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Trattamento penitenziario e misure alternative alla detenzione




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Trattamento penitenziario e misure alternative alla detenzione.

I. L' Ordinamento penitenziario e il paradigma fondamentale dell'art. 27 della Costituzione

L'Ordinamento Penitenziario vigente è stato concepito e voluto dal legislatore in funzione non della sola custodia del detenuto e neppure del mero riconoscimento del suo diritto elementare ad un trattamento conforme alla sua qualità di persona, ma -in ossequio all'art. 27 della Costituzione - in funzione del recupero sociale del condannato.

L'art. 1 Ord. Penit. parla distintamente di trattamento penitenziario, o più brevemente, ma con analogo significato, solo di trattamento, e di trattamento rieducativo. Si legge, infatti, al Is comma: 'il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona'. Il II comma poi indica solo il trattamento dicendo che esso deve essere improntato ad assoluta imparzialità. Al IV comma inoltre è scritto 'il trattamento degli imputati deve essere rigorosamente informato al principio che essi non sono considerati colpevoli sino alla condanna definitiva'. Infine il V comma prevede il trattamento rieducativo ma solo nei confronti dei condannati ed internati sostenendo che esso tende al reinserimento sociale.

La diversità terminologica ha un suo preciso e non secondario valore. Infatti, il legislatore ha voluto con ciò significare che, in aderenza al precetto costituzionale contenuto nel secondo comma dell'art. 27, l'imputato non deve essere 'trattato' sino alla condanna definitiva.

Sarebbe stato, quindi, illegittimo prevedere la rieducazione nei confronti degli imputati. Tuttavia, non era nemmeno pensabile che nel periodo della carcerazione preventiva l'individuo restasse privo d' ogni opportunità utile, quantomeno, a contrastare gli effetti negativi della detenzione e comunque in vista del suo eventuale ritorno alla vita libera.

Pertanto era necessario prevedere un trattamento anche per gli imputati per i quali, come chiarisce il primo comma dell'art. 1 del Reg. Esec., che è rivolto alla generalità dei detenuti, l'obiettivo è limitato 'a sostenere i loro interessi umani, culturali e professionali'; mentre l'obiettivo da proporsi per i condannati e gli internati consiste nella formulazione e nella revisione di un programma inteso ad un'azione rieducativa incentrata sulla modificazione degli atteggiamenti di vita.[1]

Sul significato e sul valore da attribuire all'art. 27 Cost. si è molto discusso. Dal '74 al '93 si sono succedute varie sentenze della Corte Costituzionale, la quale afferma nella sentenza n. 204/74, sulla base del precetto dell'art. 27, comma 3, che'sorge il diritto per il condannato a che, verificandosi le condizioni poste dalla norma di diritto sostanziale, il protrarsi della realizzazione della pretesa punitiva venga riesaminato al fine di accertare se in effetti la quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo', diritto che 'deve trovare nella legge una valida e ragionevole garanzia giurisdizionale'.

Questa sentenza, che non ebbe molte occasioni di ulteriori sviluppi negli anni successivi, li trovò invece subito dopo la cosiddetta legge Gozzini del 10/10/86 n. 663[2]. Le sentenze 343/87 , 282/89 , 313/90 , 125/92 e 306/93 , contengono una vera e propria costituzionalizzazione del principio di flessibilità dell'esecuzione della pena, cioè di un intervento del giudice in fase esecutiva in ordine alla pena detentiva per adeguarla al percorso di risocializzazione che il condannato ha compiuto .

Il principio informatore che sta alla base di tali sentenze, sembra essere quello per cui una volta giunti alla 'rieducazione', una volta cioè che il detenuto appaia rieducato, ciò dà diritto alla riduzione ed all'attenuazione della pena, e non che la pena debba tendere alla rieducazione del condannato.


II. Evoluzione del sistema delle misure alternative al carcere

La riforma penitenziaria del 1975 segna una storica svolta, almeno dal punto di vista dei principi ispiratori, della legislazione sul penitenziario, poiché sostituisce definitivamente il regolamento carcerario fascista del 1931.

Fino a quel momento il carcere era stato concepito come luogo impermeabile e isolato dalla società libera. L'isolamento trovava espressione nella disciplina dei rapporti con la società esterna, limitati a colloqui, corrispondenza e visite dei prossimi congiunti, peraltro assai restrittiva e aleatoria, in quanto legata al sistema delle ricompense e delle punizioni.

L'impermeabilità del luogo e l'isolamento dalla società trovavano conferma anche nelle strutture architettoniche dei penitenziari, per lo più ispirate al modello del Panopticon[9] di Bentham.

Alla situazione sinora descritta si accompagnava la previsione di una struttura burocratica rigidamente centralizzata e verticistica dell'amministrazione penitenziaria,con una rigida subordinazione del personale di custodia al direttore, il quale di volta in volta doveva rivolgersi all'amministrazione centrale per ottenere le relative autorizzazioni. Il sistema penitenziario delineato dal Regolamento del 1931 si articolava, dunque, in una serie di strumenti volti ad ottenere, anche attraverso punizioni e privilegi, nonché attraverso quotidiane pratiche di violenza, un' adesione coatta alle regole, con una costante violazione delle più elementari regole del rispetto della dignità della persona. Con la legge 26 luglio 1975, n. 354 "Norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative della libertà" il lungo percorso della riforma penitenziaria raggiunse una tappa decisiva, dando seguito alle indicazioni contenute nella Costituzione.

La riforma dell'ordinamento penitenziario del 1975 mette finalmente in pratica, dopo molti anni, una prescrizione del dettato costituzionale rimasto per molto tempo inattuato. Si legge nella Costituzione, art. 27, terzo comma: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato".
Principio basilare di questa concezione è che la pena possa e debba essere tendenzialmente rieducativa, e cioè debba includere una serie di attività e interventi di natura trattamentale, finalizzati al reinserimento sociale del detenuto.
La legge del '75 attua, perlomeno sulla carta, il principio costituzionale poc'anzi ricordato. Essa afferma che, ai fini del trattamento rieducativo, al detenuto deve innanzitutto essere assicurato il lavoro, sia all'esterno che all'interno del carcere
.
In primo piano vi è, dunque, la figura del detenuto e non più, come accadeva nel regolamento del 1931, la dimensione organizzativa dell'amministrazione penitenziaria con le esigenze di disciplina ad essa connesse.
L'ordinamento penitenziario vigente è stato, dunque, concepito e voluto dal legislatore in funzione non della sola custodia del detenuto e neppure del mero riconoscimento del suo diritto elementare ad un trattamento conforme alla sua qualità di persona, ma - in ossequio all'art. 27 della Costituzione - in funzione del recupero sociale del condannato.

L'attuazione di tutti i punti della legge non è stata, ovviamente, immediata. Molti anni sono dovuti passare prima che si desse avvio ad una reale, quanto lenta, riforma dei vari apparati delle istituzioni carcerarie, a partire dagli edifici, alcuni addirittura di epoca rinascimentale, fino al personale qualificato e al trattamento stesso delle pene e dei detenuti.[11]



Vi sono due principi molto importanti contenuti nella legge del 1975: uno riguarda la discontinuità della pena, con la flessibilità dei permessi (che permette ai detenuti di riallacciare periodicamente i rapporti umani, a partire da quelli familiari); l'altro riguarda la flessibilità della pena, con la liberazione anticipata. In base a quest'ultimo principio, il giudice di sorveglianza controlla il comportamento del detenuto, osserva il divenire della sua personalità, accertandone l'eventuale partecipazione al processo rieducativo, in base al quale poter poi concedere una riduzione della pena. Questa prospettiva non è comprensibile se si rimane legati a un concetto vendicativo di pena. Sta proprio qui il netto cambiamento di ottica insito nel nuovo ordinamento penitenziario
Si parla, poi, di misure alternative alla detenzione in carcere[12], che possono consistere nell'affidamento in prova al servizio sociale, nella semilibertà o nella detenzione domiciliare dopo aver scontato metà di determinate pene: la novità, in questo caso, sta nel fatto che è proprio la magistratura di sorveglianza ad essere chiamata a gestire permessi e misure alternative, attuando così una collaborazione inedita con l'amministrazione
. Nel caso del tempo, infatti, la materia penitenziaria è andata progressivamente incontro ad un processo di giurisdizionalizzazione dei meccanismi applicativi degli istituti trattamentali.
L'affidamento in prova al servizio sociale è considerato la misura alternativa alla detenzione per eccellenza, in quanto si svolge interamente sul territorio, mirando ad evitare al massimo i danni derivanti dal contatto con l'ambiente penitenziario e dalla condizione di privazione della libertà . E' regolamentato dall'art. 47 dell'Ordinamento Penitenziario, così come modificato dall'art. 2 della Legge n. 165 del 27 maggio 1998, e consiste nell'affidamento al servizio sociale del condannato fuori dall'istituto di pena per un periodo uguale a quello della pena da scontare ,il cui esito favorevole è causa di estinzione della pena inflitta.

La semilibertà, invece, può essere considerata come una misura alternativa impropria, in quanto, rimanendo il soggetto in stato di detenzione, il suo reinserimento nell'ambiente libero è parziale. E' regolamentata dall'art. 48 dell'Ordinamento Penitenziario, e consiste nella concessione al condannato e all'internato di trascorrere parte del giorno fuori dall'istituto di pena per partecipare alle attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale, in base ad un programma di trattamento, la cui responsabilità è affidata al direttore dell'istituto di pena.[16]


III. Dalla legge Gozzini al D.P.R. n. 230/2000

E' soprattutto negli anni '80 che si assiste, in Italia, ad un mutamento che si risolve in una spinta progressista e innovatrice nel campo della giustizia. Innanzitutto vi è una crescita dell'interesse e della difesa dei diritti umani, che spinge ad un nuovo rapporto carcere territorio. Una seconda grande spinta positiva è rappresentata dal volontariato. L'uomo è, in questo contesto, considerato un patrimonio essenziale, un bene prezioso da salvaguardare, una fonte di civiltà e progresso, un patrimonio di vita.

Ad ogni modo, la rivisitazione dell'intero ordinamento penitenziario risale al 1985, quando il ministro Martinazzoli decide di non presentare un disegno di legge governativo, ma di ampliare il piccolo testo del senatore Gozzini: ecco perché la legge 663/1986 va sotto il suo nome (legge Gozzini)[17]. Essa è ad un tempo causa ed effetto del clima diverso verificatosi nelle carceri italiane a cavallo tra gli anni '70 e gli anni '80. Si assiste, in questo periodo, ad una serie di convegni organizzati dai detenuti con l'appoggio del Ministero, come ad esempio quello tenutosi a Rebibbia nel giugno '84.

Ogni convegno è stato un'occasione d'incontro tra esterno e interno, che ha visto la partecipazione di Enti locali, parlamentari, sindacalisti, magistrati, operatori penitenziari, e anche un'occasione per dimostrare che il dettato costituzionale sulla rieducazione dei detenuti può essere un obiettivo realmente perseguibile. Questa legge ha avuto il merito di ampliare ed approfondire le questioni lasciate aperte dalla riforma, permettendo l'osmosi e la permeabilità tra prigione e mondo esterno, favorendo l'ampliamento delle possibilità per i condannati di usufruire di misure alternative alla detenzione.
La legge Gozzini ha introdotto, nel ventaglio delle alternative, la detenzione domiciliare: con tale beneficio si è voluto ampliare l'opportunità delle misure alternative consentendo la prosecuzione, per quanto possibile, delle attività di cura, di assistenza familiare, di istruzione professionale, già in corso nella fase della custodia cautelare nella propria abitazione (arresti domiciliari) anche successivamente al passaggio in giudicato della sentenza, evitando così la carcerazione e le relative conseguenze negative. L'art. 47 ter è stato modificato dalla legge n. 165 del 27/05/1998 (cosiddetta legge Simeone-Saraceni), che ha ampliato la possibilità di usufruire di questo beneficio. La misura consiste nell'esecuzione della pena nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo pubblico di cura,assistenza        e accoglienza
.
Sono stati introdotti, poi, i permessi premio, concessi a quei detenuti che non risultano di particolare pericolosità sociale. Essi hanno durata non superiore ogni volta ai quindici giorni, per consentire di curare interessi affettivi, culturali e di lavoro. La durata dei permessi non può comunque superare complessivamente i quarantacinque giorni in ciascun anno di espiazione, e possono essere concessi a chi ha condanne non superiori a tre anni, o a chi ha già scontato un quarto della pena. Infine la liberazione anticipata, introdotta anch'essa dalla legge Gozzini e applicabile a ciascun condannato, la quale consiste nello sconto di quarantacinque giorni per ogni semestre scontato con regolare condotta .

Le modifiche più recenti apportate all'ordinamento penitenziario del '75 derivano dalla necessità di trovare una risposta a significativi problemi rimasti irrisolti, quali il sovraffollamento e l'insufficienza delle strutture, le condizioni sanitarie, la crescente conflittualità interna, il limitato ricorso all'area penale esterna.
L'esigenza di fronteggiare il fenomeno del sovraffollamento degli istituti di pena è alla base della legge 27 maggio 1998, n. 165 (c.d. legge Simeone), la quale, come abbiamo visto, amplia la possibilità di fruizione delle misure alternative, in particolar modo dell'affidamento in prova al servizio sociale per i condannati fino a tre anni di reclusione. Il problema del sovraffollamento, che ha comportato la frequente assenza delle principali norme di igiene, ha ispirato la legge n. 231 del 1999, la quale ha introdotto il principio dell'incompatibilità del regime carcerario per i malati di Aids e quelli affetti da altre gravi malattie, in ragione dei maggiori rischi di contagio all'interno delle strutture penitenziarie. Occorre richiamare, inoltre, anche il d.lgs. 22 giugno 1999, n. 230, che stabilisce principi, diritti e competenze in materia di sanità penitenziaria. I detenuti e gli internati hanno diritto, in base a tale legge, alla prevenzione, alla diagnosi, alla cura e alla riabilitazione. Alle detenute madri è poi rivolta la legge 8 marzo 2001, n. 40, che introduce la "detenzione domiciliare speciale" e "l'assistenza all'esterno dei figli minori", nel tentativo di superare definitivamente la logica custodialistica del carcere .

È necessario, inoltre, citare l'adozione del nuovo regolamento di esecuzione dell'ordinamento penitenziario (d.p.r. 30 giugno 2000, n. 230), che rappresenta la più importante realizzazione del movimento riformatore di questi anni[21]. Il nuovo regolamento di esecuzione si ispira espressamente alle "Regole minime per il trattamento dei detenuti" adottate dall'ONU nel 1955 e alle "Regole penitenziarie europee" del Consiglio d'Europa del 1987. Esso è molto importante poiché ribadisce la necessità, nonché il dovere, di umanizzare le condizioni di vita dei detenuti .





IV. Gli status alternativi alla detenzione negli ordinamenti europei e negli Stati Uniti[23]


L'esigenza di alternative alle pene detentive è stata da tempo avvertita in molti Stati, le cui codificazioni prevedono un sistema differenziato di interventi sospensivi sostitutivi o alternativi alla pena limitativa della libertà[24].

È opportuno ricordare, dato il suo carattere innovativo, la recente esperienza del Codice penale polacco, il quale prevede come nuova tipologia di pena principale la 'limitazione della libertà personale'. Tale tipo di pena, autonoma anche se comminata in alternativa alla pena detentiva, può variare da un minimo di tre mesi ad un massimo di due anni e consiste nell'imposizione al condannato di alcune limitazioni indicate dalla legge e, a discrezione del tribunale, anche all'obbligo di risarcire il danno e presentare pubblicamente le scuse della parte lesa.

Uno degli aspetti più interessanti di tale specie di pena sta nell'imposizione dell'obbligo di svolgere l'attività lavorativa imposta dal giudice, obbligo che va adempiuto o con prestazioni di lavoro gratuito per pubblica utilità oppure con l'assegnazione ad aziende statali o continuazione di precedenti attività lavorative con ritenute però del dieci - venticinque per cento sullo stipendio a favore del fisco ed a fini sociali. Misure analoghe sono le cosiddette 'misure per il reinserimento nella società' previste dal Codice penale della Germania a fianco delle pene principali.

Misure che consistono nel dare ad un collettivo l'incarico di aiutare il condannato nel suo reinserimento sociale svolgendo nei suoi confronti una funzione educativa e nell'obbligare il condannato a svolgere una determinata attività lavorativa e non soggiornare in determinati luoghi.

Nello stesso ordinamento è prevista la sospensione della condanna a condizione di buona prova e sottoposizione ad obblighi ed affidamento per la rieducazione ad organi collettivi ed anche singoli cittadini, nonché l'ordine di esecuzione della pena in 'modo diverso' in deroga alle disposizioni generali dell'esecuzione penale sulla base di presupposti molto vaghi, come dare buona prova di sé.

Caratteristiche pertanto di tale sistema sono l'ampia discrezionalità e l'attribuzione di poteri rieducativi ad organi collettivi ed anche a singoli esperti, non facenti parte né della magistratura né di un organo amministrativo.

In Belgio è in vigore un sistema articolato di misure sostitutive della pena detentiva sviluppatosi progressivamente, con le riforme del 4 novembre 1947 e del 29 giugno 1964, sulla base di iniziali modesti interventi operati dal legislatore al fine di ovviare agli effetti pregiudizievoli delle pene detentive brevi.

Così nel sistema belga è prevista la facoltà del giudice, per la prigione correzionale fino a due anni, di disporre la sospensione della pronuncia, la dilazione della condanna con prova, ed il periodo di prova variabile da uno a cinque anni deve essere finalizzato al trattamento e alla rieducazione, oppure, per pene fino a sei mesi, di disporre la semidetenzione. Per la fase dell'esecuzione della pena sono previste diverse misure di competenza del potere esecutivo e cioè:

la liberazione condizionale, che presuppone l'espiazione di parte della pena;

la semilibertà, concedibile dall'Autorità penitenziaria senza limite di tempo, anche se di solito applicata nella fase terminale di pene di lunga durata;

gli arresti di fine settimana, che costituiscono un vero e proprio frazionamento delle pene detentive brevi.

Infatti, tale misura consiste nella privazione della libertà dalle quattordici del sabato (in alcuni casi dalle diciannove del venerdì), sino alle sei del lunedì, mentre nei restanti giorni il condannato continua a vivere libero nel suo ambiente, ed è applicabile alle pene non superiori ad uno o, in alcuni casi, a due mesi.

In Francia l'alternativa della pena detentiva è rappresentata dalla sospensione della pena con prova concessa dall'autorità giudiziaria prima dell'esecuzione e dalla liberazione condizionale concedibile in sede esecutiva dal Ministero della Giustizia per le pene eccedenti i tre anni e dal giudice per l'applicazione per le pene inferiori. Mentre l'esecuzione è differenziata e progressiva in rapporto al periodo di pena già scontata e alla condotta del condannato e prevede anche il collocamento all'esterno, la semilibertà ed i permessi sono concessi sulla base di presupposti determinati per decreto.

Negli Stati Uniti d'America i vari ordinamenti prevedono i due istituti della probation e del parole. La probation nelle tre diverse forme della sospensione della condanna, della sospensione dell'esecuzione e della sospensione di parte dell'esecuzione, può essere disposta dalla Corte e dal giudice monocratico, anche dopo una condanna ma, entro un certo termine di essa, sulla base di presupposti diversi nei vari Stati per quanto concerne l'entità della pena e la natura del reato[25]. Comporta l'imposizione di prescrizioni diversificate nei vari ordinamenti, con l'attribuzione ad organi amministrativi dei compiti di ispezione e controllo, salvo l'attribuzione del potere di revoca della Corte o del giudice.

Il parole equivale nella pratica alla nostra liberazione condizionale, concedibile però da parte dell'ufficio amministrativo dopo l'espiazione di almeno due terzi della pena e del diverso periodo stabilito in sentenza e revocabile, secondo le previsioni della stessa autorità amministrativa in caso di violazione delle prescrizioni e dell'autorità giudiziaria nell'ipotesi di commissione di altro reato.

E' interessante ricordare che l'istituto del parole tra il 1972 e il 1974 ha emanato una tavola delle direttive al fine di fornire un mezzo scientifico ed obiettivo per l'esercizio della discrezionalità sulla decisione del rilascio con parole. Tale tavola si fonda su due indici fondamentali tramite i quali avviene la classificazione dei detenuti: l'indice della 'gravità dell'offesa' e l'indice del 'rischio di recidiva'.

Il rischio di recidiva è fondato sul precedente comportamento criminoso in genere e non sul solo reato contestato e il fattore di rischio è basato su indici personali attinenti prevalentemente ai precedenti penali e alla precedente condotta del soggetto non aventi relazione alcuna con eventuali progressi sulla via della riabilitazione conseguiti durante la detenzione. Pertanto, entrambi gli indici restano costanti durante l'intero periodo di carcerazione anche se all'udienza di concessione si dà realmente peso all'obiettivo della riabilitazione. Peraltro, le direttive non costituiscono regole rigide, e non sono vincolanti, ma se sono osservate, la loro disapplicazione va in un certo senso giustificata.

Quindi, pur riconoscendosi nei vari sistemi penali una posizione primaria o prevalente alle misure alternative alla detenzione, in vari modi viene differenziato l'intervento punitivo in rapporto alla natura del reato, alla personalità del reo e alle condizioni ambientali, allo scopo di evitare gli effetti dannosi di carcerazioni inutili ai fini preventivi ed anche per meglio gestire la popolazione carceraria.


Va sottolineato inoltre come le misure sostitutive o alternative al carcere vengano prevalentemente disposte negli altri sistemi dalla stessa autorità giudiziaria che irroga le pene o dall'autorità amministrativa a differenza di ciò che avviene nel nostro ordinamento ove al giudice della cognizione non è attribuito altro potere che quello di sospendere tout court l'esecuzione della pena e la pronuncia della condanna (articoli 166 - 169), mentre, d'altro canto, si è progressivamente affermata ed è stata sancita normalmente la cosiddetta giurisdizionalizzazione dell'esecuzione penale, in forza della quale il reo, anche dopo la condanna, resta sottoposto all'autorità giudiziaria per ogni decisione incidente sul regime esecutivo o sulla riduzione della pena.

Infine anche dall'esperienza di altri sistemi viene la spinta verso la configurazione di sanzioni penali autonome della pena detentiva che siano effettivamente idonee a promuovere nel reo il senso della solidarietà sociale, sì da mutare le relazioni tra la società e la sua devianza (si pensi ai lavori di pubblica utilità, alle frequenze a corsi di addestramento professionale, all'inserimento in comunità terapeutiche e così via).


V. Misure alternative - Dati complessivi dell'anno 2004

(Dati del Ministero della Giustizia - Dipartimento Amministrazione Penitenziaria)


 




Tipologia misura alternativa

Casi
pervenuti

Casi seguiti*

Affidamento in

prova





Affidati tossicodipendenti dalla libertà




Affidati tossicodipendenti dalla detenzione




Affidati dalla detenzione




Affidati dalla libertà




Affidati militari




Totale



Semilibertà




Semilibertà dalla detenzione




Semilibertà dalla libertà




Totale



Detenzione domiciliare




Detenzione domiciliare dal carcere




Detenzione domiciliare libertà




Detenzione domiciliare provvisoria




Totale



Totale generale




* Seguiti = casi pervenuti nel periodo di rilevazione + casi in carico al 01.01.2004





L.M. Solivetti, Società e risocializzazione: il ruolo degli esperti nelle attività di trattamento rieducativo, cit., p. 282.


Modifiche alla legge sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà.

La Corte Costituzionale dichiara l'illegittimità costituzionale del decimo comma dell'art. 47 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui - in caso di revoca del provvedimento di ammissione all'affidamento in prova per comportamento incompatibile con la prosecuzione della prova - non consente al Tribunale di sorveglianza di determinare la residua pena detentiva da espiare, tenuto conto della durata delle limitazioni patite dal condannato e del suo comportamento durante il trascorso periodo di affidamento in prova.

La Corte Costituzionale  dichiara l'illegittimità costituzionale del primo comma dell'art. 177 c.p., nella parte in cui, nel caso di revoca della liberazione condizionale, non consente al Tribunale di sorveglianza di determinare la pena detentiva ancora da espiare, tenendo conto del tempo trascorso in libertà condizionale nonché delle restrizioni di libertà subite dal condannato e del suo comportamento durante tale periodo.

La Corte Costituzionale dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 444, secondo comma, del codice di procedura penale 1988, nella parte in cui non prevede che, ai fini e nei limiti di cui all'articolo 27, terzo comma, della Costituzione, il giudice possa valutare la congruità della pena indicata dalle parti, rigettando la richiesta in ipotesi di sfavorevole valutazione.

La Corte Costituzionale dichiara l'inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 79, primo comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), in relazione agli artt. 47, 48 e 50 della stessa legge, sollevata, in riferimento all'art. 3, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale per i minorenni di Genova, in funzione di Tribunale di sorveglianza per i minorenni, con ordinanza del 30 maggio 1991.

La Corte Costituzionale dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 15, secondo comma, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito con la legge 7 agosto 1992, n. 356, nella parte in cui prevede che la revoca delle misure alternative alla detenzione sia disposta, per i condannati per i delitti indicati nel primo periodo del primo comma che non si trovano nella condizione per l'applicazione dell'art. 58-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354, anche quando non sia stata accertata la sussistenza di collegamenti attuali dei medesimi con la criminalità organizzata;


A. Margara, 'Memoria di trent'anni di galera. Un dibattito spento, un dibattito acceso', in Il Ponte, 1995, nn. 7-9, p.129.


Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire., Einaudi, Torino 1993, pp. 218-228. Secondo Foucault, il Panopticon, ideato da Jeremy Bentham nella metà del XIX secolo, ha espresso nella forma più pura le differenze tra i vecchi ricoveri e le nuove prigioni. Panopticon era il nome che Bentham diede a un carcere ideale da lui progettato, ma mai interamente realizzato. Il Panopticon aveva una forma circolare, con delle celle tutte intorno alle mura perimetrali e con al centro una torre di controllo. Ogni cella era dotata di due finestre, una verso la torre di controllo, l'altra rivolta all'esterno. La finalità del progetto era di rendere i detenuti costantemente visibili alle guardie: le finestre della torre erano coperte da persiane alle veneziana, in modo che il personale del penitenziario potesse sorvegliare continuamente i carcerati, senza a sua volta esporsi alla loro vista. La pianta del Panopticon contribuì a diffondere il principio delle celle separate per singoli individui o piccoli gruppi di carcerati.

M. Gozzini, L'ordinamento penitenziario dopo la legge 663/1986. Problemi ancora aperti, in A. Lovati (a cura di), Carcere e territorio. I nuovi rapporti promossi dalla legge Gozzini e un'analisi del trattamento dei tossicodipendenti sottoposti a controllo penale, Franco Angeli, Milano 1988, pp. 27-44. Fino ad allora il lavoro in carcere - assai scarso - era quello cosiddetto di istituto (pulizia, cucina, lavanderia), che non occupava   più del 25% dei detenuti

M. Gozzini, L'ordinamento penitenziario dopo la legge 663/1986. Problemi ancora aperti, in A. Lovati (a cura di), op. cit., pp. 27-44.



Al riguardo, cfr. A. Lovati, Recenti modifiche dell'ordinamento penitenziario in relazione allo stato di alcool e tossicodipendenza, in A. Lovati (a cura di), op. cit., pp. 211-226. Secondo Lovati l'esistenza di forme alternative alla detenzione offre vantaggi eccezionali. In particolare tali misure mettono in primo piano la persona, rendono più umana la pena e il modo di viverla, stimolano e facilitano l'elaborazione di un trattamento per la persona, preparandola più efficacemente al reinserimento, permettono di conservare i rapporti con la famiglia e con la comunità di appartenenza.

M. Gozzini, L'ordinamento penitenziario dopo la legge 663/1986. Problemi ancora aperti, in A. Lovati (a cura di), op. cit., pp. 27-44.

Si tratta di una ipotesi di probation applicabile solo in fase esecutiva e non nel processo di cognizione,come previsto invece nel processo a carico dei minorenni, dove è ammessa la sospensione del processo e la messa alla prova del condannato (d.p.r. 22 settembre 1988 n. 448).

L. Borsani, Cssa e detenuti stranieri, in F. Berti, F. Malevoli (a cura di), Carcere e detenuti stranieri. Percorsi trattamentali e reinserimento, Franco Angeli, Milano 2003, pp.140-166.

Ibidem,pp.140-166.

In realtà, oltre a Gozzini, gli altri autori della legge furono tre giuristi: Giuliano Vassalli, che presiedeva la Commissione, Raimondo Ricci e Marcello Gallo,che          era il relatore.

L. Borsani, Cssa e detenuti stranieri, in F. Berti, F. Malevoli (a cura di), op. cit., pp.140-166.

Cfr. C. Polignieri, E. Silvestro, Cenni di storia del diritto penitenziario e caratteristiche dell'ordinamento penitenziario italiano

Ruotolo, op. cit., pp. 32-36.

Ibidem, pp. 32-36.

L. Bresciani, F. Ferradini, Mutamenti normativi, in S. Anastasia, P. Gonnella (a cura di), Inchiesta sulle carceri italiane, Carocci, Roma 2002, pp. 99-108.

Cfr. Carceri nel mondo, in www.ristretti.it

Gallo E., Ruggiero V., Il carcere in Europa, ed. Bertani, Verona,1983

Di Gennaro G., Aspetti teorici e pratici del probation, in Quaderni di criminologia clinica, 1970


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