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Morbo di Alzheimer




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Morbo di Alzheimer


Il morbo di Alzheimer è una demenza progressiva invalidante più frequente nel soggetto anziano ma che può manifestarsi anche prima dei cinquant'anni.

Prende il nome dal suo scopritore, Alois Alzheimer.

La malattia o morbo di Alzheimer è oggi definito come quel «processo degenerativo che distrugge progressivamente le cellule cerebrali, rendendo a poco a poco l'individuo che ne è affetto incapace di una vita normale». In Italia ne soffrono circa 800 mila persone, nel mondo 26,6 milioni secondo uno studio della Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health di Baltimora, Usa, con una netta prevalenza di donne. Definita anche 'demenza di Alzheimer', viene appunto catalogata tra le demenze essendo un deterioramento cognitivo cronico progressivo. Tra tutte le demenze quella di Alzheimer è la più comune rappresentando, a seconda della casistica l' 80-85% di tutti i casi di demenza. Le persone affette iniziano con deficit di memoria quotidiana, dimenticandosi piccole cose, poi mano a mano il deficit aumenta e la perdita della memoria arriva a colpire anche la memoria episodica retrograda. Una persona colpita dal morbo può vivere anche una decina di anni dopo la diagnosi conclamata di malattia. Col progredire della malattia le persone non solo presentano deficit di memoria, ma risultano deficitarie nelle funzioni strumentali mediate dalla corteccia associativa e possono pertanto presentare afasia, aprassia, fino a presentare disturbi neurologici e poi internistici. Pertanto i pazienti necessitano di continua assistenza personale. La malattia è dovuta a una diffusa distruzione di neuroni, causata principalmente dalla betamiloide, una proteina che depositandosi tra i neuroni agisce come una sorta di collante, inglobando placche e grovigli 'neurofibrillari'. La malattia è accompagnata da una forte diminuzione di acetilcolina nel cervello, sostanza fondamentale per la memoria ma anche per le altre facoltà intellettive. La conseguenza di queste modificazioni cerebrali è l'impossibilità per il neurone di trasmettere gli impulsi nervosi e quindi la morte.


Storia

Nel 1901, il dottor Alois Alzheimer, uno psichiatra tedesco, intervistò una sua paziente, la signora Auguste D., di 51 anni. Le mostrò parecchi oggetti e successivamente le chiese che cosa le era stato indicato. Lei non poteva però ricordarsi. Inizialmente registrò il suo comportamento come 'disordine da amnesia di scrittura', ma la signor Auguste D. fu la prima paziente a cui venne diagnosticata la malattia di Alzheimer.

Patogenesi

Dall'analisi post-mortem di tessuti cerebrali di pazienti affetti da Alzheimer, si è potuto riscontrare un accumulo extracellulare di una proteina, chiamata Beta-amiloide. Nei soggetti sani la beta-amiloide viene prodotta dalla APP (proteina progenitrice dell'amiloide) in una reazione biologica catalizzata dall'alfa-secretasi che produce una beta-amiloide costituita da 40 amminoacidi. Per motivi non totalmente chiariti, nei soggetti malati l'enzima che interviene sull' APP non è l'alfa-secretasi ma una sua variante, la beta-secretasi, che porta alla produzione di una beta-amiloide anomala, costituita da 42 amminoacidi invece che 40. Tale beta amiloide non presenta le caratteristiche biologiche della forma naturale, e tende a depositarsi in aggregati extracellulari sulla membrana dei neuroni. Tali placche neuronali innescano un processo infiammatorio che richiama macrofagi e neutrofili i quali produrranno citochine, interleuchine e TNF alfa che danneggiano irreversibilmente i neuroni.

Ulteriori studi mettono in evidenza che nei malati di Alzheimer interviene un ulteriore meccanismo patologico: all'interno dei neuroni, una proteina tau, fosforilata in maniera anomala, si accumula in aggregati neurofibrillari o ammassi neurofibrillari. I neuroni particolarmente colpiti dal processo patologico sono quelli colinergici, ed in particolare le zone cerebrali più interessate sono le aree corticali, sottocorticali e, tra queste ultime, le aree ippocampali. In particolare l'Ippocampo interviene nell'apprendimento e nei processi di memorizzazione; la distruzione dei neuroni di queste zone è quindi la causa della perdita di memoria dei malati.


Terapia

Anche se al momento non esiste una terapia che permetta di curare l'Alzheimer, sono state proposte diverse strategie terapeutiche per provare a gestire clinicamente il morbo di Alzheimer; strategie, che puntano a modulare farmacologicamente diversi dei meccanismi patologici che ne stanno alla base. In primo luogo, basandosi sul fatto che nell'Alzheimer si ha diminuzione dei livelli di acetilcolina, l'idea è stata quella di provare a ripristinarne i livelli fisiologici.

Un approccio alternativo alla patologia potrebbe essere l'uso di FANS (anti-infiammatori non steroidei). Come detto, nell'Alzheimer è presente una componente infiammatoria che distrugge i neuroni. L'uso di antiinfiammatori potrebbe quindi migliorare la condizione dei pazienti. Si è anche notato che le donne in cura post-menopausale con farmaci estrogeni presentano una minor incidenza della patologia, facendo così presupporre un'azione protettiva degli estrogeni. I ricercatori hanno messo in evidenza anche l'azione protettiva della vitamina E (alfa-tocoferolo), che sembra prevenire la perossidazione lipidica delle membrane neuronali causata dal processo infiammatorio. Sul processo neurodegenerativo può intervenire anche l' eccitotossicità, ossia un'eccessiva liberazione di acidi Glutammico ed Aspartico, entrambi neurotrasmettitori eccitatori, che inducono un aumento del calcio libero intracellulare, il quale è citotossico. Si è quindi ipotizzato di usare farmaci antagonisti del glutammato e dell'aspartato, ma anche questi ultimi presentano notevoli effetti collaterali. Al momento sono presenti in commercio farmaci definiti Nootropi ('stimolanti del pensiero'), come il Piracetam e l'Aniracetam: questi farmaci aumentano il rilascio di Acido Glutammico; anche se questo parrebbe in netta contrapposizione a quanto detto sopra, si deve tenere presente che comunque tale neurotrasmettitore è direttamente implicato nei processi di memorizzazione e di apprendimento. Aumentandone la quantità, si migliora quindi la qualità della vita dei pazienti. Ultimo approccio ipotizzato: l'uso di Pentossifillina e Diidroergotossina (sembra che tali farmaci migliorino il flusso ematico cerebrale, permettendo così una migliore ossigenazione cerebrale ed un conseguente miglioramento delle performance neuronali). Sempre per lo stesso scopo è stato proposto l'uso del Gingko biloba. Negli Stati Uniti è in sperimentazione anche una terapia genica, che prova ad utilizzare l'ormone della crescita per la cura dell'Alzheimer. Le forme di trattamento non-farmacologico consistono prevalentemente in misure comportamentali, di supporto psicosociale e di training cognitivo. Tali misure sono solitamente integrate in maniera complementare con il trattamento farmacologico. La cura dell'Alzheimer è però ai primi passi: al momento non esistono ancora farmaci che guariscano o blocchino la malattia. Si può migliorare la qualità della vita dei pazienti malati, e provare a rallentarne il decorso nelle fasi iniziali.

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