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In base al 1° comma dell'art. 284 c.p.p. gli arresti domiciliari sono definibili come la misura cautelare coercitiva che impone all'indagato o all'imputato di non allontanarsi dalla propria abitazione, da altro luogo di privata dimora, ovvero da un luogo pubblico di cura e di assistenza.
La norma attribuisce al giudice il potere di inasprire o di attenuare il grado di afflittività della misura che è equiparata - anche ai fini della determinazione della pena da espiare per effetto della sentenza di condanna (cfr. art. 657, 1° comma c.p.p.) e della concessione della liberazione anticipata di cui all'art. 54 legge 26.07.1975, n°354 - alla custodia cautelare in carcere.
Così per un verso con il provvedimento impositivo degli arresti domiciliari il giudice può stabilire il divieto per l'indagato di comunicare con persona diverse da quelle che con lui coabitano (art. 284, 2° comma c.p.p.); per l'altro il giudice può autorizzare l'indagato a recarsi al lavoro quando non può "altrimenti provvedere alle sue indispensabili esigenze di vita ovvero versa in condizioni di assoluta indigenza" (art. 284, 3° comma c.p.p.).
Al fine di salvaguardare adeguatamente il diritto di comunicare con i terzi, diritto sicuramente inquadrabile nel novero dei diritti di libertà protetti dalla Costituzione, il divieto di cui all'art. 284, 2° comma deve trovare il suo fondamento nella necessità di salvaguardare specifiche esigenze cautelari direttamente riferibili alla persona contro cui si procede, esigenze la cui gravità e rilevanza deve essere tale da rendere necessario il ricorso a modalità di esecuzione della misura particolarmente restrittive. Si pensi, per esemplificare, al caso in cui vi sia il fondato timore che l'indagato possa utilizzare il telefono, o altri mezzi di comunicazione, per inquinare le prove (minacciare i potenziali testimoni) ovvero per continuare a gestire l'attività criminosa.
Altrettanto rilevante è il potere attribuito al giudice di autorizzare l'indagato o l'imputato ad allontanarsi dal luogo di esecuzione degli arresti domiciliari al fine di poter svolgere una attività lavorativa.
In ordine alle condizioni cui è subordinato l'esercizio del potere di autorizzazione, la Corte di Cassazione ha precisato che il presupposto della "assoluta indigenza" di cui all'art. 284, 3° comma c.p.p. deve essere "riferito ai bisogni primari dell'individuo e dei familiari a suo carico ai quali non può essere data soddisfazione se non attraverso il lavoro. Ed invero la nozione di bisogni primari si carica di significati concreti con l'evolversi delle condizioni sociali, dovendo ritenersi in essi compresi, a titolo esemplificativo, le spese per le comunicazioni, l'educazione e la salute. Ne consegue che non opera una interpretazione analogica, o estensiva, vietata dal carattere eccezionale della norma, il giudice che rifiuti una concezione pauperistica dell'assoluta indigenza, comprendendo nelle esigenze cui sopperire le necessità ulteriori rispetto a quelle della fisica sopravvivenza"[1].
Pur in presenza di siffatta concezione estensiva ed evolutiva del concetto di "assoluta indigenza", la possibilità per l'indagato o l'imputato sottoposto agli arresti domiciliari di essere autorizzato ad allontanarsi dal proprio domicilio per esercitare una attività lavorativa resta subordinata a parametri molto rigorosi. Sotto questo profilo si coglie una delle distinzioni di maggior rilievo tra la misura cautelare de qua e la detenzione domiciliare. Se da un lato è vero che il contenuto della misura alternativa coincide, nel suo nucleo essenziale, con quello degli arresti domiciliari, è altrettanto vero che gli artt. 47 ter e segg legge 26.07.1975, n°354 non subordinano la possibilità che il condannato sia autorizzato ad allontanarsi dalla propria abitazione alle rigorose condizioni stabilite dall'art. 284, 3° comma c.p.p..
Mette conto precisare che siffatta diversità di regime non si risolve in una violazione del principio di eguaglianza sancito dall'art. 3 Cost., stante la eterogeneità e non omologabilità delle due fattispecie.
Sul punto è di recente intervenuta la Corte Costituzionale che con l'ordinanza emessa il 18.12.2002, n°532 ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 284, 3° comma sollevata con riguardo alla violazione degli artt. 2, 3, 4 e 13 della Costituzione.
In particolare la Corte ha evidenziato le differenze sostanziali che intercorrono tra i due istituti in esame. Infatti mentre agli arresti domiciliari, così come ad ogni altra misura cautelare, è estranea, anche in ragione della provvisorietà e della temporaneità che connota le misure de quibus, ogni finalità di rieducazione, che anzi per gli imputati si risolverebbe in una palese esclusione della presunzione di non colpevolezza; rispetto alla detenzione domiciliare, che costituisce una forma di espiazione della pena, vi è la imprescindibile necessità di assicurare l'effettiva attuazione della finalità di cui all'art. 27, 3° comma, ciò che può avvenire anche mettendo in condizione il condannato di svolgere una attività lavorativa.
Ne consegue, se si tiene conto del fatto che il lavoro costituisce una componente essenziale del trattamento rieducativo (art. 15 legge 26.07.1975, n° 354), che appare del tutto giustificabile la diversità di regime tra arresti domiciliari e detenzione domiciliare per ciò che riguarda il potere del giudice di autorizzare il condannato ad allontanarsi dal luogo in cui si trova ristretto. Deve pertanto ritenersi che il magistrato di sorveglianza possa non solo autorizzare il condannato ad allontanarsi dal luogo di esecuzione della misura alternativa per svolgere una attività lavorativa pur in mancanza dei rigidi presupposti indicati dall'art. 284, 3° comma; ma che tale giudice possa altresì autorizzare il reo ad allontanarsi dal predetto luogo in tutti i casi in cui ciò sia necessario per consentirgli di svolgere attività utili o comunque funzionali al suo recupero sociale (per esempio frequentare un corso di studi o di formazione professionale), ferma restando la necessità di fare in modo che la facoltà del condannato di allontanarsi dalla propria abitazione sia contenuta entro limiti tali che consentano di evitare lo svuotamento sostanziale della misura alternativa, ciò che, tra l'altro sarebbe incompatibile con i caratteri della afflittività e retributività che devono connotare la detenzione domiciliare come ogni altra sanzione penale.
Per quanto concerne invece i criteri di valutazione cui il giudice deve attenersi nell'esercitare il potere di concedere o negare l'autorizzazione al lavoro all'esterno appare condivisibile la tesi secondo cui esso non può prescindere dalla valutazione della compatibilità della attività lavorativa oggetto della richiesta con le esigenze cautelari poste a fondamento degli arresti domiciliari[3].
In linea di principio deve ritenersi legittimo il diniego della autorizzazione in tutti i casi in cui l'attività lavorativa che l'indagato chiede di poter svolgere può agevolare la reiterazione del reato per cui si procede, ovvero reati della stessa specie, ciò che può verificarsi nel caso di illeciti
commessi nell'esercizio di una attività imprenditoriale (si pensi, per esemplificare, al caso di un antiquario indagato per associazione a delinquere finalizzata alla ricettazione ed alla truffa di opere d'arte che chiede di essere autorizzato a continuare la propria attività commerciale).
La giurisprudenza ha precisato che nel caso in cui l'indagato sia stato autorizzato ad allontanarsi dalla propria abitazione per svolgere una attività lavorativa, "si determina una semplice sostituzione temporanea del luogo di custodia che coincide, per parte della giornata con il luogo di lavoro (riferendosi l'art. 385, comma 3 c.p. alla "abitazione" o ad "altro luogo designato") e non già una temporanea sospensione dello stato di custodia cautelare." Ne consegue che "anche l'allontanamento dal luogo di lavoro, in quanto coincidente con il luogo di custodia, integra gli estremi del reato in esame, in ogni caso in cui non abbia brevissima durata e risulti, pertanto, incompatibile con le esigenze di sorveglianza e di controllo da parte dell'autorità amministrativa, che la norma incriminatrice tutela"[4].
Sul piano applicativo si è posto il problema dei mezzi di tutela esperibili avverso i provvedimenti di diniego delle autorizzazioni di cui all'art. 284 3° comma c.p.p.
La giurisprudenza meno recente aveva aderito alla tesi della inoppugnabilità dei provvedimenti de quibus.
A fondamento di siffatta soluzione venivano addotte due diverse argomentazioni: la prima consistente nell'osservare che nessuna norma prevede expressis verbis l'impugnabilità dei provvedimenti in esame con la conseguenza che nel caso di specie deve trovare applicazione il principio di tassatività dei mezzi d'impugnazione enunciato dall'art. 568, 1° comma c.p.p.; la seconda consistente nell'escludere la proponibilità del ricorso per Cassazione ex art. 111 Cost. in quanto il provvedimento di diniego "non decide sulla libertà personale, ma si limita a regolare le modalità di esecuzione della misura cautelare, ossia di un beneficio che non si configura come un diritto dell'imputato"[5].
Siffatto orientamento è stato tuttavia disatteso dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.
La Suprema Corte ha infatti statuito che i provvedimenti che "regolano le modalità di attuazione degli arresti domiciliari relativamente alla facoltà dell'indagato di allontanarsi dal luogo di custodia, contribuiscono ad inasprire o attenuare il grado di afflittività della misura cautelare e devono pertanto essere ricompresi nella categoria dei provvedimenti sulla libertà personale; ne consegue che ad essi si applicano le regole sull'impugnazione dettate dall'art. 310 c.p.p. che prevede in proposito un sindacato di secondo grado esteso anche nel merito"[6].
Va inoltre ricordato che il provvedimento con cui il giudice ha autorizzato l'indagato o l'imputato ad allontanarsi
dalla propria abitazione per svolgere una attività lavorativa può essere revocato se risulta che l'interessato ha omesso di esercitare l'attività oggetto dell'autorizzazione.[7]
Infine va rilevato che l'autorizzazione ad allontanarsi dalla propria abitazione può essere concessa, a prescindere dalla presenza di una esplicita previsione normativa in tal senso, all'indagato o all'imputato sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliari anche per ragioni non attinenti allo svolgimento di una attività lavorativa, come nel caso in cui si presentino esigenze di carattere sanitario, ovvero, per mutuare l'espressione utilizzata dall'art. 30, 2° comma della legge 26.07.1975, n°354 in materia di permessi per gravi motivi concedibili ai detenuti dal magistrato di sorveglianza, quando si sono verificati "eventi familiari di particolare gravità".
Una trattazione a parte deve essere riservata al caso di violazione da parte dell'indagato o dell'imputato delle prescrizioni inerenti gli arresti domiciliari.
Come è noto la materia è disciplinata dall'art. 276 c.p.p., il cui 1° comma stabilisce che "in caso di trasgressione alle prescrizioni inerenti ad una misura cautelare, il giudice può disporre la sostituzione o il cumulo con altra più grave, tenuto conto dell'entità, dei motivi e delle circostanze della violazione". Questa norma, che si riferisce alla violazione delle prescrizioni inerenti ad una qualsiasi misura cautelare coercitiva, si pone in un rapporto di genus ad speciem rispetto al 1° comma ter del medesimo articolo, introdotto con il d.l. 24.11.2000, n° 341, conv. in l.19.01.2001, n° 4, che riguarda una particolare tipologia di infrazioni e precisamente quella costituita dal divieto di allontanarsi dall'abitazione ove si
eseguono gli arresti domiciliari (condotta che integra il delitto di evasione) .
In questo caso il giudice "dispone la revoca della misura e la sua sostituzione con la custodia cautelare in carcere".
Pertanto l'ambito di applicazione del 1° comma comprende non solo l'inosservanza degli obblighi che costituiscono il contenuto delle misure cautelari meno afflittive degli arresti domiciliari, ma anche la violazione delle prescrizioni inerenti a tale ultima misura diverse dal divieto di allontanarsi dal luogo di esecuzione della stessa (si pensi alla violazione del divieto di comunicare con persone diverse dai familiari conviventi).
La rigidità che connota la disciplina dettata dall'ultimo comma dell'art. 276 c.p.p., che priva il giudice del potere di apprezzare liberamente le peculiarità della condotta illecita al fine di graduare la misura alla gravità del comportamento trasgressivo, ha suscitato non poche perplessità che si sono tradotte nella proposizione della questione di legittimità costituzionale della norma de qua con riferimento all'art. 3 Cost..
La Corte Costituzionale, con l'ordinanza emessa il 6.03.2002, n° 40[9], ha tuttavia dichiarato manifestamente infondata l'eccezione di costituzionalità sulla base di argomentazioni che, per la loro valenza teorica e sistematica, meritano una attenzione particolare.
In via preliminare la Corte ha osservato che "mentre la sussistenza in concreto di una o più delle esigenze cautelari prefigurate dalla legge (l'an della cautela) non può, per definizione, prescindere dall'accertamento "di volta in volta" della loro effettiva ricorrenza, non può invece ritenersi soluzione costituzionalmente obbligata quella di affidare sempre e comunque al giudice l'apprezzamento del tipo di misura in concreto rilevata come necessaria (il quomodo della cautela), ben potendo tale scelta essere effettuata in termini generali dal legislatore nel rispetto del termine della ragionevolezza e del corretto bilanciamento dei valori costituzionali coinvolti".
Ciò premesso, la Corte ha rilevato che la norma impugnata "integra un caso di presunzione di inadeguatezza di ogni misura coercitiva diversa dalla custodia cautelare in carcere, una volta che la misura meno afflittiva degli arresti domiciliari si sia rivelata insufficiente allo scopo, per la trasgressione al suo contenuto essenziale". Ne consegue che, ad avviso del Giudice delle Leggi "non appare irragionevole ritenere che il volontario allontanamento dalla propria abitazione costituisca l'indice di una radicale insofferenza da parte della persona sottoposta alla misura degli arresti domiciliari, tale da incidere sulla valutazione circa l'adeguatezza di questa specifica misura cautelare, cui è connaturato un maggior grado di affidamento nel comportamento di chi vi è assoggettato, rispetto ad ogni altra misura". La Corte ha infine puntualizzato che il fatto che il legislatore abbia attribuito all'allontanamento dalla propria abitazione una valenza rivelatrice in ordine alla sopravvenuta inadeguatezza degli arresti domiciliari, non esclude che "il fatto idoneo a giustificare la sostituzione della misura, tipizzato dal legislatore nella anzidetta formula normativa, possa essere apprezzato dal giudice in tutte le sue connotazioni strutturali e finalistiche, per verificare se la condotta di trasgressione in concreto realizzata presenti quei caratteri di effettiva lesività alla cui stregua ritenere integrata la violazione che la norma impugnata assume a presupposto della sostituzione".
In altri termini la Corte ha inteso mettere in luce che non ogni condotta astrattamente configurabile in termini di allontanamento dal luogo di esecuzione della custodia domestica costituisce presupposto idoneo a giustificare la revoca degli arresti domiciliari e la sostituzione di tale misura con la custodia in carcere, ma soltanto quella condotta che in concreto presenti quei caratteri di "effettiva lesività" che consentono di considerarla come univocamente dimostrativa della inadeguatezza degli arresti domiciliari; ed è appena il caso di sottolineare come siffatto accertamento sia rimesso al prudente apprezzamento del giudice che dovrà tener conto di tutte le circostanze del caso concreto ed in particolare delle "connotazioni strutturali e finalistiche" della condotta di allontanamento posta in essere dall'indagato o dall'imputato.
Mette conto ricordare che la ratio decidendi che sorregge l'ordinanza sopra richiamata sembra coincidere con quella posta a base della sentenza emessa il 13.06.1997 n° 173 in materia di detenzione domiciliare[10] con la quale la Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 47 ter, 9° comma legge 26.07.1975, n°354 nella parte in cui questa norma prevedeva la sospensione della detenzione domiciliare, con il conseguente reingresso in carcere del reo, come conseguenza automatica delle denuncia per il delitto di evasione. Anche in questo caso la Corte Costituzionale ha valorizzato il ruolo del giudice, nel caso di specie il magistrato di sorveglianza, cui è demandato il compito di procedere alla valutazione dell'entità e della rilevanza della condotta posta in essere dal condannato con riferimento alla eventuale prosecuzione della misura alternativa. Alla luce del principio enunciato dalla Corte Costituzionale il magistrato di sorveglianza dovrà disporre la sospensione della detenzione domiciliare soltanto se, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto ed alle modalità della condotta oggetto della denuncia di evasione, quest'ultima appaia valutabile come indice sintomatico della incompatibilità del comportamento del condannato con l'espiazione della pena in regime di misura alternativa.
Come è stato osservato in dottrina il meccanismo descritto dall'art. 276, 1° comma ter si connota per una chiara finalità sanzionatoria che trova riscontro in quello delineato dall'ultimo comma dell'art. 284 c.p.p.
Entrambe le norme costituiscono infatti espressione di una presunzione di inadeguatezza degli arresti domiciliari nei confronti dei soggetti che, sottoposti alla misura de qua, hanno commesso il delitto di cui all'art. 385 c.p. [11].
Occorre tuttavia precisare, e ciò rappresenta un elemento di differenziazione tra le due fattispecie, che mentre la revoca degli arresti domiciliari e l'applicazione della custodia in carcere prevista dall'art. 276, 1° comma ter non è condizionata da alcun accertamento giurisdizionale ed opera soltanto nel medesimo procedimento nel quale è stata posta in essere l'evasione, l'efficacia preclusiva di cui all'art. 284, 5° comma bis è subordinata al passaggio in giudicato della sentenza di condanna per il reato de quo, e produce effetti rispetto a qualsiasi procedimento cui sia stato sottoposto l'indagato[12].
La disciplina delle norme richiamate si sovrappone a quella descritta dall'art. 299 c.p.p. la cui funzione è quella di assicurare il costante adeguamento della misura alle mutate condizioni di applicabilità della cautela processuale, ed in particolare al mutamento della intensità delle esigenze cautelari di cui all'art. 274 c.p.p.. Il 4° comma della norma in esame stabilisce infatti che "quando le esigenze cautelati risultano aggravate, il giudice, su richiesta del pubblico ministero sostituisce la misura applicata con un'altra più grave oppure ne dispone l'applicazione con modalità più gravose".
Non vi è dubbio che la violazione delle prescrizioni inerenti gli arresti domiciliari ovvero la commissione del delitto di evasione possono costituire espressione sintomatica di una specifica inclinazione dell'indagato a minacciare le esigenze cautelari, tanto che l'incremento della pericolosità dell'agente è contrastato con l'aggravamento della misura o con il divieto di concessione degli arresti domiciliari.
La differenza consiste nel fatto che mentre l'art. 299 c.p.p. consente al giudice di desumere l'eventuale aggravamento delle predette esigenze cautelari da qualsiasi comportamento ritenuto significativo, le fattispecie di cui agli art. 276, 1° comma ter e 284, 5° comma bis c.p.p. impongono al giudice di valutare soltanto la specifica condotta integrativa del delitto di evasione considerata ope legis, come fatto di per sé sintomatico della pericolosità dell'indagato o dell'imputato.
Altra questione controversa attiene alla determinazione degli effetti derivanti dall'applicazione della custodia in carcere disposta dal giudice ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 276 c.p.p.. In particolare si tratta di stabilire se il giudice possa o meno applicare all'indagato, ristretto in carcere a seguito della revoca degli arresti domiciliari, una misura cautelare meno afflittiva, anche diversa dalla custodia domestica.
La dottrina più attenta, muovendo dal principio generale desumibile dagli artt. 275 e 299 c.p.p., secondo cui la misura preventiva deve essere sempre proporzionata al grado di pericolosità dell'indagato ed alla intensità delle esigenze cautelari che sussistono in concreto, si è espressa per la soluzione positiva.
Si è infatti osservato che l'art. 276, 1° comma ter nella misura in cui sottrae al giudice il potere di verificare l'intensità delle esigenze cautelari e di valutare concretamente il loro eventuale affievolimento o aggravamento, impedendo così il costante adeguamento della tipologia della misura cautelare al variare dei presupposti su cui la misura stessa di fonda, deve essere considerata come una norma di carattere eccezionale, che, proprio perché tale, non può derogare al principio generale sopra richiamato.[13]
Ne consegue che il giudice "ben potrà sostituire la misura della custodia in carcere "applicata in precedenza esercitando i poteri punitivi riconosciutigli dal codice" con un'altra meno afflittiva, anche diversa dagli arresti domiciliari, quando fatti sopravvenuti consentano di formulare un nuovo giudizio inerente alle forme che in concreto può assumere la cautela processuale" .
Sotto questo profilo l'efficacia preclusiva in ordine all'applicazione degli arresti domiciliari derivante dalla operatività della fattispecie di cui all'art. 276 1° comma ter, è senza dubbio meno incisiva rispetto a quella che si ricollega alla fattispecie di cui all'ultimo comma dell'art. 284 c.p.p., la cui formulazione è tale da impedire al giudice di applicare nuovamente all'indagato o all'imputato la misura meno afflittiva degli arresti domiciliari.
In materia di detenzione domiciliare l'eventuale revoca della misura ha un'efficacia preclusiva molto più forte, infatti non può essere concessa altra misura alternativa per tre anni in caso di detenzione domiciliare ordinaria revocata per comportamenti del soggetto contrari alla legge o alle prescrizioni e quindi incompatibili con la prosecuzione della misura, (art. 58 quater 2° comma O.P.) inoltre l'efficacia preclusiva è assoluta nel caso di revoca della detenzione domiciliare generica (art. 47 ter ultimo comma).
Questo come vedremo appare logico se pensiamo che la detenzione domiciliare è pur sempre una espiazione della pena "extra moenia" e pertanto non vige più il principio della presunzione di non colpevolezza.
Cass. 4.12.1998, El Shaibany, in C.E.D.,RV-213142, relativamente ad una fattispecie di diniego di autorizzazione giustificato dal fatto che l'attività lavorativa sarebbe stata espletata nell'ambito di una pizzeria, nella quale in passato l'indagato aveva avuto contatto con altri pregiudicati
Cass. S.U. 3.12.1996, Lombardi, in C.E.D., RV-206465, nell'affermare detto principio la Corte ha tuttavia precisato che la predetta disciplina non trova applicazione con riferimento a quei provvedimenti che per il loro carattere temporaneo e contingente, non sono idonei a determinare apprezzabili e durature modificazioni dello status libertatis
La giurisprudenza ha assunto un atteggiamento particolarmente rigoroso in merito alla configurabilità del delitto di evasione: secondo l'indirizzo assolutamente maggioritario integra gli estremi del delitto de quo qualsiasi allontanamento, senza autorizzazione, dal luogo degli arresti domiciliari, anche se di breve durata ed implicante uno spostamento di modesta distanza, in quanto lo scopo della norma incriminatrice va ravvisato nel fatto che la persona sottoposta agli arresti domiciliari resti nel luogo indicato perché ritenuto idoneo a soddisfare le esigenze cautelari e, nel contempo, a consentire agevolmente il prescritto controllo dell'autorità - cfr.la giurisprudenza citata in Commentario Breve al Codice Penale, Padova, 2001, pp. 1296 e segg.; ed anche Cass. 5.07.2000, Vannucci, in Cass. Pen. 2001, n° 1144, secondo cui "il dolo del reato di evasione per abbandono del luogo degli arresti domiciliari è generico, essendo necessaria e sufficiente - in assenza di autorizzazione - la volontà di allontanamento nella consapevolezza del provvedimento restrittivo a proprio carico, non rivestendo alcuna importanza lo scopo che l'agente si propone con la sua violazione"
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