rivendicazioni programmatiche ognuna in oggettiva contraddizione con lo 'spirito' del movimento stesso.
Si chiede la distribuzione delle risorse rese disponibili dalla enorme forza produttiva sociale del capitalismo maturo, ma nello stesso tempo il rispetto delle culture indigene, che sono il residuo di vecchi modi di produzione inadeguati a sfamare le popolazioni. Si chiede il contenimento o addirittura la cancellazione del debito estero dei paesi poveri, ma nello stesso tempo si pretende il trasferimento di capitali per il loro sviluppo. Si scende in lotta contro la 'pirateria' genetica, dimenticando che è stata proprio l'ibridazione genetica, soprattutto dei cereali, a permettere di sfamare una popolazione mondiale che cresce a dismisura mentre le aree coltivate diminuiscono. Si chiede un controllo politico degli investimenti all'estero delle multinazionali e delle loro attività sul campo, ma non si tiene conto che è proprio la necessità di questo controllo politico a far nascere gli odiati organismi internazionali. Si chiede la garanzia di un lavoro dignitoso per tutti, mentre è proprio l'invocato investimento per le produzioni moderne 'dignitose' che provoca l'eliminazione di tempo di lavoro e la rovina delle produzioni arcaiche ad alto utilizzo di forza-lavoro. Si chiede l'introduzione della cultura della pace e della non-violenza, ma, nel momento stesso in cui esplode la guerra modernissima, i pacifisti accorrono a far da supporto logistico specifico, indispensabile e poco costoso, ai disegni dei belligeranti (quando non diventano puri e semplici interventisti della guerra 'umanitaria', come è successo ai nostrani). Si vuole eliminare la disoccupazione, e quindi l'emarginazione sociale nei paesi ricchi, ma si propugna l'aumento delle esportazioni da parte dei paesi poveri, in uno scambio 'equo e solidale' che, se fosse generalizzato, confronterebbe spietatamente i salari del mondo arretrato con quelli del mondo industrialmente maturo provocando una disoccupazione e un'emarginazione ben peggiori di quelle che già ci sono. Si pretende, infine, il rispetto e la valorizzazione della natura, ma si sorvola sul fatto che lo sviluppo richiesto per i paesi arretrati vuol dire capitalismo e che questo vuol dire crescita della produzione, la quale, senza tener conto della già ricordata concorrenza, non è altro che fisica trasformazione di materia-energia in un ciclo inesorabilmente legato al cosiddetto sfruttamento della natura. Non esiste un equilibrio ecologico nel capitalismo.
Ovviamente non si può pretendere che il movimento anti-globalizzazione sia quel che non può essere, ma è significativo che in tali occasioni 'crociatiste' prendano piede chiacchiere inconcludenti e addirittura forme di fanatica idiozia piuttosto che fondate ricerche scientifiche. Queste, paradossalmente, sono promosse più dalla borghesia che dai contestatori, in primo luogo perché ne ha i mezzi, inoltre perché non può permettere che la ciarlataneria invada il campo della produzione. Tra l'altro è proprio nella produzione-mercificazione, delle cose come delle teste, che si rivela tutta l'assurdità dell'ecologismo di maniera: esso, a parte le élite nobil-borghesi, è davvero un 'movimento di massa', nel senso che un accorto marketing lo ha rilevato nelle pieghe new age della società e ne ha tratto indicazioni per una produzione di massa che eguaglia per ampiezza quella dei beni di consumo durevoli. L'abbondante alimento per l'esecrata mercificazione delle presunte coscienze sono le coscienze stesse, perché ciò che domina, oggi come ieri, non è certo qualcosa di diverso dall'ideologia dominante. In questo caso la produzione sforna ben volentieri gli oggetti dotati del necessario valore d'uso e di scambio. Un movimento con obiettivi così coerenti con le esigenze di questa società non poteva che avere un grande successo, e infatti ha già ha assunto carattere internazionale, con la costituzione di una rete permanente per promuovere di continuo iniziative di boicottaggio e mobilitazione.
Questo l'aspetto fenomenico. Ma cosa rappresentano i manifestanti di tutte le Seattle che ci sono state e ci saranno? Quali interessi sono in campo, qual è la dinamica, nello sviluppo capitalistico, e quindi nei rapporti fra le classi, che ha portato a queste manifestazioni?
Il capitalismo nasce con una vocazione globale e, da quando è entrato nella sua fase suprema, imperialistica, domina incontrastato sulla vita degli uomini in ogni angolo del globo. Esso ha abbattuto ovunque le vecchie società, e ne tollera eventuali residui, anche estesi, soltanto nel caso siano del tutto innocui o addirittura utilizzabili ai fini della sua espansione o sopravvivenza. Situazioni sociali arcaiche sopravvivono soltanto là dove sono funzionali dal punto di vista del sistema in generale (e non a causa di una presunta incapacità dei capitalisti a modernizzare il mondo). La loro estensione non ha importanza. L'Africa intera sembra in preda al caos, apparentemente causato da una ferocia tribale esasperata e manipolata da capi incapaci, mentre ciò che vi succede non è altro che il risultato di mille forze convergenti di un sistema mondiale affamato di materie prime a infimo costo. Per esempio il Sudafrica, storico partner privilegiato, non ha subito affatto quel collasso che alcuni prevedevano dopo la 'svolta' politica, ed è invece stato pilotato dalle stesse determinanti verso una soluzione sociale capitalisticamente accettabile, con tanto di beatificazione del capo carismatico di turno, non più capace e abile di tanti altri capi africani abbattuti dagli stessi interessi. La Russia non è caduta per caso in mano alle attuali bande: i paesi più forti hanno sistematicamente boicottato ogni soluzione interna che non fosse congeniale al capitalismo occidentale, a partire dai tentativi di Gorbaciov. L'America Latina è ciò che materialmente può essere, con un vicino come gli Stati Uniti. L'Asia continentale è stracolma di capitali occidentali e giapponesi attirati con favorevoli condizioni, ma ne dipende totalmente, potendo contrapporre capitali locali in quantità neppure lontanamente paragonabili.
Il Capitale mondiale non può preoccuparsi delle popolazioni ed è, nella migliore delle ipotesi, un'ingenuità chiedere ai governi di 'fare qualcosa': i governi sono i rappresentanti di uno Stato nazionale e questo è uno strumento al servizio del Capitale, non il contrario. L'appello alle Nazioni Unite ha lo stesso significato: esperti dell'organizzazione mondiale teorizzarono anni fa la necessità di un ritorno all'agricoltura di auto-alimentazione in vaste aree del pianeta per evitare il circolo vizioso degli 'aiuti' e l'esodo continuo dalle campagne verso le terribili megalopoli del mondo arretrato e le loro bidonville: un vero e proprio programma reazionario. Oggi gli economisti specializzati in problemi dei paesi poveri teorizzano la sostituzione degli 'aiuti' massicci a tasso privilegiato con forme di prestito individuale a tassi correnti, pochi dollari a famiglia, per facilitare la costituzione di poderi agricoli e di piccole attività artigianali e commerciali. E vantano questo ritorno all'economia primitiva come unico mezzo per invogliare le banche locali a sostituire gli organismi internazionali nel fare prestiti, dato che i miserabili onorano il debito meglio dei governi. Con sistemi del genere l'ultra-reazionaria politica terzomondista è riuscita persino a far insediare popolazioni in zone dove solo le zanzare riuscivano a vivere e che gli uomini avevano evitato per millenni perché soggette a inondazioni e bufere, senza minimamente intaccare la precaria condizione di masse enormi.
La società nuova è un futuro possibile
Come si vede, le soluzioni borghesi alle contraddizioni del capitalismo non solo non sono 'progressive', come pretendono, ma contribuiscono a mantenere arretrata una parte del mondo. La forza produttiva sociale esistente avrebbe già permesso da tempo l'eliminazione dei motivi che fanno muovere oggi migliaia di uomini in manifestazioni senza costrutto, se solo il capitalismo fosse stato abbattuto nella passata ondata rivoluzionaria. Non si tratta di una semplice ucronia, cioè di una ipotesi letteraria basata su fatti improbabili in tempi che non ritornano: nelle biforcazioni della storia, in quei punti singolari che la definiscono, molte sono le soluzioni possibili. La controrivoluzione ha vinto, in Occidente come in Oriente, ma la storia precedente ha dimostrato che la possibilità di una società nuova era reale, perciò, da allora, continua ad essere reale.
Oggi, anzi, le condizioni sono ben più mature. La generalizzazione dei mercati su scala planetaria, vale a dire l'internazionalizzazione delle merci e dei capitali e la socializzazione del lavoro a livello globale, è un dato di fatto e non più una tendenza come negli anni '20. La marcia del Capitale è compiuta, perciò si afferma il suo maturo e compiuto dominio sull'intera società. Questa situazione per Marx era anche la condizione ultima per l'avvento della società nuova, perché essa non subentra finché la vecchia non ha manifestato tutte le sue potenzialità, e ciò è avvenuto.
Anche il fermento indotto negli strati sociali minacciati dal cambiamento (nel nostro caso dalla globalizzazione), con le teorie più o meno plausibili che ne scaturiscono, è un fenomeno già ricordato da Marx. In una sua critica a Proudhon egli afferma che gli uomini non possono rinunciare facilmente alle cose conquistate, ma che ciò non significa affatto essere comunque obbligati a tenersi la società che ha permesso tali conquiste e ora le nega; anzi, è proprio per mantenerle che gli uomini saranno obbligati ad accettare la nuova forma non appena lo sviluppo inarrestabile della forza produttiva sociale manderà all'aria quella vecchia.
Negli svolti storici le due grandi classi si pongono nei confronti della vecchia società in modo lineare e netto: il proletariato per farla saltare, la borghesia per difenderla. Invece la classe di mezzo tentenna per definizione: non vuole collegarsi al proletariato ma non può collegarsi alla borghesia, perciò sforna teorie bastarde che finiscono per essere meschine e opportuniste per gli uni e per gli altri.
Vivendo sulla ripartizione del valore nella società, questa classe è sempre la prima a mostrare l'angoscia per l'insicurezza in cui è gettata ogni volta che la sua fonte di sostentamento diminuisce. Perciò strilla affinché siano ripristinate le condizioni precedenti, affinché non le sia tolto nulla, oppure rivendica un capitalismo senza i guai del capitalismo, e lo fa nella sola maniera di cui è capace: con un moralismo che è la copia scipita e fuori tempo del vecchio illuminismo cui più di due secoli fa aveva dato supporto rivoluzionario. Di essa Marx dice che è 'parte integrante di tutte le rivoluzioni che si stanno preparando', pronta ad abbracciarle in un afflato ruffianesco o a pugnalarle a seconda di come la storia dispone i suoi rapporti con una classe o con l'altra.
Per definizione il Capitale continua ad accumularsi di più nelle aree in cui si è storicamente formato e sviluppato; e da qui muove verso i paesi di nuova accumulazione, sotto forma di investimenti diretti, di prestiti o di 'speculazione', cioè di impegno a breve nelle attività finanziarie locali. Tale flusso di capitali crea le condizioni per la sua stessa perpetuazione, crea quindi non solo industrie e banche, ma anche avidi strati sociali che ne beneficiano col solo fatto di maneggiare denaro e di poter giocare sulle differenze fra valute pregiate e valute locali. Questa piccola borghesia parassitaria, frutto diretto della globalizzazione, sopravvive solo fino a che il Capitale internazionale la trova utile in qualche modo, ma non appena il sistema si modernizza (e lo fa sempre velocemente) impiantando efficienti sistemi bancari, essa è spazzata via. Perciò, classi di mezzo senza spina dorsale, bottegaie, usuraie e persino tribali, rappresentanti mafie più o meno governative, diventano in via del tutto naturale i maggiori paladini dell'anti-globalizzazione. Esse cercano di difendersi non solo dalla minaccia delle merci estere a basso prezzo, ma soprattutto dall'intervento diretto dei capitali internazionali nel grande e inarrestabile movimento globalizzante: sanno bene che il loro destino è quello di essere espropriate. Perciò hanno 'qualcosa da perdere', e si ritrovano alleate naturali delle mezze classi e delle aristocrazie operaie occidentali in un tragico (per la lotta di classe) affasciamento. La difesa di tutto ciò, con manifestazioni di piazza o meno, è di una meschinità cui solo una sotto-classe può giungere.
I media hanno tentato di spiegare il movimento di contestazione e in molti casi l'hanno anche appoggiato. Non hanno mancato di sottolineare le singolari alleanze tra esponenti della destra americana più becera, mondo 'liberal' (che in America vuol dire sinistra radicale) e sindacati. Alcuni tra i più autorevoli rappresentanti di questi ultimi, non solo in America, hanno insistito sul fatto che il mercato globale ha decretato la perdita di moltissimi posti di lavoro, l'erosione del potere contrattuale dei lavoratori occupati, la fine del sindacato tradizionale. Dichiarazioni che, seppur nel modo distorto e funzionale ai loro particolari interessi, colgono alcuni aspetti del processo che la globalizzazione ha innescato.
La perdita di posti di lavoro è un fenomeno strutturale di questa fase del capitalismo. Il capitale innalza la sua composizione tecnica (aumento di macchinari e tecnologie) per ottenere standard produttivi che tengano il passo di una concorrenza sempre più agguerrita. La mutata composizione determina necessariamente una massiccia e costante espulsione di forza-lavoro tradizionale trasformandola in una merce molto più precaria, sotto-pagata e super-sfruttata; in ultima analisi viene distrutto tempo di lavoro vivo, sostituito con attività che sempre più spesso vengono retribuite con un puro e semplice trasferimento di plusvalore dai settori ancora produttivi. Questo processo non è indolore e provocherà turbolenze sociali che dovranno sfociare in conflitti aperti, come sta già succedendo alla periferia del mondo, dove esplodono scioperi estesi che qui non fanno notizia.
Il sindacato, per svolgere la sua funzione di controllo della forza-lavoro senza scomparire del tutto, deve continuare a rappresentare in qualche modo gli interessi economici dei lavoratori contro l'insaziabile sete di plusvalore dei singoli capitalisti. Pur facendolo nel modo corporativo e completamente compatibile con i rapporti sociali esistenti ereditato dal fascismo, esso non è più sufficiente neppure ad assolvere del tutto questa sua funzione ammortizzatrice, e si crea di conseguenza dei nemici persino fra le forze che ne avevano bisogno come elemento d'equilibrio sociale. Ed è naturale: se era dovuto diventare 'sindacato di tutti i cittadini', come recitava lo slogan della CGIL, abbandonando la classe per la quale era storicamente nato, adesso non gli resta che diventare direttamente partito dell'ordine, succursale del Ministero degli Interni.
Una società frammentata, attraversata dai più disparati interessi, a volte opposti e a volte concorrenti a tal punto da provocare accumuli di violenza incontrollabile, una società direttamente esposta alla permeabilità dei confini di fronte alla pressione migratoria, non può essere espressa solo da un sindacato tradizionale, per quanto interclassista. Il nuovo sindacato di cui la borghesia ha bisogno dovrà gestire in modo molto più diretto la forza-lavoro, assumendo una veste mediatrice non più soltanto di carattere economico ma di carattere direttamente politico. E non sarebbe neppure una novità, perché il sindacato ha già svolto opera diretta di polizia politica, per esempio di fronte agli episodi di terrorismo degli anni passati.
Superata l'odierna incertezza che fa schierare le organizzazioni sindacali contro la globalizzazione in modo del tutto platonico, la prossima fase le vedrà assumersi la responsabilità diretta di gestire gli effetti del mercato mondiale integrato, dovrà cioè controllare da una parte le reazioni di classe interne, dall'altra le ondate dei nuovi barbari che premono ormai a milioni alle porte dell'impero.
Tutto ciò avrà anche un riflesso sull'organizzazione immediata di cui il proletariato ha bisogno. Nessuno può pensare che gli organismi immediati possano tornare allo stadio in cui erano negli anni '20, dato che il loro processo di integrazione è storico e irreversibile; essi assumeranno caratteristiche marcatamente politiche, come è stato provato nell'importante episodio della distruzione e rinascita del sindacato polacco fra il 1976 e il 1980. Del resto il mercato globale e l'internazionalizzazione delle comunicazioni in tempi reali, portano con sé, inevitabilmente, anche la possibilità concreta di comunicazione di esperienze e forme nuove di organizzazione logistica tra i lavoratori di tutto il mondo, favorendo in tendenza quel processo sintetizzato da Marx con la formula: 'Proletari di tutto il mondo unitevi'. Ciò implica risposte adeguate, cioè politiche, da parte della borghesia, e di conseguenza tutto il processo che generalmente si riassume col nome di lotta di classe assumerà caratteri più marcatamente politici.
Naomi Klein, giornalista canadese autrice di un editoriale apparso sul New York Times, introduce un possibile paragone tra il movimento di Solidarnosc (nato nei cantieri navali di Danzica) e il movimento di Seattle, Davos, ecc., vedendoli entrambi come il frutto di una vasta coalizione che non si muove su rivendicazioni parziali ma generali, quindi politiche. Ed afferma: 'Come Solidarnosc, Seattle è esplosa quando una nuova generazione di sindacalisti ha definitivamente fatto proprie le istanze generalmente democratiche, promosse da alcuni autorevoli intellettuali: non più, dunque, semplice difesa del posto di lavoro, ma lotta per una società più giusta', non cogliendo il fatto che Solidarnosc nasce con un'identità di classe e il movimento di Seattle no.
In campo proletario una lotta economica può avere limiti angusti fin che si vuole, ma la sua caratteristica oggettiva è di essere universale a causa del preciso rapporto di classe: i proletari polacchi più combattivi, nel difendere le proprie condizioni di vita, dovettero superare il tradeunionismo per porsi come soggetto politico, trascinando nel movimento undici milioni di compagni di classe, cioè la quasi totalità del proletariato polacco. Il movimento nato a Seattle è invece nelle condizioni opposte: la sua lotta politica può avere tutto il respiro universale che si vuole, ma rimane sempre nei limiti angusti dell'idea. Esattamente come osservava Marx contro gli anarchici 'rivoluzionari della frase'.
Gli operai di Danzica lottavano contro lo stato di cose esistente, non solo dal punto di vista dell'assetto governativo ma, oggettivamente, anche se inconsciamente, contro il capitalismo, quindi erano rivoluzionari. Il popolo ibrido di Seattle non è neppure 'progressivo' perché ha l'intenzione dichiarata di difendere lo stato di cose esistente; esso vorrebbe opporsi alla marcia del Capitale che avanza come un rullo compressore schiacciando tutto quello che diviene superfluo, non più funzionale alle sue esigenze di valorizzazione. Ma la giornalista tocca un tasto importante comunque: neanche gli operai, dopo l'esempio della Polonia, potranno mai più intraprendere lotte economiche di grande portata senza che esse assumano un carattere direttamente politico, senza, cioè, che si renda necessario lo scontro con la classe avversa e lo sviluppo dell'organizzazione specifica per la lotta politica, il partito rivoluzionario. In un contesto simile, anche la tattica frontista, che tanti guai ha procurato al movimento operaio, è resa obsoleta dai fatti.
Da questo punto di vista è ancor più evidente che il movimento nato a Seattle ha caratteristiche reazionarie. Esso si basa su di una accozzaglia più che ibrida di istanze interclassiste con cui i proletari non dovrebbero avere nulla a che fare. In quanto modo di produzione globale, il capitalismo ha semplificato molto la grande questione storica della tattica comunista. Ha relegato al patrimonio di esperienza passata parecchie soluzioni e formule ambigue interpretabili in modo opportunista, come quella appunto del fronte unico, un tempo imposte dalla situazione di doppia rivoluzione in cui si trovava il movimento. In generale, come è irreversibile e positivo - anche dal punto di vista rivoluzionario - il moderno processo di globalizzazione del capitale, così è irreversibile e positiva la semplificazione della tattica nelle varie parti del mondo. Oggi non è praticabile, ad esempio, un'alleanza sul campo con la borghesia contro classi feudali - che non ci sono più - ed è anche impraticabile una tattica specifica per il mondo contadino, che esiste ancora ma non ha le caratteristiche di un tempo. Oggi i contadini hanno smesso di lottare per la ripartizione della terra e semmai si danno da fare per abbandonarla e trovare un altro lavoro, magari nelle metropoli. Queste linee generali non sono modificate dall'insorgere di problemi specifici che sembrano in controtendenza: le grandi questioni legate a un maturo modo di produzione si affrontano sulla base di periodi storici ed estensioni di territorio che coprono interi continenti (aree geostoriche), e non sulla base di contingenze trattate in modo soggettivo.
Nessuna delle organizzazioni presenti nelle manifestazioni di piazza si sogna di schierarsi contro il mercato, o la liberalizzazione del commercio. Tutte, al contrario, ne accettano di buon grado i presupposti e i meccanismi. La strada che propongono di percorrere è, nella migliore delle ipotesi, la correzione delle 'storture' e degli 'eccessi' più aberranti, che buone regole potrebbero - a loro dire - evitare; così facendo, dimostrano sia l'inconseguenza caratteristica delle mezze classi nella storia, sia per quale via il riformismo opportunista - che è impresso nel loro codice genetico - infetti anche il movimento proletario.
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