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Tutela del lavoro minorile e delle lavoratrici madri. paritÀ e pari opportunitÀ




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tutela del lavoro minorile e delle lavoratrici madri. parità e pari opportunità


Il legislatore ha sempre inteso tutelare l’integrità psicofisica del lavoratore minore d’età attraverso una normativa protettiva speciale. Di recente, la L. 128/98 ha enunciato i criteri di delega per il recepimento della Dir. 94/33/CE relativa alla protezione dei giovani sul lavoro. A tale direttiva è stata data attuazione con il D.Lgs. 345/99 che ha abrogato alcuni articoli della L. 977/67 e ne ha sostituiti altri. Tale normativa si applica ai minori di 18 anni con un contratto di lavoro anche speciale. Non trova invece applicazione per gli adolescenti addetti a lavori occasionali o di breve durata concernenti servizi domestici prestati in ambito familiare o, comunque, prestazioni non nocive e non pericolose rese in imprese a conduzione familiare.

La disciplina del lavoro minorile e la riforma del D.Lgs. 345/99

Ai sensi dell’art. 3 della L. 97/67 modificato dal D.Lgs. 345/99, l’età minima per l’ammissione al lavoro coincide con quella in cui il minore ha concluso il periodo di istruzione obbligatoria, comunque non inferiore a 15 anni compiuti[1].

L’art. 6 stabilisce il divieto di adibire gli adolescenti alle lavorazioni e ai lavori potenzialmente pregiudizievoli per il pieno sviluppo fisico. Anche a tal fine sono previste visite mediche preassuntive e periodiche tese ad accertare l’idoneità del minore al lavoro. I bambini, nei casi in cui siano eccezionalmente autorizzati a prestare attività lavorativa, e gli adolescenti, possono essere ammessi al lavoro purché siano riconosciuti idonei all’attività lavorativa cui saranno adibiti. L’idoneità all’attività lavorativa deve permanere per tutta la durata del rapporto, per cui essi dovranno sottoporsi a visite periodiche ad intervalli non superiori ad un anno. Il giudizio sull’idoneità temporanea, parziale o totale del minore, che deve essere comunicato per iscritto al datore di lavoro, al lavoratori ed ai titolari della potestà genitoriale, impedisce che egli possa essere adibito all’attività lavorativa e fa sorgere obbligo immediato di sospensione della stessa, qualora il rapporto di lavoro abbia già avuto corso.

Lo svolgimento dell’attività lavorativa avviene secondo la disciplina normativa generale salvo deroghe ed eccezioni più favorevoli per i minori.  L’orario di lavoro non può superare le 7 ore giornaliere e le 35 settimanali nel caso di bambini, e le 8 ore giornaliere e le 40 settimanali per gli adolescenti. Il minore ha diritto ad almeno 2 giorni di risposo settimanale e pause giornaliere giacché è stabilito che l’orario quotidiano non possa durare senza interruzioni più di 4 ore e mezzo. L’art. 15 della stessa legge vieta di adibire al lavoro notturno i minori, introducendo all’uopo una nozione speciale di lavoro notturno, differente da quella generale del Dlgs 66/03: con il termine notte si intende il periodo di almeno 12 ore consecutive comprendente l’intervallo tra le ore 22 e le ore 6 o tra le ore 23 e le ore 7.

Infine, i minori di anni 16 hanno diritto a 30 giorni di ferie annuali; i minori con più di 16 anni hanno diritto a 20 giorni di ferie.

Tutela della genitorialità

Il nostro ordinamento ha da sempre tutelato l’assolvimento dei compiti di maternità e cura dei figli ritenendo essenziale la funzione familiare svolta dalla donna. La normativa sulle lavoratrici prevede speciali garanzie e diritti idonei ad assicurare l’essenziale funzione familiare (art. 37) della donna e rispondenti all’esigenza di tutela della maternità: allorché il legislatore si occupa della lavoratrice nella sua qualità di madre torna, infatti, ad essere giustificato ed opportuno un intervento protettivo ed assistenziale dal momento che la tutela della maternità e dell’infanzia rappresenta nell’ordinamento un valore prioritario, superiore anche a quello della parità di trattamento. Le disposizioni in materia di tutela del ruolo socio familiare della lavoratrice, contenute originariamente nella legge n. 1204 del 1971 e nella legge n. 53 del 2000, sono state in gran parte trasfuse nel Testo unico per la tutela ed il sostegno della maternità e della paternità, emanato con Dlgs n. 151 del 2001 (modificato dal Dlgs n. 115 del 2003). Il T.U. ribadendo quanto già previsto della legge n. 53 del 2000 ha riconosciuto anche al padre lavoratore la possibilità di fruire delle forme di tutela previste dalla legge a favore delle lavoratrici madri favorendo, dunque. Anche grazie ad una più equa ripartizione dei carichi familiari, pari possibilità di carriere tra lavoratori e lavoratrici.

L’art. 16 del T.U. prevede che la lavoratrice dipendente in stato di gravidanza è tenuta ad astenersi dal lavoro durante i due mesi precedenti la data presunta del parto e fino ai tre mesi successivi al parto. Inoltre l’astensione comprende: il periodo intercorrente tra la data presunta e la data effettiva del parto, ove esso avvenga oltre la data presunta; gli ulteriori giorni non goduti prima del parto, qualora il parto avvenga in data anticipata rispetto a quella presunta. Tali giorni sono aggiunti al periodo di congedo di maternità dopo il parto. La lavoratrice deve presentare all'INPS e al datore di lavoro una domanda in carta semplice allegando un certificato medico di gravidanza del ginecologo nel quale sia specificata la data presunta del parto. La legge però prevede la possibilità di lavorare anche fino ad un mese prima del parto a patto che la gravidanza sia regolare e che le condizioni lavorative non sia rischiose. Per poter lavorare fino a questo periodo l'interessata dovrà fare una domanda al datore di lavoro e all'Inps allegando la certificazione medica acquisita nel settimo mese di gravidanza da cui risulti che non sono presenti rischi per la salute del bimbo e della mamma.

Per legge la lavoratrice in congedo deve percepire l'80% dello stipendio, quasi tutti i contratti collettivi prevedono però che lo stipendio venga corrisposto interamente. I periodi di congedo sono considerati come attività lavorativa a tutti gli effetti anche per scatti di anzianità (commutabilità nell'anzianità di servizio).

Dall'inizio del periodo di gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino, la lavoratrice non può essere licenziata, salvi i casi di cessazione dell'azienda da cui essa dipende, di colpa grave nell'esecuzione della prestazione, di risoluzione del rapporto di lavoro per scadenza del termine previsto nel contratto.

La lavoratrice ha diritto al congedo di maternità anche nei casi in cui il bambino sia nato morto o sia deceduto successivamente al parto.

La lavoratrice in stato di gravidanza ha infine diritto ad ottenere permessi retribuiti allo scopo di effettuare visite mediche o esami specialistici. Per ottenerli dovrà presentare dei certificati che attestano data e ora delle visite.

La lavoratrice autonoma, artigiana e commerciante, coltivatrice diretta, imprenditrice agricola, può usufruire del congedo di maternità e può usufruire di un'indennità giornaliera da 2 mesi prima del parto fino a 3 mesi dopo il parto. L'indennità corrisponde all'80% della retribuzione normale. In questi casi l'indennità di maternità viene pagata direttamente dall'Inps alle lavoratrici iscritte ad albi o casse di previdenza prima del periodo di maternità. La libera professionista iscritta ad una cassa di previdenza e assistenza previste nella tabella del D.Lgs. 151/2001 ha diritto ad un'indennità di maternità corrispondente all'80% di cinque dodicesimi del reddito dichiarato, nei due mesi antecedenti al parto e fino a tre mesi successivi.

Congedi di paternità

Il padre lavoratore dipendente può astenersi dal lavoro dopo la nascita del bambino e per un periodo massimo di tre mesi di età del nascituro solo nei seguenti casi:

  • morte o grave infermità della madre;
  • abbandono del bambino da parte della madre;
  • affidamento esclusivo al padre o riconoscimento del figlio da parte di un solo genitore.

In questi casi, al padre sono estesi gli stessi diritti previsti per la lavoratrice madre, quali il diritto alla retribuzione, la commutabilità nell'anzianità di servizio, il divieto di licenziamento entro il primo anno di vita del bambino.

Congedi parentali

Il congedo parentale viene definito dalla legge (art. 32) come quel periodo nel quale la lavoratrice o il lavoratore dipendente hanno la facoltà di astenersi dal lavoro, e non l'obbligo. La madre e il padre hanno diritto al congedo parentale per un periodo di durata massima di sei mesi nei primi otto anni di vita del bambino. Per le madri che al momento della richiesta sono single, il periodo è esteso a dieci mesi.

I padri single o separati hanno diritto ad un congedo per un periodo massimo di dieci mesi, solo se la madre del bambino è gravemente malata o deceduta, oppure in caso di abbandono o affidamento al padre del bambino.

Madre e padre possono usufruire del congedo parentale anche contemporaneamente, ma la durata massima non può superare i 10 mesi per coppia estendibile fino a 11 mesi se il padre utilizza almeno 3 mesi (es. 5 mesi la madre, 6 mesi il padre). Per ottenere il congedo occorre presentare una domanda al datore di lavoro e all'INPS con un preavviso di almeno 15 giorni, sempre che non ci siano motivi gravi o sopravvenuti che comportino la necessità di astensione immediata dal lavoro senza preavviso. Alla domanda, nella quale deve essere precisato il periodo di astensione, devono essere allegati la dichiarazione sostitutiva del certificato di nascita attestante paternità e maternità; la dichiarazione dell'altro genitore da cui risultino eventuali periodi di congedo già fruiti per lo stesso figlio , con indicazione del datore di lavoro; la dichiarazione del genitore che presenta la domanda da cui risultino eventuali periodi di congedo già fruiti per lo stesso figlio; l'impegno di entrambi i genitori a comunicare eventuali variazioni. Durante il congedo parentale si ha diritto ad una retribuzione pari al 30% dello stipendio per un periodo massimo complessivo di sei mesi entro i primi 3 anni del bambino (entro i primi 8 anni se si percepisce un reddito annuo inferiore a € 11395).

Casi particolari

Adozione o affidamento. I genitori adottivi o affidatari godono degli stessi diritti e della stessa tutela in materia di congedi: il congedo di maternità può essere utilizzato nei primi tre mesi dall'ingresso del bambino nella famiglia e fino al 6° anno di vita mentre il congedo parentale è previsto fino agli 8 anni di età del bambino con le stesse modalità previste per i genitori naturali. Se il bambino ha un'età compresa tra i 6 e i 12 anni, il congedo può essere utilizzato nei primi tre anni dall'ingresso del minore nella famiglia.

Genitori di figli disabili. I genitori di figli minori disabili hanno diritto all' estensione del periodo di congedo parentale fino al compimento dei tre anni di vita del bambino, con retribuzione pari al 30% della retribuzione convenzionale, oppure possono usufruire ogni giorno di due ore di riposo retribuite (se l'orario di lavoro è inferiore a sei ore il riposo è di un'ora). Se il minore ha un'età compresa tra i tre e i diciotto anni i genitori possono usufruire mensilmente di tre giorni di permesso retribuito ma questo periodo deve essere ripartito tra i due genitori se entrambi dipendenti. In presenza di figli disabili maggiorenni si ha diritto allo stesso periodo di permessi mensili solo se il genitore che vuole usufruire di tali permessi convive con il figlio o comunque lo assiste in maniera continua. La legge prevede un congedo straordinario per l'assistenza di figli handicappati per i quali è stata accertata, da almeno cinque anni, la situazione di gravità. Il congedo, in questa ipotesi, ha la durata massima di due anni, nell'arco della vita lavorativa, e può essere frazionato (a giorni, settimane, mesi, ecc.). Il congedo viene retribuito con un'indennità pari all'ultima retribuzione percepita. La domanda di richiesta di congedo deve essere presentata all'INPS in duplice copia. Una di esse viene restituita dall'INPS per ricevuta e va presentata dall'interessato al datore di lavoro per fruire del congedo. Alla domanda deve essere allegata anche la documentazione della ASL dalla quale risulti la gravità dell' handicap accertata da almeno cinque anni.

Interruzione gravidanza. Per le lavoratrici subordinate, l'interruzione della gravidanza avvenuta dopo il 180° giorno dall'inizio della gestazione è considerata a tutti gli effetti parto mentre l'interruzione avvenuta prima del 180° giorno dall'inizio della gestazione (aborto) è equiparata alla malattia e quindi la lavoratrice non ha diritto all'indennità di maternità, ma, eventualmente, a quella di malattia. Alle lavoratrici autonome viene pagata una indennità per 30 giorni in caso di interruzione della gravidanza tra il terzo mese e il 180° giorno di gestazione.

Congedi per la malattia del figlio. L’art. 47 del T.u. prevede la possibilità per entrambi i genitori, ma alternativamente, di astenersi dal lavoro: per figli di età inferiore a tre anni, per periodi corrispondenti alle malattie di ciascun figlio; per figli di età superiore a tre anni e fino a anni, nel limite di cinque giorni lavorativi all’anno per ciascun genitore, alternativamente, e per ogni figlio. I periodi di congedo per la malattia de figlio non sono retribuiti; inoltre è previsto che per la loro fruizione fino al compimento del terzo anni di vita del bambino, è dovuta soltanto la contribuzione figurativa mentre, fino al compimento dell’ottavo anno, la copertura contributiva è calcolata ai sensi dell’art. 35 del Dlgs 151 del 2001. i suddetti congedi sono computati nell’anzianità di servizio, con esclusione degli effetti relativi alle ferie e alla tredicesima mensilità o alla gratifica natalizia.

Riposi giornalieri

Durante il primo anno di vita del bambino i genitori lavoratori dipendenti possono usufruire di riposi giornalieri: la legge prevede due ore al giorno per un orario di lavoro pari o superiore a 6 ore, un'ora al giorno per un orario di lavoro inferiore a 6 ore. Il padre lavoratore può usufruire dei riposi giornalieri solo nel caso in cui vi rinunci la madre, in caso di grave malattia o morte di questa, in caso di affidamento del figlio al padre, oppure se la madre non può usufruire dei riposi giornalieri perché non ne ha diritto (se lavoratrice autonoma, libera professionista. ecc.).

In presenza di parto gemellare le ore di riposo giornaliere sono raddoppiate e possono essere utilizzate anche contemporaneamente da tutti e due i genitori.

La domanda di riposi orari della madre va presentata al datore di lavoro, quella del padre va presentata all'INPS e al datore di lavoro.

Assenze per malattia del bambino

Ogni genitore, alternativamente, anche se ha esaurito i congedi, può assentarsi dal lavoro in caso di malattia del figlio. Per i primi 3 anni di vita del bambino sono concessi 30 giorni all'anno frazionabili, mentre dai 3 agli 8 anni del bambino sono concessi 5 giorni all'anno per ciascun genitore. Molte volte nei contratti collettivi è previsto che le assenze siano retribuite solo per i primi tre anni del bambino.

La domanda deve essere presentata al datore di lavoro allegando il certificato medico di un pediatra dell'Asl o convenzionato con il Servizio sanitario nazionale che attesti la malattia del bimbo.

Divieto di licenziamento, dimissioni e diritto al rientro

Il T.U. coordina negli artt. 54-56 le previgenti disposizioni in materia di divieto di licenziamento e di controllo sulle dimissioni della lavoratrice in gravidanza e puerperio. In particolare è confermato il divieto assoluto di licenziamento, nonché di sospensione dal lavoro e di collocamento in mobilità, delle lavoratrici dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine del periodo di congedo obbligatorio, nonché fino al compimento di un anno di età del bambino (occorre lo stato oggettivo di gravidanza). In caso di fruizione del congedo di paternità. Il divieto di licenziamento si applica al padre del lavoratore per la durata del congedo stesso e si estende fino al compimento di un anno di età del bambino. Il licenziamento intimato in violazione del divieto è nullo.

A garanzia della effettività di eventuali dimissioni della lavoratrice o del lavoratore , l’art. 55 T.U., invece, dispone che la richiesta di dimissioni presentata dalla lavoratrice durante il periodo di gravidanza, e dalla lavoratrice o dal lavoratore durante il primo anno di età del bambino, debba essere convalidata dai servizi ispettivi del lavoro, a pena di inefficacia della risoluzione del rapporto di lavoro.

Infine il T.U. prevede, all’art. 56, che al termine del periodo di congedo obbligatorio di maternità, del congedo di paternità e degli altri congedi e permessi previsti dallo stesso T.U., le lavoratrici ed i lavoratori hanno diritto:

di conservare il posto di lavoro e, salvo che espressamente vi rinuncino, di rientrare nella stessa unità produttiva ove erano occupate/i all’inizio del periodo di gravidanza e di permanervi fino al compimento di un anno di età del bambino;

di essere adibite/i alle mansioni da ultimo svolte o a mansioni equivalenti.

Parità uomo – donna

Tutte le norme in materia di tutela della donna lavoratrice assumono, come dato fondamentale, che la cura dei figli e le connesse attività familiari sono compititi prevalenti o esclusivi della donna. Una parziale inversione di tendenza è stata attuata dal legislatore con la legge n. 903 del 1977, sulla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro, pur avvertendosi ancora profonda l’esigenza che, in attuazione dei principi costituzionali (in particolare il comma 2 dell’art. 3), con interventi più vasti a livello di politica economica e sociale, si creino i presupposti per una maggiore autonomia della donna sul piano personale, professionale ed economico.

Si segnalano i punti principali della legge 903 del 1977:

divieto di qualsiasi discriminazione (artt. 1 e 3):

diritto alla stessa retribuzione dell’uomo a parità di lavoro (art. 2);

diritto a rinunciare all’anticipazione del pensionamento e di optare per il proseguimento del lavoro fino agli stessi limiti di età previsti per gli uomini (art. 4);

corresponsione degli assegni familiari, aggiunte in famiglia e maggiorazioni per familiari a carico, in alternativa al lavoratore, alla donna lavoratrice (art. 9).

Pari opportunità

Un ulteriore passo in avanti per la realizzazione della parità tra uomo e donna nel lavoro è stato compiuto dal legislatore con la emanazione della legge n. 125 del 1991 (Azioni positive per la parità uomo donna nel lavoro). Tale normativa si caratterizza per il dichiarato scopo di rimuover egli ostacoli che, di fatto, impediscono la realizzazione della parità, formalmente affermata ma concretamente non esistente. Per realizzare tale finalità la legge 125 del 1991 prevede l’adozione di azioni positive per le donne con lo scopo:

di eliminare le disparità nella formazione scolastica e professionale, nell’accesso al lavoro, nella progressione in carriera;

di favorire la diversificazione  delle scelte professionali delle donne, anche nel campo del lavoro autonomo ed imprenditoriale;

di superare le condizioni di organizzazione e distribuzione del lavoro di fatto pregiudizievoli per l’avanzamento professionale, di carriera ed economico della donna;

di promuovere l’inserimento della donna in attività professionali ove è sotto rappresentata;

di favorire, anche mediante diversa organizzazione delle condizioni e tempo del lavoro, l’equilibrio e la migliore ripartizione tra responsabilità familiari o professionali dei due sessi.

La legge prevede che le predette azioni positive siano stimolate ed attivate dalle imprese, da loro consorzi, dalle associazioni sindacali, dai centri di formazione professionale, nonché dal Comitato nazionale per l’attuazione dei principi di parità di trattamento ed eguaglianza di opportunità tra uomo e donna (art. 5).

La normativa, inoltre, verifica e potenzia la figura del consigliere di parità che, nella qualità di pubblico funzionario, ha il compito di agire per favorire l’occupazione femminile, rimuovere gli ostacoli alla realizzazione della piena eguaglianza tra i sessi nei luoghi di lavoro, accertare la distribuzione occupazionale allo stato delle assunzioni e, dunque, in sostanza, attuare le finalità della legge 125 del 1991.

In questa sede si segnalano i principali aspetti della tutela delle discriminazioni inerenti al rapporto di lavoro.

Ai sensi dell’art. 4 dell’art. 125/91, la discriminazione di genere in sostanza in qualsiasi atto, patto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando anche in via indiretta le lavoratrici o i lavoratori in regione del loro sesso. La medesima legge offre  una tutela anche alle discriminazioni indirette, ossia ad ogni trattamento pregiudizievole conseguentemente all’adozione di requisiti, non essenziali per lo svolgimento dell’attività lavorativa, che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori dell’uno e dell’altro sesso e che determinino un pregiudizio per il lavoratore o la lavoratrice.

La legge 125 ha inteso offrire una tutela rafforzata rispetto alla tutela antidiscriminatoria prevista dalla 903 del 1977, anche sul piano processuale. La legge 125 attribuisce un ruolo fondamentale al consigliere di parità, che può agire direttamente a sostegno del lavoratore o della lavoratrice discriminata, nei giudizi promossi contro le discriminazioni in genere. Qualora si intenda agire in giudizio per ottenere la dichiarazione della discriminazione, il lavoratore o la lavoratrice possono esperire il tentativo obbligatorio di conciliazione anche tramite il consigliere di parità provinciale o regionale territorialmente competente, il quale è legittimato ad adire il Tribunale, in funzione del giudice del lavoro, su delega della lavoratrice o del lavoratore. Inoltre, al consigliere è attribuito un autonomo potere d’azione ove venga rilevata l’esistenza di atti o comportamenti discriminatori diretti o indiretti di carattere collettivo, anche quando non siano individuabili in modo immediato e diretto le lavoratrici o i lavoratori lesi.

In tal caso, prima di agire in giudizio, il consigliere di parità regionale o nazionale, possono chiedere all’autore della discriminazione un piano di rimozione delle discriminazioni accertate entro un termine non superiore a 120 giorni, sentite le RSA o le associazioni locali aderenti alle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale. Se il piano è considerato idoneo alla rimozione delle discriminazioni, il consigliere di parità promuove il tentativo obbligatorio di conciliazione, il cui verbale acquista forza di titolo esecutivo con decreto del Tribunale.

Il principio della parità di trattamento e la tutela contro le discriminazioni per motivi di razza, origine etnica, religione convinzioni personali, handicap, età, orientamento sessuale. Il principio di parità di trattamento si applica a tutti i lavoratori sia del settore pubblico che privato, con riferimento all’accesso al lavoro e all’intero svolgimento del rapporto di lavoro. Nel nostro ordinamento è stata di recente introdotta, sull’impulso delle istituzioni comunitarie una normativa generale per la parità di trattamento dei lavoratori in materia di occupazione ed accesso al lavoro, in precedenza contenuta solo nell’art. 15 dello Statuto dei lavoratori.

Tali disposizioni forniscono una adeguata tutela sul piano processuale contro le discriminazioni fondate sui diversi motivi, dalle convinzioni religiose a quelle personali, dall’età alle condizioni di salute, fino all’orientamento sessuale che si aggiunge agli strumenti di tutela delle legge 125 del 1991, limitati alla discriminazione di genere.

Le nuove norme di tutela contro le discriminazioni è contenuta in particolare:

nel Dlgs n. 215 del 2003 dettante norme contro le discriminazioni per motivi di razza ed origine etnica;

nel Dlgs n. 216 del 2003 dettante norme contro le discriminazioni per motivi di religione, convinzioni personali, handicap, età e orientamento sessuale, in materia di occupazioni e condizioni di lavoro.

Tali provvedimenti vietano:

le discriminazioni dirette che si realizzano quando, per morivi di razza o origine etnica o per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga;

le discriminazioni indirette che si realizzano quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone di una determinata razza od origine etnica i che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, nonché le persone portatrici di handicap, di una particolare età o di un orientamento sessuale, in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone;

le molestie cioè quei comportamenti aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo.

I comportamenti individuati da entrambi i provvedimento sono vietati per il solo fatto che si realizzino oggettivamente, a prescindere cioè dalla circostanza che siano stati volontariamente diretti ad attuare la discriminazione. Per la tutela giurisdizionale contro tali discriminazioni, allo scopo di ottenere la cessazione del comportamento discriminatorio e la rimozione dei suoi effetti lesivi, sia il Dlgs 215/03 che il Dlgs 216/03, rinviano alle forme del procedimento speciale previsto dal Testo unico sull’immigrazione.

Al fine di rafforzare la tutela del soggetto discriminato, la legittimazione ad agire spetta:

per le discriminazioni legate a motivi di razza o di origine etnica, alle associazioni e agli enti inseriti in un apposito elenco approvato con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali e del Ministro per le pari opportunità, in forza di delega rilasciata dal soggetto discriminato, a pena di nullità, per atto pubblico o scrittura privata autenticata, nonché per sostenere il lavoratore;

per le discriminazioni legate a motivi di religione, convinzioni personali, handicap, età e orientamento sessuale, alle rappresentanze locali delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale, in forza di delega, rilasciata per atto pubblico o scrittura privata autenticata, a pena di nullità, in nome e per conto del soggetto passivo della discriminazione, contro la persona fisica o giuridica cui è riferibile il comportamento o l’atto discriminatorio.





Occorre anche premettere che la normativa della riforma riguarda tutti i minori di età ed in particolare i bambini - minori di 15 anni ancora soggetti all’obbligo scolastico - e gli adolescenti - di età compresa fra i 15 e i 18 anni non più soggetti all’obbligo scolastico.

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