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LA VITA E IL PERIODO PRECRITICO
Kant opera negli ultimi decenni del Settecento in Germania, in un'epoca per molti versi di transizione tra illuminismo e romanticismo. Risente di questa fase di transizione e, pur collocandosi a pieno titolo nell'illuminismo (di cui è l'ultimo e il massimo esponente), molti aspetti del suo pensiero sono già romantici. Rilevante è il fatto che egli operi in una realtà come quella tedesca che, per la sua collocazione 'provinciale' dal punto di vista culturale e politico, vede il penetramento di un illuminismo diverso da quello degli altri Paesi, un illuminismo più sfumato, il cui aspetto rivoluzionario di netta rottura e di critica verso il passato risulta smorzato. Che l'illuminismo in Germania sia più sfumato che altrove, lo si può facilmente evincere dall'uso che i tedeschi continuano a fare del latino, nella altre nazioni europeee ormai sostituito dalle lingue nazionali, atte a divulgare il più possibile la cultura e le scoperte filosofiche. Un altro aspetto che contraddistingue la realtà tedesca dalle altre in Europa è il fatto che, in ambito filosofico, in Germania non c'è la rottura definitiva con la metafisica, nè tantomeno il distacco degli intellettuali dalle università: Kant stesso sarà per tutto il corso della sua vita professore universitario. Si può dire, in altri termini, che la Germania di quegli anni è di gran lunga meno rivoluzionaria di molti altri Paesi, quali la Francia o l'Inghilterra; Kant è per molti versi un pensatore rivoluzionario, tanto da essere talvolta paragonato a Robespierre; eppure, letto in trasparenza, molti sono in lui gli aspetti conservatori: egli si presenta, più che come pensatore radicalmente rivoluzionario, come pensatore che cerca di dare una sistemazione definitiva alla culturta moderna . Kant accetta con entusiasmo le novità subentrate nella cultura moderna, cercando di dar loro una veste definitiva; quest'operazione egli la attuerà soprattutto con la scienza newtoniana: la filosofia di Kant è, infatti, per molti aspetti un tentativo di fondare filosoficamente la scienza di Newton e questo dimostra che egli non è un conservatore, ma anche che è meno rivoluzionario del previsto. La vita di Kant , interamente dedicata all'insegnamento universitario, è diventata quasi proverbiale per i pochi avvenimenti che la caratterizzano. Due però sono le tappe fondamentali che la segnano: la prima, risale a quando Kant rivendicò apertamente la libertà di pensiero, in opposizione con la censura che aveva avuto da dire sul suo scritto sulla religione costruita nei limiti della sola ragione. In Kant la libertà di pensiero è un tema centrale , che trova la sua massima trattazione nella Risposta alla domanda: che cosa è l'illuminismo? (1784) . In questo trattatello (che è il vero e proprio testamento spirituale dell'illuminismo), Kant definisce l'illuminismo come ' l'uscita dell' uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso ' , quasi come se l'uomo non fosse ancora del tutto divenuto maggiorenne sul piano intellettuale, cioè capace di usare la propria ragione. Kant, riprendendo le tematiche tipicamente illuministiche della lotta ai pregiudizi, spiega che gli uomini, fino a quel momento, non hanno dovuto fare lo sforzo di pensare da soli perchè c'era chi lo faceva per loro: essi si sono dunque ridotti ad accettare le opinioni elaborate dagli altri senza vagliarle con la propria ragione. La minorità che ha caratterizzato fino ad allora l'uomo è interamente imputabile all'uomo stesso, che non ha avuto il coraggio nè la voglia di sapere; l'illuminismo è quindi un fatto di volontà e il suo motto è ' abbi il coraggio di servirti della tua propria ragione! '. A questo punto, però, Kant (e qui si vede come egli sia per molti aspetti conservatore) distingue tra uso pubblico e uso privato della ragione : l'uso pubblico è quello che io faccio in qualità di libero cittadino, quello privato è invece quello che faccio nell'esercizio specifico di determinate funzioni. Come soldato impegnato in guerra, ad esempio, dovrò limitarmi ad obbedire, senza esprimere la mia disapprovazione (uso privato della ragione); quando però non sono più nelle vesti di soldato, ma in quelle di cittadino, posso liberamente esprimere la mia disapprovazione e tutte le obiezioni che desidero (uso pubblico della ragione); allo stesso modo, se un gruppo religioso mi paga per tenere la messa, io devo limitarmi ad eseguire e non mi è concessa la libertà di esprimere le mie riserve in merito a quella dottrina religiosa; come libero cittadino, invece, posso esprimere il mio disappunto e le mie perplessità. Nei due casi appena esaminati, non vi è alcuna violazione dell'obbedienza: ho libertà di parola, ma devo obbedire (anche se non approvo); e Kant tesse le lodi di Federico II, il sovrano imbevuto di razionalismo, il cui atteggiamento può così essere riassunto: 'puoi pensare quello che vuoi, ma devi obbedire ai miei ordini'. Tuttavia Kant si accorge con grande acutezza che spesso la distinzione tra fatti e parole non è così facilmente operabile: il soldato che obbedisce agli ordini, ma li critica va oltre la libertà di espressione e raggiunge la fattualità, creando una situazione psicologica che favorisce la disobbedienza agli ordini: in questo modo, le parole diventano fatti. Kant riconosce dunque due limiti alla libertà di espressione: il primo è quello che risiede nella distinzione tra uso pubblico e uso privato della ragione, e il secondo è invece quello riguardante i casi in cui la libertà d'espressione non è del tutto legittima (come nel caso del soldato che obbedisce ma critica). L'altra tappa fondamentale della vita di Kant è legata all'atteggiamento assunto nei confronti della Rivoluzione francese: si narra che i concittadini di Kant regolassero i loro orologi in base alle sue passeggiate, che avvenivano immancabilmente in determinati orari, e che una sola volta egli mancò all'appuntamento: quando seppe della presa della Bastiglia. Anche quando la Rivoluzione prese una piega radicale, Kant restò coerente: non rinunciò mai a considerare la Rivoluzione come positiva per la storia dell'umanità e il popolo francese come il primo popolo che si era finalmente dato un regime del tutto degno del genere umano. Stranamente però nel giudicare la Rivoluzione e l'annosa questione della legittimità della ribellione, Kant sostenne che di fronte ad un'autorità legittimamente costituita la ribellione fosse illegittima; tuttavia questo non gli impedì di giudicare positivamente i contenuti del regime nato dalla Rivoluzione una volta che esso era nato: la Rivoluzione è stata illegittima, secondo Kant, perchè contro un governo legittimamente costituito, ma, una volta che essa c'è stata, non si possono non riconoscere i valori fortemente positivi scaturiti dal nuovo regime. Anche in merito a questo strano atteggiamento verso la Rivoluzione emerge la questione della libertà di pensiero: non c'è il diritto di opporsi ad uno stato costituito legittimamente, ma c'è il diritto di schierarsi, in qualità di liberi cittadini, a favore della Rivoluzione, una volta che essa ha preso il via. Tutto questo si collega ancora ad un altro opuscolo kantiano, dedicato alla politica e intitolato Per la pace perpetua : in esso, Kant ipotizza la possibilità di realizzare una pace perpetua, cioè di trovare un sistema di equilibrio internazionale che garantisca una volta per tutte la fine delle guerre. Kant non ipotizzava una sorta di unico stato mondiale, anzi, guardava con sospetto la cosa perchè in fondo la sua è una posizione liberale. Piuttosto, egli propone di creare una sorta di federazione mondiale degli Stati, a partire dall'Europa per poi coinvolgere l'intero mondo. In questo senso, Kant può essere considerato il teorico dell'Europa Unita. E' interessante il fatto che egli scorga nella Francia repubblicana (per repubblicano Kant intende uno Stato in cui i cittadini prendano parte al governo) il punto di riferimento per questa confederazione: il ragionamento che porta il pensatore tedesco a scegliere la Francia e più in generale un Paese repubblicano è questo: Kant è convinto che in fondo i sovrani han sempre fatto le guerre come varianti dello sport della caccia, senza rimetterci molto; se si vuole davvero ottenere una pace perpetua, è necessario che a scegliere se fare la guerra o meno sia chi ne paga le conseguenze, ovvero il popolo: se spettasse ad esso la decisione, non vi sarebbero mai guerre, sostiene Kant. Quest'osservazione kantiana, però, non è del tutto corretta e nasce soprattutto in virtù dell'ottimismo illuministico che si respirava in quegli anni: il Novecento ha chiaramente mostrato come i popoli (pur pagandone le conseguenze) si lascino facilmente trascinare in guerra, a differenza di quel che pensava il filosofo tedesco. Piuttosto importante è la vita intellettuale di Kant : egli ebbe una prima formazione di stampo pietistico. Il pietismo è quella corrente protestante che, nata nel Seicento, si caratterizza per un intenso senso della spiritualità e per un rigorismo morale molto marcato: e sia il rigorismo sia l'interiorità spirituale sono due connotazioni fortissime nella filosofia di Kant; uno dei suoi testi più famosi (la Critica della ragion pratica ) è dedicato all'etica ed è evidentemente ispirato al pietismo. Nella formazione culturale del giovane Kant ebbero peso parecchi pensatori: va subito precisato che Kant non è un autore precoce (come saranno invece gli autori romantici: Schelling, ad esempio, a 25 anni aveva già scritto le sue opere più importanti), bensì giunge alla piena maturazione del proprio pensiero in età avanzata. Pur avendo composto parecchi scritti in gioventù, è solo con la Critica della ragion pura (1781), composta quando aveva ormai circa sessant'anni, che Kant raggiunge la maturità del suo pensiero. Tutto ciò che aveva scritto prima non è altro che una lunga e laboriosa preparazione a questo. La sua filosofia, del resto, viene solitamente suddivisa in due periodi, facendo riferimento alla stesura della Critica della ragion pura : il periodo che viene prima di quest'opera è definito 'precritico'. A caratterizzare questo lungo periodo di maturazione filosofica, sono le continue oscillazioni dovute alle diverse influenze filosofiche che agiscono su Kant. Di esse, due sono quelle che si fanno più sentire: si tratta dell'empirismo e dell'innatismo. Nella metà del Settecento, in Germania, l'influenza di Leibniz era ancora fortissima, grazie anche alla diffusione e alla sistematicizzazione del suo pensiero operata da Wolff: e proprio queste due istanze, leibniziane e di sistematicizzazione, le ritroviamo in Kant; soprattutto l'idea di sistematicizzare è fortissima nel pensatore tedesco, quasi ossessiva, tanto che qualcuno ha detto che si tratta quasi di una gabbia che cristallizza il suo pensiero: sì, perchè se prendiamo la Critica della ragion pura noteremo in essa una sistematicità esasperata, ricercata; addirittura alle altre due grandi critiche (la Critica della ragion pratica e la Critica del giudizio ) egli tenterà di conferire la stessa sistematicità. Detto questo, Kant deriva da Leibniz parecchie concezioni, delle quali una resta fissa, assolutamente intoccabile: si tratta di un'istanza innatista sul piano gnoseologico, un rifiuto a pensare che tutto possa derivare solo dall'esperienza; come diceva Leibniz stesso, non c'è nulla nel nostro intelletto che prima non sia passato dall'esperienza, fatta eccezione per l'intelletto stesso. Naturalmente il materiale della conoscenza lo riceviamo dal'esperienza, ma a rielaborarlo è l'intelletto, che esula del tutto dall'esperienza stessa. Leibniz aveva avuto il merito di riconoscere, almeno embrionalmente, che le strutture con le quali organizziamo le conoscenze sono innate; la soluzione all'annoso problema del conflitto tra empirismo e innatismo la darà Kant, in modo definitivo: la materia della conoscenza deriva dall'esperienza, ma la forma della conoscenza è a priori. Kant mutua quindi da Leibniz l'istanza innatistica, pur depurandola: dal soggetto deriviamo le forme della conoscenza, dai sensi deriviamo invece i contenuti. Questo vuol dire che Kant (sostenendo che il materiale dela conoscenza derivi dall'esperienza) non attinge solo dall'innatismo leibniziano, ma anche dall'empirismo lockiano. Da Locke egli eredita anche il criticismo nei confronti degli strumenti conoscitivi a nostra disposizione, ponendosi il quesito: fin dove può arrivare la mia ragione? Locke diceva che la ragione è l'unico lume di cui possiamo avvalerci per illuminare il mondo, ma si tratta comunque di una luce limitata, che non può gettar luce su ogni cosa: ma la limitatezza di queso mezzo non autorizza a porre ad esso dei limiti esterni (quale la fede). Essendo l'unico strumento a disposizione, il lume della ragione è l'unico che abbia il diritto di indagare sui suoi stessi limiti, che non le sono comunque imposti dall'esterno. La ragione non è onnipotente, ma ha dei limiti intrinseci: questo distingue l'illuminismo dal razionalismo cartesiano, che, vedendo la ragione come onnipotente, scivolava, paradossalmente, nell'irrazionalismo al pari della religione: come la religione non ha fede nella ragione, così il razionalismo ha fede in essa, senza però indagare sui limiti che essa presenta. La Critica della ragion pura è proprio, come il Saggio sull'intelletto umano di Locke, un tentativo della ragione umana di riflettere su se stessa, un tentativo che per molti versi conclude il discorso avviato a suo tempo da Cartesio sul metodo da adottare: che mezzi ha a disposizione la ragione per conoscere? E fin dove si possono spingere tali mezzi della ragione? Ad indagare sui limiti della ragione deve essere la ragione stessa. Ma Kant, oltrechè dell'influenza di Locke e di Leibniz, risente anche di quella di Newton e di Hume: la filosofia di Kant (almeno nella sua parte teoretica, ossia nella Critica della ragion pura ), come accennato, si configura come tentativo di fondare filosoficamente la scienza moderna, la cui paternità è riconducibile soprattutto a Newton. A quest'ultimo spetta il merito di aver unificato in una sola legge (legge di gravitazione universale) quelle che in Keplero e Galileo erano leggi distinte: Keplero aveva elaborato le tre leggi sull'orbita ellittica dei pianeti, Galileo, invece, aveva formulato la legge di caduta dei gravi. All'epoca di Kant la formulazione scientifica di Newton è all'avanguardia perchè si configura come una formulazione pienamente matura del meccanicismo: ormai il meccanicismo cartesiano, rigurgitante di errori, è sorpassato. Cartesio, del resto, aveva respinto l'attrazione a distanza dei pianeti e dei corpi perchè puzzava troppo di animismo e rischiava di inficiare l'impianto meccanicistico, il quale implica invece un'azione per contatto. Le teorie di Newton, che proponevano, con la legge di gravitazione universale, un'attrazione reciproca dei corpi, erano state viste dai cartesiani come un infamante allontanamento dal meccanicismo, noi le vediamo invece come la sua forma più matura. E Kant, sotto questo profilo, la pensa come noi. A testimonianza del suo stretto rapporto con la scienza newtoniana va indubbiamente ricordato lo scritto, datato 1775, intitolato Storia universale della natura e teoria del cielo : in esso, Kant avanza l'ipotesi della nascita dell'universo a partire dalla formazione nello spazio di una nebulosa di materia, secondo le leggi di Newton; quest'opera testimonia, tra l'altro, grandi comptetenze scientifiche, perchè sarà poi riformulata dall'astronomo La Place e prenderà il nome di ipotesi Kant-La Place. Vi è poi un altro testo fondamentale, risalente al periodo precritico, che testimonia la vicinanza a Newton e, al tempo stesso, la presa di distanza da Leibniz: Newton e Leibniz avevano avuto due diverse concezioni del tempo e dello spazio. Per il pensatore inglese, il tempo era qualcosa di assoluto, cioè di indipendente dal soggetto che conosce e dagli oggetti immersi nello spazio stesso; anche se non vi fossero cose nè soggetti percepienti lo spazio, quasi come un enorme contenitore, continuerebbe ad esistere; per esso (dato da 3 coordinate, cioè tre numeri ciascuno dei quali dà un'informazione: non possono esserci al tempo stesso due oggetti ad occupare lo stesso spazio) è anzi indifferente che vi siano al suo interno soggetti e cose. La concezione di Leibniz, per molti versi più vicina a quella della fisica novecentesca, vuole sia il tempo sia lo spazio come inesistenti in assoluto, ma dipendenti dagli oggetti stessi: spazio e tempo per Leibniz non sono altro che le relazioni tra le realtà materiali esistenti: lo spazio è la relazione della coesistenza fra le cose, e il tempo della successione delle cose. Concettualmente per Leibniz prima ci sono le cose, poi il tempo e lo spazio, perchè ne sono relazioni (e una relazione deve per forza sussistere tra cose già esistenti): pur dipendendo dalle cose, spazio e tempo non dipendono per Leibniz dal soggetto, in quanto non hanno carattere meramente soggettivo. Per Newton è l'esatto opposto: prima ci sono lo spazio e il tempo, poi tutto il resto. E Kant, nel periodo precritico, scrive un opuscolo in cui prende le difese di Newton, servendosi, nella sua dimostrazione, dell'analisi degli oggetti simmetrici: la mano destra e la mano sinistra, pur essendo simmetriche (cioè avendo una relazione interna tra le parti uguale, ma capovolta), non sono congruenti (cioè non occupano lo stesso spazio); ne consegue che se lo spazio fosse soltanto la relazione delle parti di un oggetto, lo spazio occupato dalla mano destra e dalla sinistra (la cui relazione interna è uguale, seppur capovolta) dovrebbe essere uguale, ma così non è: infatti (ed è evidente nel caso delle mani) dove c'è la stessa relazione, non c'è lo stesso spazio, ovvero il rapporto tra le parti non è lo spazio. Il che spiega chiaramente che la relazione delle parti non fa lo spazio , come invece sosteneva Leibniz, ma che lo spazio è prima delle cose stesse, come voleva Newton. Nella fase critica, però, Kant, pur non rinnegando la sua adesione alla tesi di Newton, opererà una modifica: è vero che lo spazio e il tempo sono assoluti e indipendenti dagli oggetti, di cui sono anzi la condizione di esistenza, spiegherà, ma è altrettanto vero che essi sono in qualche modo dipendenti dal soggetto. Tra i vari pensatori che influiscono su Kant vi è pure l' inglese Berkeley , il quale sosteneva che essere vuol dire essere percepiti: anche nel caso in cui non vi fossero più gli uomini, le cose continuerebbero ad esistere perchè percepite da Dio; Berkeley conferiva così alla propria filosofia una sfumatura idealistica (negando l'esistenza autonoma delle cose). Quando Kant scriverà la Critica della ragion pura , molti vedranno erroneamente in essa una banale riproposizione delle tesi esposte a suo tempo da Berkeley: il che spinse Kant ad effettuare una rivisitazione dell'opera in cui confutava l'idealismo e prendeva le distanze da Berkeley. Oltre a Berkeley, Kant risente anche dell'influenza di Hume , a tal punto che egli riconoscerà al pensatore scozzese il merito di averlo destato dal suo sonno dogmatico. Quest'espressione, divenuta celebre, dà quasi l'idea di un'illuminazione improvvisa arrivata dalla lettura dei testi humeani, i quali hanno svolto su Kant una funzione anti-dogmatica, l'hanno cioè destato da quel sonno che l'aveva portato ad accettare in maniera acritica alcuni punti fermi della metafisica e del comune modo di pensare: Hume aveva mostrato che la nozione di sostanza e di causa, da tutti accettate come evidenti, in realtà non erano poi così ovvie: chi mi dice che il mondo sia effettivamente un insieme di sostanze tra loro legate da rapporti causali? Non posso dimostrarlo razionalmente, ma ne sono certo per via della credenza immediata dettata dalla mia stessa natura di uomo, la quale mi invita ad accettare le nozioni di causa e sostanza, secondo Hume. Una volta svegliato da Hume, Kant ne prenderà poi le distanze perchè convinto che sebbene infondate razionalmente, le nozioni di causa e sostanza, a differenza di quanto credeva il pensatore scozzese, possano essere fondate dalla ragione. Certo, Hume ha perfettamente ragione a dire che le nozioni di causa e sostanza non sono ovvie, ma, detto questo, bisogna spingersi oltre, provando, con un percorso originale, a fondarle. E a proposito è interessante ricordare uno scritto kantiano (di tutti forse il più piacevole alla lettura) risalente al 1766, intitolato I sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica . Lo spunto per quest'opera sorge in occasione di un fatto contingente: una conoscente aveva chiesto a Kant il parere a riguardo di un bislacco personaggio di allora, dalle idee strane e, a quanto sosteneva, capace di entrare in contatto col mondo sovrasensibile e spirituale. Kant ne approfitta e scrive questo libercolo, effettuando un capovolgimento ironico (evidente a partire dal titolo), quasi a dire che quel personaggio è un fanfarone che vuole andare al di là dell'esperienza sensibile allo stesso modo in cui spesso la metafisica ha costruito castelli in aria, cercando illegittimamente di andare oltre l'esperienza: i sogni della metafisica vengono dunque accostati a quelli del fanfarone e ritenuti dei puri vaneggiamenti. Questo testo costituisce l'apice della polemica kantiana verso la metafisica, una polemica che trova appunto in Hume il suo massimo eroe. Questa posizione di insofferenza verso la metafisica nel periodo critico si attenuerà e, sebbene Kant continuerà a ritenere erronea la pretesa della metafisica di spiegare ciò che è al di là del mondo fisico, tuttavia egli spiegherà che si tratta di una pretesa innata nella natura dell'uomo stesso, il quale sente l'esigenza di porsi queste domande e di rispondere ad esse. Dirà che alcune idee metafisiche (ad esempio Dio) hanno una certa funzione nella conoscenza (ad esempio, non posso conoscere Dio, ma l'idea di Dio mi aiuta a capire molte altre cose), e che esse, sebbene inaccessibili alla conoscenza, per altri versi sono accessibili al campo morale ed etico (ad esempio, Dio non lo posso conoscere, ma nell'etica, scegliendo come comportarmi, mi baso sul concetto di Dio). A quegli anni risale anche un'altra opera kantiana, che segna il distacco di matrice humeana dalla metafisica: L'unico argomento possibile per una dimostrazione di Dio (1763) . Qui Kant distrugge la classica argomentazione ontologica di Anselmo da Aosta: Anselmo aveva dimostrato l'esistenza di Dio partendo dal concetto stesso di Dio, inteso come l'essere perfettissimo, e spiegando che Dio, la cosa più perfetta di ogni altra, per essere tale non può mancare di esistenza; l'esistenza, in quanto perfezione, per Anselmo fa parte dell'essenza, e un concetto (pura essenza) privo di esistenza, non può essere perfetto. Ma Kant confuta quest'argomentazione, sostenendo che l'esistenza non può a nessun titolo far parte dell'essenza ; il concetto di una cosa, sia che essa esista sia che non esista, non varia e l'esistenza è come se si aggiungesse dall'esterno: il concetto di giraffa è perfetto di per sè, anche se le giraffe non esistessero. Kant si avvaleva di un esempio: certo i 100 talleri che ho in tasca sono diversi dai 100 talleri che io penso, già solo perchè con quelli in tasca posso fare acquisti, ma non è una differenza di essenza, non è, come credeva Anselmo, che i 100 talleri esistenti siano più perfetti e abbiano più valore dei 100 talleri pensati; non è vero che una cosa esistente è più grande della medesima cosa pensata come se inesistente. L'esempio dei 100 talleri rende bene l'idea perchè, se come dice Anselmo ciò che esiste vale di più ed è più grande di ciò che è solo pensato, avendo 100 talleri in tasca, pensando quei talleri, dovrei averne in mente meno, solo 90, ad esempio, perchè una cosa solo pensata vale meno di una esistente. Così facendo, Kant smonta la prova anselmiana e mostra che i 100 talleri, sia che esistano sia che non esistano, hanno la stessa essenza. L'esistenza è invece qualcosa che si aggiunge dall'esterno, è la posizione (l'essere posto) di qualcosa: esiste ciò che è dato o può essere dato nell'esperienza di qualcuno: l'essenza di libro non cambia a seconda che il libro esista o meno, e posso dire che il libro esiste perchè mi è dato all'esperienza (visiva, tattile, etc.). Ne consegue che all'esistenza di qualcosa si arriva sempre dall'esperienza, mai dall'essenza, e quindi Anselmo ha sbagliato credendo di poter dimostrare l'esistenza di Dio partendo dalla sua essenza. In L'unico argomento possibile per una dimostrazione di Dio , Kant, smontata la prova ontologica, spiega che vi è un solo argomento per dimostrare l'esistenza di Dio, e tale argomento si basa appunto sull'esperienza: si tratta della dimostrazione ('del principio di ragion sufficiente') data a suo tempo da Leibniz. Non vi è nulla che avvenga senza un motivo: ne consegue che si deve trovare un qualcosa che si spieghi da solo, che sia motivo di se stesso e che faccia derivare da sè tutto il resto: si tratta di Dio. Successivamente Kant rifiuterà quest'argomentazione, ma manterrà valida la critica alla prova di Anselmo, spiegando anzi, nella Critica della ragion pura , che tutte le prove dell'esistenza di Dio sono riconducibili alla prova di Anselmo; ma se essa è falsa, anche tutte le altre (che da essa derivano) lo sono. In effetti la prova della dimostrazione dell'esistenza di Dio addotta da Kant in quest'opera è molto discutibile, e lui stesso se ne rende conto, a tal punto che, sul finale dell'opera sull'unico argomento possibile, troviamo scritto: ' se è necessario convincersi dell'esistenza di Dio, non è altrettanto necessario che la si dimostri '. Nel 1770 Kant pubblica un'opera di fondamentale importanza nel suo percorso filosofico: si tratta della Dissertazione del 1770 sulla forma e i princìpi del mondo visibile e intellegibile: l'importanza di questo scritto risiede nel fatto che esso segna il periodo di transizione da fase precritica a fase critica; dopo averla pubblicata, Kant non scriverà più nulla di significativo per 11 anni: egli sente l'esigenza di riflettere prima di pubblicare qualcosa di davvero importante. Possediamo delle lettere kantiane risalenti a quel periodo in cui il pensatore tedesco spiega di essere impegnato nella preparazione di una grande opera, la Critica della ragion pura , che comporrà, nel 1781, in due soli mesi . Dalle lettere, è interessante notare, emerge che Kant aveva pensato a realizzare un'unica opera in cui illustrare i concetti che invece poi inserirà in due opere distinte, la Critica della ragion pura (dedicata alla gnoseologia) e la Critica della ragion pratica (dedicata alla praticità). Nelle lettere Kant non accenna minimamente a quella che sarà la terza grande critica, la Critica del giudizio (dedicata all'estetica): non riteneva infatti l'estetica suscettibile di trattazione critica. Esiste poi un Opus postumum , una raccolta di riflessioni kantiane pubblicate postume, in cui emergono alcune sfumature del suo pensiero, in particolare a riguardo di quella che Kant chiamerà la 'cosa in sè': in questi scritti essa tenderà a subire delle modificazioni. Tornando alla Dissertazione del 1770 , quel che emerge in essa e che sarà presente, seppur in modo diverso, nel periodo critico è la distinzione tra fenomeno e noumeno. Fenomeno (dal greco fainomenon , ciò che appare ) è ciò che appare, è l'oggetto dell'esperienza sensibile, mentre noumeno (dal greco noumenon ciò che è pensato ) è ciò che viene pensato, il possibile oggetto del pensiero. Questa distinzione rievoca quella operata a suo tempo da Platone tra sensibile e intellegibile, anche se in realtà, per Platone, si trattava di una distinzione tra due diversi oggetti del pensiero (una cosa era il cavallo, un'altra l'idea di cavallo e altra cosa era conoscere la prima rispetto alla seconda: si poteva conoscere una realtà a livello sensibile o pensandola con l'intelletto), per il Kant della Dissertazione, invece, si tratta di due livelli graduali: prima conosco la cosa come appare (conoscenza fenomenica), poi come effettivamente è (conoscenza noumenica). Ed è solo la conoscenza intellettuale (noumenica) che mi fa vedere come la cosa è realmente. In un secondo tempo, Kant introdurrà il concetto di 'cosa in sè' come sinonimo di noumeno: parla di cosa in sè perchè si tratta della cosa non in riferimento alla mia attività conoscitiva, ma slegata, a sè stante. Tuttavia la differenza lampante tra il Kant della Dissertazione e quello della Critica della ragion pura sta nel fatto che nel 1770 egli, influenzato dal platonismo, è pienamente convinto della conoscibilità della cosa in sè, mentre nel periodo critico la dichiarerà inconoscibile. E' ben evidente che la posizione kantiana nella Dissertazione è diametralmente opposta a quella assunta ne I sogni di un visionario , dove intendeva la metafisica come un puro vaneggiamento: nella Dissertazione Kant dice invece che posso vedere le cose come mi appaiono, ma, platonicamente, posso anche coglierne col pensiero l'essenza stessa (la cosa in sè). Il Kant della Ragion pura, invece, proclamerà l'inconoscibilità della cosa in sè asserendo che la nostra conoscenza si ferma al fenomenico. Esaminando la Dissertazione, però, è interessante notare che Kant, imbevuto di platonismo, introduce l'idea che la forma della conoscenza fenomenica sono lo spazio (per il mondo esterno: tutto quel che è fuori di me, lo percepisco nello spazio) e il tempo (per il mondo interiore: la successione dei miei stati interni). Qui Kant concepisce lo spazio e il tempo in maniera differente rispetto alle nozioni leibniziane e newtoniane, spiegando che essi non hanno esistenza oggettiva (come pretendeva Leibniz) e non sono assoluti, indipendenti dalle cose in essi immerse e dai soggetti conoscenti (come voleva Newton): per Kant spazio e tempo sono realtà soggettive , che non appartengono agli oggetti e al noumeno, ma al nostro modo di conoscere gli oggetti e al fenomeno. Essi appartengono dunque alle forme della conoscenza sensibile (fenomenica), fanno parte non della natura delle cose in sè, ma della natura del nostro modo di percepire: percepiamo, infatti, le cose nello spazio e nel tempo. Ma dobbiamo prestare attenzione a non farci ingannare dal linguaggio kantiano: egli per oggettivo intende sì qualcosa di opposto al soggettivo, un qualcosa che non dipende dal soggetto ma è a sè stante (il noumeno), tuttavia in Kant il termine 'oggettivo' è spesso sinonimo di 'universale': ad esempio, spazio e tempo sono soggettivi, nel senso che non appartengono alle cose come sono in sè, ma alle cose come appaiono a noi; detto questo, però, Kant dice anche che la nostra conoscenza delle cose nello spazio e nel tempo è oggettive, ha cioè valenza universale, vale per tutti i soggetti umani. Dire che la conoscenza fenomenica è oggettiva sembra un paradosso, perchè il fenomenico è soggettivo, non attinge la cosa oggettivamente come è in sè: però, avendo tutti gli uomini la stessa struttura mentale, allora conoscono le cose, sostanzialmente, tutti nella stessa maniera, che non è oggettiva nel senso che attingono la cosa in sè, ma è oggettiva nel senso che tutti la percepiscono fenomenicamente allo stesso modo: quando, ad esempio, parlo della penna, nessuno può cogliere il noumeno, ma dicendo 'la penna è qui' tutti mi capiscono perchè hanno le mie stesse strutture mentali. Così si spiega dunque perchè per Kant la conoscenza fenomenica è oggettiva (universale), grazie al fatto di essere soggettiva : avendo tutti noi gli stessi strumenti per conoscere le cose in modo soggettivo (nello spazio e nel tempo), si tratta però di una conoscenza universale, cioè oggettiva; il che ci permette di comunicare. Protagora diceva che l' uomo é misura di tutte le cose e questa espressione può anche significare che l' uomo in quanto tale (il genere umano) conosce le cose come gli appaiono e non può fare altrimenti. Ora, quest' interpretazione rispecchia molto bene il pensiero di Kant: il genere umano conosce le cose come appaiono (fenomenicamente), ossia ciascuno le conosce soggettivamente, come appaiono a lui; ma tuti gli altri uomini, dotati delle stesse strutture mentali, le conoscono soggettivamente allo stesso modo: si tratta allora di una conoscenza soggettiva (fenomenica: basata sull'apparenza), ma oggettiva (universale, uguale per tutti gli uomini). Ad accomunare Protagora e Kant è poi il fatto che per entrambe l'uomo può conoscere (e non può fare altrimenti) le cose come gli appaiono, quasi come se avesse davanti agli occhi delle lenti colorate non rimuovibili che gli fanno vedere il mondo in un determinato modo. Tuttavia, il Kant della Dissertazione è pienamente convinto che si possa conoscere anche il noumeno, accanto al fenomeno: vale a dire, che se la conoscenza fenomenica avviene attraverso il filtro dello spazio e del tempo e ci fa vedere le cose non come sono, ma come appaiono, tuttavia esiste la conoscenza noumenica, che ci fa cogliere le cose in sè, come oggetti del pensiero. Nella Critica della ragion pura , invece, spiegherà che è conoscibile solo il fenomeno e che in realtà, mentre lo spazio vale solo per il mondo esterno, il tempo, invece, oltre a valere nell'interiorità, vale anche per l'esterno: infatti anche le percezioni esterne diventano qualcosa di interiore a me (quando vedo un libro blu, è una sensazione di qualcosa di esterno, ma come sensazione è interna, perchè il blu entra nella mia testa, nel mio interno: e qui regna il tempo). Sempre nella Critica della ragion pura , Kant spiega che non si possono conoscere le cose in sè, ma le si possono comunque pensare: penso alla penna conosciuta fenomenicamente, la percepisco e la inquadro intellettualmente: rifletto sul fatto che al di là della penna c'è la penna in sè, da cui derivano tutti gli elementi sensibili, e sebbene io possa pensarla, tuttavia non posso conoscerla, perchè dovrei avere un concetto privo di contenuto della penna, senza relazioni con altre cose: dovrei avere il noumeno.
LA CRITICA DELLA RAGION PURA
Nella Dissertazione , dunque, (e qui sta la differenza rispetto alla Critica della ragion pura) vi è una netta contrapposizione tra conoscenza sensibile e conoscenza intellettuale, sebbene si tratti comunque di due diversi modi di conoscere il medesimo oggetto: esso viene conosciuto fenomenicamente sotto il profilo dell'apparenza, filtrato cioè dallo spazio e dal tempo (che non appartengono alle cose in sè, ma appartengono alle cose come fenomeni). Tuttavia, essendo spazio e tempo uguali per tutti gli uomini, tutti vedono le cose nella medesima maniera, in modo oggettivo (ossia universale). Tuttavia la posizione del Kant della dissertazione si riveste di ambiguità nel momento in cui prospetta la conoscenza della cosa in sè, del noumeno, che sarà invece respinta nella Critica della ragion pura . Per il Kant del periodo critico, conoscere sarà pensare, sì, ma pensare qualcosa di dato dall'esperienza: dove non c'è esperienza non c'è conoscenza. Pare del resto evidente che una cosa, per essere pensata e conosciuta, deve prima essere percepita empiricamente; tuttavia l'esperienza non basta, non c'è conoscenza senza il pensiero: raccolti i dati sensibili, essi devono essere riorganizzati dall'intelletto. Ecco dunque che quei due diversi livelli conoscitivi (intellettuale e sensibile) vengono per così dire ricompattati: nè l'esperienza nè il pensiero, da soli, danno la conoscenza; per pervenire ad essa sono necessari i dati sensibili e l'intelletto che li riorganizzi. Ecco perchè ' senza l'intelletto la nostra conoscenza sarebbe cieca e senza l'esperienza sarebbe vuota '. Kant non riconosce più, nel periodo critico, una netta distinzione tra conoscenza sensibile e conoscenza intellettuale perchè ciascuno di questi due pezzi, se non abbinato all'altro, è inutile. La conoscenza che deriva dall'organizzazione dei dati sensibili da parte dell'intelletto resta comunque fenomenica (mai noumenica), in quanto l'intelletto non è più una fonte autonoma di conoscenza (come era nella Dissertazione); tuttavia la nozione di conoscenza fenomenica assume ora una diversa coloritura: essa implica la collaborazione tra sensi, impiegati nella raccolta dati empirici, ed intelletto, impiegato nell'organizzazione di tali dati; ne consegue che pensare significa unificare , ossia riorganizzare i dati dell'esperienza con l'intelletto. Tuttavia Kant si avvede che non è solo la sensibilità ad avere le sue forme (spazio e tempo), come invece credeva ai tempi della Dissertazione : anche l'intelletto organizza il materiale sensibile attraverso delle forme, che Kant chiama categorie; ecco dunque che nella conoscenza fenomenica opera anche l'intelletto, la cui competenza, invece, nella Dissertazione era riservata esclusivamente alla conoscenza noumenica. Questo non toglie che la conoscenza resti fenomenica, e anche se la cosa in sè posso pensarla, non per questo posso conoscerla. Il contenuto della cosa in sè, però, spiega Kant, é vuoto ed inaccessibile. Tutti questi concetti, pilastri del suo sistema filosofico, Kant li illustra nella Critica della ragion pura (1781) , il suo capolavoro, con la cui pubblicazione prende il via il periodo critico. Esso viene così definito per via dei titoli delle tre grandi opere che lo caratterizzano (le 3 critiche, della ragion pura, della ragion pratica e del giudizio); in origine, però, la terza critica (quella del giudizio) non era prevista, e le prime due dovevano avere un titolo diverso da quello con cui ci sono giunte: si sarebbero infatti dovute intitolare Critica della ragion pura teoretica e Critica della ragion pura pratica . Bisogna ora spendere due parole sul motivo di questi titoli, in cui compare il termine 'critica' che dà appunto il nome a questa seconda fase del pensiero kantiano. Il termine 'critica' si riconduce inevitabilmente al vocabolario della temperie culturale allora in atto, l'illuminismo, il quale tendeva appunto ad avere con la ragione un approccio critico: la ragione per gli illuministi è l'unico baluardo conoscitivo a disposizione dell'uomo, ed è però uno strumento che presenta degli evidenti limiti. Per evitare che la ragione compia passi, per così dire, più lunghi della gamba e rischi di impelagarsi in questioni che non può risolvere nè le competono, è opportuno giudicare (in greco krinw vuol appunto dire giudicare: da qui l'aggettivo 'critico') sulle sue facoltà e sui suoi limiti. L'assillante quesito volto a scoprire che cosa possa conoscere la ragione e fin dove possa spingersi è presente a partire dalle opere seicentesche (il Novum organum di Bacone, il Discorso sul metodo di Cartesio, il SAggio sull'intelletto umano di Locke) e trova nel Kant della Ragion pura la massima espressione. Egli sostiene che la filosofia debba rispondere a tre quesiti: 1 ) che cosa posso sapere? (e Kant risponde a questa domanda nella Critica della ragion pura ), 2 )che cosa posso fare? (e Kant risponde nella Critica della ragion pratica ), 3 ) cosa posso sperare? (e risponde in ambedue le opere appena citate, sostenendo che è legittimo sperare nell'esistenza di Dio e nell'immortalità dell'anima). Occorre dunque avere un approccio critico con la ragione, giudicandone i limiti ed i difetti: ecco allora che Kant istituisce un vero e proprio tribunale della ragione , dove la ragione é allo stesso tempo imputato e giudice : imputato nel senso che si indaga su quali siano i suoi limiti e il suo campo di applicabilità , giudice nel senso che é proprio lei che indaga e giudica se stessa. In tribunale però non si discutono solo le questioni di fatto, ma anche quelle di diritto: dopo aver spiegato che l'imputato ha agito in quel determinato modo, occorre chiedersi se egli ne aveva il diritto. Non si tratta dunque di indagare sulla ragione esclusivamente per quel che ha fatto, ma anche se aveva o meno il diritto di farlo. Nelle prime pagine della Critica della ragion pura , Kant riprende le tre domande poc'anzi citate cui è tenuta a rispondere la filosofia, e le riformula sotto forma di tre sottodomande: a ) come è possibile una matematica pura? b ) come è possibile una fisica pura? c ) come è possibile una metafisica come scienza ? Con l'ultimo quesito, il pensatore tedesco si chiede se sia possibile una metafisica come scienza e, nel caso lo sia, come debba funzionare. Con le prime due domande, invece, Kant non si chiede se sia possibile una matematica o una fisica pura (poichè egli non nutriva dubbio alcuno sulla fisica matematizzata di Newton), ma come sia possibile, secondo quali modalità. Che siano scienze 'possibili', del resto, lo dimostrano i grandi risultati a cui esse hanno portato: Kant dà quindi per scontato che siano possibili e passa direttamente a chiedersi come lo siano. Sarà poi nell' Ottocento e nel Novecento che la fisica e la matematica verranno messe in discussione e nasceranno le geometrie non euclidee. Per quel che riguarda la metafisica, anche in virtù dei dubbi sollevati da Hume, occorre invece chiedersi in primis se essa sia possibile, e, in caso affermativo, come lo sia. Alla domanda se sia possibile una metafisica come scienza Kant fornisce una risposta articolata e, per molti versi, ambigua, spiegando che la metafisica è un impulso innato nella natura umana: tale natura non si accontenta delle cose fisiche, ma ha bisogno di andare al di là di esse. Kant descrive quest'atteggiamento proprio dell'uomo servendosi di un'immagine: come quando in riva al mare vediamo all'orizzonte la distesa marina più in alto rispetto a quanto non sia, e pur sapendo che si tratta di un'illusione ottica, non per questo smettiamo di vederla più in alto, allo stesso modo sappiamo che la metafisica è una fantasticheria, ma non per questo cessiamo di cedere ad essa, presi da un impulso innato nella nostra natura. Kant quindi riconosce che l'uomo, per sua inclinazione naturale, tende alla metafisica, e vede questa tendenza come positiva; ciononostante, la ragione deve vigilare e deve fare in modo che questa tendenza ad andare al di là del mondo fisico non degeneri in una pretesa. Ma la questione inerente alla metafisica come scienza non si risolve qui: se intendiamo la metafisica in senso letterario come un oltrepassamento delle cose fisiche, allora essa non è possibile come scienza; ma il termine 'metafisica' può anche avere un significato più sfumato e se alla parola conferiamo questo significato, allora una metafisica come scienza è possibile. Sembra dunque che Kant sia il grande distruttore della metafisica (specialmente quando nega ogni possibilità di conoscere la cosa in sè), come Robespierre lo era del regime in vigore prima della Rivoluzione francese, ma in realtà il pensatore tedesco può anche essere considerato come il rifondatore della metafisica, colui il quale le diede fondamenti validi smantellando quelli vacillanti su cui fino ad allora era poggiata. Aristotele aveva inteso la metafisica (che lui chiamava 'filosofia prima') con una duplice valenza: in primis, per metafisica intendeva lo studio delle cose che stanno al di là del mondo fisico, al di là del mondo fenomenico avrebbe detto Kant (e il filosofo tedesco boccia l'ipotesi che una metafisica di questo genere possa essere una scienza), in secundis, però, metafisica era anche lo studio delle caratteristiche generali dell'essere (l'ontologia). Ecco allora che l'idea di una metafisica come scienza delle strutture generali dell'essere non va scartata, se però non la intendiamo come studio delle strutture dell'essere in sè (poichè il noumeno è inconoscibile), ma come studio delle caratteristiche dell'essere che appare a noi, fenomenicamente. Viene rifiutata, dunque, da Kant la metafisica come scienza delle leggi dell'essere in sè, ma viene accettata come scienza dello studio delle leggi dell'essere fenomenico, così come ci appare : del resto le leggi della realtà così come ci appare siamo noi a stabilirle, non nel senso che decidiamo noi come vada il mondo, ma nel senso che le leggi generali del funzionamento della realtà empirica come ci appare derivano dal nostro modo di concepire la realtà . Sì, perchè il nostro approccio con la realtà è soggettivo, in quanto filtrato dalle forme dell'intelletto e dei sensi, ma è oggettivo nel senso che è comune a tutti gli uomini: proprio in virtù di questa oggettività, esistono leggi generalissime della realtà riconosciute da tutti gli uomini, quale ad esempio la causalità: l'idea di fondo che nel mondo esistano rapporti di causa ed effetto rigidamente determinati, per cui ogni fenomeno è causato da un altro fenomeno ed è a sua volta causa di un terzo fenomeno. Queste legge generalissime derivano, secondo Kant, dal nostro modo di conoscere la realtà: come lo spazio e il tempo sono le forme della sensibilità, così le categorie sono le forme dell'intelletto. Proprio la causalità è una delle 12 categorie riconosciute dal pensatore tedesco ed è uno dei modi in cui l'intelletto inquadra ed organizza il materiale sensibile ricevuto filtrato dal tempo e dallo spazio. Se la causalità e le altre categorie non riguardano il mondo come è in sè, ma come ci appare, allora vuol dire che siamo in grado di descrivere un insieme di leggi generali che regolano il mondo: ne consegue che possiamo descrivere le strutture generali dell'essere fenomenico (e non noumenico, che resta inconoscibile), anzi, le possiamo conoscere con la massima certezza perchè abbiamo imposto noi tali leggi: Kant dirà che le possiamo conoscere a priori , ossia prima e indipendentemente dall'esperienza, perchè non ci derivano dall'esperienza, ma sono le leggi stesse che il nostro intelletto impone all'esperienza. Ogni cosa la pensiamo attraverso le 12 categorie (le strutture dell'intelletto) e la percepiamo attraverso lo spazio e il tempo: dunque il mondo che ci circonda è l'insieme del materiale derivatoci dall'esperienza (e che a sua volta deriva dalla cosa in sè, pensabile ma non conoscibile) e filtrato dallo spazio e dal tempo, poi riorganizzato attraverso le 12 categorie: ecco che così abbiamo quel che ci sta intorno. Il mondo quindi sarà costituito da un materiale (le sensazioni, i sensi, ecc) e dalle forme della sensibilità (spazio e tempo) e dell'intelletto (le 12 categorie), che però gli abbiamo dato noi. Quando parliamo di leggi generali della realtà, quindi, non ci riferiamo al materiale della conoscenza, ma alla forma, perchè esse sono la forma della conoscenza: è evidente che la legge di causalità (una delle svariate leggi dell'essere) è una delle forme in cui inquadriamo il materiale, il quale esula dalle leggi generali dell'essere. Ne consegue che, essendo le leggi generali della realtà leggi della realtà come appare a noi, allora le leggi dell'essere fenomenico ci sono perfettamente conoscibili, proprio perchè sono le leggi generalissime che imponiamo alla realtà fenomenica a priori, prima e indipendentemente dalla realtà: ad esempio, ancor prima di entrare in una stanza vuota sappiamo a priori, senza sperimentarlo, che qualsiasi cosa che eventualmente troveremo sarà nello spazio, così come, messa per la prima volta una pentola piena d'acqua sul fuoco, a priori sappiamo che l'accensione della fiamma sarà la causa di qualcosa perchè il principio di causalità ci dice a priori che ogni cosa ne causa un'altra; solo a posteriori (dopo averlo sperimentato) però potremo effettivamente sapere che cosa causi la fiamma accessa sotto la pentola, ma a priori potevamo già dire che qualcosa l'avrebbe causato (perchè a monte rispetto all'esperienza sappiamo già che il mondo è un insieme di rapporti di causa ed effetto): lo scienziato, del resto, non si chiede se succederà qualcosa (perchè lo sa a priori), ma cosa succederà. Ecco quindi che Kant affronta le tematiche su cui si era arrovellato Hume: come si fa a tirar fuori la causalità dall'esperienza? Per Hume non era possibile: il fatto che ci siamo bruciati ogni volta che abbiam messo la mano sul fuoco, non permetteva secondo Hume di tirar fuori la causalità, perchè in fondo non c'è nulla che ci garantisca che ci bruceremo di nuovo quando metteremo la mano sul fuoco: il nostro concetto di causalità si basa, secondo il pensatore scozzese, sull'abitudine, ossia sull'essere certi che A causa B perchè ogni volta che abbiam visto A, abbiamo visto anche B. Kant dà ragione a Hume: il concetto di causalità non lo possiamo tirar fuori dall'esperienza; la causalità l'abbiamo per Kant già nella testa, ha dimensione innatistica: quale effetto deriverà da quella causa lo possiamo solo sapere dall'esperienza, ma che ci sarà una causa lo so a priori. Non è quindi il fatto che io veda due cose in rapporto di causa ed effetto che mi dà il concetto di causalità , ma è il fatto che io abbia insito in me il concetto di causalità che mi rende possibile l'esperienza, cioè il vedere le due cose in rapporto di causalità: concettualmente, prima c'è il concetto di causalità, poi l'esperienza. E, in questo capovolgimento del discorso di Hume, Kant dà per l'ennesima volta ragione a Newton: riprendendo l'immagine della stanza buia, prima c'è lo spazio, e poi, eventualmente, le cose immerse in esso: lo spazio è assoluto, a priori. Però per Kant non esiste oggettivamente lo spazio, è una forma della nostra conoscenza e proprio per questo è a priori, in quanto dipendente dalle forme sensibili soggettive. Ritornando alla questione di partenza, la metafisica (intesa non come scienza delle cose al di là del mondo fisico, ma come scienza delle leggi dell'essere) come scienza è possibile, perchè le strutture della realtà fenomenica le conosciamo perfettamente, perchè siamo noi a imporle, anzi, paradossalmente, si identificano con la nostra mente e con le sue strutture. Ed è proprio in virtù di questa identificazione che Kant impiega la parola metafisica con un terzo significato. Pubblicata la prima edizione della Critica della ragion pura (cui ne seguirà una seconda in cui dissiperà le perplessità e i fraintendimenti), scrive una versione semplificata della Ragion pura, intitolata Prolegomeni ad ogni metafisica che vorrà presentarsi come scienza : se in futuro la metafisica vorrà ancora presentarsi come scienza, bisogna prima chiarire alcuni cose; così suona il titolo. Fa subito capire che Kant non è distruttore della metafisica, ma anzi, ha un rapporto privilegiato con essa; egli si è sempre dichiarato innamorato della metafisica, e non vuole abbandonarla: per alcuni versi, come abbiamo visto, riesce anche a renderla possibile come scienza delle strutture generali della realtà (purchè sia del fenomeno). Kant arriva a definire metafisica l'indagine che lui sta conducendo, l'indagine preliminare sulle strutture della mente umana: sì, perchè se la metafisica come scienza delle leggi generali della realtà è possibile e tali leggi coincidono con la nostra mente (la realtà fenomenica è come la pensiamo), cioè le leggi della realtà sono le leggi del pensiero, ne consegue che possiamo designare col nome di metafisica anche l'analisi che noi facciamo delle strutture delle leggi del pensiero (proprio perchè esse coincidono con le leggi generali della realtà fenomenica, che chiamiamo appunto 'metafisica') . Nella Critica della ragion pura Kant fa un uso frequentissimo dell'aggettivo trascendentale , di matrice Scolastica; egli dice: ' chiamo trascendentale quella conoscenza che non si occupa degli oggetti in sè, ma del nostro modo di conoscere gli oggetti, in quanto questo modo deve essere possibile a priori . L'indagine non verte dunque sugli oggetti, ma sul modo in cui noi li conosciamo, proprio in quanto questo modo deve essere possibile a priori. E' la premessa e condizione di fondo perchè l'esperienza rigorosa si possa fare: debbo già avere il concetto di causalità per poterci costruire un'esperienza che sia rigorosa, sulla scia della scienza newtoniana. Ma dato che dall'esperienza non può derivarmi il concetto di causalità (come ha acutamente notato Hume), esso può derivarmi solo dall'ammissione di forme a priori in cui inquadrare l'esperienza: è solo ammettendo che esista nella struttura della mia mente il concetto di causalità che l'esperienza del mondo potrà essere rigorosa. Kant impiega il termine trascendentale, da un lato, per definire l'indagine da lui svolta sulle forme a priori della conoscenza e tutte le partizioni della Critica della ragion pura (estetica trascendentale, logica trascendentale, dialettica trascendentale), ma, dall'altro lato, per aggettivare le forme stesse della conoscenza. Usa però diverse espressioni per designare le forme della conoscenza: spesso le definisce 'pure', perchè analizzate in sè in quanto pure, depurate dall'esperienza, senza materiale sensibile all'interno: per intenderci, una cosa è lo spazio in quanto tale, un'altra cosa è lo spazio riempito di oggetti; una cosa è sapere che c'è la causalità, un'altra è la causalità applicata all'esperienza, al fuoco e alla pentola: e si intitola Critica della ragion pura in questo senso, cioè come giudizio sulla ragione depurata dall'esperienza). Altre volte Kant le definisce 'a priori' le forme, esse sono cioè condizioni che vengono prima dell'esperienza. Infine, e qui arriviamo al dunque, le chiama trascendentali: con questo termine egli intende una via di mezzo tra il trascendente platonico (le idee) e l'immanente aristotelico (le forme); da notare, però, che Kant impiega termini tipici della metafisica (materia, forma) in ambito gnoseologico, proprio in quanto concepisce la conoscenza come una costruzione che necessita di materia (i dati sensibili) e di forma (le 12 categorie più lo spazio e il tempo). Il termine trascendentale viene quindi adoperato nella sfera gnoseologica: Kant si chiede se le forme della conoscenza siano immanenti o trascendenti, se derivino dall'esperienza e se ad essa siano applicabili o se siano trascendenti e applicabili a qualcosa al di là dell'esperienza, e risponde che esse sono trascendentali, ovvero non derivano dall'esperienza, ma contemporaneamente non si può dire che siano legittimamente applicabili al di là dell'esperienza : non possono trascendere l'esperienza, ma non derivano da essa. Fin dalle prime pagine della Critica della ragion pura Kant prova ad individuare quale sia la domanda cui è tenuta a rispondere la ragion pura ed esamina, in termini generali, la risposta a tale quesito. Arriva alla conclusione che le varie domande che si era posto (sono possibili una matematica pura, una fisica pura e una metafisica, come scienze?) sono sintetizzabili in un solo interrogativo: come sono possibili dei giudizi sintetici a priori ? Kant ravvisa infatti tre diversi tipi di giudizio: i giudizi analitici a priori (quelli che Hume e Leibniz avevano chiamato, rispettivamente, 'relazioni tra idee' e 'verità di ragione') : sono giudizi analitici a priori quelli in cui si cerca di far emergere il predicato tramite un'analisi (ossia una scomposizione) dei concetti del soggetto; la sentenza 'il triangolo ha 3 lati' è un giudizio analitico a priori, in quanto è implicito nel concetto di triangolo il fatto di avere tre lati: nel dire che il triangolo ha 3 lati non si aggiunge qualcosa al soggetto, anzi, lo si estrae da esso. Vengono detti analitici perchè implicano un'analisi tutta interna al concetto del soggetto, e a priori perchè non derivano nè dipendono dall'esperienza, ma sono veri ancor prima di essa. E il fatto di essere a priori ne garantisce, secondo Kant, la necessità e l'universalità. Hume aveva a suo tempo insistito (e Kant gli dà ragione) che dall'esperienza in quanto tale, la necessità non viene mai fuori: sulle esperienze posso fare affermazioni, ma tali affermazioni non avranno mai carattere di assoluta necessità: dire che il fuoco causa il bruciore della mano posta su esso, è frutto dell'esperienza, ma non c'è nulla, a rigor di logica, che mi garantisca che la prossima volta che metterò la mano sul fuoco proverò bruciore; è solo un fatto di esperienza, nel senso che ogni volta che ho messo la mano sul fuoco mi sono bruciato, e dunque, sono convinto (per abitudine) che rimettendola, mi brucerò di nuovo. Da ciò che deriva dall'esperienza io non riesco ad avere oggettività, universalità e necessità. Gli analitici a priori hanno una loro oggettività (dire che il triangolo ha 3 lati è assolutamente corretto, universale e necessario) proprio perchè a priori. Accanto agli analitici a priori ci sono i giudizi sintetici a posteriori (che Hume e Leibniz avevano chiamato, rispettivamente, 'materie di fatto' e 'verità di fatto') che altro non sono se non i giudizi dell'esperienza. Sono detti a posteriori perchè vengono dopo l'esperienza, e sintetici perchè aggiungono qualcosa al concetto del soggetto. Kant si avvale di un'efficace immagine per illustrarli: i corpi. Se dire che un corpo occupa dello spazio è un giudizio analitico a priori perchè lo evinco dall'analisi del concetto del soggetto stesso (il corpo) senza bisogno di far uso dell'esperienza (perchè è già contenuto nel concetto stesso di corpo), dire che un corpo è pesante è un giudizio sintetico a posteriore perchè non rientra nel concetto di corpo l'avere un peso ma deriva, a posteriori, dall'esperienza attraverso la sintesi, cioè attraverso la costruzione di qualcosa di nuovo intorno al soggetto (il corpo). Infine Kant introduce i giudizi sintetici a priori (assenti in Hume e Leibniz) per far fronte all'aporia in cui era incappato Hume: il pensatore scozzese, infatti, si era accorto che nè i giudizi analitici a priori nè quelli sintetici a posteriori sono sufficienti. Sì, perchè gli analitici a priori sono assolutamente certi, ma assolutamente tautologici, non dicono cioè nulla di nuovo, che non fosse già presente nel soggetto; i sintetici a posteriori, invece, arricchiscono la nostra conoscenza perchè, tramite l'esperienza, ci dicono qualcosa di nuovo, che in partenza non era presente nel soggetto, ma hanno il difetto di non fornire assoluta oggettività, universalità e necessità. A questo punto, fatta crollare la metafisica, Hume si fermava perchè non riusciva a proseguire; Kant invece vuole andare avanti e si dimostra meno critico del previsto. Egli infatti accetta come scontata la validità oggettiva della scienza newtoniana e, in particolare, della conoscenza umana: non si chiede nemmeno se siano possibili aa matematica, la fisica e la conoscenza umana, ma si chiede direttamente come, in che modo, siano possibili, convinto che possibili lo siano. In altri termini, Kant è certo che sia possibile una scienza assoluta e proprio per questo non si accontenta di quanto ha detto Hume, il quale era pervenuto alla conclusione che la sostanza e la causalità fossero indimostrabili razionalmente e si basassero su una convinzione psicologica dettata dall'abitudine. La domanda kantiana 'come è possibile la conoscenza umana?' implica un'ulteriore domanda, 'come sono possibili giudizi sintetici a priori?': sì, perchè solo con gli analitici a priori e coi sintetici a posteriori non c'è via d'uscita, si ha una conoscenza certa ma tautologica con i primi, e una conoscenza ricca ma non assoluta coi secondi. E Kant vuole invece una conoscenza ricca e varia, ed ecco che tira in ballo i giudizi sintetici a priori, l'unione dei due precedenti giudizi. Del resto la scienza di Newton, di cui Kant si professa strenuo difensore, ha la pretesa di essere costituita da giudizi allo stesso tempo sintetici e a priori, perchè pretende di costruire (con l'abbinamento di esperienza ed inquadramento razionale della medesima) una scienza che contemporaneamente arricchisca di conoscenze nuove e che le fornisca non in termini probabilistici (come era per Hume), ma oggettivi, necessari e universali, validi sempre e per chiunque. In Hume questa esigenza di una conoscenza certa era assente perchè gli analitici a priori davano una conoscenza certa ma tautologica, mentre i sintetici a posteriori ne davano una ricca ma incerta: la certezza della conoscenza nel pensatore scozzese era meramente psicologica, basata sull'abitudine (ogni volta che ho messo la mano sul fuoco mi son bruciato, quindi in base a questa 'abitudine' sono convinto che se la rimetto mi ribrucio), ed esulava del tutto dalla razionalità. E proprio la razionalità della conoscenza è l'obiettivo cui mira Kant: la certezza della conoscenza non deve solo essere psicologica (basata sull'abitudine), ma fondata in modo preciso. Ne consegue che i giudizi che fanno davvero la scienza devono per forza essere, al tempo stesso, sintetici (devono dirmi qualcosa di nuovo) e a priori (non derivati dall'esperienza , ma ad essa precedenti, puri, non soggetti ad essere confermati e smentiti il giorno dopo). D'altronde Hume sbagliava agli occhi di Kant già nel ritenere che i giudizi matematici fossero analitici, mere relazioni tra idee, del tutto tautologici: per Hume svolgere un'espressione algebrica voleva dire prendere il concetto, analizzarlo, ed estrarne le conseguenze, con l'ovvio risultato che l'intera matematica finiva per essere nient'altro che un'enorme tautologia. Per Kant, invece, i giudizi matematici sono inevitabilmente sintetici: quando mi trovo di fronte all'espressione 7+5=12 non è vero che analizzo i concetti di 7 e di 5 e ne estraggo il 12 come relazione tra idee; al contrario, 7+5 è un materiale di lavoro, un'indicazione dell'operazione che devo svolgere. Ne è un fulgido esempio il fatto che i bambini contino servendosi di oggetti materiali, come ad esempio le palline: le raggruppano e le affiancano una alla volta e, una volta sommate, ottengono il risultato. Ed è quello che, secondo Kant, facciamo anche noi mentalmente. Ora, è evidente che un'operazione di questo genere non rientra nell'ambito delle relazioni tra idee, dei giudizi analitici a priori. Si tratta di un'operazione sintetica, di costruzione (e non di analisi), ma nessuno si sognerebbe per questo di considerarla a posteriori, come derivata solo e soltanto dall'esperienza, sebbene si usino materialmente delle palline: ciascuno di noi considera le verità matematiche del tipo 7+5=12 come assolutamente certe, e le certezze (come visto) derivano dagli analitici a priori. Del resto le verità matematiche non possono derivare dall'esperienza, nè tantomeno essere da essa smentite: se un prestigiatore infila prima 7 e poi 5 palline in un recipiente e, mostrandoci il contenuto, non vediamo 12 palline, abbiamo la certezza che c'è stato un trucco, nessuno penserebbe mai che possano essere più o meno di 12. Questo vuol dire che se anche l'esperienza ci fa vedere che 5+7 non dà 12, noi continuiamo ad essere certi che 7+5 dia 12; tutto questo dimostra l'a-priorità (sono giudizi certi, non derivati nè sconfessabili dall'esperienza) e la sinteticità (sono giudizi costruiti nel corso della dimostrazione). E' dunque possibile una matematica pura, certa, razionale che funziona in base ai giudizi sintetici a priori; ma è possibile anche una fisica pura, basata sui giudizi sintetici a priori? Kant dice di sì e lo dimostra avvalendosi del principio della causalità. Esso consiste nel sapere che ogni fatto è causato da un altro fatto, ed è lui stesso causa di un altro: Hume aveva detto che tale principio non era un giudizio nè analitico a priori (nel concetto di causa non è insito quello di effetto) nè sintetico a posteriori (se, messa la mano sul fuoco, mi brucio una o due volte non ve la metterò più, per via di una certezza psicologica, derivata dall'abitudine che ogni volta che ho messo la mano sul fuoco mi sono bruciato e ho maturato la certezza che il bruciore è causato dal fuoco; ma non posso avere la certezza razionale che il fuoco causi il bruciore perchè non c'è nulla che mi garantisca che la prossima volta mi brucerò la mano mettendola sul fuoco). Ma Kant non è d'accordo e sostiene che anche la causalità sia un giudizio sintetico a priori: sintetico perchè nel concetto di causa non è implicito quello di effetto (non è dunque un analitico), ma a priori perchè ancor prima dell'esperienza so già che la mia azione causerà qualcosa: così lo scienziato si chiede non se la sua azione sortirà un effetto, ma quale effetto, poichè nella sua testa è già presente la certezza che il fatto è stato causato e sarà causa di qualcosa (ma di cosa?): sarà poi l'esperienza che mi dirà di cosa sarà causa, riempiendo questa forma della conoscenza insita nel mio intelletto. Anche la fisica, dunque, nei suoi princìpi generalissimi, è costituita da giudizi sintetici a priori, non derivati dall'esperienza: anzi, ne sono il fondamento, perchè posso indagare attraverso l'esperienza su quale causa ha sortito quell'effetto proprio perchè ho già nella mia testa il concetto di causalità. I giudizi fisici sono dunque sintetici (perchè non analitici), e a priori (perchè non derivati dall'esperienza: l'idea che un fatto ne causa un altro è già presente in me, ancor prima che io lo constati empiricamente). La matematica e la fisica ci danno dunque conoscenze nuove (sono giudizi sintetici) e certe (sono giudizi a priori, non smentibili dall'esperienza). Resta da rispondere alla domanda: 'come, in che modo, sono possibili i giudizi sintetici a priori?' La risposta Kant la fornisce sostanzialmente in quella che lui definisce ' rivoluzione copernicana del pensiero '. Per spiegare il movimento dei pianeti, Copernico aveva cambiato il punto di vista, trasferendolo dalla Terra al Sole e aveva in questo modo dato un'interpretazione corretta; anche Kant, sulle orme di Copernico, attua un radicale cambiamento di punto di vista, convinto che guardando le cose dalla nuova posizione esse risultino più facilmente spiegabili. La rivoluzione che Kant attua, però, è meramente gnoseologica: la maniera tradizionale di interpretare la conoscenza è sempre stata quella di concepirla come un'assimilazione del soggetto all'oggetto, quasi come se la mente fosse uno specchio che diventa uguale alla realtà che su essa viene riflettuta o come se fosse la cera che prende la forma del sigillo (l'oggetto) impressole. Questa concezione era valida sia per gli empiristi sia per gli innatisti; il ragionamento che spinge Kant a respingere questo approccio con la conoscenza e a stravolgere il punto di vista è questo: se la conoscenza deve essere rigorosa (come pretende la scienza newtoniana e come crede Kant), ebbene Hume ci ha insegnato che non può esserlo nell'esperienza, perchè negli oggetti non può essere ravvisato tale rigore e l'esperienza sarà sempre e comunque modificabile da ulteriori esperienze . Ora, per Hume la conoscenza poteva essere solo probabilistica, proprio perchè nell'oggetto non vi è il rigore auspicato dalla scienza; ma Kant vuole che essa sia rigorosa, e di conseguenza, non potendo trovare tale rigore nell'oggetto, sposta il punto di vista sul soggetto. La certezza della conoscenza la si può avere solo ipotizzando che essa non giri attorno all'oggetto, ma al soggetto: dunque non sarà più il soggetto ad essere modificato dall'oggetto, ma, viceversa, sarà l'oggetto ad essere modificato dal soggetto. In questo modo si spiega perchè per Kant il carattere oggettivo (universale e necessario) della conoscenza derivi dal suo carattere soggettivo: nella nostra testa abbiamo strutture conoscitive soggettive, ma essendo esse uguali in tutti gli uomini, garantiscono che la conoscenza sia oggettiva, cioè universalmente valida. Ne consegue che dobbiamo ipotizzare che quel che conosciamo è un'organizzazione che noi uomini impartiamo al materiale conoscitivo datoci dall'esperienza, cosicchè non conosciamo le cose come sono in sè, ma le conosciamo tutti allo stesso modo. Dunque è il soggetto a costruire l'oggetto , e non viceversa: è il soggetto che riceve il materiale dell'esperienza filtrato dal tempo e dallo spazio e che lo costruisce in base alle sue forme mentali. Tuttavia, Kant non è certo un idealista alla Berkeley, bensì è convinto che il materiale della conoscenza derivi dalla realtà (dalla cosa in sè), anche se filtrato dalle forme sensibili e da quelle intellettuali. Dunque l'oggetto è costruito dal soggetto, e proprio in virtù di questo processo costruttivo si tratta di una conoscenza oggettiva (universale). Gli idealisti di inizio '800 diranno che la realtà esiste solo nella misura in cui è prodotta dal soggetto: Kant non vuol certo dire questo, per lui le cose non le creo io, esistono indipendentemente da me come cose in sè; io non le produco, ma le costruisco per me; e gli altri le costruiscono come me perchè hanno strutture mentali analoghe. La posizione di Kant, come accennato, fu erroneamente intesa come berkeleyana, ma Kant spiegò di non essere affatto idealista, sottolineando che la cosa in sè esiste indipendentemente ed è immodificabile: il mio processo di costruzione dell'oggetto riguarda il fenomenico, non il noumeno; del resto costruisco l'oggetto con il materiale dell'esperienza in ambito fenomenico, e non dal nulla (come era e sarà per gli idealisti). Esaminiamo ora la partizione della Critica della ragion pura : dicevamo che essa è caratterizzata da un'estrema, quasi esasperata, sistematicità, tanto da voler sembrare più sistematica di quanto non sia in realtà: alcune problematiche del pensiero kantiano, se si entra nel dettaglio scavando a fondo, si scopre che non sono così ben chiarite come vorrebbe far credere il pensatore tedesco. La Critica della ragion pura si divide in: DOTTRINA TRASCENDENTALE DEGLI ELEMENTI e DOTTRINA TRASCENDENTALE DEL METODO. Nella Dottrina degli elementi Kant vorrebbe, come aveva fatto Locke, individuare gli elementi costitutivi della ragion pura; nella Dottrina del metodo, invece, vuole dare, in base all'analisi degli elementi della ragion pura, un metodo all'operatività della ragione. In realtà, poi, la Dottrina del metodo occupa solo un sesto dell'opera perchè, descrivendo gli elementi nella Dottrina degli elementi, finisce per descriverne anche il funzionamento, che in teoria avrebbe dovuto spiegare solo nella Dottrina del metodo. La Dottrina degli elementi si suddivide, a sua volta, in ESTETICA TRASCENDENTALE e LOGICA TRASCENDENTALE ; e quest'ultima, a sua volta, si divide in ANALITICA TRASCENDENTALE e DIALETTICA TRASCENDENTALE. Infine, l'Analitica si divide in ANALITICA DEI CONCETTI e ANALITICA DEI PRINCIPI. Riassumiamo la partizione in uno schema:
DOTTRINA TRASCENDENTALE DEGLI ELEMENTI - DOTTRINA TRASCENDENTALE DEL METODO: la DOTTRINA DEGLI ELEMENTI si divide poi in
1 ) ESTETICA TRASCENTALE - LOGICA TRASCENDENTALE : la LOGICA si divide poi in
2 ) ANALITICA TRASCENDENTALE - DIALETTICA TRASCENDENTALE : l'ANALITICA si divide poi in
3 ) ANALITICA DEI CONCETTI - ANALITICA DEI PRINCIPI
Esaminiamo ora l'Estetica e la Logica: la parola 'estetica' viene intesa nella Critica della ragion pura in modo singolare: a quei tempi si stava diffondendo in ambito filosofico l'uso della parola estetica come la intendiamo noi oggi, come filosofia che riguarda la categorie del bello; in questa accezione la usa anche Kant stesso nella Critica del giudizio , dove si occupa appunto del bello e del brutto. Ma nella Critica della ragion pura, dove non si occupa nè del bello e del brutto ( Critica del giudizio ) nè del bene e del male ( Critica della ragion pratica ), bensì si occupa del vero e del falso, per estetica egli intende, riprendendo il termine nel suo significato etimologico, 'sensazione '. Dunque l' Estetica trascendentale si occuperà dell' aisqhsis , della parte sensibile della conoscenza, quella parte cioè che si occupa della conoscenza che viene prima di quella intellettuale; 'trascendentale' perchè si occupa delle forme sensibili presenti in noi in modo innato, ma applicabili solo all'esperienza. La Logica trascendentale si occupa invece dell'intelletto, del logoV ,dell'elaborazione mentale dei dati sensibili compiuta dall'intelletto; 'trascendentale' perchè studia le forme dell'intelletto. A questo punto, poi, Kant distinguerà tra un uso legittimo e un uso illegittimo dell'intelletto: il grande errore della metafisica, ai suoi occhi, risiede nella pretesa di usare l'intelletto anche dove non c'è disponibilità di materiale sensibile; dei sensi, invece, non si può fare un uso illegittimo, in quanto essi non possono andare al di là di nulla. Con le categorie dell'intelletto, invece, ci si trova di fronte a forme non derivate dall'esperienza, ma l'intelletto si illude di poterle usare al di là dell'esperienza proprio in quanto non derivano da essa. La dimostrazione stessa dell'esistenza di Dio poggia su questa falsa pretesa: a furia di applicare il principio di causalità nel mondo, l'intelletto finisce per volere adoperare tale principio (che non deriva dall'esperienza) anche al di là di essa. E così arriva ad applicare il principio di causalità a Dio stesso. Ecco allora che quando l'intelletto vuole costruire conoscenze senza l'apporto dell'esperienza, finisce per creare concetti vuoti, privi di contenuti empirici. Proprio dai due diversi usi, legittimo e legittimo, che si possono fare dell'intelletto deriva la suddivisione della Logica trascendentale in Analitica trascendentale (che studia l'uso legittimo delle categorie e dell'intelletto, ovvero in abbinamento all'esperienza) e Dialettica trascendentale (che invece studia l'uso illegittimo dell'intelletto, il risultato a cui tale uso porta e le precauzioni da prendere per prevenirlo). Nell'Analitica trascendentale si serve della parola 'intelletto' per designare l'intelletto impiegato nel suo uso legittimo, mentre nella Dialettica trascendentale designa col nome di 'ragione' l'intelletto impiegato in modo illegittimo, in modo meta-empirico. Ecco dunque che il termine 'ragione', che nel titolo Critica della ragion pura era sinonimo di 'mente', passa qui a caricarsi di un valore negativo. Kant desume da Aristotele i termini Analitica (l'uso legittimo dell'intelletto) e Dialettica (l'uso illegittimo dell'intelletto): lo Stagirita, infatti, definiva 'analitica' la sua logica, mentre designava col termine 'dialettica' la logica più debole, quella che partiva da basi incerte. Con Kant, è importante ricordarlo, si assiste ad una metamorfosi della nozione di 'intelletto' ( verstand in tedesco): a partire da lui, infatti, esso viene inteso come la facoltà che mira a conoscere il finito, mentre la ragione ( vernunft in tedesco) è intesa come la facoltà che mira a conoscere l'infinito . Tuttavia, se il puntare all'infinito della ragione per Kant è del tutto illegittimo, esso diventa legittimo per i Romantici e, soprattutto, per Hegel. Esaminiamo ora le varie parti della Critica della ragion pura , partendo dall' ESTETICA TRASCENDENTALE : essa riguarda la sfera sensibile della conoscenza, le cui forme sono lo spazio e il tempo. Tra le varie considerazioni che si possono subito fare, la prima è che spazio e tempo non si trovano sullo stesso livello: il tempo è, secondo Kant, più importante perchè mentre lo spazio è esclusivamente la forma della sensibilità esterna (le cose che percepisco fuori di me), il tempo è la forma sia della sensazione interna (la percezione dei miei stati interni), sia della forma esterna: quando percepisco nello spazio qualcosa che è a me esterno, paradossalmente esso viene interiorizzato ed io lo percepisco dentro di me, sotto l'influsso del tempo. Infatti, percepiamo la successione dei fenomeni fisici che avvengono nello spazio proprio in virtù dell'azione del tempo, entro il quale li percepiamo. Kant definisce sia lo spazio sia il tempo con il nome di intuizioni pure , ossia intuizioni a priori, sganciate dall'esperienza: se per noi 'intuizione' dà l'idea di una conoscenza che scavalca la ragione (e così è anche per i Romantici), storicamente (dal Medioevo fino a Kant) per intuizione si intende qualsiasi forma di conoscenza immediata e proprio perchè immediata Kant non la concepisce come uno scavalcamento della ragione, ma semplicemente come conoscenza sensibile priva di mediazioni. Ecco dunque che l'oggetto dei sensi è l'intuizione, dal momento che colgo l'oggetto senza mediazioni . Resta però da chiarire quali siano per Kant gli oggetti dei sensi. Un libro, per lui, non è un oggetto dei sensi, ma è già il risultato di un processo di unificazione di dati semplici (il blu, la forma parallelepipedo, la composizione atomica, ecc); il libro è dunque un oggetto di esperienza, e non dei sensi; oggetti dei sensi saranno invece il blu del libro o la forma parallelepipedo del libro, quelle che Locke aveva chiamato 'idee semplici' e che unificate con l'intelletto mi danno appunto il libro. Le intuizioni, dunque, vengono secondo Kant ricevute (e qui dà ragione a Locke) dalle nostre facoltà sensibili in modo puramente passivo: in questa parte della conoscenza, qualcosa che esiste fuori ed indipendentemente da noi agisce in qualche modo sui nostri organi di senso trasmettendoci alcune sensazioni, che sono il risultato dell'azione dell'oggetto sul soggetto. Ed è in questo modo che percepisco in modo del tutto passivo il blu del libro, come azione dell'oggetto libro su di me, soggetto percipiente; tuttavia l'oggetto (la cosa in sè) io non lo conosco, proprio come per Locke non potevo conoscere la sostanza. Tuttavia, se per Locke non potevo conoscere la 'cosa in sè' (che lui chiamava 'sostanza') ma di essa potevo conoscere le qualità che le inerivano (il blu, ad esempio), per Kant non posso nè conoscere la cosa in sè, nè le qualità che le ineriscono: il blu che ricevo passivamente con gli organi di senso, appartiene al mondo fenomenico, non alla cosa in sè, lo ricevo cioè filtrato dallo spazio e dal tempo. La passività con cui riceviamo i dati sensibili non implica che li si ricevano non filtrati dalle forme della sensibilità (spazio e tempo). L'esempio che porta Kant in merito è quello delle lenti colorate. Immaginiamo di avere sugli occhi delle lenti amovibili: riceviamo i dati sensibili dall'esterno ma, non potendoci togliere le lenti, li vediamo irrimediabilmente modificati, sotto colorazioni che non appartengono a loro. Così è per lo spazio e il tempo: tutte le cose che vediamo e percepiamo, sono irrimediabilmente filtrate dallo spazio e dal tempo, i quali ci impediscono di vedere la cosa in sè, proprio come le lenti non ci fanno vedere le cose come sono in realtà. Tuttavia Kant non si dimostra poi molto critico e dà per scontato che lo spazio e il tempo non appartengano alle cose in sè: non c'è nulla, in fin dei conti, che ci vieti di ritenere che essi appartengano alla cosa in sè. Kant, riscontrando che spazio e tempo sono forme a priori della nostra conoscenza (ossia li abbiamo nella testa ancor prima di fare una qualsivoglia esperienza) , si sente autorizzato a sostenere che non appartengano alla cosa in sè, mentre in realtà si sarebbe legittimamente autorizzati a dire che potrebbero non appartenerle come appartenerle; quando del resto ho sugli occhi delle lenti verdi, non c'è nulla che mi autorizzi a dire che quello che per via delle lenti vedo verde, poi in realtà non sia per davvero verde: non posso saperlo. Fatta questa precisazione, proseguiamo nell'analisi dell'Estetica: spazio e tempo sono dunque intuizioni pure, cioè oggetti di conoscenza immediata e a priori. Per Kant, sarà invece conoscenza mediata quella riguardante tutto ciò che è il risultato di un'unificazione operata dall'intelletto: il libro (unificazione del colore blu alla forma parallelepipedo, ecc), la casa (unificazione del colore giallo alla forma parallelepipedo), e così via. Sarà invece una conoscenza immediata quella che non implica un'unificazione dell'intelletto.Che esistano intuizioni empiriche, singoli dati immediati dell'esperienza (come la percezione del blu) è evidente; le intuizioni, è altrettanto evidente, sono sempre dati singoli e proprio in questo si distinguono dai concetti, i quali implicano che ci sia un insieme di dati unificati sotto un comune denominatore, sotto un unico 'cappello'. Per esempio, si può citare il concetto di uomo: che rapporto sussiste tra il concetto di uomo e i singoli uomini? Kant definisce questo rapporto di ' sussunzione ' spiegando che i singoli uomini sono sussunti sotto il concetto di uomo; essi non fanno parte di tale concetto, ne sono solo esempi, ossia casi particolari. Il concetto di uomo, invece, è generale, una percezione che mi permette di pensare contemporaneamente tutti gli uomini, che di esso sono casi particolari. Ma la domanda che si pone Kant a questo punto è: lo spazio e il tempo sono concetti? No, sono intuizioni, ma non sono empirici, bensì a priori: sono dunque intuizioni a priori. Non sono nell'esperienza, ma la fondano; del resto, Kant si chiede, che rapporto c'è tra i singoli spazi e lo spazio? Forse che, come nel caso del concetto di uomo, gli spazi sono singoli casi dello spazio? No, di certo, ne sono parti. Il che vuol dire che lo spazio e il tempo non sono concetti, ma realtà singole divisibili in parti. Ma proprio in quanto realtà singole, sono intuizioni, non derivate dall'esperienza, ma a priori (sono cioè puri). Detto questo, Kant allarga il discorso e dice che lo spazio e il tempo sono i fondamenti, rispettivamente, della geometria e dell'aritmetica , riportandosi all'assillante quesito: come sono possibili una matematica e una fisica pure? L'aritmetica e la geometria, spiega Kant, sono possibili proprio perchè esistono lo spazio e il tempo come intuizioni pure: abbiamo detto che i giudizi matematici sono a priori, ma sintetici, cioè dicono cose assolutamente certe e 'nuove', arricchenti. Lo stesso vale per il tempo e per lo spazio: essendo puri (a priori), tutto ciò che sarà fatto nello spazio e nel tempo godrà di assoluta certezza e rigore. Se fossero concetti (e non intuizioni), potrei da essi derivare analiticamente (cioè come relazione tra idee, senza costruzioni) alcune cose, così come dal concetto di uomo posso derivare che i singoli uomini (supponendo di non averne mai visto uno) avranno le braccia, le gambe e gli occhi: non saprò di che colore saranno gli occhi, ma saprò con certezza, estraendolo dal concetto stesso di uomo, che li avranno. Quella riguardante i concetti è una concezione a priori, ma analitica: conosco il concetto di uomo prima di aver visto un uomo in carne ed ossa, tuttavia quel che tale concetto mi dice, pur dicendomelo con estremo rigore, non è arricchente, è una tautologia. L'aritmetica e la geometria, invece, per Kant non sono deduttive e tautologiche, non tiro fuori concetti da concetti: quando conto, costruisco il numero, così come costruisco le figure geometriche. L'aritmetica è costruita nel tempo (prendo mentalmente l'unità e l'aggiungo), mentre la geometria è costruita nello spazio (traccio figure in esso), ma anche nel tempo: il che implica che si possa applicare l'aritmetica alla geometria; lo posso fare proprio perchè hanno in comune l'essere nel tempo. Il fatto che spazio e tempo siano intuizioni e non concetti permette a Kant di applicarli all'aritmetica e alla geometria: se fossero stati concetti, cioè dotati di analiticità oltrechè di a-priorità, sarebbero stati inaccostabili all'aritmetica e alla geometria, caratterizzate dalla sinteticità. Oltre ad aver spiegato che sono possibili una matematica e una fisica pure come giudizi sintetici a priori, Kant risponde anche all'interessante quesito: come mai possiamo applicare la matematica al mondo fisico ? Se i Pitagorici e Platone avevano risposto a tale domanda sostenendo che la matematica è applicabile al mondo fisico perchè i numeri (esistendo in sè e non essendo il frutto della nostra immaginazione) fanno parte di tale mondo, e se con Galileo fisica e matematica erano diventate un binomio indisgiungibile (tanto da diventare impossibile una fisica senza matematica, come invece la intendeva Aristotele), Kant, nell'attuare la sua riforma copernicana, inverte il discorso: la matematica, la geometria e l'aritmetica sono costruite nelle forme pure della mia conoscenza, ma essendo il mondo da me conosciuto puramente fenomenico (filtrato cioè dallo spazio e dal tempo), non c'è nulla di strano se applico ad esso la matematica e la geometria, che io stesso ho costruito nello spazio e nel tempo: il mondo fenomenico al quale applico la matematica è inquadrato nello spazio e nel tempo, proprio come la matematica e la geometria. E' ovvio che la matematica sia applicabile al mondo fenomenico; tuttavia non posso sapere se essa lo sia al mondo noumenico, della cosa in sè. Fatte queste considerazioni, Kant asserisce che tempo e spazio sono ' empiricamente reali, ma trascendentalmente ideali ', riprendendo la distinzione tra oggettivo e soggettivo: tempo e spazio appartengono oggettivamente alla realtà, purchè la concepiamo in termini fenomenici: essi, cioè, appartengono alle cose viste fenomenicamente, non alle cose in sè. Ecco perchè se parliamo di cose fenomeniche, spazio e tempo sono reali, esistono davvero, mentre se parliamo di cose in sè, essi sono 'ideali', cioè non sono veri, non esistono. Spazio e tempo, come Kant ha già ampiamente illustrato, appartengono al soggetto e al mondo fenomenico che il soggetto si crea. Passiamo ora all'analisi dell' Analitica trascendentale dei concetti : la Logica (il cui studio verte sull'intelletto) si suddivide in Dialettica (uso illegittimo dell'intelletto) e Analitica (uso legittimo dell'intelletto); e quest'ultima è incentrata sul tentativo di rispondere alla domanda 'come è possibile una fisica pura?'. Se la sensibilità riceve passivamente i dati sensibili, all'intelletto spetta unificarli: pensare vuol dire unificare. Se la sensibilità ha a che fare con le intuizioni (pure, come lo spazio e il tempo, ed empiriche, come i dati che riceviamo nello spazio e nel tempo), l'intelletto deve invece vedersela con i concetti, anch'essi suscettibili di a-priorità o di empiricità. L'intelletto si distingue dai sensi, in primo luogo, per il fatto di essere una funzione attiva e non immediata: unifica i dati ricevuti passivamente dai sensi. Saranno concetti empirici quelli che nascono dall'unificazione di dati dell'esperienza: ad esempio, il concetto di uomo deriva dall'unificazione di dati sensibili, esula dall'a-priorità. Il concetto di uomo è un concetto generale, dato dall'unificazione di tanti uomini in un concetto unico, di cui tutti gli uomini sono casi particolari; ma accanto a questo tipo di concetto generale, Kant riconosce anche come concetto l'uomo in carne ed ossa che mi sta davanti. A differenza di Platone (per cui 'concetto' era l'uomo pensato, mentre l'uomo che mi trovo davanti era un dato della sensibilità), Kant riconosce come concetti sia l'uomo pensato (concetto generale), sia l'uomo materiale che mi sta davanti (concetto particolare) , in quanto anch'esso è il frutto di un'unificazione di dati sensibili (il colore della pelle, degli occhi, la forma a uomo, ecc) in un concetto (l'uomo). In altri termini, quel che mi è dato nei sensi sono solo i singoli dati sensibili (il colore della pelle, degli occhi, la forma 'uomo', ecc), mentre l'uomo che mi sta davanti è già l'unificazione elaborata dall'intelletto di tali dati sensibili. Ecco dunque che per Kant l'intelletto può tanto unificare dati sensibili (per darmi l'uomo che mi sta davanti) quanto concetti (i vari uomini che ho visto per darmi il concetto generale di uomo). Accanto ai concetti empirici vi sono i concetti puri , che Kant chiama anche 'categorie' o 'forme dell'intelletto': essi sono le forme attraverso le quali unifichiamo i dati della sensibilità. Così come le intuizioni sono i filtri attraverso i quali filtriamo passivamente i dati sensibili, le categorie sono 'scatole vuote' in cui unifichiamo i dati arrivati all'intelletto attraverso il filtraggio passivo delle intuizioni. La categoria di sostanza sarà quella forma dell'intelletto in cui unifico i singoli dati sensibili per ottenere il libro che fenomenicamente mi sta davanti; lo stesso valga per la categoria della causalità. Dunque, con lo spazio e col tempo i dati sensibili venivano passivamente ricevuti, con le categorie vengono invece unificati : se spazio e tempo erano filtri passivi, le categorie (o 'concetti puri') sono delle 'funzioni', degli strumenti con cui l'intelletto lavora: anzi, esso non è altro che l'insieme delle categorie. Sì, perchè l'intelletto unifica i dati in tanti modi e ciascuno di essi è proprio una delle 12 categorie. Interessante è poi il termine 'categoria', che Kant (come con i termini 'analitica' e 'dialettica') mutua da Aristotele, pur cambiandone il significato: lo Stagirita illustrava le categorie e le loro funzioni sia nella Metafisica sia nella Logica, in quanto convinto che le strutture della realtà e del pensiero fossero identiche (forse proprio perchè il nostro intelletto fa comunque parte della realtà ed è soggetto alle sue leggi); Aristotele spiegava, infatti, il principio di non-contraddizione spiegando ora che non è possibile che la stessa cosa abbia due caratteristiche contradditorie, ora che non è possibile che il pensiero predichi contemporaneamente due cose opposte, sottolineando appunto l'identità tra strutture dell'intelletto e della realtà. Ecco allora che per lui le 10 categorie erano i 10 modi fondamentali dell'essere, ma anche i 10 modi fondamentali di predicare l'essere, di dire che qualcosa è (il termine 'categoria', del resto, vuol proprio dire 'predicato'). Ora, Kant è pienamente d'accordo con Aristotele sul fatto che le strutture della nostra mente coincidano con quelle della realtà , ma, a differenza dello Stagirita, lo dimostra razionalmente, servendosi sempre dell'inversione di rapporti creata dalla rivoluzione copernicana. Il mondo fenomenico che noi conosciamo, spiega Kant, è costruito da noi attraverso il nostro pensiero (tramite le categorie), ed è dunque ovvio che le leggi del nostro pensiero saranno le stesse che governano il mondo. Le 12 categorie che determinano le leggi del nostro pensiero passano così a determinare anche le leggi del mondo fenomenico: esse diventano dunque al tempo stesso strutture fondamentali del nostro pensiero e della realtà (fenomenica). Ecco dunque che la categoria di sostanza è una forma (un 'concetto puro', a priori, che sta prima dell'esperienza) della mia mente, ma nel mondo fenomenico vi sono sostanze. A questo punto, Kant introduce due forme di deduzione delle categorie, la 'deduzione metafisica' (una sorta di rassegna delle categorie) e la 'deduzione trascendentale' (una sorta di discussione delle categorie). Non bisogna farsi trarre in inganno dalla parola 'deduzione': se nella 'deduzione metafisica delle categorie' riveste il significato più ovvio e più familiare di derivazione di dati di fatto da altri dati di fatto, essa viene invece ad assumere, nella 'deduzione trascendentale delle categorie', un significato desueto, di stampo giudiziario: la deduzione trascendentale è cioè la dimostrazione non di un fatto ( quid facti ), ma della legittimità di un fatto ( quid juris ). Non c'è nulla da dimostrare sul fatto che io applico le categorie (le forme dell'intelletto) al materiale sensibile, è ovvio: se vedo la sostanza libro davanti a me è proprio in virtù dell'unificazione dei dati sensibili attraverso le categorie; occorre piuttosto dimostrare se sia un'azione legittima o meno. Ed ecco dunque che affiora la domanda centrale della Critica della ragion pura : la nostra conoscenza ha un valore o è una grande illusione? L'applicazione delle forme mentali (categorie) alla realtà è legittima o no? La ragione è chiamata a giudizio a difendere la propria attività. Nel dimostrare come e perchè è legittimo l'uso delle categorie nell'ambito dell'esperienza, Kant dimostrerà anche, implicitamente, che l'applicazione di tali categorie al di là dell'esperienza è illegittima. E così Kant, dopo aver in precedenza spiegato che è possibile una 'matematica pura' tramite la formulazione di giudizi sintetici a priori, risponde positivamente alla domanda 'come è possibile una fisica pura?' : la scienza newtoniana è applicabile alla realtà ed è assolutamente certa perchè le leggi del nostro pensiero sono le stesse che governano la realtà . Tuttavia Kant risponde negativamente alla domanda 'è possibile una metafisica pura?' : le categorie, pur essendo a priori (non derivandoci cioè dall'esperienza) non sono applicabili al di là di essa: ne consegue che una metafisica pura è inattuabile. Detto questo, Kant dà per scontato che le forme dell'intelletto, in quanto funzioni unificatrici, ci permettano di esprimere giudizi, ossia di formulare proposizioni: i giudizi, infatti, non sono altro che un atto di unificazione. Quando dico 'la penna è sul tavolo', ho unificato con l'intelletto la sostanza penna e il fatto di essere sul tavolo. Dunque in ogni giudizio entra in gioco, tramite le categorie, l'intelletto. Ora Kant ritiene che le categorie in azione nei giudizi siano le stesse che costituiscono gli oggetti, quasi come se le categorie agissero in due modi diversi: se dico 'l'uomo è un animale', è chiaro che sto facendo una predicazione relativamente alla sostanza 'uomo'; però la categoria di sostanza entra in gioco anche nel costituire il singolo oggetto, il libro ad esempio, dato dall'unificazione dei dati sensibili. In altre parole, per Kant ogni categoria ha due ruoli, uno di tipo trascendentale (della categoria di sostanza sarà il costituire il libro come oggetto), l'altro di tipo logico (della categoria di sostanza sarà il cosituire i giudizi di sostanza , come 'l'uomo è un animale'). Siccome le categorie hanno due ruoli distinti, ne deriva che se mi pongo la domanda 'quali e quante sono le categorie', per rispondere basterà individuare i tipi di giudizio: e ad ogni tipo di giudizio corrisponderà, ovviamente, una determinata categoria. Per ogni modalità di giudizio ci sarà una categoria : ecco che questa è la deduzione metafisica delle categorie. Ci sarà dunque una tavola avente 12 giudizi, affiancata da un'altra avente 12 categorie.
TAVOLA DEI GIUDIZI:
1 ) QUANTITA' : universali , particolari , singolari
2 ) QUALITA' : affermativi , negativi , infiniti
3 ) RELAZIONE : categorici , ipotetici , disgiuntivi
4 ) MODALITA' : problematici , assertori , apodittici
TAVOLA DELLE CATEGORIE:
1 ) QUANTITA' : unità , pluralità , particolarità
2 ) QUALITA' : realtà , negazione , limitazione
3 ) RELAZIONE : inerenza e sussistenza ( substantia et accidens ) , causalità e dipendenza ( causa ed effetto ) , comunanza ( azione reciproca tra agente e paziente )
4 ) MODALITA' : possibilità-impossibilità , esistenza-inesistenza , necessità-contingenza
Ma perchè sono divisi in 4 gruppi? Ad ogni tipo di giudizio corrisponde una categoria, abbiam detto, dunque dovrebbero essere 12 gruppi, e non 4. In realtà, ogni giudizio appartiene non ad una tipologia di giudizio, ma a 4 tipologie di giudizio; ogni giudizio avrà dunque la sua caratteristica relativa, rispettivamente, alla quantità, alla qualità, alla relazione e alla modalità. Ogni singolo giudizio appartiene contemporaneamente a 4 tipologie diverse a seconda se lo guardiamo dal punto di vista della quantità, della qualità, della relazione o della modalità. In concreto, vuol dire che il singolo giudizio 'l'uomo è un animale' rispetto alla categoria della quantità è un giudizio universale (tutti gli uomini sono animali, non alcuni), sotto la categoria della qualità è affermativo (mi dice cosa è, non cosa non è), sotto la categoria della relazione non è ipotetico o disgiuntivo (non mi dice 'l'uomo o è questo o è quell'altro'). Ogni giudizio avrà dunque 4 caratteristiche che lo definiscono. Le categorie sono in azione nei giudizi: in essi l'intelletto unifica appunto grazie alle categorie. Per chiarire in che senso i giudizi contengano le categorie, è opportuno soffermare l'attenzione sui Prolegomeni : in essi Kant distingue tra giudizi di sensibilità e giudizi empirico-oggettivi . Prendendo in mano una penna e dicendo che in questo momento ho una serie di percezioni (colore, forma, ecc) e che contemporaneamente ho anche la sensazione di peso, mi trovo di fronte ad un giudizio di sensibilità; ho davanti a me due gruppi di percezione (la forma, il colore, ecc da una parte, e il peso, dall'altra) e li percepisco contemporaneamente. Se invece dico che la penna è pesante, le cose cambiano: mi trovo di fronte ad un giudizio empirico-oggettivo. Certo, il 'materiale' rimane lo stesso, perchè appunto i dati sono gli stessi (l'insieme di percezioni che danno la penna più l'insieme di quelle che danno il peso); tuttavia diversa è la forma. Nel primo caso (giudizio di sensibilità) sto facendo affermazioni su di me, soggettive (sono io che percepisco questo e quest'altro), che non riguardano gli altri; nel secondo caso (giudizio empirico-oggettivo), invece, vi è un carattere oggettivo, in quanto il riferimento è alla penna (e non al soggetto) e riguarda oggettivamente tutti (la penna è infatti pesante per tutti). Dunque, pur essendo identica la materia, cambia la forma del giudizio; e questo cambiamento è dovuto al fatto che in un giudizio è presente la categoria, nell'altro no. Infatti, dire che la penna è pesante è un giudizio di categoria sotto la forma 'substantia et accidens' (mi dice che la penna è e ne predica la pesantezza), mentre dire che io percepisco il colore e la forma e poi la pesantezza è un giudizio che esula dall'oggettività, proprio perchè sganciato dalle categorie. Sono le categorie stesse, infatti, proprio perchè presenti a priori nella mente di tutti, che trasformano in oggettivo quel che è soggettivo. E, venendo al dunque, la deduzione metafisica è proprio una sottrazione in cui ad un giudizio oggettivo-empirico sottraggo i dati sensibili (giudizio di sensibilità), ottenendo così la categoria . Ritorniamo all'esempio della penna: al giudizio 'la penna è pesante' sottraggo i dati sensibili (il colore, la forma, ecc) ed ottengo la categoria di sostanza. In molti casi la terza categoria è una sintesi delle prime due: prendiamo il caso del 2° gruppo, delle qualità dei giudizi; i giudizi possono essere affermativi (è una penna), negativi (non è una penna) e infiniti (questa è una non-penna). Il caso infinito, è evidente, è una sorta di sintesi degli altri due, in quanto esclude una possibilità (non è una penna) e ne lascia aperte altre (potrebbe essere un libro o un quaderno). E così Kant può finalmente chiarire le questioni lasciate aperte da Hume: le categorie non sono traibili dall'esperienza, ma ne sono le condizioni a priori; non potrò mai dedurre la categoria di causalità dal fatto che messa la mano sul fuoco, esso ha causato bruciore alla mia mano, perchè sarà sempre smentibile da una nuova esperienza; tuttavia capisco che il fuoco causa bruciore alla mia mano proprio in virtù della categoria di causalità insita a-prioristicamente nella mia testa. Dunque la fisica newtoniana è possibile proprio perchè la si costruisce all'interno delle forme a priori e nessuna conoscenza potrà mai realizzarsi se non inquadrata in quelle forme. Siamo infatti noi che diamo la forma al materiale ricevuto passivamente dai sensi e tale forma sarà valida oggettivamente, ovvero per tutti, perchè tutti abbiamo tali forme. Detto questo, però, Kant deve ancora spiegare come siano possibili 'giudizi sintetici a priori': con la deduzione metafisica, Kant ne ha in parte dato una spiegazione, illustrando come essi non diano un sapere tautologico (e quindi non siano analitici, bensì sintetici), ma arricchente (come quando faccio un esperimento, non so esattamente che risultato avrò, ma so che un risultato ci dovrà essere), e come siano a priori, cioè puri, oggettivi, universali e necessari, a monte dell'esperienza. Ora, dopo aver illustrato come siano possibili e come di fatto noi li utilizziamo, Kant deve però spiegare se essi siano legittimi: ed è proprio quello che fa con la deduzione trascendentale delle categorie . Ai dati di fatto dell'esperienza noi applichiamo le categorie: le applichiamo anche nel più banale giudizio che formuliamo. Ma è una cosa legittima? Siamo autorizzati o agendo in tal modo deformiamo la realtà? La posta in gioco è alta: conoscenze acquisite in migliaia di anni potrebbero andare in fumo se risultasse un'azione illegittima l'applicazione delle categorie. Kant chiarisce subito che la deduzione, ovvero il processo per verificare la legittimità, non era necessario nel caso dello spazio e del tempo perchè si trattava di una ricezione passiva di dati sensibili, in cui non si poteva scegliere se applicare o meno lo spazio e il tempo come forme a priori; si era costretti ad applicarli e non si poteva fare diversamente. Con le categorie, siamo invece di fronte ad un'attività unificatrice dell'intelletto sull'esperienza, e occorre dunque capire se sia lecito o meno agire in tal modo. Kant spiega però che se arriveremo a dimostrare che, così come non è necessaria la deduzione per lo spazio e per il tempo (proprio perchè non si danno percezioni se non nello spazio e nel tempo), anche per quel che riguarda l'intelletto, se i dati sensibili ci vengono dati direttamente nell'intelletto, il gioco è fatto. Certo, almeno in apparenza, sembra proprio che il dato sensibile non ci sia dato nelle categorie, nel pensiero, ma nei sensi: il pensiero sembra essere un qualcosa che si aggiunge dopo e opera sui dati sensibili unificandoli. Ma Kant riesce a dimostrare che quanto detto per spazio e tempo è valido anche per il pensiero: i dati sensibili non possono esserci dati se non nel pensiero . L'essere inquadrati dal pensiero fa infatti parte dello stesso dato sensibile, spiegherà Kant, e non ha dunque senso chiedersi se sia un'azione legittima l'applicazione delle categorie, proprio perchè è inevitabile. Dimostrato questo, si sarà risolto il problema. Ma, come sappiamo, per Kant non c'è vera conoscenza se prima dell'attività intellettuale non vi è la raccolta dati sensibili; quanto detto, diventa ora il simmetrico: non ci può essere raccolta dei dati sensibili se non c'è il pensiero, nel senso che ogni dato sensibile è già inquadrato nel pensiero , il quale non interviene in un secondo tempo, come Kant sosteneva prima. Riuscendo a dimostrare che i dati sensibili sono sempre già inquadrati dal pensiero, si cadrà dunque in un caso del tutto analogo a quello dello spazio e del tempo. Nell'impostare quest'ardua dimostrazione, Kant introduce il concetto di Io penso , centrale nella sua filosofia: avrebbe potuto chiamarlo 'Io' o 'Pensiero', ma preferisce l'espressione 'io penso', e spiegheremo perchè. Ora, l'Io penso è la funzione del pensare e, in quanto tale, è la funzione unificatrice (pensare = unificare). Kant si chiede: dico che i dati della sensibilità ci son dati passivamente e poi, in un secondo tempo, interviene l'intelletto ad unificarli; ma appena ci son dati (prima che intervenga l'intelletto ad unificare), non può esservi già una forma di unità? Quando sono davanti alla penna, prima che intervenga la categoria di sostanza dico che percepisco il colore, la forma, ecc e insieme la pesantezza, ma non vi è ancora una forma di unità? Certo che c'è, fa notare Kant; un elemento di unità c'è per forza, e sono io soggetto che ho i due gruppi di percezioni. Ancor prima che entri in gioco l'intelletto ad unificare, i dati sensibili hanno già una sorta di unità per il fatto di essere l'insieme dei dati sensibili da me percepiti : essi sono ricondotti ad un unico orizzonte, sono i dati che percepisco io. Del resto, se non fossero in qualche modo unificati, non potrei nemmeno dire che sono i dati delle mie percezioni. Hume aveva fatto notare che l'Io non è altro che un fascio di percezioni, e che se svuotassimo la testa di ogni contenuto non resterebbe più nulla: per il pensatore scozzese, infatti, non siamo 'cose che pensano', soggetti che pensano altre cose, ma siamo esclusivamente questi pensieri unificati in un fascio. Kant riprende il ragionamento humeano e si accorge che se è vero che siamo un fascio di percezioni, è anche vero che ci deve essere un qualcosa che tiene insieme tale fascio, proprio come in una fascina i legni son tenuti insieme dalla fascina appunto. Dunque le nostre percezioni, ancor prima che su di esse lavori l'intelletto con le sue categorie, sono ricondotte ad un unico orizzonte. Bisogna pertanto ammettere che esista qualcosa che fa sì che tale orizzonte esista, così come ci deve essere qualcosa che tiene insieme la fascina di legni per evitare che essi si disperdano. D'altronde, se ricevessimo le percezioni in modo 'rapsodico', come dice Kant, non potremmo a rigore nemmeno dire che sono nostre percezioni, perchè dire che sono nostre implica che siano già ricondotte ad un unico orizzonte. Ci deve dunque essere un qualcosa che costituisca tale orizzonte che unifica; se è vero che pensare è unificare, è allora altrettanto vero che unificare è pensare. A tenere insieme le nostre percezioni è dunque il pensiero, il lavoro del nostro intelletto e delle sue categorie. Il pensiero è dunque già in azione nei dati della sensibilità. E' quindi legittimo l'uso delle categorie? Sì, perchè il dato sensibile ci viene già dato inquadrato dall'intelletto, e di conseguenza non possiamo fare a meno di applicare le categorie, il che vuol dire che l'uso di esse è per forza legittimo. Già, perchè le nostre percezioni sono da noi sentite come nostre, inquadrate in un unico orizzonte, il che implica che ci debba essere un qualche elemento di unità e, come Kant ha più volte spiegato, a conferire unità alla conoscenza è sempre e soltanto l'intelletto, il quale si trova ad operare sui dati sensibili immediatamente, nel momento stesso in cui ci vengono forniti. Il punto fondamentale del ragionamento kantiano è che le nostre sensazioni, anche le più disparate, sono già un dato unitario, allora in esse opera fin dall'inizio l'intelletto, il solo capace di dare unità, e ne consegue che l'uso delle categorie è legittimo proprio perchè non si potrebbe non applicarle, così come legittimi sono lo spazio e il tempo. L'unità primordiale che mi consente di dire che tutte le percezioni che ho sono mie, radunate sotto un unico orizzonte, Kant la definisce unità qualitativa , proprio per distinguerla dalla categoria di unità: Kant sta infatti parlando non già dell'unità conferita dalla categoria, bensì di quella propria delle sensazioni, forniteci inevitabilmente inquadrate dall'intelletto, ed è per questo che la definisce 'qualitativa'. E così Kant risolve il problema della deduzione trascendentale delle categorie, facendo venir meno la netta distinzione tra sensibilità e intellettualità e spiegando che, propriamente, la sensibilità la riceviamo già inquadrata dall'intelletto, mai da sola, quasi come se il pensiero fosse già intrinseco ai dati sensibili che riceviamo (fenomenicamente). Tuttavia, con l'argomentazione poc'anzi esposta, Kant risponde anche ad un'altra domanda, forse anche più importante della precedente: infatti, dimostrando che l'applicazione delle categorie è legittima ai dati della sensibilità, Kant dimostra anche il simmetrico, ovvero che tale applicazione è illegittima al di là dei dati dell'esperienza . Sì, perchè con la complessa argomentazione con cui ha spiegato che il pensiero nella sensibilità è già, per così dire, a casa sua, e che le categorie sono applicabili alla sensibilità proprio perchè i dati sensibili ci vengono forniti già inquadrati dall'intelletto, Kant ha spiegato che il contrario non può essere: le categorie sono applicabili al mondo sensibile, ma non al di là di esso. Le categorie, pur essendo concetti puri caratterizzati da assoluta a-priorità, sono talmente legate alla sensibilità, che non appena si sganciano da essa e vanno oltre divengono inapplicabili. L'applicazione delle categorie al di là dell'esperienza è illegittima, ma ciò non toglie che l'uomo le abbia indebitamente applicate per secoli al di là dell'esperienza: il caso più clamoroso è quello della dimostrazione di Dio effettuata da Aristotele. Lo Stagirita aveva giustamente notato che ogni cosa è stata causata da un'altra, però, ad un certo punto, usciva dalla sfera dell'esperienza per trovare in Dio la causa ultima di tutte le cose, apllicando la categoria di causalità al di là dell'esperienza. Tutta la Dialettica trascendentale sarà proprio dedicata alla dimostrazione di questo errore che si protrae da secoli e che è innato nell'uomo: Kant addurrà diversi esempi di indebita applicazione meta-empirica delle categorie. Sempre nella Dialettica trascendentale, però, Kant tratta anche la questione dell' Io penso , quello che può essere considerato l'attore del processo di unificazione (unità qualitativa) dei dati sensibili. E' opportuno spendere due parole sul perchè Kant lo chiami 'io penso', ricorrendo ad un verbo, anzichè limitarsi a chiamarlo 'io', con un sostantivo, come aveva fatto Cartesio. Il motivo è molto semplice ed è strettamente connesso all'inapplicabilità delle categorie ad una sfera meta-empirica. L'io penso, quello che è l'attore dell'unificazione qualitativa e che rende legittima l'applicabilità delle categorie, per definizione non può essere anche oggetto di unificazione: dire che l'Io penso, infatti, è il soggetto di un'attività di pensiero e di unificazione e, proprio per questo motivo, non può anche essere oggetto di tale unificazione, proprio come l'occhio, che vede tutto ciò che gli sta attorno, non può vedere se stesso. L'Io penso unifica tutto, ma non può applicare la sua attività categoriale a se stesso; il che porta Kant a negare l'applicabilità delle categorie al soggetto pensante e, in particolare, della categoria di sostanza. Non siamo dunque autorizzati a parlare del soggetto come di una 'sostanza', come invece aveva fatto Cartesio trasformando la funzione del pensare in una cosa ('la cosa pensante'). Come si fa, del resto, a trasformare una funzione in una cosa? E' assolutamente illegittimo; ne consegue che la funzione del pensare non è una sostanza e che, dunque, il soggetto non è una 'cosa pensante'. Siamo di fronte ad una situazione paradossale, in cui al dualismo noumeno-fenomeno si aggiunge un nuovo elemento, l'Io penso. Infatti, potrò parlare di me stesso come fenomeno: Locke ci ha insegnato che esistono un senso esterno (lo spazio) e uno interno (il tempo) e che nel tempo percepiamo una serie di fenomeni interni, quelli che Cartesio attribuiva alla 'cosa pensante' (pensieri, volizioni, ecc) e come dati della sensibilità possono essere oggetti delle categorie, anche di quella di sostanza. Però questo processo è valido solo ed esclusivamente a livello fenomenico: è dunque legittimo parlare di una 'cosa pensante' che fa una serie di cose (pensa, percepisce, ecc) nell'ambito di un'unità, l'io fenomenico. Ed ecco che quindi noi siamo fenomeni di noi stessi, non ci vediamo come siamo realmente, ma come appariamo a noi stessi , come insieme di percezioni, pensieri, ecc unificati in un io. Non può dunque essere vero che quando ci rivolgiamo a noi stessi operiamo in un campo sicuro ed assolutamente certo, come credeva Agostino e la tradizione cristiana a lui successiva. Non conosciamo la nostra essenza, non ci conosciamo noumenicamente, ma solo come appariamo a noi stessi, ovvero fenomenicamente: ci arrivano i dati sensibili dall'esterno, li unifichiamo ed elaboriamo l'idea di spirito e di anima come unione di queste percezioni. Certo, a monte c'è la cosa in sè, il noumeno, ed abbiamo una nostra essenza ben definita che, paradossalmente, ci resta oscura, ma da cui deriva, in qualche misura, ciò che di noi conosciamo. All'io noumenico e all'io fenomenico si aggiunge poi l' Io penso , qualcosa di molto diverso dagli altri due. Non è fenomenico perchè l'io fenomenico è il risultato dell'unificazione di percezioni e l'Io penso è soggetto della funzione del pensare, ma non oggetto, unifica senza essere unificato; e non è noumenico perchè non è la cosa in sè. Anzi, a rigore, sia l'io fenomenico sia l'io noumenico sono due cose (cosa in sè e cosa come appare), mentre l'Io penso no, è una funzione, è la funzione dell'unificare le percezioni sensibili che riceviamo, e ridurlo a 'cosa' vorrebbe dire incappare nell'errore commesso da Cartesio. Detto questo, è bene specificare che le singole categorie sono anch'esse funzioni, sono attive, sono i diversi modi di unificazione di cui dispone l'intelletto: più precisamente, l'Io penso non è altro che l'insieme delle funzioni categoriali . Ciascuna delle diverse maniere di unificazione dell'Io penso è una categoria. Ma, fa notare Kant, una cosa per essere conosciuta deve essere pensata e percepita; l'Io penso in sè è pensabile, sì, ma non percepibile, perchè non è materiale sensibile; ne consegue, dunque, che esso non è conoscibile. Riprendendo la tradizione leibniziana, Kant chiama anche l'Io penso ' appercezione trascendentale ' in quanto esso trasforma le percezioni passive in appercezioni, ovvero percezioni dotate di autocoscienza, percezioni che sappiamo essere nostre. La Logica trascendentale (in cui rientra tutto il discorso sulle categorie finora condotto) si divide in Analitica dei concetti (categorie) e dei princìpi (i giudizi sul mondo derivati dall'applicazione delle categorie, ovvero la fisica pura). Illustrata l'analitica dei concetti, Kant, prima di passare a quella dei princìpi, introduce lo schematismo trascendentale in cui si descrivono gli schemi trascendentali puri. Esso riguarda non l'applicabilità delle categorie, ma la loro concreta applicazione. Essendo le categorie differenti dai dati sensibili, come è possibile che concretamente si possano applicare le singole categorie ai dati della sensibilità? Cosa è che mi permette di applicare la categoria di causalità ad una determinata situazione empirica? Occorre trovare un qualcosa che faccia fronte all'eterogeneità tra categorie e sensibilità e Kant lo trova ipotizzando l'esistenza di una facoltà intermedia, un terreno comune a categorie e sensibilità, e la chiama immaginazione , intesa come la facoltà di produrre 'immagini', schemi intermedi tra categorie e sensibilità (cioè trascendentali appunto) . Gli 'schemi trascendentali', frutto dell'immaginazione, sono determinazioni del tempo secondo regole: ecco che Kant, quel qualcosa di intermedio che stava cercando, l'ha trovato nell'individuazione delle condizioni temporali di una determinata situazione empirica che consentano l'applicabilità di una categoria anzichè un'altra. ' Lo schema della categoria di causalità è la successione nel tempo ', dice Kant: applico concretamente la categoria di causalità quando mi trovo davanti ad una successione nel tempo di determinati fenomeni. Quando, nel tempo, ho messo la mano sul fuoco e mi sono bruciato ogni volta che la mettevo, ecco che ho applicato la categoria di causalità. Allo stesso modo, ' lo schema della categoria di sostanza è la permanenza nel tempo '. Kant trova dunque qualcosa di omogeneo, che vada bene sia alle categorie sia alla sensibilità, proprio perchè lo schema è una regola di applicazione delle specifiche categorie (e in quanto regola è omogeneo all'intelletto, poichè la regola sussume sotto di sè i casi particolari) e il criterio di tale regola sono le situazioni temporali (e il tempo è omogeneo alla sensibilità, ne è una forma), la successione per la causa e la permanenza per la sostanza. Si tratta dunque di una 'regola' che sussume sotto di sè i casi particolari e che costruisco in base alle situazioni temporali. E' da notare che torna anche qui a manifestarsi la superiorità del tempo sullo spazio, sulla quale peraltro Kant aveva già insistito: è nel tempo che si costruisce la regola. A ben pensarci, però, questo discorso sembra del tutto analogo a quello di Hume: in effetti, per molti aspetti è simile, ma si differenzia per molti altri. Mentre per Hume la sostanza era la permanenza nel tempo, per Kant la permanenza è la condizione temporale per l'applicabilità della categoria di sostanza; lo stesso per la successione nel tempo. Causalità e sostanza, per Kant, restano concetti a priori, nei quali inquadriamo i dati dell'esperienza. Per Hume la causalità e la sostanza erano a posteriori, derivabili solo dall'esperienza, e, in quanto tali, non erano oggettive, ma sempre smentibili da una nuova esperienza. Per Kant causalità e sostanza sono concetti puri, a priori; non c'è solo la successione e la permanenza nel tempo, è una categoria a priori. La causalità la applicherò non a qualsiasi situazione empirica, ma solo in presenza di regolare successione temporale. L'oggettività garantita dall'a-priorità, è bene ricordarlo, è meramente fenomenica, sganciata dall'ambito noumenico. Passiamo ora ad esaminare l' Analitica trascendentale dei princìpi : essa rappresenta la conclusione della prima parte della Critica della ragion pura , quella che è solitamente definita 'parte costruttiva', incentrata sulla spiegazione di come l'intelletto conosca legittimamente la realtà fenomenica. La seconda parte ruota invece attorno alla Dialettica trascendentale ed è generalmente nota come 'parte distruttiva', in quanto in essa Kant indica cosa non si deve fare. La soluzione cui Kant perviene nell'Analitica dei princìpi è la celebre rivoluzione copernicana, di cui già abbiamo parlato: le leggi della natura altro non sono che le leggi del nostro pensier, dal momento che è esso stesso a costruire la realtà fenomenica secondo le sue leggi. Non è dunque l'oggetto che modifica il soggetto, ma viceversa. E' il pensiero che costruisce con l' Io penso , unificando la realtà. Le verità a priori che l'intelletto rinviene nella natura sono sempre e solo, dunque, quelle che lui stesso ha messo in essa: l'intelletto assurge così a vero e proprio legislatore della natura. E i princìpi che danno il nome all'Analitica altro non sono che le leggi generalissime della natura: non già le leggi empiriche (traibili dall'esperienza) come le leggi dei gas, bensì le leggi generali a priori che il nostro intelletto pone alla realtà. Tali leggi generali, proprio perchè a priori, stanno a monte dell'esperienza: ad esempio, ancor prima di effettuare esperienze concrete, saprò già che avrò dei rapporti di causa-effetto (legge generalissima) e sarà l'esperienza a dirmi effettivamente a quella data causa quale effetto seguirà. E la fisica pura sulla quale Kant indaga è proprio l'insieme di questi princìpi puri, o leggi generalissime che dir si voglia. Come già accennavamo, Kant ammette la possibilità di una metafisica, se per metafisica intendiamo un'ontologia generale delle leggi che reggono la realtà: la metafisica in questa accezione è possibile e si identifica con lo studio di questi princìpi generalissimi che presiedono all'andamento della realtà. Kant distribuisce questi princìpi in 4 gruppi, proprio perchè 4 sono i gruppi delle categorie: i princìpi, infatti, spiega Kant, derivano in qualche modo dalle categorie. Il primo gruppo dei princìpi è dato dagli assiomi dell'intuizione : hanno come princìpio che ' tutte le intuizioni sono quantità estensive '. Sono 'assiomi' nel senso che sono dati a priori e riguardano le intuizioni, ovvero le percezioni sensibili. Qualsiasi intuizione noi abbiamo, nota Kant, avrà sempre una quantità, una grandezza. Questo gruppo di princìpi, quindi, deriva direttamente dalla 1° categoria, quella di quantità. Tali assiomi, in poche parole, ci dicono questo: pur non sapendo esattamente a quali grandezze ci troveremo di fronte, noi sappiamo già a-prioristicamente che nel fare esperienze nel mondo ci imbatteremo in grandezze; sarà poi l'esperienza a dirci quali saranno di preciso tali grandezze. Il secondo gruppo di princìpi è dato dalle anticipazioni della percezione , che poggiano sul presupposto che ' in tutti i fenomeni il reale che è oggetto della sensazione ha una qualità intensiva, cioè un grado '. Queste 'anticipazioni' ci dicono anticipatamente cose sulle percezioni prima ancora di avere tali percezioni. So già in anticipo, dunque, che tutti i fenomeni (oltre alla 'quantità estensiva' degli assiomi dell'intuizione) avranno, paradossalmente, una quantità relativa alla qualità: una sensazione di colore, infatti, pur essendo una qualità, sarà più o meno intensa, ovvero la sua qualità sarà suscettibile di una 'quantità', di un grado più o meno intenso. Pur non sapendo di preciso quali intensità avrò nelle esperienze, saprò già a-prioristicamente che qualche grado ce l'avrò: sarà poi l'esperienza concreta a dirmi esattamente come saranno tali 'gradi'. Il terzo gruppo è dato dalle analogie dell'esperienza , il cui principio generale è ' l'esperienza è possibile solo mediante una rappresentazione di una connessione necessaria delle percezioni . Sappiamo a priori che vi sono leggi rigorose della natura, poichè essa non è che l'insieme delle leggi del nostro pensiero, le quali (in quanto a priori) sono oggettive e necessarie, dunque rigorose. Le leggi specifiche, poi, sarà l'esperienza a darcele, andando a riempire coi dati sensibili gli schemi a priori. In altri termini, l'esperienza del mondo è possibile solo in quanto esso si configura come un insieme di leggi necessarie. A questo punto, Kant risponde ad una domanda fondamentale, sulla quale il mondo filosofico si era sempre interrogato: dai Presocratici in poi si era data per scontata l'esistenza di un principio della realtà, sebbene nessuno fosse stato in grado di dimostrarlo razionalmente. Kant dice che non c'è bisogno alcuno di dare una dimostrazione empirica di tale principio proprio perchè esso non deriva dall'esperienza, ma dalle leggi del pensiero da noi imposte alla natura. Il 'principio' (che si basava poi sull'idea che nulla si crea, nulla si distrugge e tutto si trasforma) è semplicemente una legge di funzionamento del nostro pensiero, non esiste nella realtà noumenica, nel mondo come è in sè. Il quarto gruppo, infine, è dato dai postulati del pensiero empirico in generale : so a priori che qualunque cosa troverò nel mondo sarà o possibile (è possibile se inquadrabile negli schemi della nostra conoscenza) o reale (quando non solo è coerente con le leggi del nostro pensiero, ma è anche presente effettivamente nella realtà empirica, e non solo nel pensiero) o necessaria (se le condizioni dell'esperienza implicano quel determinato dato di fatto: se qualunque esperienza implica quel dato di fatto, allora esso è necessario). Sarà in altri termini necessaria se dimostrabile in base ad una legge universale della natura. A questo punto Kant distingue tra ' natura guardata da un punto di vista materiale ' ( natura materialiter spectata ), ovvero l'insieme delle cose che ci circondano, in ultima istanza l'intera realtà fenomenica, e ' natura guardata da un punto di vista formale ' ( natura formaliter spectata ): la natura vista 'formalmente' sta a monte di quella vista 'materialmente' (empiricamente) ed è la natura vista con le leggi generalissime del nostro pensiero . Queste leggi generalissime, spiega Kant, saranno giudizi sintetici a priori: ad esempio, il giudizio di causalità è a priori perchè assolutamente necessario e sintetico perchè il concetto di effetto non è già presente implicitamente nel concetto di causa, ma devo 'costruirlo'. Per avere una fisica pura sono dunque necessari i giudizi sintetici a priori, dotati di assoluta rigorosità (sono a priori) e capaci di dare conoscenze nuove, non tautologiche (sono sintetici). Ed essi ci sono nella natura (fenomenica), poichè è il nostro stesso intelletto ad attribuirglieli: le leggi rigorose che governano il nostro pensiero le ritroviamo anche nella natura, il che rende possibile una fisica pura, assolutamente rigorosa. Dunque la natura guardata da un punto di vista formale, ovvero attraverso le leggi generalissime che regolano il mondo, non è altro che la fisica pura, che Kant ha dimostrato possibile. La natura guardata da un punto di vista materiale, invece, comprenderà sì le forme generalissime della realtà, ma, accanto ad esse, vi saranno anche i dati sensibili. Detto questo, possiamo passare all'analisi della Dialettica trascendentale : se l'Analitica trattava l'uso legittimo dell'intelletto nel mondo empirico, la Dialettica si occupa invece del suo uso illegittimo meta-empirico. 'Dialettica' è per Kant questo uso indebito dell'intelletto, mentre invece 'dialettica trascendentale' é l'analisi critica che egli fa della dialettica. L'intelletto come facoltà che mira a conoscere il finito Kant lo chiama 'intelletto' appunto, mentre la facolta dell'intelletto che punta a conoscere l'infinito, la totalità, la chiama 'ragione': si tratta dunque di usi diversi della stessa facoltà. L'intelletto riguarda una conoscenza finita e limitata all'esperienza (come ad esempio: da che causa deriva questo specifico effetto?), mentre la ragione è una vana pretesa di raggiungere l'infinito. Kant aveva costruito la deduzione metafisica delle categorie partendo dai giudizi, poichè ogni giudizio è dato dall'unione del predicato e del soggetto; ora, egli si pone il problema di tirar fuori le forme della conoscenza razionale, della ragione: accanto alle intuizioni pure (forme della sensibilità) e ai concetti puri (forme dell'intelletto) avremo ora anche le idee (forme della ragione). Le idee sono, in altri termini, i concetti puri della ragione e Kant dà loro il nome di idee ispirandosi a Platone. Come per Platone le idee erano per le cose sensibili modelli da imitare senza mai poter essere raggiunti, anche per Kant esse sono concetti di assoluta perfezione gnoseologica, proprio perchè implicano totalità (l'infinito). Tali concetti, spiega Kant, sono irraggiungibili dall'esperienza perchè essa non potrà mai 'riempirli' con i dati sensibili (come invece faceva con i concetti puri dell'intelletto) proprio perchè si tratta di concetti infiniti (ciò che è infinito non può essere 'riempito'). L'esperienza, infatti, è sempre finita e non potrà dunque mai riempire concetti infiniti quali sono quelli della ragione. Tuttavia, se per Platone le idee erano concetti esistenti di per sè e legittimi, per Kant, al contrario, esse sono elaborazioni della mente umane alle quali non corrisponde mai pienamente l'esperienza sensibile. In definitiva, le idee sono il risultato dell'applicazione illegittima delle categorie al di là del mondo empirico . La conoscenza, infatti, è 'percepire e pensare', ma qui vado al di là, penso senza percepire, quindi non ho conoscenza. Come si tirano fuori queste idee? Come è la loro 'deduzione metafisica'? Le idee saranno non 12 (come le categorie), ma 3, e Kant le tira fuori dalle tipologie dei sillogismi (e non dai giudizi, come aveva fatto per le categorie). Aristotele si era dedicato allo studio dei sillogismi categorici, quelli in cui le premesse erano categoriche ('Socrate è uomo': la premessa mi dice che una determinata cosa è così); gli Stoici avevano invece studiato i sillogismi ipotetici (se A, allora B) e disgiuntivi (o è A o è B); i giudizi ipotetici sono dunque quelli in cui la premessa è un giudizio ipotetico (se nevica, fa freddo; nevica, dunque fa freddo), i sillogismi disgiuntivi quelli in cui essa è un giudizio disgiuntivo. Kant li applica per tirar fuori le idee , muovendo dalla constatazione che mentre i giudizi si limitano a constatare il legame tra 2 fatti nella realtà e hanno carattere finito (se accendo il fuoco sotto la pentola, l'acqua in essa bolle), i sillogismi invece non danno nuova conoscenza, ma organizzano sistematicamente conoscenze già acquisite con i giudizi. Così, se i giudizi legano tra loro 2 fatti (predicato + soggetto), i sillogismi uniscono invece a 3 a 3 i giudizi: ogni sillogismo è infatti costituito da 2 giudizi (premesse) + 1 giudizio (conclusione). E ogni premessa di un sillogismo è considerabile come conclusione di un sillogismo: fin qui siamo di fronte ad un lavoro legittimo, fin tanto che i sillogismi si limitano a costruire una rete sempre più sistematica di giudizi. I sillogismi diventano invece illegittimi nel momento in cui vengono presi come strumenti di conoscenza: se ad esempio seguo la concatenazione causale nel mondo empirico e poi salto oltre (convinto che tutto sia effetto di una causa) e risalgo ad una causa incausata che causa tutto (Dio) sto effettuando un passaggio illegittimo; infatti non riorganizzo più conoscenze acquisite coi giudizi, ma ne costruisco di nuove. Questa pretesa illusoria della mente umana nasce dal fatto che le categorie sono trascendentali (non derivate dall'esperienza, ma applicabili solo e soltanto ad essa): la ragione sente che le categorie non nascono dall'esperienza e si illude pertanto di poterle applicare anche ad un terreno che non sia l'esperienza. Kant parla dunque di idee trascendentali, anche se forse è più corretto definirle trascendenti, perchè vanno oltre l'esperienza, nel vero senso della parola; Kant preferisce però chiamarle 'trascendenti' perchè in fondo, pur essendo concetti che vanno oltre il mondo fisico, sono pur sempre una forma di conoscenza: accanto ad un uso illegittimo, Kant ammetterà anche un uso legittimo delle idee. Dalle 3 tipologie di sillogismi, ciascuna delle quali rappresenta la pretesa di spingersi oltre unificando ulteriormente, deriveranno 3 idee trascendentali (anima, mondo e Dio) dalle quali, a sua volta, derivano le 3 pretese scienze su cui si era concentrato Wolff (psicologia razionale, cosmologia razionale e teologia razionale). Con la ragione, dunque, creiamo concetti infiniti (le idee) in modo del tutto illegittimo, perchè applichiamo le categorie metafisicamente, cercando di raggiungere la totalità infinita. Ci troviamo di fronte alla fallace pretesa di conoscere la totalità dei fenomeni: ma tale totalità, paradossalmente, non è più un fenomeno, poichè va al di là di quel che può essere frutto dell'esperienza; non essendo mai data la totalità dei fenomeni nell'esperienza, essa si colloca in un ambito meta-empirico, e non è più un fenomeno, bensì un noumeno. Così, per quanto strano possa sembrare, la totalità dei fenomeni è un noumeno. Ritornando ai sillogismi, quello categorico dà il concetto infinito di anima, quello ipotetico dà il concetto infinito del mondo e, infine, quello disgiuntivo dà il concetto infinito di Dio. Se applicassimo correttamente i sillogismi, non arriveremmo mai a tali concetti infiniti e la nostra conoscenza non ne ricaverebbe nulla di veramente nuovo, verrebbe solamente riorganizzata in modo sistematico; tuttavia siamo spinti per inclinazione naturale e per il fatto che le categorie sono trascendenti, a volerle applicare anche in una sfera metafisica, avvalendoci dell'apporto dei sillogismi come veri e propri mezzi per ampliare la nostra conoscenza, facendo con essi non più passaggi meramente logici, bensì passaggi illegittimi che esulano dall'esperienza. Esaminiamo a fondo ciascuno dei sillogismi: il primo è il sillogismo categorico , dato dall'unione di 3 giudizi categorici (e A e B) . Ogni giudizio categorico è costruito attraverso la predicazione di un attributo rispetto ad una sostanza: 'Socrate è uomo', 'l'uomo è un animale', ecc. In ciascun giudizio categorico, come abbiamo detto, c'è un termine che funge da soggetto e uno che funge da predicato, ma il predicato di quel dato giudizio può essere soggetto di un altro: ad esempio, nei due giudizi 'l'uomo è un animale (predicato)' e 'ogni animale (soggetto) è un essere vivente', la parola animale fa da predicato prima e da soggetto poi. C'è solo un caso in cui la cosa in questione può solo fungere da soggetto ed è il caso di quella che Aristotele chiamava 'sostanza individuale': Socrate, Gorgia, Anassagora, ecc. potranno sempre e soltanto essere soggetti di un giudizio, mai predicati. Potrò dire che 'Socrate è uomo', ma non potrò mai dire che 'l'uomo (o qualsiasi altra cosa) è Socrate'. Tramite i sillogismi categorici risalgo la scala dei giudizi categorici e dovrei poter arrivare ad un soggetto che faccia, per così dire, da punto di partenza e che non possa essere predicato in nessuna proposizione: si arriva dunque, spiega Kant, ad un'idea (concetto puro della ragione) che sia soggetto senza essere predicabile di nessun altro giudizio. Tale idea è l'anima; e da essa deriva la presunta psicologia razionale, ovvero la pretesa di dire cose sull'anima. Stesso discorso vale per il sillogismo ipotetico , costruito con l'unione di 3 giudizi ipotetici: anche qui risalgo una scala (se A, allora B; se B, allora C; se C, allora D, ecc). Nella nostra esperienza creeremo effettivamente delle catene, magari anche parecchie, ma saranno pur sempre finite. Il salto meta-empirico lo si effettua invece passando ad esaminare la totalità della serie di cause ed effetti, pensando di poterla completare. E la totalità infinita dei rapporti di causa-effetto è proprio l'idea del mondo. Questa totalità infinita, però, non ci è mai data empiricamente, è il sillogismo che viene applicato in maniera meta-empirica e crea l'idea di mondo; da essa deriva la cosmologia razionale, ovvero la pretesa di dire cose sul mondo. Infine, abbiamo il sillogismo disgiuntivo , costruito coi giudizi disgiuntivi (o A o B): con tale sillogismo, scavalcando l'esperienza, potrei costruire il concetto di un qualcosa che abbia in sè tutte le possibilità positive. Ed è appunto in questo modo che nasce, secondo Kant (il quale qui riprende l'idea di coincidentia oppositorum ), l'idea di Dio, cioè ciò in cui tutte le alternative possibili possono stare insieme. Tale idea, però, è nettamente superiore rispetto alle due precedenti ed è per questo che Kant le attribuisce anche il titolo di ideale della ragion pura . A questo punto, Kant si sente in grado di affermare il teismo, ovvero il carattere di unitarietà e personalità di Dio (è uno ed è un Dio-persona): si tratta di un concetto a priori della mente umana. A livello logico, è evidente che nei concetti intensità ed estensione sono inversamente proporzionali: tanto più un concetto sarà 'intenso', ovvero ricco di dettagli, e tanto minore sarà l' estensione, ovvero le cose sussunte da quel concetto. Il concetto di 'vivente' sussumerà sotto di sè un sacco di casi (uomini, animali, piante, ecc); se però aumento l'intensità dicendo 'vivente razionale', l'estensione dimuisce perchè non saranno più sussunti nel concetto di 'animale razionale' gli animali e le piante, ad esempio. Se accettiamo questo ragionamento, essendo Dio la sommatoria di tutte le alternative possibili, allora trattasi di un concetto infinitamente intenso; ma se un concetto più è intenso e meno è esteso, allora il concetto puro di Dio (che è intenso all'infinito) non può che sussumere un unico esemplare; dunque Dio è unitario. Dal momento che sussume sotto di sè anche intelligenza e pensiero, oltre all'infinità di altre qualità positive (essendo un concetto infinitamente intenso), allora Dio è un Dio-persona, perchè intelligenza e volontà sono caratteristiche che ineriscono ad una persona. Kant con questo ragionamento non ha dimostrato l'esistenza di Dio, ha solo lavorato intellettualmente sull'essenza. Illustrati i sillogismi, esaminiamo ora a fondo le tre idee che derivano dall'illegittimo uso che facciamo di essi. L' idea di anima è data dalla presunta somma della totalità delle esperienze interne. Partendo dal fatto che abbiamo fenomeni interni ed essi sono attribuibili ad un'unica sostanza, perveniamo all'idea di anima. Si tratta di un'idea, perchè sta al di là dell'esperienza, non è quel che effettivamente percepiamo fenomenicamente, è in termini noumenici. Allo stesso modo, la somma della totalità dei fenomeni esterni è l'idea di mondo (idea perchè tale totalità non la cogliamo mai empiricamente, ma con uno slancio illegittimo dell'intelletto). L'idea di Dio, invece, è data dalla somma della totalità dei possibili oggetti immaginabili (fenomeni + noumeni). Tutte e 3 sono idee trascendentali, però Dio è anche ideale della ragion pura perchè è il punto di fuga di noumeni e fenomeni, è l'idea di un qualcosa cui tutta la realtà fa riferimento. E' 'ideale della ragion pura' proprio perchè è ciò che si propone di studiare la ragione pura, sebbene esso giaccia al di là dell'esperienza. Ma, nel dettaglio, come nascono queste 3 idee? L' idea di anima (ovvero l'idea di un io come sostanza) nasce, secondo Kant, da un paralogismo , ovvero da un sillogismo sbagliato. L'errore in questione è quello che Kant chiama, con un'espressione di forte sapore scolastico, quaternio terminorum (quaterna di termini). Il sillogismo è dotato di una premessa maggiore (con estremo + termine medio), di una premessa minore (con un altro estremo + termine medio) e una conclusione (1° estremo + 2° estremo). L'errore di cui parla Kant nasce quando si crede che il termine medio esista, ma in realtà non esiste, quando ad esempio chiamiamo con una stessa parola due cose diverse (per esempio la parola 'pianta'). Nel caso dell'anima, la quaterna di termini sta nel fatto che la nostra mente inavvertitamente confonde il soggetto in senso gnoseologico con il soggetto in senso logico. L'espressione prima esaminata 'Socrate è uomo' presenta la sostanza individuale 'Socrate' che può essere solo soggetto. Kant riprende ora l' Io penso : l'Io penso può essere solo soggetto (unifica senza essere unificato). L'errore che commettiamo sta in questo falso sillogismo (paralogismo): tutto ciò che è solo soggetto è sostanza, l'Io penso è solo soggetto, dunque l'Io penso è sostanza. L'origine dell'idea di anima, ovvero di 'io come sostanza', di sostanza cui ineriscono tutti i fenomeni interni, va ricercata in questa ipostatizzazione, cioè nella trasformazione in sostanza dell' Io penso , che è in realtà solo una funzione (la funzione del pensare, appunto). Ecco dunque che, nel trasformare un'attività (il pensare) in una cosa (l'anima) commetto il paralogismo, ovvero il sillogismo illegittimo e sbagliato. L'errore nasce appunto dalla quaternio terminorum : ho usato la parola 'soggetto' in due diversi significati. Tutto ciò che è solo soggetto (grammaticalmente, cioè ciò che non è 'predicato') è sostanza, l'Io penso è soggetto (gnoseologicamente, cioè non 'oggetto': unifica come soggetto e non è oggetto dell'unificazione), dunque l'Io penso è sostanza. Così nasce l'idea di anima, dell'io come noumeno. Ammettere l'esistenza dell'anima come sostanza è premessa per una cosa importantissima: l'immortalità dell'anima. Essendo illegittimo parlare dell'anima come sostanza, allora sarà altrettanto illegittimo parlare razionalmente di immortalità di tale sostanza. Ciò non toglie che Kant fosse credente e che fosse convinto dell'immortalità dell'anima: dice solo che non la si può dimostrare. L'altra idea è l' idea di mondo : a questo proposito, Kant imbandisce un discorso sulle antinomie della ragion pura. Le antinomie, egli spiega, sono 4 gruppi di affermazioni antitetiche, contradditorie fra loro, ma paradossalmente dimostrabili. Dunque, sia la tesi sia l'antitesi, sebbene siano contradditorie e tendano ad escludersi a vicenda, sembrano essere dimostrabili. La ragione cade dunque in una antinomia, poichè sembra poter dimostrare una cosa e anche il suo contrario. Le 4 coppie di affermazioni opposte (antinomie) sono le seguenti: 1)che il mondo sia finito oppure infinito nello spazio e nel tempo; 2) che esso consti di elementi ultimi oppure sia divisibile all'infinito; 3) che vi sia in esso una causalità libera oppure che tutto sia determinato in base a leggi naturali; 4) che esso dipenda da un essere necessario o che in esso tutto sia contingente. Va subito notato che le prime due antinomie sono diverse rispetto alle altre due, in quanto fanno riferimento a quantità (infinitezza/finitiezza e divisibilità all'infinito/divisibilità limitata), ovvero sono antinomie matematiche . Le ultime due, invece, illustrano il funzionamento del mondo (libertà/determinismo e necessità/contingenza) e prendono dunque il nome di antinomie dinamiche . Tale distinzione, tra matematiche e dinamiche, riguarda anche la soluzione del problema aperto dalle antinomie, ovvero la possibilità di dimostrare allo stesso tempo tesi e antitesi: nel caso delle matematiche, sia la tesi sia l'antitesi sono false, nelle dinamiche sono entrambe vere. Prendiamo il caso delle antinomie matematiche: nell'esperienza concreta, da un lato, possiamo allargare spazialmente e temporalmente la nostra conoscenza, per cui arriviamo a conoscere una parte del mondo, una quantità finita di fenomeni, e nulla ci impedisce di andare oltre questa quantità. Lo stesso vale per la divisibilità: quando dividiamo qualcosa, procediamo alla ricerca di componenti sempre più piccole della realtà fisica, così come i fisici dopo essere pervenuti al concetto di atomo come porzione ultima ed indivisibile della materia, hanno ulteriormente diviso scoprendo le particelle subatomiche. Ma fino a quando posso continuare a dividere? Ogni divisione sarà sempre finita, ma ciononostante potrò sempre farne una nuova. Nell'esperienza, dunque, ogni divisione effettiva o ogni effettiva estensione nello spazio e nel tempo è sempre finita, ma non c'è nulla che mi impedisca di poter ulteriormente dividere o estendere. Ed è proprio questo che è accaduto con la grande disputa sull'infinitezza o sulla finitezza del mondo: ci sono stati grandi pensatori che hanno dimostrato razionalmente la finitezza del mondo, e altri che ne hanno dimostrato altrettanto razionalmente l'infinitezza. Sembra dunque che la ragione sia scivolata in un paradosso, in un vicolo cieco: essa pare in grando di dimostrare al tempo stesso due cose contradditorie, che il mondo è finito e che è infinito. La soluzione che Kant dà a questa aporia, o 'antinomia', è molto semplice: sia la tesi (il mondo è finito) sia l'antitesi (il mondo è infinito) sono false, poichè muovono da un presupposto falso, cioè dall'idea di mondo. Tali antinomie della ragione dicono al tempo stesso che il mondo è finito e infinito nel tempo, nello spazio e nella divisibilità, ma il concetto (idea) di mondo è inaccettabile, poichè esso non è che la totalità di tutte le esperienze possibili e la totalità di tutte le esperienze, paradossalmente, non è un'esperienza, non può essere esperita. Ecco che il mondo, l'insieme dei fenomeni, è allora un noumeno, sta al di là dell'esperienza. E' pensabile (come insieme di tutti i fenomeni), ma non conoscibile, poichè conoscere per Kant vuol dire pensare e percepire, e nel caso del mondo, lo penso nella sua totalità ma non lo percepisco (dunque non lo conosco). Infatti, il mondo come totalità infinita delle esperienze non posso riempirlo di materiale sensibile, proprio perchè il materiale sensibile sarà sempre finito e non potrà mai colmare un qualcosa di infinito come il mondo. Quindi, potrò sempre allargare la mia conoscenza, ma si tratterà sempre e solo di una serie di fenomeni legati in una certa maniera. L'errore delle antinomie matematiche sta nel credere di poter acquisire la totalità delle esperienze ; se potessi davvero conoscere effettivamente il mondo nella sua totalità e calcolare tutte le divisioni di cui è suscettibile, allora potrei dire che è infinito o finito, divisibile all'infinito o no. Ma non potendo esperire tale totalità (e quindi non potendo conoscere il mondo) non potrò mai predicarne con certezza nè l'infinitezza nè la finitezza. E' dunque allo stesso modo sbagliato dire che il mondo sia infinito o che sia finito. Potrò solo legittimamente affermare il carattere indefinito del mondo nel tempo, nello spazio e nella divisibilità . Ogni divisione che farò sarà sempre finita, ma potrò fare sempre nuove divisioni, senza poter mai dire se ne posso fare in seguito di nuove o no, poichè non conosco il mondo nella sua totalità. Del resto, dire che è 'indefinito' vuol dire eliminare il concetto di mondo, poichè esso implicherebbe di avere la totalità delle esperienze, un numero ben definito, infinito o finito. Dunque, le antinomie matematiche si risolvono molto semplicemente nel dichiarare inconsistente il soggetto di tali affermazioni, ovvero l'idea di mondo. Tale idea non la possiamo usare per esprimere un'esperienza proprio perchè si pone al di là dell'esperienza; per questo, possiamo dire che ogni esperienza effettivamente realizzabile è sempre finita e che una volta date le esperienze finite, nulla ci vieta di fare un passo in più, di andare oltre. L'esperienza ha quindi carattere indefinito, è finita ma non è mai l'ultima. Le antinomie dinamiche non riguardano più la finitezza e l'infinitezza, ma la causalità. Esiste una causa deterministica o una 'causa libera' nel mondo? Il concetto di 'causalità libera' di cui parla Kant è, in poche parole, la possibilità di dare origine ex novo ad una nuova serie causale; se deterministicamente non c'è cosa che non sia causata e che a sua volta non causi nuove cose, la causalità libera prevede invece che per una decisione arbitraria possa nascere dal nulla una nuova serie causale. Prendo la penna e la sposto: deterministicamente, la mia mano si è mossa in seguito a meccanismi innescati nel mio cervello a causa del fatto che ho visto la penna; secondo la causalità libera, invece, si tratta di un gesto libero, incausato, con cui ho preso la penna, l'ho spostata, e ho dato il via ad una nuova serie causale. Ma questa causalità esiste, o vi è solo quella deterministica alla Cartesio? In definitiva, così come non conosco la totalità dei fenomeni del mondo, allo stesso modo non ne conosco la totalità delle cause/effetti. Se però nel caso delle antinomie matematiche sia tesi sia antitesi erano false, ovvero il mondo non era nè finito nè infinito, qui sia la tesi sia l'antitesi possono essere vere. Sembra molto strana la cosa, perchè più cose possono essere false (non è nè questo nè quest'altro: sarà qualcos'altro), ma pare molto più difficile che più cose possano, al tempo stesso, essere vere (è questo ed è quest'altro). Ci possono dunque essere al tempo stesso sia la causalità libera sia quella deterministica? Sembra che la ragione si sia nuovamente avventurata in un vicolo cieco, ma non è così. Noi conosciamo solo il mondo fenomenico, inquadrato nella categoria di causalità (ovvero conosciamo il mondo come insieme di cause ed effetti), e in esso possiamo constatare solo la causalità deterministica (dato A, si verifica per forza B) : questo perchè la categoria di causalità fa riferimento alla causalità deterministica (e non a quella libera) e, in virtù della rivoluzione copernicana, applichiamo le leggi del pensiero alla realtà, quindi la realtà fenomenica è retta dalla causalità deterministica. Come è dunque possibile che esista anche la causalità libera? Dobbiamo tenere presente che, accanto al mondo fenomenico in cui vi è solo la causalità deterministica, c'è anche il mondo noumenico, di cui non sappiamo nulla: che cosa mi vieta di pensare che lì viga la causalità libera? Lo stesso vale per la 4° antinomia (il mondo dipende da un ente necessario o in esso tutto è contingente?): nel mondo fenomenico tutto è contingente, cioè non c'è nulla che trovi in sè il motivo della propria esistenza (tutto c'è, ma potrebbe benissimo non esserci): un ente necessario non sarà mai dato nell'esperienza. Che cosa mi vieta, però, di ammettere l'esistenza di un ente necessario nel mondo noumenico? In questo modo Kant si riallaccia al grande problema seicentesco (sollevato da Cartesio) del rapporto tra necessità e libertà, tra anima e corpo, tra spiritualità e materialità. Come possono essere tra loro a contatto due realtà tanto diverse? L'unica soluzione era ridurre una realtà all'altra, e così Hobbes diceva che tutto era materia (negando l'esistenza autonoma della spiritualità), Leibniz che tutto era spirito (negando la materialità). Kant si chiede perchè mai ci si debba per forza porre il problema di incastrare tra di loro le due realtà ed è convinto che risulti molto più semplice asserire che a funzionare deterministicamente sia il mondo fenomenico, mentre a funzionare secondo la causalità libera sia il mondo noumenico. E in questo modo, riconoscendo l'esistenza di entrambe le realtà (cosa che Leibniz e Hobbes non avevano saputo fare) ed evitando un inquinamento reciproco (come invece aveva fatto Cartesio con la ghiandola pineale), Kant riconosce l'esistenza autonoma e distinta delle due realtà, libera e necessaria, ciascuna in un mondo distinto. E così il soggetto dell'antitesi (causalità necessaria/contingenza) è il mondo fenomenico, i cui enti non sono liberi, mentre il soggetto della tesi (la causalità libera/l'ente necessario) è il mondo noumenico, i cui enti sono liberi . Non posso sapere se per il mondo noumenico valga quel che vale per il fenomenico, ma posso benissimo ipotizzare che viga la libertà. Kant ha così risolto la questione delle antinomie e, inoltre, ha messo in luce che se in seguito per una via non conoscitiva saremo in grado di sostenere l'esistenza di un ente necessario e di una 'causalità per libertà' non saremo affatto in contraddizione, poichè sebbene il mondo fenomenico ci dica che le cose vanno diversamente, questo non ci vieta di applicare l'ente necessario e la causalità libera al mondo noumenico. Ed è proprio ciò che Kant farà nella Dialettica della Critica della ragion pratica , in virtù del terreno di non contradditorietà creato con la 3° e la 4° antinomia. Dopo aver trattato l'idea di anima e di mondo, esaminiamo ora meglio l' idea di Dio . In L'unico argomento possibile per una dimostrazione di Dio , Kant aveva già smascherato la prova dell'esistenza di Dio data da Anselmo, la 'prova ontologica', sostenendo che in realtà l'unico argomento valido per dimostrare l'esistenza di Dio era quello che si basava sul presupposto che non vi è nulla che avvenga senza un motivo, con la conseguenza che si deve trovare un qualcosa che si spieghi da solo, che sia motivo di se stesso e che faccia derivare da sè tutto il resto. Ora Kant, pur continuando a non accettare la prova ontologica, non accetta neanche più quella da lui stesso formulata in L'unico argomento possibile per una dimostrazione di Dio , poichè implica l'illegittima applicazione della categoria di causalità alla sfera metafisica. L'esistenza di Dio, dice il Kant della Ragion pura, è indimostrabile. Così come la ragione si illude di poter dimostrare l'esistenza della 'sostanza anima' cui ineriscono tutti i fenomeni psichici, e la 'sostanza mondo', come totalità infinita dei fenomeni, allo stesso modo essa si illude di poter dimostrare l'esistenza di Dio, essenzialmente attraverso 3 prove, dice Kant. La 1° prova, che è poi la più antica e più umana (nonchè quella verso la quale Kant nutre maggiore simpatia) è quella fisico-teologica di Platone: dalla constatazione di un ordine e di un'armonia nel mondo ne deduco che vi deve essere un ordinatore (Dio). Di per sè, però, non dimostra l'esistenza di un Dio-creatore, ma solo di un Dio-ordinatore, e pertanto questa prova poggia su un'altra, quella cosmologica di Aristotele: ogni cosa mossa è per forza mossa da un'altra cosa, ne consegue che ci deve essere qualcosa che muove senza essere mosso (Dio). Questa prova, inaccettabile in quanto implicante un'applicazione metafisica della categoria di causalità, è secondo Kant del tutto uguale a quella ontologica , poichè vuole dimostrare che si deve per forza arrivare ad una causa incausata, ad un ente la cui essenza implica l'esistenza. L'essere incausato implica proprio che nulla (fuorchè la sua essenza) ne sia causa: ma dire che l'essenza è causa dell'esistenza vuol dire ricadere nella prova ontologica. Il succo del discorso è che tutte le prove dell'esistenza di Dio derivano da quella ontologica e sono inaccettabili proprio perchè inaccettabile è quella ontologica. E così si conclude la Dialettica trascendentale: risultano indimostrabili tutte le fondamentali affermazioni della metafisica (Dio, anima, libertà, ecc), anche se questo non toglie che ciò che non può essere nel mondo fenomenico, possa invece essere in quello noumenico. Con questo discorso sull'anima, su Dio e sul mondo, Kant ha dimostrato l'illegittimità dell' uso costitutivo delle idee , ovvero di quell'uso volto a costituire la conoscenza. L'uso costitutivo delle categorie era legittimo, quello delle idee no. Oltre ad essere inutili nell'uso costitutivo, le idee sono addirittura pericolose, poichè pretendono di dimostrare l'esistenza di Dio e della libertà. E tuttavia Kant si accorge che è assurdo che la ragione sia dotata di una facoltà tanto ostile, addirittura pericolosa, e finisce per riconoscere un uso legittimo delle idee (ecco perchè son trascendentali e non trascendenti): anzi, esse ci son state date proprio affinchè ne facciamo tale uso. Quest'uso legittimo e importante delle idee Kant lo chiama uso regolativo delle idee . Kant ha spiegato che riceviamo passivamente nello spazio e nel tempo i dati sensibili e che li unifichiamo con l'attività categoriale dell' Io penso ; dopo di che, le categorie ci permettono di formulare giudizi e concatenazioni di giudizi. Ecco allora che la nostra conoscenza è come un puzzle , i cui tasselli sono i dati sensibili e la cui attività (finita) di unificazione è data dall'intelletto unificatore; il puzzle però è infinito, mentre la nostra conoscenza è sempre finita. Abbiamo i tasselli sparsi qua e là e non sappiamo bene dove collocarli, senonchè nei puzzle c'è anche l'immagine generale del puzzle come dovrebbe essere una volta costruito. La funzione regolativa delle idee è analoga a quel disegno generale del puzzle che ci dà il quadro generale della situazione e in base al quale possiamo collocare le unificazioni parziali di pezzi (le conoscenze, sempre finite) al posto giusto. In altri termini, la funzione regolativa delle idee consiste nel dare il massimo di unità e di estensione possibile alla nostra conoscenza: l'idea di mondo non sarà mai completa, riempibile di dati dell'esperienza, però mi servirà a dire che qualsiasi singolo raggruppamento (finito) di fenomeni, io so già a priori (perchè l'idea è un concetto puro) che si colloca in unico sistema e quindi il mio obiettivo è di cercare di attaccare il più possibile all'infinito i vari pezzi già attaccati tra di loro gli uni agli altri (ed è proprio quel che fa la scienza); tenderò dunque a sistematicizzare all'infinito il mio sapere, a organizzare le mie conoscenze interne come se potessero essere attribuite ad un'unica sostanza (l'anima), oppure ad organizzare tutte le mie esperienze esterne come se appartnessero ad un unico mondo, o ancora ad organizzare tutte le mie conoscenze (interne + esterne) come se fossero effetti di un'unica causa (Dio). E' ben diverso dire che bisogna agire come se appartenessero ad un unico orizzonte o ad un'unica sostanza (anima, mondo, Dio) dal predicare che effettivamente esistano tali cose. Le idee hanno dunque in Kant una funzione euristica, servono cioè a guidare l'indagine verso sempre maggiore unitarietà e sistematicità, come se si potessero attribuire tutti i fenomeni interni ad una sostanza (anima) e quelli esterni ad un'altra sostanza (mondo). Non è detto che io possa dire qualcosa dell'anima, ma essa mi serve per poter strutturare attorno a tale concetto i fenomeni interni. Ecco allora che le idee 'regolano', guidano verso l'unità e l'estensione, poichè il concetto di mondo, ad esempio, ci ricorda continuamente che i singoli aggregati di conoscenze sono pezzi finiti di conoscenza indefinitamente estensibili. Il concetto di mondo mi dice quindi che devo collegare tra loro tutti i fenomeni (unità), ma anche che tutti i fenomeni devono farmi allargare la conoscenza, collegandoli tra loro. Non posso conoscere l'idea di mondo, dunque, ma essa mi serve per conoscere, per estendere la conoscenza e per darle unità: ecco allora che le idee servono per conoscere ma non possono essere conosciute . E' una sorta di punto di fuga ideale l'idea: convergo verso un punto, ma mi porta ad un processo di arricchimento infinito. Come per i medioevali, anche per Kant Dio resta il grande punto di riferimento della conoscenza, dunque, ma non Dio come ente, bensì Dio come idea presente nella mente umana: devo organizzare la mia conoscenza come se fosse stata prodotta da un unico ente (Dio), che garantisce l'unità del mondo e, con essa, quella della nostra conoscenza. Accanto alla valenza teoretica (conoscere la realtà), Kant dà alla ragione anche una valenza pratica: la ragione ci dà leggi di comportamento. E dell'uso pratico della ragione si occupa la Critica della ragion pratica .
LA CRITICA DELLA RAGION PRATICA
La Critica della ragion pratica (1788) vuole trovare una soluzione ad un problema per molti versi analogo a quello della Critica della ragion pura ; tuttavia, invece di essere orientata ad una critica dell'uso 'puro' (teoretico) della ragione, la Critica della ragion pratica conduce una critica, ovvero un giudizio, sull'uso 'pratico' (morale ed etico) della ragione. Anche in ambito etico sullo sfondo c'è sempre Hume: il pensatore scozzese aveva sostenuto, da un lato, che i fondamenti della conoscenza (l'idea di dostanza, di causalità, ecc) non fossero fondati razionalmente, e, dall'altro lato, che la morale stessa non affondasse le sue radici nella razionalità. La scelta etica dell'adozione di un comportamento, spiegava Hume, non è dettata dalla ragione, ma è il frutto, per così dire, di un sentimento morale, di una passione, con il risultato che la ragione è e deve essere schiava delle passioni. Ad indicarmi il fine del mio comportamento non è la ragione, ma la passione: la ragione non é in grado di dirci che cosa vogliamo e ci dice sempre e soltanto che cosa dobbiamo fare per ottenere quello che vogliamo: quello che vogliamo, tuttavia, esula dai dettami della ragione. Se uno vuole andare in vacanza ai tropici, la ragione gli indicherà la via per ottenere quel fine, suggerendogli di lavorare e di risparmiare denaro; ma quando gli si chiederà 'perchè vuoi andare ai tropici', lui risponderà 'perchè mi piace': non vi é una risposta razionale, é una passione. Questo è quel che credeva Hume. Da queste considerazioni, con un ragionamento piuttosto simile a quello della Ragion pura, muove Kant: così come Hume non era stato in grado di fondare l'oggettività della conoscenza poichè nell'ambito empirico una nuova esperienza potrà sempre confutarmi conoscenze ritenute certe, allo stesso modo il pensatore scozzese non era neanche stato in grado di conferire oggettività alla morale, poichè essa si basava sulle passioni, meramente empiriche, e variava da persona a persona. La questione gnoseologica Kant l'ha risolta compiendo la rivoluzione copernicana del pensiero, ovvero spiegando come l'oggettività della conoscenza non provenga dai sensi ma dal nostro intelletto; ora egli deve fare qualcosa di simile in campo morale. Kant (in disaccordo con Hume) è pienamente convinto dell'esistenza di una morale assoluta: e una morale, per essere assoluta, non va fondata sull'esperienza (come aveva fatto Hume con il 'senso morale'), perchè altrimenti si scivolerebbe nel relativismo morale: infatti, essendo i gusti e le passioni diverse da persona a persona, ciascuno finirebbe per avere la sua morale, la quale non potrebbe dunque essere assoluta. E del resto se fondassimo la morale sull'esperienza, sulle orme di Hume, una stessa persona, con la propria morale diversa da tutti gli altri, potrebbe finire per cambiarla di giorno in giorno poichè i sensi possono dirmi cose sempre diverse, di giorno in giorno. Non è dunque questa la via corretta. La ragione, spiega Kant, non deve svolgere le funzioni di puro strumento volto al soddisfacimento delle passioni, ma deve essere lei stessa, uguale in tutti gli uomini, a fondare la morale e a garantirle universalità. Sullo sfondo di queste affermazioni troviamo il pietismo kantiano, in cui il rigore morale è particolarmente marcato. Ecco allora che il filosofo tedesco sente l'esigenza di appellarsi a qualcosa che non sia la sensibilità e che possa garantire una morale valida per tutti. Kant formula il problema con una terminologia piuttosto complessa, chiedendosi ' quali moventi soggettivi dell'azione umana possono aspirare a valere universalmente, ossia a divenire motivi oggettivi dell'azione? 'Movente per Kant è ciò che ci spinge a compiere un'azione; resta ora da chiarire quale, tra tutti i possibili moventi, può essere motivo , ovvero movente universale, valido per tutti. Kant, dopo aver radicalmente escluso la sensibilità, afferma che spetterà alla ragione la fondazione della morale. Anche la ragione nel suo uso 'pratico' avrà delle forme, proprio come la ragione nel suo uso 'puro', ma si tratterà di forme non per conoscere gli oggetti, bensì per istituirli, per agire nella realtà e cambiarla: il movente, perchè ci sia oggettività, deve diventare motivo, cioè movente universale, e perchè questo avvenga dovrà essere fondato nelle forme, uguali in tutti gli uomini, della ragione pratica. A questo punto Kant introduce il concetto di volontà buona , già espresso in un'epistola in cui spiegava che, di tutte le cose al mondo, solo una è assolutamente buona: ed è proprio la volontà buona. Si comincia dunque a capire come Kant al 'genio', ovvero al frutto estremo della ragion pura, preferisca il 'santo', cioè il frutto estremo della ragion pratica. In altri termini, per Kant la morale conta più dell'intelligenza, poichè quest'ultima può anche non essere buona, se rivolta al male. L'intelligenza è positiva solo nella misura in cui viene orientata dalla volontà buona, la quale assurge dunque al vertice per importanza: ecco dove risiede il primato della ragione pratica di cui parla Kant con insistenza. Il fatto che si tratti di una volontà buona suggerisce l'idea che la morale kantiana, in fondo, sia una morale dell'intenzione , dove cioè quel che effettivamente deve essere giudicato nel comportamento non è l'esito dell'azione, ma l'intenzione (la volontà) con cui la si è compiuta. Per agire bene non conta cosa faccio e come lo faccio, ma che lo faccia con buone intenzioni. Se agisco con delle buone intenzioni ma con esiti catastrofici, significa che c'era la volontà buona ma mancava l'intelligenza, che peraltro non può essere giudicata moralmente. Per Kant è dunque molto meglio un'azione compiuta con buone intenzioni, ma con pessimi risultati, che non un'azione compiuta con pessime intenzioni ma ottimi risultati. Vi è quasi una sorta di interiorizzazione della morale, per cui ad essere giudicato buono o cattivo non è l'azione esterna con le sue conseguenze, ma è l'intenzione interna, il sentimento che mi ha mosso ad agire: il mito di Edipo esprime bene la conflittualità tra interiorizzazione ed esteriorizzazione della morale, tra mondo moderno e mondo arcaico. Edipo si trova a dover pagare per il suo comportamento malvagio, per aver ucciso il padre e sposato la madre, pur avendo agito con le migliori intenzioni possibili, dentro di sè. Egli ha compiuto azioni moralmente giuste, ma dagli esiti dannosi, e la morale kantiana, senz'ombra di dubbio, lo assolverebbe, mentre invece il mondo greco, concependo la colpa come un qualcosa di quasi tangibile, lo condanna: la peste stessa che si scatena su Tebe è il riflesso oggettivo della presenza della colpa, intesa come inevitabilmente legata a quel che viene fatto (e non alle intenzioni). Con il Cristianesimo, invece, vi è un'interiorizzazione sempre maggiore, che raggiunge l'apice in Kant; per lui, infatti, non esistono buone o cattive azioni, ma solo buone o cattive intenzioni. Si tratta però di capire che cosa determini la volontà buona e in che modo la determini: Kant spiega che essa è determinata solo e soltanto dalla ragione (dunque è una morale universale) attraverso gli imperativi. A questo punto, il filosofo distingue tra imperativi ipotetici e imperativo categorico: quest'ultimo è la forma che assume la ragione pratica ed è uno solo, sebbene si articoli in 3 diverse formulazioni. Gli imperativi ipotetici comandano un'azione in vista di un fine particolare, che non deve essere necessariamente condiviso da tutti e non possono avere dunque validità universale. Se ad esempio dico: 'se vuoi permetterti le vacanze nei paesi esotici, allora devi guadagnare parecchio' mi trovo di fronte ad un imperativo ipotetico, caratterizzato dalla formulazione nei termini 'se, allora'. La distinzione degli imperativi ipotetici (che richiamano alla mente i giudizi e i sillogismi) dall'imperativo categorico risiede nel fatto che essi non hanno valenza assoluta, mentre l'imperativo categorico ce l'ha (mi dice incondizionatamente 'fai così' senza pormi alternative). Gli imperativi ipotetici mi dicono che se voglio x, allora devo fare y, ma se non voglio x posso anche non fare y, senza che nulla me lo impedisca. Gli imperativi ipotetici sono esattamente quelli cui faceva riferimento Hume, in cui la ragione è soggiogata alle passioni: gli obiettivi da raggiungere non vengono discussi, ma sono dati per scontati. Dicendo 'se vuoi fare le vacanze ai tropici, allora devi guadagnare parecchio' la ragione è solo lo strumento che mi indica come fare ('guadagnare parecchio') per conseguire il fine ('andare in vacanza ai tropici') che mi sono proposto. Ora, però, il fine è dettato dalla passione, non c'è una spiegazione razionale al fatto che io voglia andare in vacanza ai tropici: lo voglio perchè mi piace, si tratta dunque di una passione. E del resto non mi trovo di fronte ad un obbligo: puoi andare in vacanza come non andarci, se però vuoi andarci allora devi guadagnare. Saranno i tuoi gusti, le tue passioni a dirti cosa fare. Negli imperativi ipotetici, dunque, il se è dato da una passione, mentre l' allora è dato dalla ragione: se vuoi quello (passione), allora devi fare questo (la ragione mi dice come fare per soddisfare la passione). In questi imperativi, a rigore, la ragione non entra in ambito pratico poichè non mi dice qualcosa sugli obiettivi ultimi: essa rimane salda all'ambito teoretico, in quanto si limita a darmi una verità sul funzionamento del mondo (senza soldi non si fanno le vacanze); l'obiettivo (andare in vacanza) è la passione a dirmelo. Dopo aver spiegato che è 'ipotetico' perchè presente il 'se, allora', occorre spiegare perchè si chiama 'imperativo': si chiama imperativo perchè mi comanda (' impero ' in latino significa comandare ) come agire per ottenere un obiettivo imposto dalla passione. Si tratta dunque di un'espressione che assume la forma di una legge, di una legge della passione nel caso degli ipotetici. Per esseri perfettamente razionali che non devono combattere con le passioni, quali sono Dio e gli angeli, ad esempio, quelli che chiamiamo imperativi sono pure e semplici leggi; saranno invece imperativi, cioè comandi, per coloro i quali non si conformano in modo del tutto spontaneo alla legge che viene imposta, per così dire, dall'esterno: esseri di questo genere sono gli uomini, in continuo conflitto con le passioni. Per Leibniz Dio era del tutto libero, ma al tempo stesso costretto moralmente a scegliere di creare il migliore dei mondi possibili poichè fa parte della sua perfezione razionale il seguire la legge morale: ecco dunque che la creazione del miglior mondo possibile per Dio era una legge e non un imperativo, non un comando. E questo è esattamente ciò che intende Kant. L'imperativo, dunque, non vale per Dio, ma neanche per gli animali, i quali, sprovvisti di ragione, sentono solo e soltanto leggi fisiologiche e passioni, mai leggi morali. Gli imperativi, dunque, valgono solo per quello strano essere intermedio che è l'uomo, quell'essere mostruoso, agli occhi di Pascal, ibrido di grandezza e di bassezza. Nell'uomo convivono la sfera razionale e quella passionale, per cui, per conformarsi a tali leggi, egli deve sforzarsi e soffrire; tali leggi, in altri termini, per l'uomo non sono più leggi, ma imperativi, comandi da seguire con sforzo immane, per far dominare la morale razionale su quella passionale. Si tratta dunque di un imperativo poichè è la legge morale che si deve imporre; da un lato, l'uomo risente, come tutti gli altri animali, della legge fisica, ma, dall'altro lato, risente di quella morale, che è tipica degli esseri razionali; essa entra in contrasto con la legge fisica e gli enti allo stesso tempo empirici e razionali, quali l'uomo, devono obbedire ad entrambe, sebbene ciò a cui si obbedisce con la legge fisica sia una vera e propria legge (ad esempio, un sasso lasciato dalla mano cade e non può fare diversamente), mentre ciò a cui si obbedisce con la legge morale è la rappresentazione della legge : se la legge è necessaria (il sasso cade e non può fare diversamente), la rappresentazione della legge è un obbligo, ma non una necessità: so cosa è giusto e cosa è sbagliato, e sento l'obbligo morale di agire nel giusto. Nella lingua tedesca, poi, c'è una netta distinzione, assente nella lingua italiana, tra 'dovere' inteso come obbligo morale e 'dovere' inteso come necessità. Per l'uomo, dunque, la legge si configura come un imperativo, cioè come qualcosa che lo costringe; sembra che si tratti di un obbligo imposto dall'esterno, ed effettivamente lo è se guardiamo all'uomo come animale spinto dalla legge della natura ad agire in un modo, ma esortato dalla legge morale, imposta come obbligo dall'esterno, a fare qualcos'altro; in realtà, però, se guardiamo all'uomo come essere razionale ci accorgiamo che la legge morale è intrinseca alla sua natura: quando cioè l'uomo obbedisce alla legge morale, egli obbedisce a se stesso e non a qualcosa di esterno. Ecco allora che affiora il concetto tipicamente kantiano dell' autonomia della morale , è cioè l'uomo a dar le leggi a se stesso poichè, obbedendo alla ragione che gli detta la legge morale, egli obbedisce a se stesso. Certo, l'uomo fisico, non razionale, soffre per obbedire a tale legge poichè i suoi impulsi lo spingono in un'altra direzione, ed è proprio per questo motivo che la legge morale è al tempo stesso piacevole e dolorosa : piacevole poichè coerente con la natura razionale dell'uomo, ma dolorosa poichè in contrasto con la natura fisica dell'uomo. Ricapitolando: negli imperativi ipotetici agisce la ragione nella sua veste teoretica, nell'imperativo categorico, invece, ritroviamo la ragione pratica: esso mi dice categoricamente di agire in quel dato modo, ed è la ragion pratica a determinare la volontà. Ci troviamo così di fronte ad una volontà autonoma, che obbedisce alla natura dell'uomo. E' interessante che Kant insista a lungo sul concetto di autonomia: nell'ambito dei moventi (cioè ciò che ci spinge ad un'azione), distingue quelli che lui chiama moventi eteronomi dall'unico movente autonomo , dettato dalla morale: la legge morale è movente autonomo poichè è la ragione stessa a darcelo, moventi eteronomi saranno invece tutti quelli che esulano dalla ragione, e Kant ne cita tantissimi; due meritano di essere ricordati. Nell'ambito dei moventi eteronomi Kant cita la morale epicurea, consistente nel seguire il piacere: obbedire al piacere significa obbedire non alla parte razionale dell'uomo, bensì a quella meramente fisica; si tratta di un'evidente eteronomia rispetto alla natura razionale dell'uomo, tanto più che la morale, per essere oggettiva e universale come Kant la vuole, non può basarsi sul piacere, poichè esso varia di persona in persona (a me piace questo, a te quest'altro, a lui nessuna delle due cose). Nel rifiuto kantiano della morale epicurea possiamo scorgere qualche elemento del rigore del pietismo, che ha indotto molti studiosi a parlare di un vero e proprio 'rigorismo kantiano'. L'altro movente eteronomio che cita è quello che invita ad obbedire alla volontà di Dio: obbedendo alla volontà di Dio si ricade inevitabilmente nella morale edonistica di stampo epicureo poichè si agisce per fare la volontà di Dio e, in ultima istanza, per guadagnarsi un posto in paradiso, ovvero per ottenere la felicità, il piacere. Da notare, che quanto detto da Kant non implica un rifiuto della morale epicurea o della volontà di Dio: Kant dice solo che esse non garantiscono oggettività alla morale, sono cioè moventi che non potranno mai diventare motivi. Rimane dunque valida esclusivamente la morale fondata sulla ragione, l'unica ad essere dotata di oggettività: a darcela è l' imperativo categorico , il quale si distingue da tutte le morali eteronome per il fatto che mentre esse danno sempre un contenuto (vuoi che mi dicano che il bene è il piacere o la volontà di Dio), l'imperativo categorico dà una forma: mi dice 'comportati in maniera tale che' . Non dà obiettivi e contenuti, bensì è formulato in termini formali, mi dà i criteri formali per giudicare di volta in volta ciò che è giusto e ciò che non lo è. Kant, nella Critica della ragion pura , aveva spiegato che l'unica cosa che possa rendere oggettiva la conoscenza è l'essere inquadrata in forme trascendentali, poichè il contenuto empirico non mi darà mai oggettività; e ora, con un ragionamento affine, spiega che solo la forma potrà conferire oggettività alla morale; si tratta dunque di trovare un criterio formale dettato dalla ragione, che, di fronte a specifici contenuti, mi dica che x, y oppure z è giusto, e non solo per me, ma per tutti, non solo adesso, ma sempre, non solo qui, ma ovunque. In altri scritti, Kant precisa che questo è il fondamento stesso della morale cristiana, la quale cerca di conferire oggettività alla propria morale con la massima 'non fare ad altri ciò che non faresti a te stesso'. Anche il categorico è un imperativo, un obbligo, in quanto mi impone di agire in un determinato modo, senza tener conto del mio interesse, del mio piacere e, in fin dei conti, della mia natura fisica. A rigore, l'imperativo categorico è più imperativo di quanto non possano sembrare gli ipotetici, in quanto essi sono basati sulle passioni, quasi come se si seguisse la natura fisica anzichè quella razionale: 'voglio andare in vacanza' è una passione, un'esigenza fisica. Però Kant fa notare una cosa: in 'se voglio andare in vacanza, allora devo guadagnare soldi' la ragione (teoretica) mi dice che per soddisfare la passione (andare in vacanza) devo agire in quel modo (guadagnare) e mi dirà, inoltre, come fare per guadagnare: potrà suggerirmi di lavorare, di tentare con la lotteria, o quant'altro, ma si tratterà sempre, e qui sta il passo fondamentale, di un sacrificio, di una costrizione che ci imponiamo. Se mi metto a lavorare compio un grande sacrificio con una grande possibilità di guadagnare, se invece tento con la lotteria compio un piccolo sacrificio ma ho una piccola possibilità di guadagnare. Fatto sta che la ragione, come nel categorico, si impone come costrizione, come forzatura alla nostra natura fisica, in quanto ci fa andare in una direzione diversa da quella in cui andremmo spontaneamente, seguendo la legge fisica. Posso usare i soldi di cui dispongo per comprarmi un gelato o per far qualsiasi altra cosa, ma la ragione mi impone di usarli per comprare il biglietto della lotteria, rinuncio cioè ad un desiderio (comprare il gelato) a favore di un altro desiderio (comprare il biglietto, e magari vincere), facendo cioè quello che Epicuro chiamava 'calcolo dei piaceri'. La problematica può però diventare sempre più sottile e Kant fa in merito l'esempio dell'elemosina, dell'elargizione di denaro ad un bisognoso. Perchè la faccio? Quale è l'intenzione con cui la faccio? Se decido di non farla perchè convinto che sia un incentivo a non cercarsi un lavoro, è moralmente positivo perchè l'intenzione è buona. Posso anche farla solo per motivi di interesse, per mettermi in mostra con tale azione agli occhi della gente: in questo caso la morale non c'entra nulla e l'azione è dettata dall'aspirazione ad avere una buona immagine. Posso anche fare l'elemosina non per mettermi in mostra ma solo per aiutare il prossimo: Hume diceva che in realtà anche in questo caso si agisce egoisticamente, perchè la sofferenza di chi fa l'elemosina ci 'contagia' e lo aiutiamo perchè non soffra e non possa contagiarci. Questa era del resto, propriamente, la morale humeana, che dal punto di vista kantiano è una morale eteronomica, che varia di persona in persona, scevra da oggettività: a me uno che soffre può far soffrire, a te magari no. E' quasi come se, di fronte alla sofferenza che travaglia il mondo, ciascuno di noi soffrisse e fosse disposto a fare sacrifici pur di migliorare le cose, per non soffrire più lui stesso: la ragione è del tutto fuori campo, però, ed è la sensibilità a farla da padrona (soffro a vedere il male). In conclusione, esiste l'imperativo categorico o no? Con i casi appena illustrati, sembra che la ragione sia tagliata fuori, così come tagliata fuori è la morale. Fino a che punto agisco per far piacere agli altri o a me stesso e non perchè lo ritengo moralmente giusto? E l'ho fatto perchè mi sembra moralmente giusto ma non perchè è giusto, bensì per ottenere autostima per aver fatto qualcosa di giusto? E' un problema complesso. Se fra tutti i comportamenti assunti ne trovo almeno uno di cui possa dire che l'ho assunto solo perchè moralmente giusto, perchè era un dovere farlo, non per trarne vantaggi personali o per far piacere ad altri, allora posso dire che l'impianto della morale kantiana è corretto, e che l'imperativo categorico esiste; se, viceversa, scavando dentro di me non riesco a trovare tutto questo, allora l'impianto della morale kantiana è sbagliato, e l'imperativo categorico non esiste. Se almeno una volta dentro di noi abbiamo avuto un conflitto tra un piacere e un dovere, tra un'azione piacevole e una assolutamente sentita come doverosa, allora l'imperativo categorico esiste, la legge morale c'è. Freud, però, ha un pò smascherato la morale kantiana, facendo notare che quello che possiamo trovare dentro di noi come dovere, come voce della coscienza, non è altro che l'interiorizzazione di obblighi che la società tende ad imporci: i genitori da bambino mi dicevano di far così, la polizia da grande di fare così, e ho finito per interiorizzare questa autorità e per vedere questa legge autoritaria come legge morale: la legge morale kantiana diventa così per Freud il risultato di un processo imposto dall'esterno. Esaminiamo ora le formulazioni dell'imperativo categorico: esso ha una formulazione generale e tre sottoformulazioni. Quella generale dice: ' Agisci soltanto secondo quella massima che, al tempo stesso, puoi volere che diventi una legge universale '. 'Massima' sta per regola di comportamento soggettiva, ognuno cioè si comporterà secondo una propria massima e, proprio per questo, le massime sono soggettive. Perchè esse possano diventare leggi, ovvero massime di valore universale, devono diventare oggettive. E l'imperativo categorico mi dice appunto di agire in modo che le massime che assumo possano essere leggi : se prendo come regola di comportamento una massima che valga per tutti, sempre e ovunque, allora sarà una massima universale, ovvero una legge, e dovrò dunque assumerla. Da notare che ancora una volta siamo di fronte ad un'espressione formale, non contenutistica: 'agisci in modo che'. Delle tre formulazioni in cui si articola l'imperativo ipotetico, la prima dice: ' Agisci come se la massima della tua azione dovesse essere elevata dalla tua volontà a legge universale della natura '. Mi dice cioè di agire secondo quella massima (o 'regola') che potrei volere che diventasse legge di natura, ovvero legge che regola l'andamento della natura. Se desidero che la mia massima soggettiva diventi legge della natura, allora tale massima sarà investita di carattere universale, e da massima potrà diventare legge. Piuttosto simile alla prima formulazione è anche la terza, la quale dice: ' Agisci in modo che la volontà, in base alla massima, possa considerare contemporaneamente se stessa come universalmente legislatrice '. Con questa sottoformulazione Kant sottolinea nuovamente l'autonomia della volontà, ovvero il dar leggi a se stessa (in quanto razionale): quando la volontà obbedisce alla ragione, in realtà sta obbedendo a se stessa. A proposito del concetto di autonomia, Kant fa notare che apparteniamo ad un regno in cui siamo sudditi e legislatori: come esseri fisici obbediamo alle leggi di natura, ma con l'esperienza morale entriamo in un'altra dimensione, ovvero nel regno della libertà, che Kant chiama regno dei fini . Laddove tutto procede in maniera deterministica, non può esservi libertà e, di conseguenza, non può esserci il finalismo; ma, dove invece regna la libertà, ecco che lì troviamo anche il finalismo, la libertà di perseguire i propri fini. La nostra parte fisica è succube di un mondo deterministico (il mondo fisico), ma, nel momento in cui ho l'esperienza morale, entro in una nuova dimensione, nella quale posso scegliere liberamente secondo i fini a cui aspiro. Sento dunque di far parte del regno della natura, ma anche di quello dei fini, un regno in cui siamo legislatori (ci diamo le leggi) e sudditi (dobbiamo obbedire alle leggi che ci siamo dati). Con l'idea che siamo sudditi e legislatori Kant si riallaccia al discorso di Rousseau, il quale diceva che nella democrazia siamo sudditi perchè dobbiamo rispettare le leggi, ma siamo anche legislatori, perchè siamo noi a darci tali leggi. La seconda formulazione dell'imperativo categorico, in apparenza, è diversa rispetto alle altre due ed è di ispirazione hobbesiana e spinoziana; essa recita: ' Agisci in modo da trattare l'umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro uomo, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo '. E' una formulazione un pò anomala perchè, mentre le altre due sono di carattere formale e, in sostanza, mi dicono di agire in modo che la mia massima sia universale, questa mi dà dei contenuti, dei fini dell'azione morale. Tuttavia il contenuto, a ben pensarci, è dato dalla stessa forma poichè, se le altre due insistevano sulla razionalità, qui la razionalità (che sta alla base della legge che ci diamo) non fa altro che riconoscere se stessa come fine e non come semplice mezzo. In altri termini, il nucleo del ragionamento è che, a ben pensarci, l'unica cosa che non può mai essere solo un mezzo, un puro strumento per ottenere altre cose, ma, al contrario, deve essere un 'fine', uno scopo in sè, un valore intrinseco, è l'umanità, l'insieme delle altre persone dotate di ragione. Potrò usare come semplice strumento, in qualsiasi modo io voglia, un pezzo di legno, una pietra, ma non potrò mai usare una persona come puro e semplice mezzo per realizzare i miei fini, poichè l'uomo è un fine in sè, non è una semplice cosa come tutte le altre. Ma in base a che criterio dico che l'uomo è un fine e tutto il resto non lo è? In base al criterio della razionalità, dice Kant (e qui si evince quanto egli sia illuminista): è la ragione che riconosce in se stessa (cioè negli altri esseri razionali) un fine, un valore in sè . Spesso questa affermazione kantiana è stata interpretata scorrettamente, facendo notare, ad esempio, che un imprenditore che assume degli operai e li fa lavorare, arricchendosi grazie al loro lavoro, li tratta come mezzi, quasi come se la ragione in questo caso non riconoscesse un fine in sè negli operai. In realtà, la formulazione di Kant dice di agire in modo da trattare le persone non solo come mezzo, ma anche come fine: secondo Kant trattare gli altri come mezzo va bene, purchè li si tratti anche come fine. Il comportamento dell'imprenditore che usa gli operai come mezzi per guadagnare non è immorale, se egli li tratta anche come fine in sè; sarebbe immorale se li trattasse solo come mezzi (e non come fini), senza porre limiti allo sfruttamento, trattando gli operai come semplici 'cose'. Ci sono dunque limiti all'uso che possiamo fare delle persone, limiti di rispetto che non possono essere travalicati, poichè le persone, in quanto esseri razionali, hanno un valore in sè, hanno fini loro che non sono miei. Kant ha dunque riconosciuto che nell'uso strumentale che facciamo delle persone non possiamo non tenere presente che esse hanno un valore intrinseco, e nell' Ottocento ci sarà chi, come Stirner, dirà che l'unico fine, l'unico valore per noi stessi, paradossalmente, siamo noi stessi e tutti gli altri sono semplici mezzi per realizzare i propri fini. Kant, da buon illuminista, stabilisce che cosa è un fine in sè e che cosa non lo è secondo il criterio della ragione: ad imporci la legge morale è la ragione, la quale riconosce se stessa come unico valore assoluto, con la conseguenza inevitabile che ciò che è razionale è un valore in sè, ciò che non è razionale è solo uno strumento . Nel Novecento, però, ci sarà chi adotterà la sensibilità come criterio, con la conseguenza che saranno fini in sè tutti gli esseri sensibili, cioè tutti gli esseri che provano piaceri e dolori (uomini, animali, piante). Perchè, in effetti, la razionalità è un qualcosa in più, che viene dopo rispetto alla sensibilità: la differenza più evidente che spacca in due il mondo non è che vi siano esseri razionali ed esseri privi di ragione, ma che vi siano esseri che provano sensazioni ed esseri che non le provano. La ragione è un qualcosa in più, grazie al quale si affina, per così dire, la sensibilità, nel senso che grazie alla ragione posso già soffrire fin da adesso al pensiero che un giorno dovrò morire o, viceversa, posso già gioire adesso all'idea che domani farò qualcosa di piacevole. Sempre nel Novecento, Heidegger si porrà il problema dei diritti dell'essere (l'essere in senso parmenideo), chiedendosi se l'uomo ha dei diritti nei confronti dell'essere, e giungerà alla conclusione che l'uomo deve mettersi 'in ascolto dell'essere'. Questa seconda formulazione dell'imperativo categorico risente in qualche misura del pensiero di Hobbes e di Spinoza: i due pensatori seicenteschi furono infatti i primi a capovolgere il concetto di bene e di male, facendo notare come lo scopo dell'etica non sia indicare un bene e poi invitare a perseguirlo: non si deve obbedire a ciò che è bene, bensì sarà 'bene' ciò che di fatto l'uomo persegue, mentre sarà 'male' ciò che l'uomo evita. Il discorso di Kant è diverso, poichè la sua è un'etica rigorosa, insegna che l'uomo deve reprimere le sue pulsioni per seguire il dovere morale, tuttavia è simile al discorso di Hobbes e di Spinoza poichè non vede il bene come un qualcosa di originario, bensì come un concetto derivato: si stabilisce ciò che l'uomo deve fare e ciò che farà sarà il bene. Kant ha infatti individuato la legge della ragione, ha trovato un motivo, una legge morale effettivamente universale, che recita 'comportati in modo tale da', il che implicherà il venir fuori di un contenuto, perchè comportandomi nel modo indicatomi in termini formali dall'imperativo categorico dovrò pur fare qualcosa, e quel qualcosa sarà il bene, ovvero il comportamento dettato dalla legge morale. Kant rifiuta qualsiasi movente sensibile come movente morale, però riconosce l'esistenza di un sentimento morale, che non è il motivo dell'azione, ma il sentimento che ci coglie in presenza del dovere, in presenza della contemplazione del dovere, ovvero della rappresentazione della legge: gli enti fisici obbediscono alle leggi della natura, noi uomini alla rappresentazione della legge, è cioè la nostra ragione pratica che può scegliere. Un sentimento morale, è evidente, non potrà mai determinare il mio agire, poichè, in virtù della sua sensibilità, sarà sempre soggettivo; ma ciò non toglie che possa nascere un sentimento morale, che Kant chiama sentimento del rispetto della legge morale, quasi come se fossimo colti da profonda ammirazione verso la legge morale. E' un sentimento positivo e negativo al tempo stesso, poichè nel contemplare la legge morale sono insoddisfatto e soddisfatto di me, dal momento che essa tende a reprimere le mie pulsioni materiali (e ne soffro), ma rendendomi conto di poter obbedire, solo tra tutti gli esseri del creato, a tale legge provo un sentimento sconfinato di ammirazione per la maestà della legge, una sorta di ammirazione verso noi stessi, visto che la legge morale è espressione della nostra profonda razionalità. L'uomo stesso è un essere ambiguo, insiste Kant in sintonia con Pascal, un essere sensibile e razionale, e il dovere, nella misura in cui reprime la dimensione sensibile, lo fa soffrire, ma, nella misura in cui gli fa sentire di essere superiore a tutta la natura empirica, è per lui motivo di immensa soddisfazione. Kant usa due espressioni divenute celeberrime, aprendo quasi una parentesi lirica nella profonda razionalità del suo discorso e dice: ' Dovere! Nome sublime ' e ' Due cose riempono l'animo con sempre nuovo e crescente stupore e venerazione, quanto più spesso e accuratamente la riflessione se ne occupa: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me . Tali espressioni vanno viste insieme perchè, nella Critica del giudizio , accanto al bello e al brutto, Kant individuerà la categoria di sublime, un concetto che sarà tipicamente romantico e che designa un qualcosa di al tempo stesso piacevole e spiacevole: si proverà il sentimento del sublime di fronte ad alcuni spettacoli della natura caratterizzati da sterminata potenza (il mare in tempesta) e da sterminata grandezza (le catene montuose e il cielo stellato), ci si sentirà cioè presi da profondo piacere nel vedere tali meraviglie, ma anche da immenso sgomento nel rendersi conto della propria impotenza di fronte a tali spettacoli. Ora, a proposito del dovere Kant si avvale proprio dell'aggettivo di sublime, nella prima espressione, e lo accosta al cielo stellato, nella seconda: è come se vi fosse mescolanza del sentimento di potenza a quello di impotenza, la nostra natura sensibile è oppressa dal dovere, ma quella razionale si identifica con esso, cosicchè il dovere assume, alla pari del cielo stellato, un carattere sublime, positivo e negativo allo stesso tempo. Questo sentimento morale di rispetto verso il dovere che nasce in noi non toglie, però, che non vi sia alcun sentimento morale che sia motivo della legge morale: sarà motivo di rispetto per la legge morale, ma mai motivo stesso della legge morale. Infatti, l'azione morale, di per sè, è totalmente razionale, ma, come conseguenza della contemplazione di tale legge, deriva, a posteriori, il sentimento di rispetto verso tale legge: il sentimento di rispetto non potrebbe mai e poi mai essere a priori rispetto alla legge morale perchè esso è soggettivo, varia da persona a persona; la soddisfazione del sentimento morale, dunque, viene dopo l'azione morale, anche perchè se compissi l'azione morale solo per provare il 'sentimento di rispetto', ovvero solo per provare soddisfazione e appagamento, non sarebbe più un'azione morale. Ne consegue che il sentimento di rispetto non deve essere motivo dell'azione, ma effetto . Anche la Critica della ragion pratica , come la Critica della ragion pura , ha una sua partizione, sebbene sia meno rilevante. La parte finora analizzata va sotto il nome di Analitica , e, accanto ad essa, vi è anche una Dialettica , in cui Kant cerca di risolvere problemi lasciati in sospeso nella Dialettica trascendentale della Critica della ragion pura , e, più precisamente, la questione relativa alle antinomie. Il senso della Dialettica della ragione pratica risiederà proprio nel riuscire a dare contenuto a quei concetti puri (idee) che nella Dialettica trascendentale erano rimasti vuoti: l'idea di Dio, di anima e di mondo. Delle 4 antinomie, a Kant interessa soprattutto quella riguardante il problema della libertà, e non tanto le 2 matematiche, poichè entrambe false. Più problematiche sono le antinomie dinamiche, perchè entrambe vere: una era vera a livello fenomenico (la necessità), l'altra poteva essere vera a livello noumenico (la libertà). Ora Kant dimostrerà reale, e non solo possibile, la libertà a livello noumenico, occupandosi anche delle 3 idee fondamentali: all'idea di anima corrisponderà l'affermazione dell'immortalità dell'anima, all'idea di mondo l'affermazione della libertà (a livello noumenico), all'idea di Dio l'affermazione della sua esistenza. Queste cose non possono essere dimostrate, ha detto Kant nella Critica della ragion pura , e come si fa dunque ad affermarle in ambito morale, come intende appunto fare il filosofo tedesco? Queste tre idee (immortalità dell'anima, libertà nel mondo, esistenza di Dio) vengono proclamate postulati della ragion pratica , devono cioè essere accettate per vere anche se indimostrabili, proprio come la geometria poggia su dei concetti non dimostrati ma accettati come validi. Si tratterà dunque di affermazioni teoretiche che devono essere ammesse a fronte della constatazione della legge morale e, pertanto, sono strettamente connesse ad essa. Sono dunque affermazioni di stampo teoretico (l'anima è immortale, Dio esiste, nel mondo noumenico vige la libertà), ma strettamente legate all'esperienza morale, tanto da essere inutilizzabili in campo teoretico. In concreto, l'esperienza morale mi può dare la convinzione incrollabile della libertà, dell'immortalità dell'anima e dell'esistenza di Dio senza che su questo si possa costruire una scienza, una filosofia e una teologia, vale a dire che, fuori dall'ambito morale, i postulati della ragion pratica non servono a nulla . Esaminiamo ora tali postulati, nell'ordine in cui li esamina Kant: il primo è il postulato della libertà . Nella Critica della ragion pura essa era stata dichiarata possibile, ma solo in ambito noumenico. In ambito fenomenico siamo costretti ad ammettere che tutto proceda in modo deterministico con la concatenazione causale. Una eventuale obiezione è che, se tutto fosse deterministico, allora potremmo prevedere il comportamento altrui, poichè esso dovrebbe seguire rigide leggi causali: Kant controbatte che l'uomo è un essere complesso ed ambiguo, e proprio per questo non si può prevedere il suo comportamento, sebbene a livello fenomenico tutto (uomo compreso) sia deterministico. Se lascio cadere un sasso, esso non può che cadere, ma se dico qualcosa ad una persona non posso sapere come si comporterà, proprio in virtù della sua complessità. Nella Critica della ragion pratica Kant, riprendendo concezioni erasmiane, non dice più che la libertà a livello noumenico è possibile, bensì sostiene che essa esiste effettivamente, sempre e solo a livello noumenico. Erasmo dimostrava l'esistenza della libertà umana facendo notare che Dio non avrebbe dato delle leggi all'uomo se l'uomo non avesse la libertà di seguirle. Ora, Kant non può ancora far leva sulla credenza in Dio perchè non ha ancora trattato il postulato dell'esistenza di Dio, e del resto la morale, per essere autonoma e non eteronoma, non può fondarsi su Dio; tuttavia egli può far leva su una legge. Infatti, dentro di noi c'è una legge, dettata dall'imperativo categorico, e l'esistenza di tale legge implica l'esistenza della libertà di ottemperarla . Questo ragionamento con cui afferma l'esistenza della libertà a livello noumenico, Kant lo chiama deduzione della libertà , in analogia con le due deduzioni delle categorie. Si parte da un fatto indimostrabile (l'esistenza della legge dentro di noi), un fatto della ragione, e da esso si 'deduce', cioè si giustifica, l'esistenza della libertà umana. Kant sintetizza la deduzione della libertà in un'espressione famosa: devo, dunque posso ; se è un mio dovere fare qualcosa, allora posso necessariamente anche farlo. Tuttavia, va notato, si tratta di un dovere formale, dove non mi si dice in termini contenutistici che se devo fare x, allora posso farlo. Secondo Kant è sempre possibile fare la cosa che in quel momento è giusto fare . Se fosse una morale di contenuti, allora non reggerebbe, perchè non è vero che se devo studiare, allora posso farlo, perchè magari le condizioni materiali me lo impediscono. In ogni condizione è sempre possibile assumere un comportamento che risponda alla forma delle legge, posso cioè sempre trovare quel comportamento che mi sembra giusto che tutti, universalmente, assumano. E' dunque sempre possibile un comportamento che risponda al carattere formale della legge; ciò non vuol dire che posso materialmente fare qualsiasi cosa, ma in ogni determinata condizione sono sempre libero, ho la possibilità di fare la cosa giusta. Se c'è il dovere, se c'è una legge, quindi, c'è anche la libertà, la possibilità, che tale legge sia rispettata, ovvero c'è quello che Erasmo chiamava 'libero arbitrio'.Questo non toglie che ogni nostro comportamento, a livello fenomenico, avvenga in maniera causale, ovvero come effetto di una causa; a livello fenomenico non constatiamo mai la presenza della libertà, ma solo la presenza della legge, ma se ammettiamo la legge non possiamo fare a meno di postulare l'esistenza della libertà. E con questo Kant risolve anche un' apparente contraddizione nella quale viviamo costantemente: veniamo puniti o premiati per i nostri comportamenti, ma se tutto procede deterministicamente nessuno merita premi o punizioni, poichè si comporta come non potrebbe non comportarsi, non in base ad una libera scelta. Eppure nessuno di noi si lascia convincere da questa considerazione: è fatto così e non poteva comportarsi diversamente, dunque non merita punizioni. Viviamo dunque in questa contraddizione, consideriamo i comportamenti come effetti necessari del carattere di qualcuno, ma poi consideriamo tali comportamenti indipendentemente dal carattere della persona. Con il discorso kantiano la contraddizione si risolve con la distinzione tra livello fenomenico, in cui tutto avviene secondo concatenazione e in cui è legittimo dire che un delinquente non potrà che delinquere perchè il suo carattere è così, e livello noumenico, in cui è vige la libertà e in cui il delinquente è libero di scegliere se delinquere o no. Quando sceglie di delinquere lo fa per sua libera scelta e per questo è suscettibile di giudizio morale, di premi o di punizioni, cosa impossibile se tutto fosse deterministico. Per chiarire il rapporto tra libertà e legge morale Kant si serve di due espressioni desunte dalla filosofia scolastica: la libertà è condizione sostanziale ( ratio essendi ) della legge morale, poichè non sarebbe possibile una moralità priva di libertà, dal momento che verrebbe meno la capacità del soggetto di essere libero, artefice delle proprie azioni, e di conseguenza esse non potrebbero essere giudicate buone o cattive. La legge morale, dal canto suo, è la condizione cognitiva ( ratio cognoscendi ) della libertà, nel senso che riesco a postulare la libertà solo grazie all'esperienza morale, in virtù della quale, appunto, mi percepisco come libero: sento la legge morale come fatto della ragione e postulo l'esistenza della libertà perchè ho l'esperienza morale. Si tratta dunque di due cose connesse tra loro, poichè senza legge morale non potrei postulare l'esistenza della libertà, ma senza libertà non potrei avere l'esperienza morale. Del resto, la libertà è ciò con cui effettuiamo le scelte ed esse sono regolate dalla rappresentazione della legge morale dentro di noi; muovendo da queste considerazioni, Kant perviene al 2° postulato della ragion pratica, l' immortalità dell'anima : nella Critica della ragion pura Kant ha spiegato che l'idea di anima deriva da un paralogismo, ovvero da un sillogismo sbagliato che ci porta a considerare l'Io come sostanza; ora Kant sottolinea il carattere 'categorico' (assoluto) dell'imperativo, facendo notare che l'essere categorico implica il non essere sottoposto a condizioni; ne consegue che l'imperativo categorico comanda ed impone la perfezione morale, proprio perchè non invita ad agire secondo i limiti della natura umana, bensì impone categoricamente di agire in un modo, e tale modo è perfetto. Come gli stoici sostenevano che chi è con la testa sott'acqua, che ce l'abbia a 100 metri o a soli 5 centimetri, affoga allo stesso modo, così Kant spiega che, se sono prossimo alla morale o sono lontanissimo da essa, sono allo stesso modo malvagio: o faccio perfettamente ciò che mi comanda l'imperativo categorico, o è come se non lo facessi. Nel 1° postulato la libertà veniva dedotta con la forma devo, dunque posso , dove Kant mostrava come la presenza di una legge implicasse necessariamente la possibilità, la libertà di osservarla; tuttavia, ci si trova di fronte ad una sorta di antinomia della ragion pratica, in quanto so che la legge morale, proprio perchè è una legge, può essere osservata, ma so anche che nell'uomo la razionalità è in conflitto con la sensibilità, con la conseguenza inevitabile che non potrà mai adempiere pienamente i dettami della morale perchè soggetto a impulsi fisici che spingono in direzioni antitetiche. La questione si risolve molto semplicemente, postulando l'immortalità dell'anima: c'è la legge dell'imperativo categorico e posso adempierla ( devo, dunque posso ), ma la natura empirica dell'uomo non me lo permetterà mai, ne consegue che solo ammettendo l'immortalità dell'anima posso ammetere un perfezionamento all'infinito del mio comportamento, fin quando non riuscirò ad osservare la legge morale . Questa soluzione è per molti versi simile a quella data al problema delle antinomie matematiche, che consisteva nel riconoscere che il mondo non è nè infinito nè finito, ma indefinito: in ambito morale, il comportamento dell'uomo è sempre imperfetto, moralmente indefinito, ma questo non impedisce di pensare ad un adeguamento alla perfezione, nella prospettiva di una vita eterna (immortalità dell'anima). Sotto questo profilo, l'adeguamento alla legge morale si configura come idea, ovvero come un qualcosa di riempibile di contenuti empirici solo all'infinito. L'esperienza morale, dunque, mi obbliga a postulare l'immortalità dell'anima per superare l'appena citata antinomia della ragion pratica. Anche in questo Kant si mostra perfettamente allineato con le posizioni illuministiche, pur rivelando alcune suggestioni preromantiche: così come in ambito teoretico la ragione è centrale, ma ha dei limiti, anche in ambito pratico l'uomo non è perfetto, ma è in cammino verso un perfezionamento all'infinito; così come la ragione non ci può far conoscere tutto, anche la legge morale non ci rende perfetti, ma ci fa migliorare all'infinito. Da notare che l'illuminismo di Kant è molto moderato, lungi da ogni estremismo, tant'è che egli, con i postulati della ragion pratica, finisce coll'ammettere tutti i capisaldi della tradizione religiosa cristiana, giungendo a riconoscere l'esistenza di un Dio del tutto analogo a quello cristiano, e non a quello dei deisti, puro e semplice garante dell'ordine nell'universo. Prima ancora di arrivare a postularne l'esistenza, infatti, Kant ha già stabilito quali siano le caratteristiche di Dio (unità e personalità) nella Critica della ragion pura , prendendo nettamente le distanze dal deismo imperante all'epoca e accostandosi al teismo pascaliano, pur rifiutando, in un'ottica illuminista, tutti gli elementi di fanatismo e di superstizione. Con la formula devo, dunque posso l'imperativo categorico deve poter essere adempiuto: e così Kant ha già postulato la libertà del mondo e l'immortalità dell'anima. Tuttavia, a ben pensarci, ciò che ciascuno di noi può desiderare come perfetto adempimento della legge morale non è il puro e semplice adempimento della legge morale in sè, ma è l'adempimento della legge morale accompagnato da una felicità corrispondente: nessuno può desiderare di adempiere la legge morale e basta, ma vuole che accanto a tale adempimento vi sia anche una felicità che da esso deriva. Del resto, vedere un comportamento moralmente perfetto non accompagnato dalla felicità o, addirittura, accompagnato dall'infelicità ci porterebbe a credere che è un'ingiustizia e che il mondo, in fin dei conti, è privo di morale; ciascuno di noi concepirebbe infatti come immorale osservare la legge morale ed essere infelici, poichè convinto che al merito debba seguire un premio. Tutti noi, bene o male, ci attendiamo che dal comportarsi perfettamente derivi una certa felicità, quasi un premio al merito; questa tendenza ad attendersi la felicità dall'adempimento della legge morale deriva dalla nostra natura in parte empirica: se fossimo esseri puramente razionali, l'adempimento della legge morale ci darebbe una piena soddisfazione, ma dal momento che siamo esseri anche empirici, capaci di provare piaceri e dolori, viviamo nella convinzione che l'adempimento della legge morale debba essere accompagnato da una felicità da esso derivata, altrimenti resterebbe in noi un senso di presenza dell' ingiustizia permeata nel mondo. Il presupposto su cui si basa il ragionamento resta quello della possibilità di raggiungere la perfezione morale predicata dall'imperativo categorico; per chiarire il discorso Kant distingue tra bene sommo e bene supremo. Il bene, nell'ottica kantiana, è un concetto derivato, poichè è bene ciò che il dovere mi dice di fare, con la conseguenza che il bene non è un qualcosa verso cui muovere. Il bene supremo è il più alto tra tutti i beni possibili, mentre il bene sommo è il bene completo, perfetto e compiuto: Kant nota che il bene supremo non può essere nè il piacere nè la felicità, dal momento che l'unica cosa buona in assoluto è la volontà buona, mentre tutte le altre sono buone solo in riferimento ad altre cose, e non in sè (ad esempio, l'intelligenza è buona solo se governata dalla buona volontà); è forse un bene che la felicità si accompagni a persone moralmente cattive? Viene istintivo sperare che chi agisce moralmente male non goda di felicità. Ecco allora che il bene supremo è la virtù intesa come corrispondenza alla legge morale, è la 'santità', ovvero una virtù perfetta: adempiere al dovere è una virtù, adempiere perfettamente al dovere è una virtù perfetta. Il bene sommo, al contrario, non è la pura e semplice santità , non è una virtù perfetta e basta, proprio perchè senza felicità o piacere, come accennato, la virtù perfetta non la vivremmo come bene sommo. Dunque, in una persona che si comporta perfettamente, ma soffre moltissimo, senza avere felicità di sorta, riconosceremo il bene supremo, ma non il bene sommo . Pertanto il bene sommo è la virtù perfetta (santità) più la felicità corrispondente, ed esso deve poter essere realizzato altrimenti l'uomo, comportandosi moralmente bene senza essere ricompensato, finirebbe per provare un senso di ingiustizia nel mondo. L'immortalità dell'anima mi garantisce che, sul lungo termine, una virtù perfetta è acquisibile, ovvero mi garantisce la possibilità dell'acquisizione del bene supremo; ma cosa può garantismi l'acquisizione del bene sommo? Kant è pienamente consapevole di trovarsi di fronte ad un problema vecchio quanto il mondo e ritiene che due siano i tipi di soluzione, uno analitico e l'altro sintetico. La soluzione di tipo analitico è quella che sostiene che la felicità e la virtù sono la stessa cosa e che l'una deriva analiticamente dall'altra, come dal concetto di triangolo deriva il fatto che esso abbia tre lati. Di questo stampo sono la filosofia epicurea (la virtù come ricerca intelligente del piacere) e quella stoica (la felicità come coscienza della virtù), che si fondano sulla convinzione che è lo stesso perseguimento della virtù e del piacere a dare la felicità. Kant sa che questo è il frutto di un esasperato ottimismo tipicamente ellenistico, e sa altrettanto bene che virtù e felicità sono due cose diverse, spesso in conflitto tra loro: tra il perseguimento della felicità e il perseguimento del dovere intercorre spesso, per non dire sempre, un'aspra conflittualità. L'imperativo categorico ci dice che tra virtù e felicità c'è un collegamento che deve per forza essere di tipo sintetico: il perseguimento della felicità può comportare come conseguenza l'acquisizione della virtù, o viceversa; a chi si comporta moralmente bene tendono ad accadere cose che gli danno la felicità. Di tipo sintetico era la soluzione data da Socrate e da Platone, convinti entrambi che da un buon comportamente dovessero necessariamente derivare dei premi. Tuttavia quest'unione sintetica per cui dalla felicità deriva la virtù (o viceversa) non è garantita dalle leggi di natura, le quali non implicano che da un buon comportamento derivi la felicità, ne consegue che per rendere possibile tale collegamento sintetico si debba postulare l'esistenza di un ente onnipotente che garantisca corrispondenza tra virtù e felicità: così Kant postula l' esistenza di Dio . Quando mi comporto bene le leggi di natura non mi danno la felicità, ma è Dio a darmela, il quale garantisce l'esistenza del sommo bene (virtù + felicità). Perchè ci possa essere il sommo bene occorre postulare l'esistenza di Dio , ma non del Dio deistico (garante dell'ordine fisico nel mondo), bensì del Dio teistico (garante dell'ordine morale nel mondo): è la condizione senza la quale la legge morale cade. Pertanto la formulazione devo, dunque posso mi permette di postulare la libertà nel mondo, l'immortalità dell'anima e l'esistenza di Dio, anche se queste tre cose restano indimostrabili: non è la ragione a garantirmele, ma è l'esperienza morale. Solo dopo aver avuto l'esperienza morale, infatti, posso avere la convinzione di queste cose. Del resto conoscere razionalmente l'esistenza di Dio prima dell'esperienza morale vorrebbe dire annullare il merito dell'universo, annullare ciò che ci rende degni di felicità: il dovere. Essendo razionalmente certi dell'esistenza di Dio, non agiremmo più in termini morali, ma solo per guadagnarci l'amore di Dio e la conseguente nostra salvezza, facendo così crollare la moralità e con essa la felicità che ne deriva. Questo è uno dei tanti aspetti dell'autonomia della morale kantiana: in campo morale l'uomo è indipendente da motivazioni empiriche, ma anche da motivazioni religiose. Dio lo intravedo come effetto dell'esperienza morale e la morale, per così dire, implica un comportamento come se Dio non esistesse, un comportamento dove io compia il bene come dovere e non come mezzo per garantirmi la salvezza. In La religione entro i limiti della sola ragione (1793) , il cui titolo è di forte sapore illuministico, Kant si propone di eliminare tutti gli elementi di superstizione che contaminano la religione. Kant si professa profondamente cristiano e la superiorità che egli riconosce nel cristianesimo rispetto alle altre religioni non sta nella rivelazione, ma nell'avere contenuti identici a quelli che ci impone la legge morale, la quale è però del tutto autonoma, sganciata dal cristianesimo. Il cristianesimo va dunque apprezzato, secondo Kant, per la sua grande coerenza con i dettami della ragione pratica, con il suo esasperato tentativo di rinvenire l'universalità: l'imperativo categorico ricerca l'universalità imponendomi di agire in modo che ogni mia massima diventi motivo, il cristianesimo imponendomi di non fare ad altri ciò che non vorrei fosse fatto a me. Proprio qui risiede la prova della verità del cristianesimo secondo Kant. La figura di Gesù, dunque, si configura agli occhi del pensatore tedesco come l'incarnazione dell'imperativo categorico.
LA CRITICA DEL GIUDIZIO
La terza grande opera filosofica di Kant è la Critica del Giudizio (1790). Nella traduzione italiana si trova quasi sempre la parola Giudizio con la 'g' maiuscola, per evidenziare che il giudizio in questione non è quello della Critica della ragion pura , sinonimo di proposizione ovvero di attività unificatrice. Il giudizio di cui parla ora Kant è la facoltà del giudicare, e non l'atto del giudicare, ovvero l'esprimere giudizi: all'inizio dell'opera, si attua un'ulteriore distinzione, spiegando che il giudizio in questione, oltre a non essere quello della prima Critica, non è nemmeno il giudizio determinante , bensì è quello riflettente . Giudizio determinante è quello in cui ci si inbatte predicando qualcosa in modo oggettivo, dicendo ad esempio che il libro è sul tavolo o che A è causa di B ; è definito giudizio determinante proprio perchè determina l'oggetto (il libro, A, ecc) dei giudizi. Al contrario, il giudizio riflettente , proprio della Critica del Giudizio , è la facoltà del giudicare che si estrinseca nei giudizi, senza determinare l'oggetto ma limitandosi ad interpretarlo: il giudizio riflettente non determina gli oggetti (come fa il giudizio determinante), ma li trova già determinati dall'applicazione delle categorie e non fa altro che riflettere su essi interpretandoli. Dunque, i giudizi con le categorie hanno funzione determinante, ma quando trovo l'oggetto già determinato dalle categorie mi limito ad interpretarlo, a riflettere sull'oggetto già costituito. La forma a priori in base alla quale si interpretano gli oggetti nel giudizio riflettente è il concetto di finalità, che, in sostanza, altro non è che una 4° idea di cui Kant non ha ancora parlato. Si tratta di un'idea in quanto è un concetto non dell'intelletto, ma della ragione, ovvero non può essere riempito di contenuto empirico. In base alle categorie, infatti, il mondo fenomenico può essere interpretato solo secondo il meccanicismo, e non riusciremo mai a trovare in esso il finalismo: ne consegue che il concetto puro di finalità è un'idea, che nel mondo fenomenico non potrà mai essere riempita di contenuti, ma in quello noumenico, definito anche da Kant regno dei fini , lo sarà. Un insieme di fenomeni non potrà mai pienamente soddisfare il concetto puro di finalità, ma, ciononostante, noi lo applichiamo a due ambiti distinti ma, secondo Kant, tra loro connessi: avremo dunque due tipologie di giudizio riflettente, il giudizio estetico e il giudizio teleologico . Il giudizio estetico è il giudizio sul bello, il giudizio teleologico (dal greco teloV , fine ) è il giudizio sull'esistenza di finalità nel mondo biologico e naturale. Quando asserisco che il paesaggio che ho di fronte è bello formulo un giudizio estetico , quando invece dico che il cavallo ha gli zoccoli per camminare su terreni scoscesi formulo un giudizio teleologico. Da notare che qui Kant usa il termine 'estetico' nel senso comune, come 'ciò che ha a che fare con il bello', e non, come lo aveva usato nella Critica della ragion pura , con il significato di 'ciò che ha a che fare con la sensibilità'. Dire che il paesaggio che ho di fronte è bello è un giudizio riflettente estetico e non teleologico perchè con esso non fornisco informazioni oggettive, mi limito ad applicare il concetto di bellezza ad un qualcosa e, così facendo, non determino nulla: il paesaggio che dico essere bello è già determinato come oggetto di conoscenza dalla categoria di sostanza, con la conseguenza che interpreto un oggetto che ho e che non determino; ad esso applico un giudizio estetico, scevro da informazioni oggettive e scientifiche, una mera riflessione su un giudizio già determinato. Anche il giudizio teleologico è riflettente, poichè ha a che fare con la finalità. Infatti, predica la finalità al mondo biologico e naturale, sostenendo che il cavallo ha gli zoccoli per camminare su terreni scoscesi o che piove perchè la vegetazione cresca . L'intera fisica aristotelica era di stampo teleologico, ma Kant è convinto che il giudizio teleologico non possa avere validità scientifica: la spiegazione del perchè il cavallo abbia gli zoccoli non potrà che risiedere nei fatti materiali e meccanici, cioè nei fatti che hanno portato il cavallo ad essere dotato di zoccoli, e non potrà essere trovata nella presunta finalità per cui li ha. Per Kant, dunque, l'unica via possibile resta quella della fisica meccanicistica di matrice newtoniana, dove, in parole povere, ogni fatto che sta dietro determina quel che sarà dopo e non, viceversa, dove è quello che verrà dopo a determinare quel che è prima, come nei giudizi teleologici: scientificamente sarà dunque scorretto dire che l'esigenza di poter camminare su terreni scoscesi ha fatto sì che il cavallo avesse gli zoccoli. Sarà invece corretto dire che, meccanicisticamente, determinati fatti hanno fatto sì che, con il processo causa-effetto, il cavallo avesse gli zoccoli. Resta ora da chiarire che tipo di rapporto vi sia tra i due giudizi riflettenti, estetico e teleologico: in primo luogo, sono entrambi riflettenti, interpretano cioè oggetti già determinati dalle categorie; in secondo luogo entrambi hanno a che fare con l'idea di finalità, sebbene nel giudizio teleologico si pretenda di coglierla nei rapporti che legano tra loro le varie parti di un ente biologico (gli zoccoli e il cavallo), mentre nel giudizio estetico si ha la pretesa di coglierla nel rapporto che si instaura tra il soggetto e l'oggetto. Infatti, secondo Kant, il giudizio estetico è un giudizio sul particolare tipo di relazioni che si instaurano tra il soggetto e l'oggetto, e non tra le sole parti dell'oggetto (come è invece nel teleologico). Di fronte ad un cavallo posso dire che ha gli zoccoli per camminare su terreni scoscesi (giudizio teleologico) o posso dire che è un bell'animale (giudizio estetico) , senza giudicare se gli zoccoli sono fatti per realizzare dei fini. Kant fa l'esempio del fiore: un botanico, osservandololo, dirà che tutte le parti che lo compongono (i petali, lo stelo, ecc) servono a qualcosa, sono in vista di un fine, una persona qualunque invece dirà semplicemente che il fiore è bello. A ben pensarci, se è evidente che nel giudizio teleologico vi sia la finalità, meno evidente è che essa sia presente nel giudizio estetico: Kant spiega che l'estetico è un giudizio in cui si rileva una sorta di finalità senza però poterla determinare a fondo. Una cosa, infatti, ci appare bella quando dà l'impressione che in essa vi sia una specie di progetto, che non sia stata fatta a caso, che ci sia cioè un fine in essa, sebbene non si sia in grado di definirlo (a differenza del giudizio teleologico). La differenza tra i due giudizi sta proprio nel fatto che nel teleologico si definisce perfettamente la finalità, mentre nell'estetico la si avverte soltanto . E' interessante notare come Kant si accorga che i giudizi estetici siano formulabili tanto su cose naturali quanto su cose artificiali: fa notare che in entrambe i casi si avverte una sorta di finalità, tant'è che si è soliti dire, di fronte ad una cosa artificiale, che è talmente bella da sembrare vera e, di fronte ad una cosa naturale, che è talmente bella da non sembrare vera, quasi come se cogliessimo una sorta di progettualità in esse. Così, di fronte ad un bel paesaggio avremo l'impressione che esso sia il frutto del lavoro di un giardiniere e, di fronte ad un bel quadro, avremo l'impressione che si tratti di un qualcosa di reale. Di sfuggita, si può notare che Kant ha soprattutto in mente la bellezza naturale e poche volte fa riferimento a quella artificiale. Ricapitolando, una cosa è bella quando sembra manifestazione di un progetto, volta a realizzare un fine. Kant darà 4 definizioni del bello ed è interessante notare che in una di esse finirà per dire che è bello ciò che manifesta una finalità senza scopo: nel linguaggio kantiano, scopo è una finalità determinabile o già determinata, mentre finalità è una finalità vaga, non determinata nè determinabile. La finalità del giudizio estetico, del bello, è priva di scopo proprio perchè la si avverte ma non la si può determinare, mentre la finalità del giudizio teleologico è una finalità dotata di scopo , poichè riesco a determinarla, a dire effettivamente quali sono i fini delle cose che vedo. In origine Kant non aveva previsto la composizione della Critica del Giudizio in quanto restava esclusa dalla ragione e dai suoi due ambiti (teoretico e morale) la possibilità di fare una critica del gusto, del giudizio riflettente, poichè esso è fondato sul sentimento e non sulla ragione: una critica, diceva Kant, può essere costruita solo sulle facoltà razionali, tant'è che l'intero impianto delle prime due critiche si fonda sulla convinzione che le due esperienze, gnoseologica e morale, non si fondino sui sentimenti. Tuttavia Kant si rese conto che è senz'altro vero che il gusto ha a che fare con il sentimento e che il giudizio di bellezza non è nè teoretico nè pratico, ma fondato sul sentimento estetico; però si rese anche conto che il sentimento su cui si fonda il giudizio di bellezza deriva dal funzionamento delle nostre facoltà conoscitive . Partendo da questa considerazione, Kant riesce a spiegare una cosa molto particolare, ossia che i giudizi di bellezza non sono nè universali nè particolari . Che non siano universali è evidente, in quanto si fondano sui sensi e non sulla ragione: se dico che il libro è sul tavolo , si tratta di un'affermazione valida per tutti, perchè tutti hanno le categorie nelle loro strutture mentali; ma se dico che mi piace il gelato al cioccolato , si tratta di un'affermazione fondata sui sensi e quindi valida per me, magari per molti altri, ma non per tutti. Tuttavia i giudizi di bellezza, a ben pensarci, sono stranissimi: non mi sarà mai possibile dimostrare a qualcuno che una cosa è bella, ma, ciononostante, ho la convinzione, quasi la pretesa, dell'universalità della mia affermazione. Ecco dunque che affiora il carattere non universale ma neanche particolare di tali giudizi. Accanto ai giudizi puramente oggettivi (conoscitivi e morali) e soggettivi (di gusto: mi piace il gelato al cioccolato), vi saranno quelli estetici (giudizi di bellezza), che non sono nè soggettivi nè oggettivi. Del bello si può parlare, si può argomentare a favore della bellezza di una cosa, nutrendo sempre la pretesa che la nostra affermazione sia universale pur non potendolo dimostrare perchè si basa pur sempre su un sentimento. Questo sfumato carattere di ambiguità può essere spiegato in questo modo: i giudizi estetici si fondano sul sentimento (soggettività), ma derivano dall'applicabilità delle nostre categorie conoscitive (oggettività) . Ecco perchè Kant parlerà di universalità soggettiva . Come accennavamo, Kant dà 4 definizioni del bello, apparentemente in contrasto fra loro. Quattro erano i gruppi delle categorie e, se il giudizio estetico deriva in qualche misura dalle nostre facoltà conoscitive, non c'è nulla di strano se 4 sono anche le definizioni del bello. Kant compie un'argomentazione piuttosto complessa e, alla fine, ne desume la 1° definizione del bello: ' il gusto è la facoltà di giudicare un oggetto o un tipo di rappresentazione mediante un piacere, o un dispiacere, senza alcun interesse. L'oggetto di un piacere simile si dice bello '. In sostanza con questa prima definizione Kant dice che il bello è ciò che è oggetto di un piacere disinteressato . La 2° definizione invece recita: ' è bello ciò che piace universalmente senza concetto ', ovvero è bello ciò che piace a tutti, universalmente . La 3° dice invece: ' la bellezza è la forma della finalità di un oggetto, in quanto questa vi è percepita senza la rappresentazione di uno scopo ', ovvero è bello ciò che mostra una finalità non del tutto determinabile, priva di scopo. Infine, la 4° definizione dice che ' il bello è ciò che, senza concetto, è riconosciuto come oggetto di un piacere necessario ', ovvero che è bello ciò che è oggetto di un piacere necessario . Si possono analizzare insieme la 1°, la 2° e la 4° definizione: nella 2° e nella 4° tornano le nozioni di universalità e di oggettività, creando una sorta di contraddizione. Come fa una cosa a piacere a tutti (universalmente) e necessariamente? Ciò che piace, infatti, piace soggettivamente e accidentalmente, tant'è che sui gusti non si può discutere. In entrambe le formulazioni (la 2° e la 4°) Kant aggiunge la condizione senza concetto , facendo notare che nei giudizi di gusto non può nè deve essere in azione un concetto, altrimenti si tratterebbe di un giudizio oggettivo, di conoscenza, ovvero un giudizio determinante, e non riflettente. Il giudizio in questione è un sentimento e, come tale, non ha concetto, ma dato che tale sentimento di piacere deriva in qualche modo dall'applicazione delle facoltà conoscitive, allora sarà un piacere che, pur senza concetto, potrà aspirare ad avere una valenza universale e necessaria. Essendo un piacere sensibile e non un giudizio conoscitivo dovrà per forza essere senza concetto , non strettamente legato alle categorie. Nella 1° definizione Kant asserisce che è bello ciò che piace in modo disinteressato: anche qui ci troviamo di fronte ad un'aporia, poichè le cose non piacciono mai in modo disinteressato, ma sempre e solo nella misura in cui servono a qualcosa. Solo le cose a carattere morale o conoscitivo sono disinteressate: le cose sono così o è giusto fare così, senza che vi sia un 'interesse' affinchè lo siano. Ma per quel che riguarda il piacere, le cose mi piacciono nella misura in cui mi servono: un cibo, per esempio, mi piace nella misura in cui mi soddisfa l'appetito. I giudizi di gusto hanno dunque sempre a che fare con l'esistenza di qualcosa, fa notare Kant: mi piace il cibo nella misura in cui esiste o in cui potrebbe esistere, proprio perchè così posso usarlo. Però, a ben pensarci, i giudizi estetici sono disinteressati, dice Kant, poichè godono non dell'esistenza di qualcosa, ma della rappresentazione dell'esistenza di qualcosa: mi piace il cibo perchè posso mangiarlo, ma se mi trovo a pancia piena di fronte ad un bel piatto ben presentato, pur non usandolo per nutrirmi, posso darne un giudizio positivo, può piacermi e posso definirlo bello. Si tratta dunque di due giudizi diversi: mi piace il cibo per mangiarlo (interessato), mi piace il cibo perchè è bello, ben presentato (disinteressato). Quando dico che mi piace il formaggio, formulo un giudizio ben diverso rispetto a quando dico che mi piace il quadro dipinto del formaggio: nel primo caso ho l'esistenza e dunque il giudizio interessato, nel secondo caso ho la rappresentazione dell'esistenza e quindi il giudizio disinteressato. Nel caso del quadro del formaggio, il giudizio è slegato dall'esistenza ed è dunque disinteressato, non mi piace solo perchè mi serve. E proprio in quanto disinteressato, sganciato dall'esistenza effettiva della cosa in questione e dall'uso che posso farne, tale giudizio può aspirare ad essere universale e necessario. Ecco perchè la 1°, la 2° e la 4° definizione del bello sono tra loro connesse. Si può notare che i 4 gruppi delle categorie erano quantità, qualità, relazione e modalità; ora, ogni definizione del bello può essere confrontata, poichè in qualche misura ne deriva, alle categorie. La 1° definizione del bello, infatti, dice che esso è disinteressato (qualità), la 2° dice che è universale (quantità), la 4° dice che è necessario (modalità), e la relazione? Essa subentra con la 3° definizione del bello: la categoria di relazione più importante era quella di causalità ed ora entra in gioco una nuova causalità, quella di tipo finalistico. La 3° definizione, infatti, dice che una cosa è bella quando mostra una finalità senza scopo, ovvero una finalità non determinabile, che sfugge all'inquadramento in un concetto (il concetto di finalità). Proprio come nella 2° e nella 3° definizione si poneva la condizione di essere senza concetto , così adesso Kant impone pure nella 3° definizione l'assenza di concetto, in particolare del concetto di finalità. Con queste affermazioni Kant sottolinea il carattere di autonomia del giudizio estetico, il suo esulare sia dall'ambito teoretico sia dal morale: esso infatti non è nè un giudizio di verità, nè di moralità, nè teoretico nè pratico, poichè dire che una cosa è vera o è giusta è altra cosa rispetto al dire che è bella o brutta. I giudizi estetici, poi, emergono in altro modo rispetto a quelli morali e a quelli teoretici, anche se sono presentati da Kant come ponti tra il mondo fenomenico e quello noumenico. Questo aspetto è particolarmente importante e spiega perchè la Critica del Giudizio è l'opera kantiana che offre più aperture al Romanticismo. Se la Critica della ragion pura è dedicata al mondo fenomenico (poichè la conoscenza legittima ha a che fare solo con il mondo fenomenico) e la Critica della ragion pura è dedicata al mondo noumenico (poichè la morale si fonda sul mondo noumenico, mettendomi in contatto con esso, di cui è ratio cognoscendi ), la Critica del Giudizio , invece, può assurgere, a pieno titolo, a vero e proprio ponte tra i due mondi, noumenico e fenomenico . Nell'esperienza estetica e in quella teleologica, infatti, è come se avessimo l'impressione che elementi del mondo noumenico filtrassero in quello fenomenico, con percorsi di remota ascendenza platonica. L'idea del bello, diceva Platone, si trova in una posizione privilegiata, poichè è più evidente a livello sensibile: è l'unica cosa in sè che riesce a filtrare nel mondo fenomenico. Pertanto l'esperienza estetica e quella teleologica sembrano farmi cogliere nel mondo empirico elementi di quello noumenico, come se filtrasse ciò che soggiace alla realtà fenomenica: una cosa, infatti, è bella nella misura in cui mostra finalità, poichè mi dà l'impressione di cogliere elementi di quella finalità che in termini conoscitivi non posso mai legittimamente predicare, in quanto esula dalle categorie. E' quasi come se cogliessi un barlume di finalità in quel mondo fenomenico, retto dalla rigida causalità di tipo meccanicistico. Ed è proprio per questo che la Critica del Giudizio costituisce un ponte tra i due mondi (un pò di mondo noumenico, tramite il bello, filtra in quello fenomenico) e dai Romantici fu giudicata la migliore delle tre. I Romantici, infatti, rifiuteranno tutte le cautele illuministiche di Kant, secondo le quali non si può mai attingere l'essenza profonda della realtà: essi vorranno cogliere l' essenza più intima della realtà e, per realizzare questo fine, cercheranno nella natura non già leggi meccanicistiche, bensì princìpi vitalistici, quasi come se la natura, sulla scia di quanto aveva detto Aristotele, fosse vivente. In Kant, però, questa tenue apertura al Romanticismo non ha valenza conoscitiva, così come non l'avevano i postulati della ragion pratica, i quali, pur mettendomi in contatto col mondo noumenico, non potevano in alcun modo fondare la conoscenza. Quanto detto per i postulati della ragion pratica vale per i giudizi estetici e teleologici: per Kant non è legittimo costruire una fisica di stampo teleologico, l'unica via possibile è quella meccanicistica di ascendenza newtoniana, checchè ne pensino i Romantici. A questo punto, Kant spiega come nasca il giudizio estetico: esso scaturisce da un libero gioco delle facoltà , ovvero da un accordo spontaneo tra l'immaginazione e l'intelletto . Con questo, Kant vuole dire che vi sono situazioni in cui abbiamo l'impressione che il nostro oggetto empirico sia costituito in maniera tale da essere del tutto adatto alle nostre facoltà conoscitive. Di fronte a certi oggetti già determinati si ha quasi l'impressione, in virtù della loro armonia, che essi si adattino in modo spontaneo al lavoro unificatorio delle nostre capacità conoscitive, come se vi fosse appunto un accordo spontaneo tra l'immaginazione e l'intelletto. Ed è proprio questo che fa nascere il giudizio estetico: a farci provare piacere di fronte ad una cosa, a farcela sembrare bella, è questa specie di spontanea corrispondenza tra oggetto e categorie. Così come proviamo piacere a stare in un ambiente nè troppo caldo nè troppo freddo perchè tale situazione è particolarmente adatta alla nostra costituzione fisica, allo stesso modo proviamo piacere nell'osservare un oggetto che ci sembra particolarmente adeguato alle nostre categorie. Proprio in questo consiste il libero gioco delle facoltà , ovvero nel rendersi conto spontaneamente che l'oggetto che abbiamo di fronte calza a pennello con le categorie che costituiscono il nostro apparato gnoseologico. Si tratta di un piacere sensibile, ma che deriva da una sorta di gioco delle nostre categorie e proprio per questo il giudizio estetico non è nè universale nè soggettivo. Certo nel giudizio estetico non c'è una vera e propria applicazione delle categorie, c'è un gioco libero, uno svago delle categorie, le quali sono in azione in modo sfumato, vi è uno spontaneo adeguamento di immaginazione ed intelletto. Naturalmente, proprio perchè non scaturisce da un'apllicazione sistematica e rigorosa, il giudizio estetico non può aspirare ad essere un giudizio teoretico, come invece riterranno lecito fare i Romantici: per loro, in fin dei conti, l'artista finirà per cogliere la verità più dello scienziato. Ora si capisce benissimo perchè a suscitare il sentimento del bello sono gli oggetti con l'apparenza di progettualità intrinseca, di armonia, dotati di forma: di fronte ad un bel paesaggio abbiamo l'impressione che sia finto perchè ci sembra che qualcuno avente le nostre stesse facoltà conoscitive l'abbia posto lì apposta per noi; si tratta però di un'impressione, non di una verità oggettiva, come crederanno i Romantici. Tuttavia il ragionamento effettuato sul sentimento estetico funziona solo per l'arte in auge all'epoca di Kant, arte che, peraltro, stava già per essere superata: l'arte che possiamo giudicare bella in base al criterio kantiano è quella di forma, tant'è che per Kant l'elemento centrale nelle opere d'arte era il disegno (simbolo di formalità, oltrechè di razionalità) e non il colore. L'arte romantica tenderà già a sfuggire al discorso kantiano in quanto sempre più legata ai colori e staccata dal disegno. Accanto al giudizio estetico di bellezza, Kant riconosce anche, come oggetto del giudizio estetico, il sublime , il concetto che segna l'apice dell'avvicinamento di Kant al Romanticismo. Se bello è ciò che deriva dalla forma, dalla progettualità intrinseca, quando invece ci troviamo di fronte ad un oggetto che sfugge alla possibilità di inquadramento da parte delle nostre facoltà conoscitive (ovvero da parte dell'intelletto), quando cioè l'oggetto oltre a sfuggire alla possibilità di essere colto dai sensi perchè è sterminato sfugge anche all'intelletto perchè è infinito e può essere apprezzato dalla sola ragione (la facoltà dell'infinito), allora abbiamo a che fare col sentimento del sublime. La sensibilità e l'intelletto si perdono, non riescono a star dietro all'oggetto, e solo la ragione, come facoltà dell'infinito, tiene duro. Kant, come per le antinomie della ragion pura, distingue tra due tipi di sublime. Il sublime matematico è quel sentimento che si prova di fronte all'infinita grandezza (ecco perchè è matematico) della natura: Kant cita due esempi, il cielo stellato che sta sopra di noi e le imponenti catene montuose. Il sublime dinamico (dal greco dunamiV , potenza ) è quel sentimento che si prova di fronte non all'infinita grandezza della natura, ma di fronte alla sua infinita potenza. Kant fa, in merito, l'esempio del mare in tempesta. Sia nel sentimento che per oggetto ha il sublime dinamico sia per quello che ha il sublime matematico, l'oggetto in questione (vuoi il mare in tempesta, vuoi il cielo stellato o le montagne) non si adegua spontaneamente a noi e alle nostre facoltà conoscitive, ma ci incute timore perchè manifesta la sterminata grandezza e la sterminata potenza della natura di fronte alla sterminata piccolezza e impotenza dell'uomo. Pare dunque che il sublime sia un sentimento negativo, ma non è così: mentre il bello è univocamente positivo, il sublime è positivo e negativo al tempo stesso. Il dovere morale era positivo e negativo allo stesso tempo perchè ci faceva sentire inferiori per il nostro lato empirico, ma superiori per il lato razionale; allo stesso modo, il mare in tempesta ci fa sentire la nostra impotenza fenomenica, ma anche la nostra grandezza e superiorità sul piano razionale e noumenico. Il bello è finito, il sublime è infinito; il bello ha a che fare con l'intelletto, il sublime con la ragione. Contemplare il cielo stellato dà un sentimento di sublime, ci fa sentire inferiori all'infinita grandezza della natura, ma anche superiori in quanto razionali. Non può senz'altro sfuggire che vi sia una radice comune alla morale e al sentimento, cosicchè l'estetica presenta affinità con la morale: quando si parla di fini, infatti, si ha una sorta di sentimento di un finalismo della natura, di un'omogeneità tra noi e la natura, quasi come se la barriera che separa mondo fenomenico e mondo noumenico si facesse più sottile e ci permettesse di vedere un pò di più al di là del mondo fenomenico. Accanto al giudizio estetico c'è quello teleologico : esso presuppone l'attribuzione oggettiva di un finalismo a determinati oggetti di natura, una finalità con scopo, ovvero chiaramente determinabile (a differenza di quella del giudizio estetico). A proposito degli estetici, Kant specificava che si trattava di giudizi senza concetto ; nei teleologici, invece, esso è presente e altro non è che il concetto di finalità attribuibile alle cose che vediamo. La finalità è una sorta di 4° idea, poichè non è mai riempibile di esperienze sensibili. Tuttavia, Kant sembra imboccare una strada senza via d'uscita, collocandosi su un terreno a metà strada tra il meccanicismo seicentesco e settecentesco e il finalismo romantico. Infatti, Kant asserisce che le spiegazioni scientifiche sono sempre e soltanto di tipo meccanicistico, tuttavia è convinto che vi siano fenomeni fisici che non potranno mai essere totalmente risolti in termini meramente meccanicistici. Fa l' esempio del filo d'erba e del verme: in una logica meccanicistica, dovrebbero ambedue poter essere spiegati in termini deterministici di causa-effetto, eppure una spiegazione di tal genere non sarà mai del tutto soddisfacente. Pare dunque che, se tutto è spiegabile meccanicisticamente, l'esistenza degli esseri viventi non è mai un fatto puramente meccanicistico, tende a sconfinare nel finalismo. Le spiegazioni di tipo finalistico-organicistico impereranno in età romantica con la conseguenza che si considererà come organismo anche ciò che sembra meno adatto a tali interpretazioni, ad esempio la politica (Hegel). Se per i meccanicisti alla Cartesio il tutto è in funzione delle parti come in un orologio (i cui ingranaggi possono benissimo funzionare da soli, ma senza di essi l'orologio non va avanti), per gli organicisti alla Hegel le parti sono in funzione del tutto come in un albero (in cui le radici e le foglie non possono vivere da sole, ma ciascuna può esistere solo se esiste il tutto). Ora Kant si colloca a metà strada tra le due interpretazioni, sostenendo che una spiegazione puramente meccanicistica non potrà mai soddisfare pienamente l'esistenza dell'albero e, più in generale, degli esseri viventi: ogni organismo, infatti, cerca di raggiungere uno scopo, mira ad un fine e tale finalità non è inquadrabile dalle categorie proprio perchè esse riconoscono solo la causalità meccanicistica. Sembra dunque che non ci sia via d'uscita, a meno che non si ammetta che il concetto di finalità sia un'idea e, accanto all'illegittima funzione costitutiva, le idee hanno la funzione regolativa. Ne consegue che dovrò guardare all'albero e ad ogni essere vivente come se fosse organizzato in termini finalistici. L'ammissione provvisoria del finalismo serve come guida per dare di volta in volta singole spiegazioni, le quali saranno sempre rigorosamente meccanicistiche: dovrò indagare minuziosamente e meccanicisticamente sulle varie parti del mondo biologico come se fossero organizzate finalisticamente. Dire che il cavallo ha gli zoccoli per camminare su terreni impervi e ha quattro gambe per correre più velocemente deve essere il punto di riferimento ideale per indagare correttamente quale processo meccanicistico ha fatto sì che il cavallo avesse gli zoccoli e quattro gambe. Del resto, quando pensiamo all'evoluzione dei viventi, la pensiamo sempre in termini finalistici (l'organismo si adatta a), pur sapendo che le cose sono andate meccanicisticamente (c'è stato un errore genetico e gli individui che ne sono stati caratterizzati sono sopravvissuti, gli altri no). Guardiamo cioè ad un quadro generale di stampo finalistico per spiegare uno ad uno fatti meccanicistici.
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