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La pena detentiva, nella sua origine dogmatica, nasce come sola privazione della libertà, attraverso la segregazione carceraria che dovrebbe limitare, oltre alla libertà di circolazione, solo quei diritti la cui esplicazione in tale ambiente sia di difficile attuazione. Gli altri diritti costituzionalmente garantiti, dovrebbero rimanere teoricamente intangibili ed essere protetti alla stessa stregua di un quisque de populo. Molti e troppi sono gli aspetti che portano ad una riconsiderazione della posizione del detenuto, proprio per ciò che riguarda la tutela dei suoi diritti, molto meno, come vedremo, inviolabili di una persona libera. In questo paragrafo avremo modo di prender visione di come uno degli aspetti fondamentali della vita di una persona siano, in questo caso, limitati o forse addirittura annientati da una realtà che non permette un'effettiva soddisfazione di bisogni primari, come la salute. Lungi dai miei scopi quello di fornire un'esauriente panoramica del problema, cercherò in ogni modo di darne una parziale, ma mi auguro interessante, puntando l'attenzione specificatamente su alcuni aspetti che reputo particolarmente importanti.
Volendo fare un bilancio sulle condizioni 'normali' di vita di un detenuto si può, senza bisogno di eufemismi, affermare che la salute psicofisica non rappresenti più un pilastro inamovibile della loro sfera soggettiva, come lo è per il cittadino libero stante l'art.32 Cost. per il quale la salute è un 'fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività'. Molte sono le cause, che possono essere comunque ricondotte ad unità riflettendo su un dato indiscutibile: la carenza ed inefficienza sanitaria all'interno degli istituti di pena. Il perché di questo può essere ricercato in diverse direzioni come l'atteggiamento di indifferenza verso questi soggetti, considerati sotterraneamente come non-uomini, l'obiettiva mancanza di condizioni igieniche degli ambienti carcerari, il deterioramento progressivo dovuto alla sofferenza, causa forse delle peggiori malattie.
Dal momento in cui il condannato entra in carcere viene a contatto con una realtà, per questo aspetto, brutale: l'istituzione non è interessata alla sua vita e alla sua integrità fisica, tanto meno se di natura psichica. La sensazione che subito pervade il detenuto è quella di perdita del 'senso di sicurezza personale'[1], con conseguente senso di abbandono che può svilupparsi nelle direzioni più diverse.
Le garanzie igieniche all'interno delle galere sono decisamente trascurate a partire dal vitto, per cui vengono spese poche migliaia di lire al giorno per detenuto, alla pulizia delle celle, nonché la possibilità di pulizia personale. Non credo che ancora oggi ci sia il rituale dell'assaggio del vitto da parte del direttore, commedia che veniva rappresentata ogni giorno con atteggiamento paternalistico per convincersi della bontà delle pietanze[2]. La situazione rimane invariata comunque, poiché la pessima qualità delle vivande servite è una delle cause principali di malattia che colpisce i detenuti. Le cure che possono essere fornite sono di livello bassissimo e si scontrano con le procedure burocratiche penitenziarie, per cui un detenuto può dover aspettare un periodo di tempo lunghissimo prima di essere portato in ospedale per un intervento, ad esempio. A.Margara, nell'intervista rilasciatami lo scorso 25 maggio, mi ha parlato anche di questo, sostenendo proprio che quella del detenuto è:
'una vita antigienicale chiusure protratte per una ventina di ore nelle celle, questo è l'ordinario degli istituti di pena. Questo è un sistema di vita che nuoce sicuramente alla salute, è sicuramente antigienico. Sa che c'è un medico francese, un medico penitenziario, che è arrivato alla conclusione che il carcere è l'ultima pena corporale, perché è una pena sul corpo, che produce le sue malattie ben identificabili. E' una pena corporale, non c'è niente da fare!'[3].
Il medico francese a cui si riferiva il magistrato era, con solo un lieve margine di dubbio, Daniel Gonin, medico penitenziario per trent'anni a Lyon, nel carcere di Saint Paul che ha pubblicato numerosi saggi sulla sua esperienza. Questo medico farà da filo conduttore nel discorso che segue, attraverso la sua opera del 1991, 'La santé incarcérée'[4], di cui prende accuratamente visione anche Ermanno Gallo, ne 'Le malattie dell'ombra' . Si parte da un dato di base per la riflessione sulle condizioni di salute in carcere: quello per cui la pena detentiva è, senza incertezze, una pena corporale, che affligge il corpo e la mente di chi vive entro le mura di una prigione, ha 'un'architettura afflittiva, al centro della quale è posto il corpo recluso' .
Lo studio di Gonin mette in risalto una categoria di patologie dette 'dell'ombra' dovute sostanzialmente alla stessa natura della vita detentiva e quindi ampiamente utilizzabili anche per l'Italia. Sono, le malattie dell'ombra, delle patologie innominate dovute al malessere carcerario, che provocano nel detenuto numerose reazioni psico-fisiche molto frequenti. La prima tappa che viene affrontata dal recluso è il 'trauma dello sradicamento psicologico e sociale passando attraverso la deformazione spazio-temporale'. Questa è la prima causa che il detenuto accusa come conseguenza dell'ingresso in carcere e che provoca una notevole sofferenza destabilizzatrice. Il tempo ha un peso particolare, che incide pesantemente sulla psiche del recluso, che si vede privato dell'essenza della vita, 'deportato in un mondo in cui più nulla lo rassicura, si perde nel proprio sgomento'[7], privato, dicevo, dell'importanza e del valore del presente, che è visto slittare ad un momento futuro ed incerto, togliendo ogni significato alle proprie scelte. Anche lo spazio è un elemento fondamentale per l'insorgere delle patologie 'carcerarie', uno spazio negato in quanto il detenuto se ne vede privato, non ne può più disporre, viene negata ogni sfera personale che non possa in ogni momento essere violata. Viene definito da Gonin il detenuto come 'un corpo rifugiato nel suo sacco di pelle' . A questo stato di cose, questo mondo senza tempo e spazio, sono dovute molte patologie comportamentali e della memoria. La vertigine è uno dei sintomi più comuni che possono rinvenirsi in cella, la cui causa è il disorientamento di un nulla forzato contro il quale l'uomo senza poteri non può reagire: l'impotenza. Colpisce, pare, oltre i tre quarti delle persone recluse e sembra attribuibile ad un cambiamento, ad una 'modificazione violenta dei sensi e della coscienza'. L'uomo perde ogni connotato di differenziazione dagli altri, tutto si confonde in un colore senza sfumature che fa perdere importanza alla peculiarità del singolo. Comportamento derivante da questa realtà è un desiderio di assenza, di mimetizzazione, con cui celarsi dallo sguardo critico di chi lo ha messo in quei luoghi, un processo di autonegazione ed annullamento dell'IO, che lo porta progressivamente verso una lenta decomposizione fisica e psicologica.
Gonin mette in risalto come vi sia un 'atrofia progressiva dei cinque sensi'. In primis si ha un peggioramento della vista, dato che il raggio d'azione con cui questo senso si allena è sempre molto ridotto e, sostiene l'autore, anche per l'inconscia o conscia consapevolezza dell'inutilità di un suo sfruttamento. Invece l'udito si acuisce incredibilmente in un processo di sostituzione di un senso che diviene fondamentale in carcere. Un'attenzione particolare viene dato alla pelle dei detenuti, che come sostiene il medico, è lo specchio di quello che vi è all'interno del corpo. Numerosi sono herpes, piaghe, escoriazioni, arrossamenti di cui molti, ma non tutti, sono psicosomatici.
Oltre alla pelle, altri sono i mali ricorrenti come l'ulcera nervosa, individuata come una forma di autodigestione, quasi per riuscire a dissolversi nel nulla o almeno questa è l'interpretazione psichiatrica che viene fornita. Altri disturbi caratteristici sono le 'costipazioni intestinali, il vomito continuo e convulso' dovute, come pensa Gonin, a quell'indecisione tra il 'tenere o restituire' che rappresenta l'alternativa ossessionante in cui si trova il recluso. Il sesso poi costituisce uno dei peggiori motivi di disturbo psichico, che si manifesta nella negazione di ogni allusione nelle lettere, come per seppellire il ricordo doloroso a cui non può essere portato rimedio. Altre manifestazioni possono essere molto gravi, come è immaginabile in questa atmosfera di autocastrazione e di sterilizzazione[9], quali tentativi autolesionistici contro i genitali, che nascondono un disagio profondo a metà strada tra l'autoerotismo masochistico e l'autopunizione.
Altre manifestazioni complesse sulla psiche sono la perdita della memoria e l'incapacità alla concentrazione, frutti di una sorta di atrofia consequenziale o autoprovocata della mente, che danno un sintomatico 'vuoto nella testa' di cui molti detenuti denunciano la presenza. Queste sono solo alcune delle manifestazioni patologiche che si trovano in prigione, dato che quelle più gravi rappresentano una percentuale inferiore anche se ovviamente proporzionalmente preoccupante rispetto al mondo dei liberi. Mi riferisco a tutti i tentati e riusciti suicidi[10] che possono verificarsi nei primi tempi di detenzione; o a quello strano fenomeno di ingestione di oggetti (si elencano fra questi chiodi, pezzi di muro, lamette) con il quale il detenuto onnivoro sembra voler attuare una macabra sorta di metamorfosi con l'ambiente che lo circonda, attraverso un'autodistruzione provocata o indotta.
L'autore denuncia definitivamente un uso indiscriminato del carcere ed eccessivamente diffuso, con il quale ipocritamente si vuol mascherare una pena che dovrebbe tendere alla rieducazione senza causare una sofferenza. Il divieto di trattamenti disumani è una conquista del nostro tempo ed irrinunciabile; ma siamo certi, mi viene da chiedere, che la sofferenza causata dalla reclusione sia meno afflittiva del dolore fisico causato direttamente sul corpo? La punizione inflitta dal carcere, come mai potremo, spero, comprendere, mi suona forse più agghiacciante della tortura fisica, in cui il dolore era palese e, se non altro, di natura più semplice. Non sbaglia comunque chi sente come Gonin o Margara (che mi disse durante l'intervista: 'La struttura carceraria deflagra la persona e il disordine che ne consegue non è tanto disordine, ma disagio di ordine personale, profondopsichiatrico in una parola'[11]) di sostenere che è l'ultima delle pene corporali, più subdola e strisciante di un'amputazione, meno diretta della tortura sul corpo, ma senz'altro altrettanto distruttiva, forse ancor di più, dato che destruttura progressivamente l'individuo, rendendolo inerme ad un cambiamento a cui sembra non poter reagire.
Questa, mi rendo conto, non piacevole descrizione degli effetti che il carcere produce sul detenuto, è stata da me fornita per rendere agevole l'affermazione di quanto sia statisticamente alta la percentuale di malattia mentale in carcere e quanto poco si faccia per ovviare al fenomeno. Anzi forse si dovrebbe partire da un punto di vista diverso per ciò che riguarda le cure apprestate dall'ordinamento in casi di questo tipo, che sono molto frequenti, più di quanto non si creda. Viene da molti avanzata l'ipotesi che i trattamenti riservati ai detenuti con problemi psico-fisici siano di basso livello, se non addirittura assenti in alcuni casi, per una sorta di disinteresse istituzionalizzato. I fondi stanziati per il trattamento e il personale relativo (educatori, assistenti sociali, psicologi) sono assolutamente irrisori rispetto alle spese generali affrontate dalle prigioni per il loro funzionamento. La Sanità penitenziaria, come ci informa Margara, non si è mai presa in carico il problema psichiatrico, per la mancanza totale di un'organizzazione a livello centrale per la creazione di tale servizio. Il magistrato, durante la carica ricoperta al D.A.P., tentò di mutare questo stato di cose attraverso varie circolari con le quali stimolare la creazione di un servizio che si prendesse carico di questo problema gravoso. Tale tentativo fallì, ma a quanto pare dobbiamo sperare che nel futuro le cose cambino in meglio. Si tratta non di una speranza, ma di una certezza, dice Margara, riferendosi al fatto che il Servizio Sanitario Penitenziario entro breve dovrà cessare di essere solo un'articolazione dell'Amministrazione penitenziaria, come è stato fin ora, ed entrare di pieno diritto all'interno del Servizio Sanitario Nazionale[12]. Quando questo si realizzerà, pare che dovremmo assistere a dei miglioramenti notevoli dal punto di vista sanitario con conseguente presa in carico del 'malato psichico' , con, ci auguriamo, delle cure diverse dalle ordinarie e deprecabili cure farmacologiche che sembrano essere al soluzione adottata più frequentemente.
Meno ottimistiche sono le previsioni di G.B.Traverso che nell'intervista rilasciatami ha espresso il suo disincanto verso l'uso dello strumento psichiatrico in carcere, perché dal suo punto di vista 'non si può stabilire un vero rapporto terapeutico, dato l'ambiente, data la costrizione'. In realtà Traverso non è che non creda nell'ipotizzabilità di un intervento psichiatrico in carcere, ma la sua è una posizione realistica che prende atto della seria difficoltà rinvenibile in un tentativo del genere e ridimensiona di conseguenza quella che sono le sue proposte, cioè di puntare innanzi tutto a 'valorizzare degli interventi psico-sociali che abbiano non degli obiettivi di chissà quale portata, ma degli obiettivi più limitati come il miglioramento della qualità della vita in carcere'[14]. Il miglioramento della vita carceraria, per Traverso, non è solo l'abbandono di finalità più elevate. Il criminologo, infatti, è certo che un ambiente più vivibile sia di beneficio anche alla sfera psichica della persona:
'questo perché il carcere deve punire le persone attraverso la privazione della libertà, ma non deve degradarle a belve feroci; alcuni interventi si potrebbero fare migliorando le condizioni di vita in carcere. Io credo che migliorando le condizioni delle persone aumenta la possibilità rieducativa, anche se non mi piace il termineRieduca il ribelle o rieduca perché non ha le stesse idee? E questo (il miglioramento della qualità della vita) io penso che potrebbe ridurre la conflittualità, potrebbe ridurre la sofferenza, potrebbe ridurre il disturbo psichiatrico'.[15]
Pur non essendo totalmente in accordo con le idee 'riduttive' del Dott. Traverso, ma auspicando invece un intervento di portata maggiore a livello centrale sul problema sanitario e psichiatrico, soprattutto per vedere riempita di significato la parola 'trattamento' su cui dovrebbe basarsi il nostro sistema penitenziario, non posso che concordare sul fatto che i maggiori disagi e malesseri vissuti in carcere siano dovuti proprio alle cattive condizioni di vita. E' utile ricordare come vi siano state esperienze di questo tipo anche all'estero, dove le condizioni in cui versavano le carceri hanno portato ad eventi spiacevoli, ma significativi. Ricordo in particolare gli episodi di violenza e rivolta carceraria a Strangeways in Inghilterra (nel 1991), dove il carcere fu preso d'assalto dai detenuti per quasi l'intero mese di aprile. La rivolta creò un allarme tale a livello centrale da rendere opportuna la creazione di una commissione d'inchiesta, presieduta dal Lord Justice Woolf, che dopo pochi mesi presentò la c.d. Relazione Woolf[16], in cui sono analizzate le cause dell'origine di tale malessere. Alcuni degli elementi che furono messi in risalto da questa relazione sono effettivamente preoccupanti, quali un uso di psicofarmaci sconsiderato a fini oltretutto non terapeutici, ma ai fini del conseguimento di un controllo più efficace sulla popolazione. Dato questo rinvenuto anche dal medico francese Daniel Gonin che parla di un carcere come 'fabbrica di farmacodipendenti' e che denuncia come 'in prigione il 43% delle medicine prescritte dai soli medici penitenziari sono psicotropi' . Tornando alla Relazione Woolf, questa rileva la condizione disumana in cui versa l'ambiente carcerario, portando alla luce le 'troppe ore trascorse in cella, le degradanti carenze delle strutture igieniche, la monotonia di un cibo preparato con eccessivo anticipo rispetto al momento della consumazione e distribuito ad ore impossibili' . Non lontana dall'Italia questa situazione, come si può notare dagli ultimi eventi di cronaca che hanno messo in luce le condizioni di vita dei detenuti, e che come sostiene anche Traverso, rappresenta una delle maggiori cause di disagio e di scontento. La reazione che una persona può avere ad un trattamento che reputa disumano, o che lo è oggettivamente, può essere, come è stato, quello di pensare 'if you treat us like animals, we'll behave like animals' .
E.Goffman, Asylumus, Le istituzioni totali: i meccanismi dell'esclusione e della violenza, Nuovo Politecnico, Einaudi, Torino, 1968.
A.Ricci-G.Salierno, Il carcere in Italia, Inchiesta sui carcerati, i carcerieri e l'ideologia carceraria, Nuovo Politecnico, Einaudi, Torino, 1971.
E.Gallo, Le malattie dell'ombra, in Dei delitti e delle pene, 1992.
Ci dice Gonin che il 'tasso dei suicidi in prigione risulta superiore dalle sei alle sette volte a quello riscontrato in un gruppo appartenente alla stessa fascia di età, in stato libero', op. cit., pag.215.
Tale riordino della Medicina penitenziaria dovrà avvenire attraverso la delega al governo l. 30 novembre 1998 n.419 avente ad oggetto 'Delega al governo per la razionalizzazione e per l'adozione di un testo unico in materia di organizzazione e funzionamento del Servizio Sanitario Nazionale', reca tra le quattro distinte deleghe legislative quella contenuta nell'art.5 volta al riordino della sanità penitenziaria. In forza della delega il governo ha emanato il D.lgs.22 giugno 1999 n.230 è il primo di ulteriori decreti che concorreranno al riordino della materia. Tale decreto, che si compone di nove articoli, all'art.1, 1°comma stabilisce un importantissimo principio di uguaglianza di trattamento sanitario fra detenuti e mondo libero:
' I detenuti e gli internati hanno diritto, al pari dei cittadini in stato di libertà, alla erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, efficaci ed appropriate, sulla base degli obiettivi generali e speciali di salute e dei livelli essenziali ed uniformi di assistenza individuati nel Piano Sanitario Nazionale, nei piani sanitari regionali e in quelli locali'.
Attraverso la legge delega e, per conto suo, i decreti legislativi conseguenti si vuole realizzare una ripartizione di competenze tra il Ministero della Sanità e il Ministero di Grazia e Giustizia prevedendo un graduale trasferimento delle funzini sanitarie, in specie di programmazione, indirizzo e coordinamento tra le strutture carcerarie, amministrazioni centrali, Regioni e AASSLL collegate con il compito di tutela della salute dei detenuti, al primo di questi. Di estrema importanza è questa disposizione soprattutto per ciò che riguarda la programmazione, dato che la concertazione fra le due amministrazioni in gioco era estremamente carente per disciplina nella normativa previgente. Questo passaggio è evidenziato dall'applicazione del PSN anche al servizio sanitario penitenziario.
Estratti dall'intervista a G.B.Traverso, v. Appendice. Ora sembra che gli obiettivi auspicati dal Dott. Traverso si siano in parte realizzati con il recentissimo nuovo regolamento penitenziario.
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