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Prima del diciannovesimo secolo in quasi tutta Europa l'istruttoria penale era un meccanismo che produceva 'verità' in assenza dell'accusato. Tutta la procedura, fino alla sentenza, rimaneva segreta sia al pubblico che all'accusato stesso: il sapere era privilegio assoluto dell'accusa; anche la confessione, seppur utile, non era indispensabile. Il magistrato poteva accettare denunce anonime, utilizzare insinuazioni, interrogare l'imputato in modo capzioso. Costruiva così una verità ed i giudici la ricevevano compiuta. Solo a questo punto terminava la segretezza ed il rito diveniva pubblico nella sua parte più essenziale: il castigo. La pena era una sontuosa cerimonia pubblica incentrata sul corpo del condannato sottoposto a quegli "splendidi supplizi" cui tutti dovevano assistere. Il supplizio penale era vissuto come rituale politico: il delitto, oltre che la vittima immediata, attaccava soprattutto il sovrano e nel supplizio si ricostituisce la sovranità per un istante ferita. Da qui deriva l'estremo squilibrio, l'eccesso, il fasto nell'esecuzione della pena: il supplizio non doveva assicurare la giustizia, ma ristabilire il potere.
Dalla seconda metà del secolo diciottesimo, inizia a diffondersi una protesta contro i supplizi visti ormai come pratiche punitive eccessive. Nasce una nuova 'dolcezza' nel punire dovuta anche al cambiamento della natura dei delitti che vengono commessi: con l'aumentare del benessere c'è una diminuzione dei delitti di sangue e comunque delle aggressioni, mentre si diffondono i delitti contro la proprietà. Si verifica quindi un 'addolcirsi dei crimini prima dell'addolcirsi delle leggi'[1].
Da ora in poi le nuove pene andranno modulate relativamente al crimine, ed in particolare alla sua possibile ripetizione 'non mirare all'offesa passato, ma al disordine futuro'[2].
Si teorizza ampiamente sui principi informatori della pena da comminare. Si riflette sulla necessaria proporzione che deve riflettersi fra crimine commesso e pena inflitta, sui reali destinatari degli effetti della pena, sulla necessità di leggi chiare ed eque e sulla certezza della pena, sulla scientificità delle regole cui affidarsi per la verifica del delitto[3]. Affiora la necessità di avere codici chiari e pene differenziate a seconda del destinatario .
Il passaggio è radicale. Non più pene clamorose ma inutili, piuttosto pene dolci, che rappresentino una retribuzione data dal colpevole alla società che egli ha offeso. Il castigo ha perso quel carattere di festa sontuosa e terribile ed è diventato una scuola. Dagli inizi del 1800 la punizione perde ogni dimensione spettacolare anzi deve avvenire nel segreto; pubblico sarà il processo giudiziario che porta alla sentenza. Si è invertita l'alternanza di segretezza (processo)-pubblicità (supplizio-pena) propria del periodo storico precedente.
La prigione è prevista tra le altre pene, ma molto criticata, perché inutile alla società, anzi nociva: è costosa, mantiene i condannati nell'ozio, moltiplica i loro vizi[5] ed è inoltre sprovvista di effetti diretti sul pubblico.Ecco invece che nel giro di pochi decenni la detenzione diventa la forma principale di castigo . Ogni infrazione importante, quando non merita la morte, viene punita con la detenzione: come 'un medico che per tutte le malattie usa lo stesso rimedio' .
Già all'inizio del diciannovesimo secolo si possono osservare alcuni grandi modelli consolidati di carcerazione punitiva. Il più antico, forse l'ispiratore di tutti gli altri, è il Rasphuis di Amsterdam, fondato nel 1596[8] dove il lavoro è parte fondante della pena ed obbligatorio, nonché retribuito. Il modello inglese di prigione aggiunge a tutto ciò l'isolamento per evitare promiscuità, cattivi esempi, possibilità di evasione, ricatti e complicità per l'avvenire. Infine secondo il modello di Philadephia gli individui vengono suddivisi in più sezioni, non tanto in base ai crimini commessi, quanto alle loro predisposizioni verso il crimine. I detenuti che pur lavorano e guadagnano, vengono qui osservati in maniera costante.
Tutti questi modelli convergono in un unico comune denominatore: 'la prevenzione dei delitti è il solo fine del castigo'[9]; non si punisce per cancellare un delitto, ma per trasformare un colpevole.
La prigione si muove ormai verso la formazione d'individui docili e ben ammaestrati, usando tecniche del tutto simili a quelle usate nell'esercito, negli istituti religiosi, nelle scuole, nelle fabbriche, negli ospedali[10].
Ma la prigione in qualche modo si ritorce contro la società: essa produce criminalità, non la elimina, aumenta la recidiva, crea un'organizzazione di delinquenti solidali gli uni con gli altri, gerarchizzati, pronti per future complicità. Mentre fallisce nel ridurre il crimine, riesce bene a produrre una delinquenza di tipo specifico, controllata dal centro, addirittura dal potere.
Avendo ben accettato il potere di punire gli uomini comprendono o perlomeno tollerano di essere puniti, come in una forma di contratto. Abituati inoltre alla disciplina ed al controllo nella scuola, nella caserma, nella fabbrica, nell'ospedale, gli individui si assoggettano bene anche al progressivo abbassamento del livello a partire dal quale diviene naturale ed accettabile essere puniti.
Da qui l'estrema solidità dell'istituzione della prigione pur screditata fin dalla sua nascita. 'Si vedono bene gli inconvenienti della prigione e come essa sia pericolosa quando non è inutile. E tuttavia non vediamo con quale altra cosa sostituirla. Essa è la detestabile soluzione, di cui non si saprebbe fare a meno'[11]. A più di duecento anni di storia dalla sua nascita la prigione rappresenta ancora il principale metodo punitivo utilizzato nel nostro paese, come anche nella maggior parte dei paesi esteri.
M.Focault, Sorvegliare e punire, La nascita della prigione, Einaudi, 1975, pag.83
A. Barnave, Discours à la Constituante, 'Archives parlamentaires', 6 giugno 1971; C.Beccaria, Dei delitti e delle pene, Torino, 1988.
' L'ammenda non è temibile per il ricco, né l'infamia per chi vi è già stato esposto; il delitto di un nobile è più nocivo per la società di quello di un uomo del popolo' Lacretelle, Discours sur les peines infamantes, 1784, pag.144.
Code penal 1810, C FM de Remusat, in Archives parlamentaires, tomo LXXII, 1° dicembre 1831, pag.185.
Il Panopticon di J.Bentham è la figura architettonica adatta per eccellenza ad esercitare tali tecniche: il soldato, il religioso, lo studente, l'operaio, il malato, il detenuto saranno nel Panopticon sempre sotto il controllo vigile e nascosto dell'ispettore. J.Bentham, Panopticon, in Works, ed. Browning, tomo IV, pagg. 60-64.
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