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Trust e diritto delle successioni
Il codice civile italiano non contiene norme che consentano la pianificazione della successione di un soggetto, soprattutto perché non consente la partecipazione dei successibili alla formazione della volontà del de cuius, ad eccezione del caso del nuovo patto di famiglia (artt. 768 bis e ss., introdotti dalla l. 14.02.2006, n. 55).
La Convenzione dell'Aja contiene alcuni espressi riferimenti al trust testamentario affermando (art. 2,1) che il trust può essere istituito con atto mortis causa, ma prevedendo alcune limitazioni quali l'inapplicabilità della Convenzione a questioni preliminari relative alla validità dei testamenti (art. 4), la necessità che i beni del trust non entrino nella successione del trustee (art. 11 lett. c), ed il limite generale derivante dall'art. 18 secondo cui: "Le disposizioni della Convenzione potranno essere non osservate qualora la loro applicazione sia manifestamente incompatibile con l'ordine pubblico". In base all'art. 15 la Convenzione, "non costituendo ostacolo" all'applicazione delle disposizioni di legge inderogabili del foro (in particolare con riguardo a "testamenti, devoluzione ereditaria, successione necessaria", di cui alla lettera c), fa salva l'applicazione delle norme di diritto interno a tutela dei legittimari.
Poiché il legislatore nazionale ha scelto la via dell'adattamento mediante ordine di esecuzione, in difetto di una legge interna, l'unico strumento offerto è quello dell'interpretazione della Convenzione stessa, con carattere - quindi - self executive.
In ordine alla potenziale lesione della legittima per ora è sufficiente evidenziare che, per parte consistente della giurisprudenza(125), una violazione dei diritti dei legittimari non si dovrebbe tradurre nell'invalidità del trust, ma nell'eventuale esperibilità per gli eredi pretermessi dell'azione di riduzione.
Occorre subito precisare che una cosa è il trust che venga ad inserirsi nel testamento (testamentario), altro è il trust che potremo chiamare successorio o, ancor meglio, liberale inter vivos: si tratta in quest'ultimo caso di un trust posto in essere allo scopo di regolare la successione anche per più generazioni.
Tratto distintivo di tale trust è la natura di negozio, appunto, "inter vivos" posto che con l'atto costitutivo, completato dal negozio di dotazione del trust, al trustee viene subito trasferita la proprietà dei beni per il fine che i disponenti intendono perseguire.
Il trust testamentario non costituisce un negozio giuridico autonomo, non è una modalità testamentaria bensì un possibile
contenuto, un oggetto del testamento; il testamento è il contenitore all'interno del quale può essere inserita una particolare disposizione di carattere patrimoniale, quale un trust.
Attraverso lo strumento giuridico del trust testamentario, quindi, il disponente/testatore detta le regole della propria successione, o di parte di essa, predisponendo che determinati beni vengano attribuiti mortis causa ad un trustee, il quale dovrà gestirli ed amministrarli per le finalità e secondo le indicazioni da lui impartite nel testamento.
Il nostro ordinamento giuridico riconosce la capacità di disporre del proprio patrimonio a ciascun soggetto avente capacità giuridica e di agire e, quindi, ammette la capacità di testare seppur nel rispetto delle norme in materia di successione necessaria, delle norme imperative, dell'ordine pubblico e del buon costume.
Pochi anni dopo l'entrata in vigore della Convenzione, nel 1996, fu presentata alla Camera dai Deputati Becchetti, Armosino e Rosso una proposta di legge n. 1512 - mai decollata - avente ad oggetto "Modifiche al codice civile in materia di patti successori".
La proposta mirava a far salvo il divieto di patti/contratti successori istitutivi, rivoluzionando però la seconda parte dell'articolo
458 c.c.: i patti successori dispositivi e rinunziativi avrebbero dovuto essere ammessi, in aderenza con quanto previsto ex artt. 1472 e 1478 c.c. (Vendita di cose future e Vendita di cosa altrui).
Il motivo addotto, per giustificare una così netta inversione di tendenza, muoveva dalla convinzione che la ratio alla base di tali patti (soprattutto il c.d. votum captandae mortis) fosse ormai superata, anacronistica e quasi ridicola(126). Il codice a ben guardare forniva, agli artt. 1411-13 (Contratto favore di terzi) ed all'art 1920
(Assicurazione a favore di un terzo), un valido supporto normativo su cui attestare non solo le ragioni dell'ammissibilità di patti riguardanti diritti o beni di una successione non ancora aperta, ma anche quelle dell'accoglimento del trust testamentario o successorio nel nostro ordinamento. Il beneficiario del trust poteva essere assimilato al terzo come descritto dagli artt. 1411 e 1412, destinatario di effetti favorevoli e per giunta rifiutabili; l'accostamento alla disciplina del contratto a favore di terzo con prestazioni dopo la morte dello stipulante (art.
1412), per di più, non avrebbe snaturato, né intaccato, il principio di libera revocabilità delle disposizioni testamentarie(127) da parte del testatore finché in vita.
La suddetta proposta di legge sosteneva che il nostro legislatore, con l'art 1412 c.c., avesse palesemente dimostrato la sua non totale e non indiscriminata avversione verso forme di programmazione di attribuzioni patrimoniali con efficacia post mortem e - per di più, in questo caso - in forma contrattuale; idem dicasi per gli artt. 1920 e
1921 c.c..
Le disposizioni di diritto interno con cui in generale il trust ereditario viene a cimentarsi per superare il vaglio di ammissibilità sono l'art. 458 c.c. ed il 692 c.c., rispettivamente in merito al divieto di patti successori ed al divieto di sostituzione fedecommissaria.
Prima di argomentare, sveliamo subito a quali esiti sia addivenuto l'acceso dibattito sull'ammissibilità e sulla legittimità del trust latu sensu ereditario in Italia: per opinione consolidata e prevalente il divieto di patti successori non costituisce valida ragione per escludere in astratto (fatta salva la necessità di valutare attentamente, nello specifico, caso per caso) la possibilità di utilizzare il trust a fini
successori.
1 Un'emblematica pronuncia
Avvaloriamo quanto asserito in chiusura del precedente paragrafo, riportando un passo saliente di una sentenza del Tribunale di Urbino; al giudice adito si chiedeva, tra le altre cose, di pronunciare la nullità di un trust successorio (inter vivos) perché atipico e perché lesivo delle aspettative dei legittimari.
Tribunale di Urbino, 11 Novembre 2011.
1324 c.c., possono concludere anche contratti ed atti unilaterali atipici purché in concreto assistiti da causa lecita, intesa come scopo pratico perseguito dai contraenti, così dovendosi intendere il requisito della realizzazione di 'interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento giuridico'.
In altri termini, la circostanza dell'atipicità normativa del trust non conduce, di per sé, all'affermazione della nullità di tale congegno negoziale.
Diversamente, onde verificarne la validità, occorre concentrare l'attenzione sul profilo causale, per esso intendendosi tanto quello esterno, che si risolve nell'effetto esteriore dell'atto, tanto quello interno, che si identifica con lo scopo pratico perseguito dai contraenti.
In tale ottica, non appare condivisibile l'orientamento giurisprudenziale secondo cui il trust sarebbe predicato dal connotato della residualità con la conseguenza che le parti potrebbero proficuamente accedere ad esso solo in carenza di modelli contrattuali tipici, parimenti idonei, all'esito di una valutazione in concreto, a consentire il conseguimento della portata effettuale calata nel trust.
Infatti, come noto, l'autonomia negoziale privata si manifesta non solo tramite la conclusione di contratti atipici ma anche attraverso la scelta tra modelli negoziali aventi analoga portata effettuale, siano essi tipici od atipici.
In tal senso, così come ad esempio i privati possono liberamente optare tra il concludere un contratto di vendita di cosa futura ed un contratto di appalto, deve parimenti affermarsi che essi possono scegliere tra lo stipulare un patto di famiglia, disciplinato dagli artt.
768 bis e ss. c.c., ed un trust, senza che per ciò solo, e dunque in astratto e con conseguente pretermissione di ogni indagine sull'elemento causale, possa ritenersi inammissibile, rectius nullo, il trust, quasi a voler affermare in via pretoria il principio della prevalenza del tipico sull'atipico.
Tanto premesso, va rilevato, aderendo sul punto alla dottrina maggioritaria ed alla giurisprudenza, che vi è compatibilità tra la struttura del trust, per essa intendendosi la portata effettuale esterna, ovvero l'effetto di segregazione che connota i beni conferiti al trustee in ragione dei collegati atti di dotazione, ed i principi dell'ordinamento.
In primo luogo, è sufficiente rilevare la oramai condivisa recessività del principio del numerus clausus dei diritti reali, a fronte, invece, del riconoscimento di plurimi statuti proprietari e, dunque, anche di una proprietà particolarmente conformata, quale quella attribuita al trustee, che già sconta, nel suo momento genetico, particolari limiti alle facoltà di disposizione e godimento.
In secondo luogo, va osservato che l'ordinamento conosce plurime ipotesi di segregazione patrimoniale, di patrimoni destinati e di patrimoni separati (.).
Con riferimento alla compatibilità tra gli effetti esterni prodotti dal trust ed il principio dell'universalità della garanzia patrimoniale ex art.
Tale norma (.) opera appunto il riconoscimento in termini generali dell'effetto lato sensu segregativo, anche qualora esso derivi da un atto atipico, purché tale effetto non sia strumentale al conseguimento di fini ritenuti riprovevoli dall'ordinamento. Sebbene le concreta realizzazione dell'effetto segregativo sia subordinata al concorso di circostanze indicate dalla norma, ciò che rileva è che quest'ultima si palesa idonea ad integrare la riserva di legge di cui all'art. 2740,2 c.c..
Il principio dell'universalità della garanzia patrimoniale cede il passo all'operatività dei vincoli di destinazione e separazione, quand'anche derivanti da atti atipici, sicché un atto atipico non può essere ritenuto invalido, ad esito dello scrutinio della sua struttura esterna, per il sol fatto che tende a realizzare l'effetto di segregazione. (.) Pertanto, richiamato quanto sopra esposto in tema di ammissibilità del negozio atipico pure in costanza di un contratto tipizzato avente medesima portata effettuale, deve affermarsi, in via generale, la validità del trust interno e la liceità dello scopo pratico perseguito dal Trust L. e dei correlati atti di dotazione, quest'ultimi evidentemente supportati da causa esterna, al pari, ad esempio, degli atti di conferimento delle società e degli atti di dotazione delle
fondazioni.
Tra l'altro, quand'anche per mera ipotesi si volesse ritenere che lo scopo perseguito dal disponente sia stato unicamente quello di realizzare una liberalità indiretta a favore di L. S., il trust ed i correlati atti di dotazione, lungi dal perseguire finalità riprovevoli per l'ordinamento, risulterebbero ugualmente validi.
Pur a fronte dell'aspettativa dei legittimari, l'individuo può in vita disporre tramite donazioni, od altri atti di liberalità, di tutto il suo patrimonio.
Tali atti, lungi dal prospettarsi come nulli, dato che nell'ordinamento non vi é alcuna norma limitativa dell'autonomia negoziale del soggetto capace di disporre donandi causa dei propri beni, risultano validi, salva, come ovvio, la connotazione di lesività qualora pregiudicanti la quota di legittima.
Così come l'atto dispositivo compiuto dal debitore è lesivo qualora rechi nocumento all'aspettativa di soddisfacimento del creditore così, parimenti, l'atto di liberalità compiuto inter vivos può essere lesivo della posizione ereditaria dei legittimari.
La lesività non si identifica con la nullità ed, anzi, presuppone la validità dell'atto 'impugnato'; la nullità attiene al momento genetico del contratto: esso nasce nullo e, pertanto, già ab origine improduttivo di effetti.
La lesività opera esclusivamente sul piano della portata effettuale: l'atto lesivo della posizione dei legittimari nasce valido e, dunque, da subito produttivo di effetti.
La lesività, pertanto, si palesa quale connotato eventuale, ché ben potrebbe ad esempio il legittimario premorire al donante, e sopravvenuto.
La collocazione della lesività nel momento successivo alla genesi del contratto comporta che essa possa interferire unicamente sul piano degli effetti: l'atto lesivo è valido ma inefficace nei confronti del legittimario che ha esperito e con successo l'azione di riduzione.
Infine, tampoco può ritenersi che il Trust L. sottintenda un patto successorio istitutivo, pertanto affetto da nullità testuale ai sensi dell'art. 458 c.c..
Invero, il trust ed i correlati atti di dotazione, lungi dal produrre effetti obbligatori suscettibili di coazione giuridica e comportanti il sacrificio delle prerogative testamentarie, comportano immediati effetti traslativi che, dunque, si verificano inter vivos, in un periodo cioè anteriore alla morte del disponente e, pertanto, sono del tutto disancorati da essa (128)».
Ciò che decide dell'ammissibilità o meno di un dato trust e della sua validità è la causa che, in concreto, sottende all'istituto e la valutazione positiva fornita dall'ordinamento, in termini di liceità e meritevolezza dei fini; non è rilevante se, nel caso di specie, dette finalità siano o meno ugualmente realizzabili attraverso istituti tipici.
2 Trust testamentario in Italia: limiti e spazi di operatività
"Fatto salvo quanto disposto dagli articoli 768 bis e seguenti,è nulla ogni convenzione con cui taluno dispone della propria successione. È del pari nullo ogni atto col quale taluno dispone dei diritti che gli possono spettare su una successione non ancora aperta, o rinunzia ai medesimi".
Ora, l'indicazione della natura pattizia dell'atto vietato nel nostro ordinamento, confliggendo con l'asserita unilateralità del negozio di trust, sembrerebbe scongiurare in apicibus la possibilità di sussumere il trust testamentario entro i rigidi confini di tale divieto.
La tesi contraria all'ammissibilità del trust suddetto, tuttavia, tralasciando la questione ritenuta poco significativa sulla natura (bilaterale o meno) dell'istituto, chiede di concentrare l'esame sul suo contenuto sostanziale. In particolare, solo dopo aver individuato la
ratio del divieto di cui all'art. 458 c.c., sarà possibile dire se il trust realizzi o meno quella attribuzione patrimoniale mortis causa che il nostro legislatore ha perentoriamente tacciato di nullità.
La delazione ereditaria può avvenire per testamento secondo la volontà del de cuius (successione testamentaria con il solo limite delle quote di legittima), o per legge in assenza di testamento (successione legittima), senza quindi l'ipotizzabilità di un tertium genus come il patto successorio.
La ratio sottesa alla formulazione di un divieto di convezioni successorie, da parte del legislatore, va ricercata per i patti c.d. istitutivi o confermativi, cioè quelli "con cui taluno dispone della propria successione":
- nell'esigenza di tutelare fino all'ultimo momento la libertà testamentaria e la libertà di revoca delle disposizioni testamentarie;
- nel rispetto del principio di tipicità delle cause di delazione ereditaria.
Per i patti c.d. dispositivi con cui "taluno dispone di diritti che gli possono spettare su una successione non ancora aperta", e per quelli c.d. rinunziativi "con cui rinunzia ai medesimi", la ratio del divieto risiede:
- nella ripugnanza sociale che solleverebbe attività speculativa verso l'eredità di soggetti ancora in vita (si potrebbe ingenerare nello stipulante, con evidente contrarietà alla morale pubblica, il desiderio della morte del testatore);
- nella tutela di soggetti "deboli", che potrebbero essere tentati di dilapidare anticipatamente ciò che riceverebbero in un contesto successorio.
Unico strumento per disporre del proprio patrimonio post mortem è il testamento; da un punto di vista strettamente sostanziale il beneficiario non riceve alcunché dal testatore in vita, perché ogni disposizione trova il fondamento causale nella morte di quest'ultimo.
Per quanto concerne, infine, la lesione del principio di tassatività delle causa di delazione ereditaria, sebbene il trust sia un atto unilaterale di volizione non può e non deve essere identificato con il testamento.
Esistono due fattispecie rilevanti di trust testamentario:
- una nella quale il disponente istituisce, appunto per testamento, il trust e nomina il trustee;
- l'altra in cui il disponente istituisce un soggetto erede, con l'onere per questi di istituire un trust.
Quest'ultima tipologia di trust testamentario, com'è intuibile, solleva non pochi interrogativi e difficoltà di inquadramento.
Una disposizione del genere sarebbe destinata ad incorrere in nullità se fosse indeterminata ed ancor più se fosse "in bianco", cioè se rimettesse nel trustee la scelta dei beneficiari o delle finalità del trust, ledendo il principio di personalità delle disposizioni testamentarie.
Il nostro codice contempla, all'art 627 c.c., un'ipotesi di fiducia che merita la nostra attenzione.
Art. 627: Disposizione fiduciaria:
"Non è ammessa azione in giudizio per accertare che le disposizioni fatte a favore di persona dichiarata nel testamento sono soltanto apparenti e che in realtà riguardano altra persona, anche se espressioni del testamento possono indicare o far presumere che si tratta di persona interposta.
Tuttavia la persona dichiarata nel testamento, se ha spontaneamente eseguito la disposizione fiduciaria trasferendo i beni alla persona voluta dal testatore, non può agire per la ripetizione, salvo che sia un incapace. (omissis).".
Senza addentrarci nel merito dell'interpretazione non pacifica di questa norma, ne daremo conto limitiamoci a rilevare quelli che ictu oculi sono i tratti di smaccata divergenza rispetto al trust.
L'art. 627 nega, più che l'accertamento, l'ammissibilità in giudizio della prova della disposizione fiduciaria, salvo la previsione del terzo comma che ammette l'azione nel caso in cui l'istituto sia utilizzato in violazione di norme inderogabili in materia di incapacità a ricevere.
Il secondo comma (esecuzione spontanea della disposizione fiduciaria) implica che il fiduciario sia erede, e che per adempiere alla disposizione debba trasferire il bene alla persona voluta dal testatore; l'esecuzione dell'incarico fiduciario assume la portata di atto dovuto (obbligazione naturale), pertanto, l'indicazione del beneficiario (ovviamente non contenuta nel testamento ma nel patto fiduciario) non potrà essere considerata nulla per difetto della forma testamentaria.
Qualche autore ritiene che, nel caso dell'art. 627 c.c., non si debba parlare di obbligazione naturale ma di un'ipotesi di simulazione relativa soggettiva.
Il trust testamentario consente di superare i limiti della disposizione fiduciaria: l'esecuzione dell'incarico fiduciario (cioè il trasferimento dei beni alla persona designata) non è coercibile inter partes, ma (solo nei casi previsti) protetta con la soluti retentio ex art.
2034,2 c.c., a meno che il fiduciante - ricorrendone i presupposti - non possa avvantaggiarsi del rimedio dell'art. 2932 c.c.(129).
La dottrina ritiene che l'art. 627 vieti sia la fiducia testamentaria propria (in cui il carattere fiduciario risulta dal testamento) sia quella impropria (che non risulta dal testamento).
Nulla risulta la nomina di un fiduciario, che non sia né erede né legatario, o di un esecutore testamentario gravato da obblighi fiduciari; tale nullità deriverebbe dalla carenza della forma testamentaria e dall'art. 631 c.c., il quale prevede la nullità delle disposizioni testamentarie che facciano dipendere dall'arbitrio di un terzo l'indicazione dell'erede o del legatario.
Con l'istituzione dell'erede come trustee, la regolamentazione del trust e la designazione dei beneficiari, oppure, con l'istituzione dell'erede o del legatario come trustee nel testamento e l'indicazione del "programma" del trust in un documento distinto, il limite del "non è ammessa azione in giudizio" è superato, in quanto: il trustee assume obbligazioni coercibili (enforceable), opponibili ai suoi creditori ed aventi causa, derivanti dalle norme del trust e dalla legge ad esso applicabile.
Art 692: Sostituzione fedecommissaria
"Ciascuno dei genitori o degli altri ascendenti in linea retta o il coniuge dell'interdetto possono istituire rispettivamente il figlio, il discendente, o il coniuge con l'obbligo di conservare e restituire alla sua morte i beni anche costituenti la legittima, a favore della persona o degli enti che sotto la vigilanza del tutore hanno avuto cura dell'interdetto medesimo .(omissis). In ogni altro caso la sostituzione è nulla".
Il tenore della norma sembra essere quello di un divieto generale di sostituzione fedecommissaria, come d'altra parte era nel codice del 1865, con un'unica eccezione espressamente prevista: soltanto quando la sostituzione sia funzionale alla protezione di un familiare interdetto, è ammissibile una doppia vocazione successiva.
Enucleiamo i dati caratterizzanti della sostituzione fedecommissaria e mettiamoli a confronto con quelli del trust:
- mentre nella prima si ha una doppia istituzione con ordine successivo ed il primo istituito (erede) ha l'obbligo di conservare e restituire i beni, il trustee non può essere considerato un primo istituito ed è titolare dei beni seppur non possa disporne nel proprio interesse;
- il sostituto fedecommissario è tenuto a conservare per consegnare al sostituito lo stesso bene, il trustee come sappiamo, se non altrimenti indicato dal disponente, può trasferire al beneficiario beni di natura del tutto diversa in virtù dei suoi notevoli poteri amministrativi(130);
- ex art 692 c.c. la seconda istituzione è anch'essa mortis causa, il beneficiario finale del trust - invece - riceve l'attribuzione di beni dal trustee per atto tra vivi.
Si noti bene: nel caso di trust testamentario, il trustee potrebbe ricevere l'incarico di destinare il reddito dei beni successivamente ad A - B - C e di attribuire la proprietà all'ultimo nato di C.
Un problema (fortemente dibattuto in dottrina) resta quello della qualificazione della posizione giuridica del trustee ovvero se questi, per la peculiare funzione cui assolve nel trust testamentario, sia (o meno) erede(131). Ci limitiamo a riportare una convincente posizione del Lupoi a riguardo: poiché il trustee è soggetto necessario del trust, e dato che non è possibile ricoprire l'ufficio di trustee senza essere
titolare dei beni in trust, "non vedo come, nel caso di istituzione di trust testamentario, si possa ipotizzare un trustee che non sia erede o legatario(132)".
In un celebre precedente del 23.9.1997, il Tribunale di Lucca (sentenza confermata in Appello) affrontò e risolse la questione della qualificazione di una fattispecie testamentaria "anomala" e del rapporto di questa con il diritto del foro, nei seguenti termini: spiegò che nel diritto angloamericano la trasmissione ereditaria ha luogo ordinariamente tramite l'interposizione di un fiduciario (personal representative) tra il de cuius ed i beneficiari, con la particolarità che il fiduciario è titolare dei beni relitti con poteri dispositivi fino all'estinzione delle passività.
Questo il caso: di fronte al giudice fu prodotto un testamento redatto secondo la lex loci statunitense. La prova che il testamento fosse valido, immune da vizi secondo la legge del luogo nel quale era stato compiuto, fu derivata da elementi fattuali oggettivamente sintomatici (in specie: scheda testamentaria sottoscritta dal testatore, in presenza di due testimoni ed un notaio, conferma dello schema fiduciario predisposto per l'amministrazione dei beni ereditari da parte della Corte distrettuale di Jefferson, Kentucky). La disposizione con cui il testatore dichiarava di 'lasciare in eredità' ogni suo avere al fiduciario, in proprietà assoluta ma a beneficio della figlia, non fu interpretata come un'ipotesi di sostituzione fedecommissaria (quindi vietata!), ma come disposizione istitutiva di trust. L'asserita lesione delle aspettative del legittimario non convinse, perciò, il giudice a dichiarare la nullità del trust bensì a prospettare la possibilità di applicare le disposizioni di diritto interno strumentali alla reintegrazione della quota di riserva.
In ragione di ciò, prendendo atto della frequenza e della crescente incidenza di casi di trust testamentario in Italia, va data un'interpretazione dell'articolo 15 della Convenzione ancor più pregnante e completa: l'art 15 non solo fa salva l'applicazione delle norme di diritto interno a tutela dei legittimari ma, al contempo, chiede al giudice del caso concreto di non escludere a priori il trust, cercando di realizzarne gli obiettivi con tutti i mezzi giuridici idonei di cui disponga(133).
Senz'altro possono essere rinvenuti numerosi tratti comuni tra le figure dell'esecutore testamentario e del trustee.
Sia l'esecutore testamentario (art. 710 c.c.), sia il trustee, possono considerarsi titolari di un ufficio privato che può essere assunto da chi è provvisto della capacità di agire; l'ufficio può essere assunto anche da chi è erede o legatario (art. 701, secondo comma c.c.), può essere o meno gratuito (art. 711 c.c.), ha connotazioni fiduciarie (l'art. 710 c.c. prevede l'esonero dell'esecutore testamentario dal suo ufficio per il venir meno della fiducia). È possibile per entrambi gli istituti prevedere la sostituzione (vedi, per l'esecutore testamentario, l'art.
700 c.c.), entrambi devono curare che venga eseguita la volontà del testatore (art. 703 c.c.) o del disponente, entrambi devono amministrare e gestire i beni e li possono alienare (art. 703 quarto comma c.c.), entrambi devono rendere conto della gestione (art. 709 c.c.), in entrambi i casi si ha un effetto segregativo.
Detto ciò si devono registrare anche le tutt'altro che marginali differenze tra le due figure.
La gestione dell'esecutore testamentario può essere esclusa (art. 703,2 c.c.), si ritiene che il potere di disporre dell'esecutore testamentario subisca la concorrenza dell'uguale potere dell'erede, l'esecutore testamentario è soggetto ad un controllo di volontaria
giurisdizione (art. 703,4 c.c.); il trustee è proprietario dei beni mentre l'esecutore testamentario ne ha il possesso, il trustee non è soggetto ai limiti di durata previsti per l'esecutore testamentario (art. 703,3 c.c.), il trustee è soggetto necessario del trust mentre l'esecutore testamentario è meramente eventuale.
Appare evidente la maggiore complessità della disciplina del trust rispetto a quella, assai meno articolata, che sorregge la figura dell'esecutore testamentario(134).
Qual è dunque, in ultima analisi, il giudizio del nostro ordinamento rispetto al trust testamentario?
La ricerca di strumenti che consentano di risolvere i problemi successori è oggi vieppiù sentita ed instancabile. Molte sono le critiche rivolte all'intero sistema di norme in materia di successione, non più capace di rispondere appieno ai vertiginosi cambiamenti ed alle attuali richieste del tessuto sociale.
Partiamo dall'assunto che il testamento di per sé è poco utilizzato in Italia, in parte perché sono ritenute sufficienti le norme sulla successione legittima, in parte a causa dell'unilateralità imposta all'atto e del divieto dei patti successori, che escludono la partecipazione dei successibili alla formazione della volontà del testatore; non ultimo c'è da considerare il fatto che le norme sulla successione necessaria sono praticamente non superabili tramite testamento.
L'erede può certamente essere gravato anche oltre il valore dei beni ricevuti e, qualora tema il rischio di dover rispondere col proprio patrimonio dei debiti ereditari e dei legati, potrà ricorrere
all'accettazione col beneficio di inventario: se trustee fosse un erede, egli potrebbe trovarsi a dover destinare l'intero attivo ereditario alle finalità perseguite dal testatore.
Il testatore dovrà sottoporre l'istituzione del trust alla condizione risolutiva dell'accettazione della funzione di trustee e, per il caso in cui l'erede-trustee non volesse o non potesse accettare l'eredità, prevedere opportune sostituzioni per il caso di mancato inverarsi della condizione.
Il testatore dovrà non solo indicare nel testamento tutte le regole del trust ma, ovviamente, scegliere anche la legge (straniera) regolatrice; tutto questo senza aggirare i dettami imposti dalle norme inderogabili sulla successione necessaria.
L'erede-trustee dovrà accettare l'eredità ex art. 470 c.c. e, in assenza di sue limitazioni (peraltro molto opinabili perché è nulla la dichiarazione di accettazione sotto condizione o a termine ex art.
475,2 c.c.), tale accettazione implicherà anche l'accettazione della funzione di trustee con conseguente trascrizione(135).
È l'art. 457,2 c.c. ad affermare quel principio di intangibilità della riserva che non consente al trust di operare indisturbato: le disposizioni testamentarie "non possono pregiudicare i diritti che la legge riserva ai legittimari". All'art. 549 c.c. troviamo ribadito il medesimo principio: il testatore e, quindi il trust testamentario, non può diseredare i legittimari o imporre pesi o condizioni sulla quota loro spettante, pena l'originaria inefficacia delle disposizioni limitative previste.
I legittimari lesi, invece, da disposizioni a favore di altri eredi o legatari-trustee, potranno essere reintegrati nella quota loro spettante tramite azione di riduzione.
Non scevra di criticità sarà, però, l'individuazione del soggetto legittimato passivo all'azione di riduzione. La struttura di quest'azione prevede che essa sia rivolgibile contro chi ha ricevuto dal disponente nel proprio interesse: il trustee invece riceve, per definizione, per un interesse altrui. Il beneficiario o i beneficiari, da parte loro, potranno opporre che nulla riceveranno direttamente dal settlor, che quanto riceveranno sarà deciso dal trustee e che, se convenuti in giudizio (qualora l'attribuzione non sia ancora effettuata, o sia stata effettuata solo in parte) nulla abbiano ricevuto, o abbiano ricevuto solo una quota non lesiva della legittima.
Ancora più problematica si profila, com'è facilmente intuibile, la tutela dei legittimari quando si tratti di un trust discrezionale: un trust in cui al trustee è attribuito il potere di designare i beneficiari e/o di determinare l'entità delle quote di spettanza di ciascuno.
In casi del genere, l'erede legittimo si troverebbe ad essere titolare di un diritto ferito dall'eterogeneità del trust rispetto al nostro ordinamento e, probabilmente, presto abbattuto dalle norme che vietano le disposizioni testamentarie e le donazioni rimesse all'arbitrio altrui (artt. 631 e 778 c.c.).
Concludiamo con le parole di un ficcante intervento del Lupoi(136): «..Finalmente abbiamo trovato una fattispecie che reclama l'applicazione dell'art. 13 della Convenzione de L'Aja: "quel trust non dovrà essere riconosciuto"; più precisamente la disposizione fatta in favore del trustee sarà nulla per mancanza di causa. (.) La legge straniera, di per sé, non tocca i diritti dei legittimari; peraltro, essa
consente il prodursi di effetti che la nostra legge non riesce a rimuovere: allora interviene l'art. 13 e la legge straniera non trova applicazione. Il cd. "mancato riconoscimento del trust" significa propriamente disapplicare la legge straniera che gli conferisce validità».
Laddove le ragioni dei legittimari non risultino in concreto tutelabili, altro non resterà che concludere (alla luce dell'art. 13 della Convenzione de L'Aja) che quel trust non potrà essere riconosciuto nel nostro ordinamento.
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