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RECLAMO
Sommario: Le origini. - 2. La natura giuridica del reclamo. - 3. Ampiezza del giudizio nel procedimento per reclamo. - L'ambito di applicazione dell'istituto: a) Reclamo in materia lavorativa e reclamo disciplinare. - 5. Segue: b) Reclamo in tema di sorveglianza particolare e di sospensione delle regole di trattamento. - 6. Segue: c) Reclamo relativo ai permessi e al loro computo nella durata della pena. - 7. Segue: d) Generico diritto al reclamo. - 8. Le procedure: a) il reclamo giurisdizionale. - 9. Segue: b) Il reclamo amministrativo. - 10. Segue: c) Il reclamo informale.
1. Le origini[1].
Il reclamo fa il suo ingresso, all'interno del sistema penitenziario grazie al R.D. 18 giugno 1931 n. 787, nel cui art. 7 si stabiliva che <<i detenuti (condannati, imputati o liberandi) nei casi in cui possono far reclamo al giudice di sorveglianza, e cioè contro i provvedimenti concernenti la determinazione della remunerazione (art. 125 reg. esec.) o delle spese di mantenimento del liberando infermo (art. 124 reg. esec.), debbono presentare il loro reclamo a pena di decadenza, entro cinque giorni dalla comunicazione del provvedimento, con dichiarazione ricevuta da un graduato del personale di custodia in apposito registro >>.
L'art. 5 del suddetto regolamento prevedeva, inoltre, che << nello stesso registro l'agente di custodia, che esegue la comunicazione ai detenuti dei provvedimenti contro i quali questi possono reclamare, attesta di aver compiuta la comunicazione. I reclami sono inoltrati al giudice di sorveglianza dal direttore nel termine di 5 giorni >>[2].
Infine, l'art. 6 reg. esec. stabiliva il potere-dovere del magistrato di decidere sulla questione attraverso un ordine di servizio, il quale doveva essere trascritto in apposito registro della casa di custodia e poi comunicato, a mezzo di un agente, al detenuto interessato. Nulla diceva il regolamento, circa l'eventuale impugnazione del provvedimento; il termine entro il quale decidere sui reclami e la procedura da adottare.
Con la prima legge di diritto penitenziario, l'istituto del reclamo trova applicazione, attraverso l'art. 30 ord. penit., in materia di permessi, cosiddetti necessari.
Successivamente, nel 1977, la l. n. 450 aggiunge l'art. 30-bis all'ordinamento penitenziario, contenete norme processuali sia per l'adozione delle decisioni in materia di permessi, sia per i reclami che i reclusi hanno la facoltà di proporre avverso il provvedimento che dispone o nega l'applicazione dell'istituto .
Il reclamo acquista una maggiore rilevanza proprio grazie alla l. n. 663 del 1986 che gli conferisce un ambito di applicazione più ampio rispetto alla materia dei permessi e un rito giurisdizionale da seguire in caso di proposizione della relativa istanza. L'introduzione di un procedimento giurisdizionale fa perdere al reclamo, in maniera definitiva, il suo carattere di rimedio amministrativo. L'art. 14-ter ord. penit. introduce un rito speciale, rispetto alla disciplina del procedimento di sorveglianza - allora ancora in vigore - contenuta nel Capo II-bis del Titolo II ord. penit.[4], e amplia l'ambito di applicazione del reclamo che ha ad oggetto tanto i provvedimenti amministrativi che dispongono il regime di sorveglianza particolare, quanto tutte le altre materie disciplinate da norme che a tale procedimento fanno rinvio .
Rispetto al complesso di norme processuali, di esecuzione e di sorveglianza, il reclamo appare come un procedimento di sorveglianza atipico. L'espressione trae la sua origine dal fatto che, il procedimento per reclamo presenta alcune peculiarità strutturali che si discostano da quelle tipiche del procedimento ordinario. Il procedimento di sorveglianza atipico trova la sua ratio nelle particolari esigenze di celerità e di semplificazione che richiede la trattazione giurisdizionale delle materie appartenenti al mondo penitenziario. Analizzando, infatti, l'articolo 14-ter ord. penit. emerge una particolare snellezza della procedura, derivante dalla necessità di predisporre tempi rapidi per la proposizione dell'istanza e per la sua pronta decisione.
Vi sono numerosi dubbi circa la legittimità della procedura per reclamo ex art. 14-ter ord. penit, rispetto all'intento del legislatore delegante del 1987 di ridurre ad un complesso unico, le procedure della fase esecutiva della pena, accomunandole grazie al trasferimento in esse, dei principi costituzionali della giurisdizionalità oggettiva. La riforma sembra non aver interessato le norme diverse da quelle contenute nel Capo II-bis del Titolo II ord. penit., delle quali, l'art. 236 disp. att. c.p.p., ne conserva la validità. Ne consegue, quindi, che la riforma non ha toccato la procedura contenuta nell'art. 14-ter ord. penit. Tuttavia, non appare chiaramente l'intenzione del legislatore: è in dubbio se la sopravvivenza di tali norme sia il frutto della scelta ben precisa di far sopravvivere il procedimento di sorveglianza atipico, ovvero della volontà di posticipare l'opera riformatrice ad un momento successivo[6].
2. La natura giuridica del reclamo
Nel tempo, il reclamo ha acquistato una grande importanza come strumento di tutela giurisdizionale dei detenuti e degli internati e il suo utilizzo ha assunto una finalità precisa rappresentata dalla possibilità di portare a conoscenza dell'Autorità competente, i motivi di doglianza relativi ad alcuni momenti della vita carceraria.
La riforma penitenziaria, com'è noto, ha conferito alla condizione giuridica del detenuto una maggiore complessità e la vita carceraria è diventata depositaria, non solo di situazioni giuridiche soggettive che il detenuto porta con se dal mondo esterno, ma anche di diritti che nascono all'interno dell'istituto penitenziario.
Date queste premesse, viene spontaneo considerare il reclamo sia come una modalità d'esercizio dei diritti riconosciuti ai detenuti e agli internati, che come forma di tutela rispetto alle violazioni e alle restrizioni illegittime che possono essere operate tanto dall'Amministrazione penitenziaria quanto dalla Magistratura di sorveglianza nell'esercizio del loro rispettivo potere.
Per far fronte a tali evenienze è stata prevista, dal legislatore, una duplice tutela, rappresentata da un lato, dalle funzioni di vigilanza e di controllo sull'operato dell'amministrazione penitenziaria attribuite, dal legislatore, al magistrato di sorveglianza e che trovano attuazione indipendentemente dalla istanza di parte; dall'atro, dalla facoltà per il recluso di sollecitare un controllo giurisdizionale, attraverso lo strumento del reclamo, sia sugli atti amministrativi che sui provvedimenti della magistratura di sorveglianza[7].
Affermare che il reclamo sia diventato un importantissimo strumento di tutela giurisdizionale e che quindi abbia abbandonato la veste amministrativa che lo caratterizzava, non placa, però, in dottrina, tutte le discussioni che si sono aperte su tale istituto.
Rimane, infatti, ancora di chiarire se sussiste la possibilità di ricondurre, il reclamo, nell'alveo degli strumenti d'impugnazione. Per illustrare gli estremi della questione occorre considerare quali siano le caratteristiche del reclamo che lo accomunano ai mezzi d'impugnazione e quali, invece, ne determinano una differenziazione.
L'impugnazione si esercita, normalmente: a) avverso i provvedimenti giurisdizionali , individuati, in maniera tassativa, dal legislatore; b) nei casi in cui il legislatore ha previsto che il provvedimento può essere impugnato; c) da parte dei soggetti che, non solo sono legittimati ad agire, ma hanno anche un interesse a far valere il loro diritto ad impugnare .
Venendo, ora, al reclamo, si deve, innanzitutto, considerare che non sempre è oggetto del relativo giudizio un provvedimento giurisdizionale : la legge di diritto penitenziario prevede, infatti - accanto alla reclamabilità dei provvedimenti giurisdizionali -, sia i casi si può reclamare avverso un atto emesso dal magistrato di sorveglianza attraverso una procedura de plano ; sia i casi in cui il provvedimento reclamabile è stato emanato da altro organo, quale appunto l'amministrazione penitenziaria .
Il legislatore, inoltre, in nessuna disposizione normativa che riguardi il reclamo, indica come condizione d'ammissibilità dell'istanza, l'elencazione dei motivi di gravame[16], anche se, parte della dottrina, ritiene che a garanzia della serietà dell'iniziativa e per evitare di intraprendere attività processuali inutili, sarebbe opportuno che l'istanza di reclamo, contenesse le ragioni che lo sorreggono . In ogni caso, la non necessaria indicazione dei motivi di gravame , trova la sua giustificazione nel fatto che il provvedimento reclamato è oggetto d'integrale devoluzione al giudice del "riesame", il quale deve pronunciarsi su ogni questione relativa all'atto impugnato, prendendo in considerazione, non solo gli elementi ottenuti in precedenza, ma disponendo l'acquisizione di ulteriori atti se, appunto, li ritiene necessari .
In fine, occorre aggiungere che l'ordinanza conclusiva del procedimento di reclamo, ammette la possibilità della reformatio in pejus[20].
Illustrati gli aspetti che maggiormente generano dubbi, circa la riconducibilità del reclamo nell'ambito dei mezzi d'impugnazione, è il caso di evidenziare le differenti posizioni che in dottrina si sono assunte circa la materia de qua.
Spesso, facendo riferimento al reclamo, si parla molto genericamente di "impugnazione dell'atto reclamato"[21].
In particolare, vi è chi ritiene che <<la prassi formatasi è stata orientata a considerare il reclamo non tanto quale mezzo d'impugnazione in senso tecnico, sibbene quale strumento d'integrale devoluzione, all'organo competente, del contenuto di una decisione adottata da altro organo, con la facoltà, ai fini della decisione sul reclamo, di utilizzare tutti gli elementi già acquisiti nonché di acquisirne altri ove necessario>>[22].
Vi è, tuttavia, chi non si accontenta di una definizione generica ed afferma che il reclamo assurge a <<vera e propria impugnazione>>[23] e che tutto il procedimento <<deve necessariamente seguire le regole previste per il giudizio di impugnazione innanzi al tribunale di sorveglianza>> .
Chi assume una posizione di equilibrio, senza sbilanciarsi né in un senso né nell'arto, afferma, piuttosto, che il reclamo <<in alcune ipotesi contiene i caratteri formali e sostanziali dello strumento d'impugnazione; in altre, segna il passaggio dalla procedura amministrativa al campo della giurisdizione>> [25].
In dottrina, infine, vi è chi, vagamente, dichiara che <<la legge ha inteso introdurre un meccanismo di controllo pieno sulle decisioni del giudice di primo grado, conferendo all'organo di secondo grado una potestà di rinnovazione totale che esorbita dall'ambito delle iniziative prospettate dalle parti>>[26].
Venendo, invece, alla posizione assunta dalla giurisprudenza, occorre considerare una pronuncia[27] della Suprema Corte, in cui si afferma <<che il reclamo ex art. 14-ter non ha natura di mezzo d'impugnazione caratteristico dell'ordinamento processuale penale, in quanto riguarda provvedimenti amministrativi emessi, tra l'altro, da autorità diverse da quella giurisdizionale. Ne deriva che non può costituire motivo di inammissibilità del reclamo la mancata presentazione dei motivi che peraltro, non sono espressamente richiesti dalla legge>> .
3. Ampiezza del giudizio nel procedimento per reclamo.
Appare molto delicata la questione relativa all'ampiezza del giudizio della magistratura di sorveglianza, rispetto ai giudizi di reclamo. La specificità della questione attiene, anche in questo caso, alla varietà della natura degli atti impugnati, i quali possono essere stati emessi tanto dall'amministrazione penitenziaria quanto dalla magistratura di sorveglianza.
Si pensi, ad esempio, al reclamo avverso il provvedimento che dispone la sorveglianza particolare, di competenza dell'amministrazione penitenziaria[29]. In questo caso, infatti, anche se, il legislatore nell'ultimo comma dell'art. 14-bis ord. penit., prevede che l'esame di legittimità sia operato dal magistrato di sorveglianza, quest'ultimo, in caso di accoglimento dell'istanza, dovrà limitarsi a sollecitare l'iniziativa dell'autorità amministrativa - gerarchicamente sovraordinata rispetto a quella che ha adottato il provvedimento - affinché revochi il provvedimento .
Il legislatore non ha chiarito, neppure, la portata del giudizio relativo all'istanza di reclamo avverso il provvedimento amministrativo che dispone la sorveglianza particolare: non sono stati risolti i dubbi circa il potere riconosciuto al tribunale di sorveglianza di annullare l'atto reclamato, ovvero di intervenire nel merito delle scelte discrezionali dell'amministrazione penitenziaria e di modificarne o integrarne il contenuto[31].
In giurisprudenza, conseguentemente, si è giunti ad affermare la possibilità per la magistratura di sorveglianza di annullare l'atto amministrativo reclamato[32]; laddove, invece, non è ancora consentito, al giudizio, di giungere fin nel merito della questione, e di valutare l'opportunità delle scelte operate dall'organo amministrativo e di disporre un'integrazione o una modificazione del provvedimento .
Le stesse valutazioni, sin qui fatte, riguardano l'ipotesi prevista dall'art. 69, comma 6 lettera b), ord. penit. relativa al settore disciplinare. L'articolo in esame prevede che il reclamo possa avere ad oggetto: a) le condizioni di esercizio del potere disciplinare; b) l'erronea composizione o l'incompetenza dell'organo disciplinare; c) l'omessa contestazione degli addebiti; d) il non consentito esercizio della facoltà di discolpa. Tra le quattro ipotesi di reclamo disciplinare, sorge una questione interpretativa soprattutto rispetto al significato della locuzione <<le condizioni di esercizio del potere disciplinare>>: non è chiaro, infatti, quale sia l'estensione del giudizio del magistrato di sorveglianza in tale circostanza. Nel caso in cui il legislatore avesse voluto chiamare, il magistrato di sorveglianza, a sindacare le condizioni di esercizio di un potere riconosciuto all'amministrazione penitenziaria, ciò avrebbe comportato lo sforare, del giudizio, nella sindacabilità delle scelte discrezionali operate dall'organo che ha esercitato il potere amministrativo.
In mancanza di una chiarezza legislativa, si è pronunciata la Corte di Cassazione, stabilendo che nell'ipotesi, in questione si può realizzare esclusivamente un controllo di legalità sulle procedure seguite[34]. Con certezza si può affermare l'esistenza della possibilità, per il giudice, di intervenire direttamente sull'oggetto della controversia , emanando un'ordinanza vincolante per l'amministrazione penitenziaria a dispetto dell'atteggiamento renitente che l'amministrazione stessa ha avuto rispetto ai provvedimenti in cui la controversia veniva decisa con procedimento de plano.
In ogni caso, sarebbe opportuno un intervento legislativo che chiarisse maggiormente i limiti del sindacato della magistratura di sorveglianza, rispetto ad una materia così delicata come quella disciplinare essendo vastissimo l'ambito di applicazione della disposizione.
L'ambito di applicazione dell'istituto: a) Reclamo in materia di lavoro e reclamo disciplinare.
E' opportuno illustrare, analiticamente, i casi in cui il legislatore ha previsto, per i detenuti e gli internati, la facoltà di proporre reclamo. Auspicando la possibilità che il legislatore estenda l'ambito applicativo dell'istituto al di là dei casi tassativamente previsti, si è provveduto a trattare le singole ipotesi di reclamo, raggruppandole in base alle caratteristiche comuni delle materie alle quali fanno riferimento.
Secondo l'art. 69, comma 6, lettere a) e b), ord. penit. il magistrato di sorveglianza decide sui reclami relativi al settore del lavoro carcerario (lettera a: attribuzione della qualifica lavorativa; mercede e remunerazione[36]; svolgimento delle attività di tirocinio e di lavoro; assicurazioni sociali) e alla materia disciplinare (lettera b: condizioni d'esercizio del potere disciplinare; costituzione e competenza dell'organo disciplinare; contestazione degli addebiti e facoltà di discolpa).
Prima della novella del 1986[37], il magistrato di sorveglianza decideva, sui reclami in materia di lavoro, con ordine di servizio della cui efficacia vincolante, l'amministrazione penitenziaria dubitava, soprattutto se il giudice, in un conflitto d'interessi tra quest'ultima e il detenuto, la dichiarava soccombente . La l. n. 663 del 1986, propose una nuova formulazione dell'art. 69 e la materia dei reclami in tema di lavoro ma anche di disciplina, risultò rinnovata soprattutto sul versante procedurale . Il legislatore, infatti, ha previsto che i reclami venissero decisi con ordinanza previa adozione del procedimento disciplinato dall'art. 14-ter ord. penit. . L'introduzione del rito giurisdizionale di cui all'art. 14-ter ord. penit. , ha comportato la soluzione, in senso positivo, di tutti i dubbi circa la vincolatività delle decisioni del magistrato di sorveglianza relative alle materie, lavorativa e disciplinare: egli è, infatti, chiamato ad emanare un provvedimento motivato con efficacia vincolante nel momento in cui, questo passa in giudicato.
Si è chiarita, inoltre, la querelle sorta, sul versante relazionale, che riguardava l'esistenza dei due rimedi offerti al detenuto in caso di controversie sorte duranti i rapporti lavorativi: gli estremi della questione attenevano alla possibilità di adire tanto il giudice ordinario del lavoro quanto il magistrato di sorveglianza. In origine, prima che l'art. 69 ord. penit. venisse riformulato, il reclamo - e quindi la devoluzione del caso all'organo monocratico della magistratura di sorveglianza - era considerato come un rimedio aggiuntivo rispetto alla possibilità di adire il giudice del lavoro, offerta, dall'ordinamento giuridico generale a tutti i cittadini liberi o in vinculis. Successivamente, il reclamo perde il suo carattere addizionale acquistando la dimensione di vero e proprio rimedio giurisdizionale. Ne è conseguito che, il detenuto, pur conservando la possibilità di scegliere l'organo giudiziario cui devolvere la soluzione della controversia, deve necessariamente sottostare alla conseguenza derivante dalla natura alternativa delle soluzioni proposte, pertanto, intrapresa una via non gli sarà dato percorrere l'altra[43].
Il controllo del magistrato di sorveglianza acquista un rilievo particolare in materia di disciplina: l'art. 69, comma 6, lettera b), ord. penit. conferisce al recluso il diritto di proporre il reclamo avverso provvedimenti dell'amministrazione penitenziaria lesivi dei suoi diritti. Anche in questo caso, come già si è detto per la materia lavorativa, l'articolo in esame attribuisce al magistrato di sorveglianza il potere di intervenire, attraverso un'ordinanza vincolante emessa in seguito ad un procedimento giurisdizionale.
Fin qui tutto bene, almeno in linea di principio, giacché, addentrandosi nel vivo della materia in oggetto, emergono diversi punti, della disciplina legislativa, che non tutelano pienamente i detenuti e gli internati. Si affaccia, innanzitutto, la questione relativa all'eccessiva limitatezza delle situazioni sottoponibili al controllo del giudice, dato che la lettera b) dell'art. 69, ord. penit., fa riferimento solo ad alcune ipotesi specifiche[44]; e la formulazione di alcuni casi di reclamo, risulta di non facile interpretazione come, ad esempio, la disposizione che contiene la reclamabilità delle <<condizioni di esercizio del potere disciplinare>> .
Si pone, a questo punto, un ulteriore problema relativo all'applicabilità della misura impugnata durante il decorrere dei termini per proporre il reclamo e per lo svolgimento del relativo provvedimento[46]. Il legislatore, infatti, non ha conferito al reclamo disciplinare un effetto sospensivo e ciò produce un'incongruenza: in caso di pronunzia favorevole al detenuto, la stessa andrà ad incidere, nel migliore dei casi, su una sanzione disciplinare già esperita. D'altronde vi è chi si mette in guardia rispetto alle considerazioni negative riguardanti l'efficacia del provvedimento emanato, giacché, in ogni caso, l'ordinanza che accoglie il reclamo, pur risultando inutile rispetto all'esecuzione della sanzione, produce, tuttavia, l'effetto vantaggioso per il recluso, della nella non indicazione, dell'adozione della misura, all'interno della cartella personale, cancellando, in tal modo, un elemento ostativo alla concessione di misure premiali .
Segue: b) Reclamo in tema di sorveglianza particolare e di sospensione delle regole di trattamento.
L'art. 14-ter ord. penit., riconosce al detenuto il diritto di proporre reclamo avverso il provvedimento che dispone o proroga il regime di sorveglianza particolare, emanato dall'amministrazione penitenziaria, a norma degli artt. 14-bis e 14-quater ord. penit. [48]. Il provvedimento amministrativo, congruamente motivato - sia per quel che concerne la sussistenza dei presupposti di applicazione dell'istituto, sia in rapporto alla sussistenza delle esigenze di necessità sottese alla restrizione adottata - è immediatamente esecutivo e deve essere comunicato tanto all'interessato, affinché possa proporre il reclamo entro il termine perentorio di decadenza; quanto al magistrato di sorveglianza perché gli si consenta di esercitare il controllo giudiziale dell'atto . Quello effettuato dal magistrato di sorveglianza è, in realtà, un controllo generico sulla conformità, dell'atto e del procedimento di adozione dello stesso, alle leggi, ai regolamenti e all'attuazione del trattamento rieducativo . Non vi sono indicazioni, da parte del legislatore, circa le norme procedurali che il magistrato di sorveglianza deve adottare, il che fa pensare al fatto che il procedimento si svolga nella forma amministrativa de plano.
Il diritto accordato, al soggetto recluso, di proporre reclamo avverso il provvedimento dell'amministrazione penitenziaria che dispone un'ulteriore restrizione della sua, già limitata, libertà personale [51], è un fatto di grande importanza. Ciò risponde a due diverse esigenze: quella di evitare che il detenuto subisca passivamente un provvedimento ulteriormente restrittivo e quella di assicurare la giurisdizionalizzazione di un passaggio delicato nella condizione detentiva del recluso . L'esigenza di conferire tutela giurisdizionale a tale avvenimento è garantita dalla formalità del procedimento che, il tribunale di sorveglianza dovrà rispettare e dalla vincolatività dell'ordinanza conclusiva del procedimento svoltosi a norma dell'art. 14-ter ord. penit.
L'art. 41-bis ord. penit. rappresenta un vero e proprio collage d'interventi normativi: il primo comma, infatti, è stato introdotto dalla l. n. 663 del 1986; il secondo comma dal d.l. 8 giugno 1992 n. 306, convertito in l. 7 agosto 1992, n. 356.; e l'ultimo comma, il 2-bis, dalla l. 7 gennaio 1998 n. 11 .
E' abbastanza recente, pertanto, la possibilità, per i reclusi, di proporre reclamo[55]avverso il provvedimento disposto, a norma del secondo comma dell'articolo in esame, dal Ministro di Grazia e Giustizia - oggi solo Ministro di Giustizia - che sospende le normali regole di trattamento esistenti negli istituti penitenziari . In realtà, tale previsione è il risultato di una serie di pronunce della Corte Costituzionale, chiamata, in almeno quattro diverse occasioni , a decidere sulle questioni d'illegittimità sollevate avverso l'articolo 41-bis ord. penit. In particolare, si vuole menzionare la sentenza n. 410 del 1993 , giacché in essa la Corte afferma che è necessario contemperare le esigenze di natura politica, sottese alla scelta di sospendere le normali regole di trattamento, con la tutela delle situazioni giuridiche soggettive di cui sono portatori i detenuti. Essi, infatti, rappresentano i diretti destinatari della scelta operata dall'organo amministrativo e subiscono le ripercussioni negative che essa ha rispetto a quel residuo di libertà personale che è possibile salvaguardare in carcere. Pertanto, la Corte ritiene che, in considerazione del riconoscimento della necessaria tutela giurisdizionale delle situazioni giuridiche dei detenuti e degli internati, sarebbe opportuno che tali scelte vengano sottoposte al vaglio del <<giudice ordinario>> . Il giudice competente, stando a quanto detto dalla Corte stessa, è il Tribunale di sorveglianza, ossia l'organo giurisdizionale cui è demandato il controllo sull'applicazione del regime di sorveglianza particolare, ai sensi dell'art. 14-ter ord. penit. .
6. Segue: b) Reclamo relativo ai permessi e al loro computo nella durata della pena.
L'art. 30-bis ord. penit. detta in tema di premessi di necessità e di permessi premio la disciplina che l'autorità competente deve rispettare per concedere o negare gli istituti in questione: si tratta di una procedura specifica, agile e spedita per assicurare il rispetto delle esigenze di celerità sottese all'oggetto del provvedimento da adottare. Ogni concessione, deve essere preceduta dall'assunzione, da parte dell'autorità competente, di elementi informativi e valutativi che devono riguardare, in modo particolare, le notizie che pervengono dagli organi di polizia, dagli educatori e dagli operatori sociali.
La rapidità conferisce al del procedimento[62]le seguenti caratteristiche: a) non presuppone l'assunzione del parere del magistrato del pubblico ministero; b) si conclude con un decreto motivato ; c) si deve dare - prontamente e senza formalità <<anche a mezzo del telegrafo o del telefono>> - comunicazione al magistrato del pubblico ministero e all'interessato; d) la sua esecuzione rimane sospesa durante il decorrere del termine per impugnare e durante il giudizio di secondo grado . Entro il termine di ventiquattro ore dalla comunicazione del provvedimento, sia il pubblico ministero che l'interessato, possono proporre reclamo al tribunale di sorveglianza avverso i provvedimenti emessi dall'organo monocratico, ovvero alla Corte d'appello in caso di provvedimenti emessi da altra autorità giudiziaria .
L'art. 53-bis ord. penit. disciplina il reclamo relativo al mancato computo, nella durata della pena, del periodo trascorso dal detenuto fuori dal carcere, in fruizione di un permesso (art. 30 ord. penit.), di un permesso-premio (art. 30-ter ord. penit.) o di una licenza (artt. 52 e 53 ord. penit.). Il magistrato di sorveglianza ha, quindi, la facoltà di scorporare il tempo trascorso dal detenuto, all'esterno delle mura carcerarie, dalla durata complessiva della pena detentiva. Così come i permessi e le licenze vengono concessi, anche, sulla base di valutazioni positive dei comportamenti tenuti dei reclusi ed assurgono, in alcuni casi, ad elementi premiali del trattamento penitenziario; allo stesso modo il computo di cui all'art. 53-bis ord. penit., sembra rispondere, anch'esso ad un'esigenza di natura premiale volta a far mantenere, anche all'esterno del carcere, la stessa condotta "intramuraria" che ha consentito al soggetto di ottenere il beneficio. Il mancato scomputo sembra quasi assurgere a sanzione addizionale che il magistrato può applicare a chi non ha tenuto un certo tipo di condotta. Tuttavia, nulla dice il legislatore circa i criteri che il magistrato deve utilizzare ai fini della sua decisione: innanzitutto, i casi in cui il computo non deve avvenire sono indicati in maniera generica ; in secondo luogo non è data alcuna indicazione circa il procedimento che il magistrato di sorveglianza deve seguire. Una precisa disposizione emerge, al contrario, dal secondo comma dell'art. 53-bis ord. penit. laddove si prevede la possibilità, per l'interessato di proporre reclamo al tribunale di sorveglianza avverso il decreto motivato emesso dall'organo monocratico. Il reclamo appare, quindi, l'unico strumento attraverso il quale possa essere possibile un vaglio giurisdizionale pieno, che garantisca, in altre parole, la sussistenza di un rito giurisdizionale, accanto alla decisione di un giudice imparziale e precostituito per legge.
7. Segue: c) Generico diritto al reclamo.
L'art. 35 ord. penit. consente ai detenuti e agli internati di presentare reclamo ad autorità interne ed esterne al sistema penitenziario, in relazione a situazioni che ritengono lesive della propria condizione giuridica soggettiva.
I destinatari dell'istanza possono essere tanto autorità giurisdizionali, quanto organi appartenenti al potere amministrativo, pertanto si ritiene, che la norma pur rappresentando un'integrazione al sistema delle garanzie poste a tutela dei reclusi, risulta essere di non rilevante efficacia [69].
Sicuramente il reclamo, così come inteso nell'articolo in esame, ha il fondamentale effetto di consentire la pubblicizazzione delle situazioni che accadono all'interno degli istituti penitenziari, rendendole note a "chi di dovere". Tuttavia, si deve considerare che il diritto di reclamo esercitabile dal recluso, ha come destinatario dell'istanza sia la sua naturale controparte, rappresentata, appunto, dall'amministrazione penitenziaria - facendo dubitare, tale disposizione, della capacità di quest'ultima di mantenere un atteggiamento imparziale-; sia autorità prive di poteri d'inchiesta e di decisione, i cui provvedimenti conclusivi potrebbero difettare di efficacia vincolante. In ogni caso, il legislatore ha previsto che il reclamo sia proposto altresì al magistrato di sorveglianza; ciò nonostante, la procedura che quest'ultimo deve utilizzare per deliberare in merito, è una procedura priva dei caratteri della giurisdizionalità [70].
8. Le procedure: a) Il reclamo giurisdizionale.
E' possibile operare una classificazione dei reclami sulla base delle norme che l'ordinamento penitenziario detta, al fine di disciplinare il procedimento da utilizzare nelle varie ipotesi in cui l'istituto trova applicazione[71]. Il legislatore ha previsto un rito diverso a seconda della materia trattata e delle diverse esigenze sottese alla stessa.
Sussistono tre diversi tipi di reclamo quali appunto, il reclamo giurisdizionale, il reclamo amministrativo e il reclamo informale.
Iniziando dal reclamo giurisdizionale, occorre sottolineare che quattro sono i casi rientranti in questo primo raggruppamento, ed essi sono rappresentati dal regime di sorveglianza particolare (art. 14-bis ord. penit.); dalla sospensione delle regole di trattamento (art. 41-bis ord. penit.); dal computo del periodo trascorso in permesso o licenza nella durata della pena (art. 53-bis ord. penit.); ed, infine, dalla materia lavorativa e disciplinare a norma dell'art. 69, comma 6, lettere a) e b), ord. penit. I primi tre casi di reclamo sono di competenza dell'organo collegiale, l'ultimo è, invece, di competenza dell'organo monocratico quale il magistrato di sorveglianza. Essi sono tutti caratterizzati dal fatto che, il procedimento utilizzato dalla magistratura di sorveglianza, chiamata a pronunciarsi, è di natura giurisdizionale.
Nei casi sopra indicati la procedura giurisdizionale "atipica"[72] da seguire è quella prevista dall'art. 14-ter ord. penit., introdotto nell'ordinamento penitenziario dalla legge Gozzini la quale prevedeva la possibilità di sottoporre a controllo i provvedimenti amministrativi di applicazione del regime di sorveglianza particolare. Ai sensi del primo comma dell'articolo in esame, è possibile proporre reclamo, entro dieci giorni dalla comunicazione del provvedimento amministrativo definitivo, al Tribunale di sorveglianza . Avendo delineato una procedura alquanto rapida ed essenziale, il legislatore ha disposto che l'organo collegiale provveda entro dieci giorni dalla ricezione del reclamo . L'udienza di trattazione è caratterizzata dalla procedura camerale in assenza di pubblico; il terzo comma dell'articolo in esame prevede, inoltre, la partecipazione obbligatoria del difensore dell'interessato e del magistrato del pubblico ministero, al fine di garantire la composizione del contraddittorio tecnico . Non è, invece, obbligatoria la partecipazione dell'interessato né dell'amministrazione penitenziaria: ciò nonostante, essi hanno la possibilità di presentare le proprie memorie . L'articolo si conclude con un ultimo comma che rinvia, per tutto quanto non sia stato espressamente previsto, alle disposizioni del Capo II-bis del Titolo II ord. penit.
A questo punto, è il caso di far riferimento alla questione interpretativa che sorge, circa il rinvio operato dalla disposizione del quarto comma dell'art. 14-ter ord. penit. La discussione ha origine in seguito all'emanazione della legge delega per la realizzazione del nuovo codice di procedura penale: all'interno dell'art. 2 disposizione n. 96, il legislatore delegante ha previsto che si operasse un coordinamento tra la disciplina del procedimento di cognizione e quelle dei procedimenti, d'esecuzione e di sorveglianza. Per effetto di tale previsione, il codice di procedura penale, contiene, oggi, al suo interno, tre articoli: il 666, il 667 ed il 678, che disciplinano rispettivamente il procedimento di esecuzione, il procedimento de plano, e il procedimento di sorveglianza, trasferendo nelle singole sedi, i principi fondamentali del procedimento di cognizione. Tali articoli non hanno, però, abrogato, né espressamente né tacitamente, i procedimenti "atipici" racchiusi nell'ambito dell'ordinamento penitenziario. All'opposto, tra quest'ultimi e i primi, si colloca, come norma di coordinamento, quella contenuta nel secondo comma dell'art. 236 disp. att. c.p.p., la quale stabilisce che il tribunale di sorveglianza, nelle materie di sua competenza, continui ad osservare le norme procedurali della l. n. 354 del 1975, diverse da quelle poste nel Capo II-bis del Titolo II ord. penit.
Orbene, fatte le necessarie premesse, occorre individuare gli estremi della questione relativa al rinvio operato dal quarto comma dell'art. 14-ter ord. penit.: infatti, da un lato si potrebbe giungere alla conclusione che il rinvio sia da intendersi automaticamente spostato, in seguito all'emanazione del codice di procedura penale, alla nuova disciplina del procedimento di sorveglianza; d'altro canto, però, considerando la ratio della norma contenuta nell'art. 236 disp. att. c.p.p. - finalizzata alla salvaguardia dei meccanismi processuali tipici dell'ordinamento penitenziario - e partendo dal presupposto che l'art. 14-ter conserva tutta la sua efficacia, si potrebbe giungere ad affermare che le disposizioni di cui al Capo II-bis Titolo II ord. penit. trovano ancora applicazione nei limiti del richiamo operato dall'art. 14-ter [78].
Accogliere l'una o l'altra interpretazione significa adottare due diversi tipi di procedimento, i quali differiscono profondamente, almeno in due punti fondamentali: il primo attiene alla possibilità dell'interessato di partecipare al procedimento [79]; il secondo è relativo alla possibilità concessa all'amministrazione penitenziaria di proporre ricorso in Cassazione . Venendo al primo aspetto, si deve precisare che, se il rinvio s'intende operato avverso il vecchio procedimento di sorveglianza, l'art. 71-bis ord. penit., nello stabilire che l'udienza si svolge con la partecipazione del difensore e del pubblico ministero, precisa che l'interessato può partecipare personalmente alla discussione e presentare memorie; il nuovo procedimento di sorveglianza, invece, accanto alla possibilità di presentare memore - modalità ordinaria di partecipazione dell'interessato all'udienza - prevede, solo in seguito ad un'espressa richiesta dell'interessato, l'audizione personale del detenuto o dell'internato, ma se questi si trovino fuori dalla circoscrizione del giudice, è previsto che vengano sentiti, il giorno prima, dal magistrato di sorveglianza del luogo a meno che non se ne disponga la traduzione . In relazione al secondo punto, optando per la sopravvivenza della disciplina penitenziaria, a norma dell'art. 71-ter ord. penit., è riconosciuta la legittimazione a proporre ricorso in Cassazione non solo all'interessato e al pubblico ministero, ma anche all'amministrazione penitenziaria; al contrario, l'art. 666 c.p.p., conferisce tale facoltà solo alle parti processuali .
I toni della discussione si accendo ulteriormente, se si prende in considerazione l'art. 53-bis ord. penit.: infatti, per l'ipotesi di reclamo in esso contenuta, il legislatore non detta alcuna precisa disposizione rispetto alla procedura che il tribunale di sorveglianza deve adottare, limitandosi ad operare un generico rinvio alla procedura contenuta nell'art. 14-ter. ord. penit. .
La norma ha suscitato notevoli perplessità e qualche intervento della Corte Costituzionale chiamata a giudicare circa le eccezioni di illegittimità sollevate nei confronti dell'articolo stesso. Nel primo rilevante intervento [84], la Corte si è pronunciata in merito all'illegittimità dell'art. 53-bis ord. penit. rispetto all'art. 24, comma 2 e all'art. 3, comma 1 Cost..
I termini della questione erano i seguenti: si riteneva che l'articolo 53-bis ord. penit., violasse il diritto alla difesa giacché non consentiva, all'interessato, di partecipare personalmente al giudizio. In tale circostanza, la Corte ha ritenuto che, la partecipazione del difensore dell'interessato all'udienza camerale e la facoltà riconosciuta a quest'ultimo di presentare memori scritte, fossero pienamente sufficienti a garantire la completezza dell'esercizio della difesa[85].
Successivamente, i giudici rimettenti hanno riformulato l'eccezione d'illegittimità ponendo la questione in termini diversi e riferendola ai principi della legge-delega 16 febbraio 1987 n. 81: la legge in questione, ponendosi l'obiettivo di giurisdizionalizzare la fase esecutiva dell'esecuzione penale, riteneva necessario un coordinamento tra i vari meccanismi procedurali, di cognizione da un lato e di esecuzione e di sorveglianza dall'altro. In tale occasione, la Corte si è approcciato alla questione in un modo completamente nuovo e ha potuto dichiarare che l'art. 236 disp. att. c.p.p., confermando l'efficacia dei procedimenti contenuti nella legge penitenziaria, diversi da quelli disciplinati nel Capo II-bis Titolo II, non ha consentito che si realizzasse pienamente l'intento del legislatore delegante. La Corte Costituzionale ha, pertanto, dichiarato l'illegittimità costituzionale degli artt. 236 disp. att. c.p.p. e dell'art. 53-bis ord. penit. - nella parte in cui facendo rinvio alle norme contenute nell'art. 14-ter commi 1, 2 e 3 - non consentono l'applicazione delle nuove regole in tema di procedimento di sorveglianza .
Si vuole sottolineare che la dichiarazione di illegittimità ha colpito solo indirettamente la norma contenuta nell'art. 14-ter ord. penit. la quale continua ad esplicare i suoi effetti nei casi in cui trova applicazione, diversi da quello indicato nell'art. 53-bis ord. penit. Com'è noto, infatti, le dichiarazioni della Corte Costituzionale producono i loro effetti esclusivamente nei confronti delle norme alle quali fanno riferimento: in questo caso, appunto, l'art. 53-bis. Pertanto, pur essendo evidente l'estensibilità della pronuncia anche alle norme di cui all'art. 14-ter ord. penit. - e a tutti gli articoli che ad esse fanno riferimento -, queste, troveranno applicazione fino a quando non subiranno la stessa declaratoria di illegittimità[88].
9. Segue: b) Il reclamo amministrativo.
In generale, si può affermare che gli atti che possono essere impugnati, attraverso questo tipo di reclamo, sono quelli emessi dal magistrato di sorveglianza quando interviene come organo di vigilanza e di controllo. Individuando, invece, le ipotesi specifiche in cui sia possibile proporre un reclamo ed, in cui, questo assume la veste amministrativa, occorre fare riferimento ai permessi (art. 30 ord. penit.), ai permessi-premio (art. 30-ter ord. penit.), ed alle licenze (artt. 52 e 53 ord. penit.).
In modo particolare occorre prendere in considerazione le norme contenute nell'art. 30-bis ord. penit. in tema di reclamo in materia di permessi. In tale fattispecie, il legislatore prevede che entro 24 ore dalla comunicazione del provvedimento, il magistrato del pubblico ministero e l'interessato possano proporre Il reclamo, avverso il quale il tribunale di sorveglianza o la corte d'appello provvedano entro 10 giorni dalla ricezione dell'istanza. Nulla viene detto circa la procedura che l'organo giudiziario competente, deve seguire in sede di reclamo ex art. 30-bis ord. penit. Si tratta, molto probabilmente di un procedimento de plano, che non riconosce alle parti il diritto d'intervenire.
Sul punto si è pronunciata la Suprema Corte stabilendo che è necessario dare al procedimento in questione, una veste giurisdizionale e che, pertanto, le regole da seguire debbano essere quelle dell'udienza camerale in contraddittorio delle parti secondo quanto disposto dagli artt. 666 e 678 c.p.p. [89]. L'ordinanza adottata dal Tribunale di sorveglianza o dalla Corte d'Appello in sede di riesame, è immediatamente esecutiva non ammettendosi per tali materie - aventi una natura amministrativa e non rientranti nei provvedimenti relativi alla libertà personale - la possibilità di proporre ricorso in Cassazione .
L'orientamento della Corte di Cassazione, infatti, non ammettere la possibilità di proporre ricorso avverso i provvedimenti conclusivi del giudizio di secondo grado in tema di permessi . Ne consegue che il tribunale di sorveglianza assurge a giudice unico, regolatore della materia, anche nella legittimità .
10. Segue: c) Il reclamo informale.
Il generico diritto di proporre reclamo disciplinato dall'art. 35 ord. penit. viene detto informale appunto perché il legislatore non prevede alcuna regola formale di rito, né per la presentazione dell'istanza, né per il relativo procedimento di decisione dell'organo adito.
La questione relativa all'inesistente indicazione della procedura da seguire nei casi di reclamo ex art. 35 ord. penit., è stata oggetto di una pronuncia, relativamente recente, della Corte Costituzionale: si vuole fare riferimento alla sentenza n. 26 del 1999. Nella specie, il tribunale rimettente aveva ritenuto che l'art. 35 ord. penit. fosse incostituzionale, perché, dava luogo ad un procedimento <<all'evidenza privo dei requisiti minimi necessari>> perché si potesse <<ritenere sufficiente a fornire un mezzo di tutela qualificabile come giurisdizionale>>. Difatti, a norma dell'art. 35 ord. penit., la decisione dell'organo adito deve essere presa attraverso un procedimento di natura amministrativa che si conclude, inevitabilmente, con l'emanazione di un provvedimento che difficilmente può acquistare efficacia vincolante alla strega di un provvedimento emanato in seguito all'utilizzo di un rito giurisdizionale. Pertanto, in caso di accoglimento dell'istanza da parte dell'autorità competente, quest'ultima dovrà limitarsi esclusivamente a predisporre una semplice segnalazione o una sollecitazione all'organo preposto all'esecuzione della pena; senza considerare, inoltre, che tale provvedimento, essendo di natura amministrativa, non potrà essere sottoposto al vaglio di legittimità della Corte di Cassazione.
Date queste premesse, la Corte Costituzionale ha dichiarato fondata la questione di legittimità [93] degli art. 35 e 69 ord. penit. giacché presentano <<un'incostituzionale carenza di mezzi di tutela giurisdizionale dei diritti di coloro che si trovano ristretti nella loro libertà personale>> e conclude affermando che <<non resta che dichiarare l'incostituzionalità della omissione e contestualmente chiamare il legislatore all'esercizio della funzione normativa che ad esso compete, in attuazione dei principi della Costituzione>>.
Legislazione
R.D. 1° febbraio 1891, n. 260.
R.D. 19 febbraio 1922, n. 393.
R.D. 19 ottobre 1930, n. 1398.
R.D. 18 giugno 1931, n. 787.
Artt. 3; 8, 1° co; 13; 15; 19; 21; 24; 25; 29; 30 e 31 Cost.
"Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo" - New York, 10 dicembre 1948.
"Convenzione europea sui diritti dell'uomo" - Roma, 4 novembre 1990.
Cir. 24/2/1954 n. 31
Ris. O.N.U. 30 agosto 1955 - "Regole minime per il trattamento dei detenuti".
R.D. 13 giugno 1862, n. 413.
"Patto internazionale sui diritti civili e politici", 19 dicembre 1966.
"Regole Minime del Consiglio d'Europa per il trattamento dei detenuti", 19 gennaio 1973.
Legge 26 luglio 1975, n. 35
D.P.R. n. 431 del 1976.
Legge 12 gennaio 1977, n. 1.
Legge 20 luglio 1977, n. 450.
Legge 24 novembre 1981, n. 689.
Legge 10 ottobre del 1986, n. 663.
D. P. R. 22 settembre 1988, n. 447.
Artt. 656, 666, 667, 678 e 680 c.p.p.
Legge 19 marzo 1990, n. 55.
D.l. 15 gennaio 1991, n. 8, convertito in l. 15 marzo 1991, n. 82.
D.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito in legge 12 luglio 1991, n. 203.
D.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito in legge 7 agosto 1992, n. 356.
D.l. 14 giugno del 1993 n. 187, convertito in legge 12 agosto 1993, n. 296.
Legge 27 maggio 1998, n. 165.
Carta europea dei diritti fondamentali, Nizza 7 dicembre 2000.
D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230.
Legge 13 febbraio 2001, n. 45.
Legge 8 marzo 2001, n. 40.
Va in primo luogo notato che il termine <<reclamo>> non appartiene tradizionalmente al campo della procedura penale, ma trova la sua più naturale sistemazione nel diritto amministrativo, come forma di ricorso.
Dagli articoli in esame si evince la natura spiccatamente amministrativa dell'istituto del reclamo. I casi in cui il reclamo poteva essere proposto erano molto limitati e, soprattutto attinenti a materie strettamente legate ad alcuni aspetti della vita carceraria. Il reclamo andava proposto ad un graduato del personale di custodia e non direttamente all'autorità giudiziaria preposta al giudizio, ossia il giudice di sorveglianza. Il termine, relativamente breve, di 5 giorni per la presentazione del reclamo era l'unica formalità prevista per la procedura da seguire, cosa succedeva dal momento in cui l'istanza di reclamo era proposta a quello in cui il giudice si sarebbe pronunciato sulla stessa non emerge dal testo normativo. In tal senso ZAPPA, Trasferimenti dei detenuti, ordini di servizio ecc., in Rass. Penit. e Crim., 1987, pag. 623 e ss.
La caratteristica spiccatamente amministrativa del reclamo continua a permanere; lo si è collocato a metà strada tra un mezzo d'impugnazione, seppure anomalo, e un vero e proprio reclamo, con caratteristiche più vicine al sistema processuale civile, nel quale, il reclamo, trova una sua collocazione ma con caratteristiche e modalità completamente differenti. In tal senso si veda FERRARO - DE STEFANIS, Procedimenti e provvedimenti della magistratura di sorveglianza, Padova, 1995, pag. 114 e115.
Il procedimento acquista una veste semplificata rispetto al procedimento di sorveglianza disciplinato dal capo II-bis, del Titolo II, date le esigenze sottese ai provvedimenti che con tale procedura possono essere impugnati. Si ripercuotono, anche sul reclamo, gli effetti propri della funzione rieducativa della pena sancita dalla Costituzione nell'art. 24 e realizzata dall'ordinamento penitenziario. In tal senso AA. VV., La riforma penitenziaria, Napoli, 1987, pag. 11-18.
Si veda, ad esempio, l'art. 53-bis ord. penit. in tema di computo del periodo trascorso in permesso o licenza, il quale fa espressamente rinvio alla procedura contenuta nell'art. 14-ter ord. penit.
Esso, infatti, si eleva anche a mezzo di controllo dei provvedimenti emanati, in primo grado e con procedimento giurisdizionale, dall'autorità giudiziaria garantendone la legalità dell'operato. Tale meccanismo si pone perfettamente nell'ottica della funzione rieducativa della pena, il detenuto, in seguito all'espiazione della pena, dovrà tornare a far parte di quella società dalla quale si è distaccato delinquendo: far si che prenda coscienza di quelli che sono i suoi diritti e renderlo capace di farli valere innanzi ad un giudice, sono condizioni che si riscontrano, proprio, nella società esterna dove dovrà rinserisi.
Occorre considerare, infatti, la natura amministrativa che il reclamo ha avuto in origine. Oggi, invece, la natura giurisdizionale di tale strumento, è confermata, non solo dall'esistenza di garanzie soggettive consistenti nella devoluzione del giudizio all'organo giurisdizionale, ma anche dalla riconosciuta necessità dei presupposti oggettivi della giurisdizione. Essi sono stati estesi anche al procedimento "atipico" del reclamo, per effetto dell'unificazione processuale voluta dalla legge delega per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale - di cui si parlerà, in maniera approfondita, nei successivi paragrafi-, affermandone, definitivamente, la natura giurisdizionale.
<<La impugnazione è il rimedio che, in casi tassativi, la legge accorda a determinati soggetti, per rimuovere gli effetti pregiudizievoli di un provvedimento giurisdizionale che ritengano "ingiusto" o "illegittimo">>. Così DALIA - FERRAIOLI, Manuale di diritto processala penale, Padova, 1999, pag. 671.
Si parla di secondo grado del giudizio e di giudizio di legittimità proprio perché, in origine vi è un provvedimento giurisdizionale di primo grado, emanato nel rispetto dei presupposti oggettivi e soggettivi della giurisdizione.
E' fondamentale, quindi, l'esistenza, in concreto, dell'interesse a proporre il controllo giurisdizionale del provvedimento emanato dal giudice. L'art. 581 c.p.p. prevede che vengano enunciati i capi o i punti della decisione, all'interno della dichiarazione scritta con cui si propone l'impugnazione. L'inosservanza di tale disposizione, presuppone la dichiarazione di inammissibilità a norma dell'art. 591.
<<Il giudizio di impugnazione non opera automaticamente né si determina quale effetto immediato o scontato del mero fatto di una pronuncia sia stata resa. Impugnabilità significa mancanza di divieti normativi al controllo del provvedimento>>. DALIA - FERRAIOLI, Manuale di diritto processuale penale, Padova, 1999, pag. 676.
Cass. Sez. I, Sent. 6 ottobre 1989, afferma che Il regime delle impugnazioni processuali penali non si applica ai provvedimenti amministrativi come quelli emanati a norma dell'art. 14-ter ord. penit. emessi da autorità diversa da quella giurisdizionale.
La quale assurge quasi a procedura amministrativa, in assenza di tute le garanzie tipiche della giurisdizione. Si pensi al reclamo che può essere disposto avverso il provvedimento che dispone o nega i permessi a norma dell'art. 30-bis ord. penit.
Si fa riferimento al caso in cui il reclamo viene esercitato avverso il provvedimento che dispone la sorveglianza particolare. Sull'opportunità che l'intera materia si rimessa alla magistratura di sorveglianza, si veda DELLA CASA, La magistratura di sorveglianza: organizzazioni, procedure, competenze, in Dig. Pen., Vol VII, pag. 496.
In tal senso CANEPA - MERLO, Manuale di diritto penitenziario, Milano, 2002, pag. 559; DI RONZA, Manuale di diritto penitenziario, Padova, 2000, pag. 429. In senso contrario CATALANI, Codice di diritto penitenziario, Roma, 2000, pag. 71, egli, infatti, afferma << il reclamo deve contenere i motivi di censura contro il provvedimento>>.
In tal senso ZAPPA, Il permesso premiale analisi dell'istituto e profili operativi, in Rass. Penit. e Crim., 1987, pag. 48.
Anche la Corte di Cassazione, nella sentenza del 6 ottobre 1989, afferma che il reclamo previsto dall'art. 14-ter ord. penit., non ha natura di mezzo d'impugnazione e, pertanto non deve essere necessariamente sostenuto da motivi.
Il divieto di reformatio in pejus, sussiste per tutti i provvedimenti che sono stati emanati dal giudice dell'impugnazione, qualora l'istanza provenga dal solo imputato. Si tratta di un principio di civiltà giuridica che vuole consentire all'interessato di impugnare il provvedimento che lo riguarda, senza incorrere nell'eventualità che la sua posizione venga aggravata. Si veda DALIA - FERRAIOLI, Manuale di diritto processuale penale, Padova, 1999, pag. 700.
In tal senso DI RONZA parla di <<natura amministrativa dell'atto impugnato>>, in Manuale di diritto dell'esecuzione penale, Padova 2000, pag. 429; CATALANI afferma che <<Il provvedimento in materia di permessi è soggetto ad una complessa procedura di impugnazioni, definita reclamo.>> in Codice di diritto penitenziario, Roma, 2000, pag. 99; ZAPPA parla di <<efficacia sospensiva dell'impugnazione>> in tema di reclamo, cit. pag. 49, in Rass. Penit. e Crim., 1987.
Il reclamo condivide, con i mezzi d'impugnazione, la finalità, e i caratteri principali: la disponibilità per le parti, l'effetto devolutivo, l'effetto sospensivo. In tal senso ZAPPA, Il permesso premiale: analisi dell'istituto e profili operativi, in Rass. Penit. e crim., 1987, pag. 52.
In tal senso ZAPPA, Il permesso premiale analisi dell'istituto e profili operativi, in Rass. Penit. e Crim., 1987, pag. 49.
In tal senso GUAZZALOCA - PAVARINI, Il processo di sorveglianza, in Giurisprudenza sistematica di diritto penale diretta da BRICOLA - ZAGREBELSKY, Torino, 1995, pag. 470. In tal senso anche Cass. pen. sez. I, 6 ottobre 1989, in Foro it. 1990, II, pag. 12; in senso contrario e quindi l'omessa indicazione dei motivi è causa di inammissibilità Cass. pen. sez. I, 25 marzo 1998, in Rass. Pen. e crim., 1998, pag. 1165.
Essendo il termine, amministrazione penitenziaria, alquanto generico e comprendendo in se tutta una serie di competenze attribuite a diversi organi centrali e periferici, in dottrina sussisteva la discussione circa l'individuazione dell'organo specifico competente ad emanare il provvedimento in questione. Per approfondimenti si veda PADOVANI, Regime di sorveglianza particolare, in AA.VV., L'ordinamento penitenziario tra riforma ed emergenza, a cura di GREVI, Padova, 1994, pag. 178 e 179.
<<La scelta della competenza amministrativa non era inevitabile. Anche concependo il regime di sorveglianza particolare come una modalità del trattamento, si sarebbe potuto attribuire la decisione al magistrato di sorveglianza cui spetta, in via ordinaria, l'approvazione del programma di trattamento. Movendo dal presupposto che il regime di sorveglianza particolare costituisca una forma sui generis di detenzione, l'opzione giurisdizionale dovrebbe anzi ritenersi imposta dall'art. 13 comma 2° Cost., a prescindere dal fatto che il provvedimento amministrativo sia suscettibile di reclamo al tribunale di sorveglianza>>. PADOVANI, Regime di sorveglianza,in L'ordinamento penitenziario dopo la riforma, Padova 1988, pag. 79. - Ancora in tal senso: <<Data la delicatezza della materia, sarebbe stata forse preferibile una più marcata giurisdizionalizzazione, che avesse devoluto ad initio, all'autorità giudiziaria ogni competenza relativa all'instaurazione del regime di sorveglianza particolare>>. DELLA CASA, La magistratura di sorveglianza, in Dig. Pen., vol. VII, pag. 50
Cass., 5 agosto 1987, in F.I., 1988, II, pag. 159 e Trib. di sorv. di Roma, 20 marzo 1987, F.I., 1988, II, pag. 15
Cass., Sez. I, 17 luglio 1987, in Rass. Penit. e crim. 1987, pag. 388. In tale sentenza la Corte stabilisce che <<In sede di decisione sul reclamo avverso il provvedimento che dispone o proroga il regime di sorveglianza particolare, di cui agli art. 14-bis e 14-ter, l. 354/75, aggiunti dagli art. 1 e 2 della l. 663/86, il tribunale di sorveglianza deve limitarsi ad effettuare un controllo di legittimità e di merito del provvedimento reclamato senza avere alcun potere integrativo dello stesso, stante la sua natura meramente amministrativa sia per l'autorità dalla quale promana, che per il suo intrinseco contenuto, pertanto ove detto tribunale rilevi la carenza di ragioni idonee a giustificarlo o la mera appartenenza di quelle indicate, deve disporre la revoca del provvedimento. Nello steso senso Cass. Sez. I, 7 ottobre 1987, in F.I., 1988, II, pag. 151, in cui si specifica che <<i poteri del tribunale di sorveglianza in sede di reclamo avverso i provvedimenti di sorveglianza particolare si devono ritenere limitati alla verifica della sussistenza della particolare pericolosità dei condannati, internati e imputati, nonché della eventuale violazione delle tassative limitazioni di detto regime che non può riguardare alcuni diritti del detenuto espressamente considerati dal legislatore non comprimibili.>>. In contrapposizione si pongono i seguenti provvedimenti: Trib. sorv. Milano, 7 settembre 1987, in Leg. Gius., 1988, pag. 223; trib. sorv. di Roma, 8 settembre 1987, ibidem; Trib. sorv. Roma, 20 marzo 1987, in Quest. G., 1988, pag. 10
Cass. 17 ottobre 1988, C. P., 1990, pag. 155, m. 163. Si afferma che, l'autorità giudiziaria non può sindacare il motivo e l'opportunità della sanzione disciplinare o la condotta tenuta in concreto dal detenuto. Tali valutazioni rimangono affidate alla discrezionale valutazione degli organi preposti alla direzione degli istituti penitenziari. All'autorità giudiziaria è affidato soltanto il controllo di legalità sulla procedura seguita.
Ad esempio, si ammette la possibilità di sindacare se nel comportamento del detenuto si ravvisino gli estremi delle infrazioni previste dal regolamento penitenziario. In senso conforme, Mag. di sorv. Brescia, 14 aprile 1988, R.P.C. 1988, pag. 285.
Ha perso ogni rilevanza la distinzione tra mercede e remunerazione in seguito all'abrogazione dei primi tre comma dell'art. 23 ord. penit. i quali trattavano, appunto, della differenza esistente tra i due livelli di retribuzione. Attualmente entrambe le definizioni, hanno lo stesso significato e si riferiscono al controvalore economico della prestazione lavorativa. In tal senso DI GENNARO - BREDA - LA GRECA, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Milano, 1997, pag. 158.
<<La riforma del 1986, ha riconosciuto che l'oggetto della domanda è la tutela di un diritto perciò ha attribuito alla decisione forma e natura giurisdizionale>>. IOVINO, Contributo allo studio del procedimento di sorveglianza, Torino, 1995, pag. 98.
La Corte Costituzionale si è pronunciata in merito con l'ordinanza n. 87 del 1987, nella quale ha ribadito la natura amministrativa dell'ordine di servizio sui reclami concernenti la qualifica lavorativa e la mercede, ritenendo che la potestà del magistrato di sorveglianza di decidere in questa materia, non rientra nell'esercizio dell'attività giurisdizionale, non essendo assicurata alle parti un'idonea garanzia dei mezzi di difesa. La Corte ha aggiunto che il procedimento non sostituiva la tutela giurisdizionale, che era riservata al giudice dei diritti. Tale posizione è stata, inoltre, riproposta dalla Corte stessa, anche nella sentenza n. 103 del 198 In tal senso DI GENNARO - BREDA - LA GRECA, Ordinamento penitenziario, e misure alternative alla detenzione, Milano, 1997, pag. 322.
E' sufficiente tener presente quale sia la naturale controparte del detenuto all'interno di un procedimento di reclamo in materia di lavoro penitenziario, perché si giustifichi la configurazione di un conflitto d'interessi tra il detenuto e l'amministrazione penitenziaria.
Cass. Pen. Sez. I, 12 febbraio 1997, n. 1201 In tale occasione la Corte afferma che in tema di reclami proposti da detenuti o internati nelle materie di cui all'art. 69 comma 6° ord. penit. deve ritenersi che, quando il reclamo abbia ad oggetto provvedimenti che incidano sullo stato di libertà del condannato, il provvedimento che ne segue debba consentire il pieno contraddittorio, comportante la partecipazione dell'interessato all'udienza. Ciò in considerazione del richiamo che la norma in questione fa all'art. 14-ter e dell'intervento della Corte Costituzionale (sent. n.° 53 del 1993) finalizzati alla dichiarazione d'illegittimità dell'art. 14- ter ord. penit. nella parte in cui non consente l'applicazione delle norme codicistiche in tema di procedimento di sorveglianza.
Dalla procedura de plano, si è passati ad una procedura giurisdizionalizzata che consente tanto al detenuto, quanto all'amministrazione penitenziaria - che non assume la veste di parte nel procedimento di reclamo - di prospettare il proprio punto di vista. In tal senso DELLA CASA, Funzioni e provvedimenti del magistrato di sorveglianza, in L'ordinamento penitenziario commento articolo per articolo, Padova, 2000, pag. 661.
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 26 del 1999, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli art. 35 e 69 ord. penit, nella parte in cui non consentono l'applicazione di un provvedimento giurisdizionale, utilizzabile dal detenuto ogni qual volta, si ritenga leso in un suo diritto da un atto posto in essere dall'amministrazione penitenziaria.
<<Il procedimento in questione assume, per il detenuto o l'internato, carattere alternativo>>. DI GENNARO - BREDA - LA GRECA, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Milano, 1997, pag. 323.
Nell'ordinamento penitenziario sussiste tutta una serie d'interventi dell'amministrazione penitenziaria, i quali, pur avendo un carattere sanzionatorio, non sono formalmente qualificabili come sanzioni. Il più frequente tipo di sanzione non istituzionalizzata è rappresentato dal trasferimento. In tal senso DELLA CASA, Funzioni e provvedimenti del magistrato di sorveglianza, in L'ordinamento penitenziario commento articolo per articolo, Padova, 2000, pag. 66
La difficoltà interpretativa introduce un'ulteriore questione rappresentata dall'ampiezza del sindacato riservato al giudice di sorveglianza, il quale, secondo la Corte di Cassazione, deve limitarsi ad un vaglio di legittimità del provvedimento, laddove in dottrina si ritiene valida la soluzione opposta. Della questione si è già parlato nel paragrafo precedente n. 3. "Ampiezza del giudizio della magistratura di sorveglianza", pag. 173.
In tal senso ZAPPA, Trasferimenti dei detenuti, ordini di servizio, in Rass. Penit. e crim., 1987, pag. 625.
In tal senso DALLA CASA, Funzioni e provvedimenti del magistrato di sorveglianza, in L'ordinamento penitenziario commento articolo per articolo, Padova, 2000, pag. 665.
Il procedimento per l'emanazione del relativo atto di competenza dell'amministrazione penitenziaria, assume una duplice conformazione a seconda che venga adottato in via ordinaria o in caso di necessità ed urgenza. Nel primo caso il provvedimento è adottato previo parere del consiglio di disciplina in una speciale composizione, obbligatorio è anche il parere dell'autorità giudiziaria competente nel caso di imputato. Con il secondo procedimento, sussistendo delle condizioni di necessità, il provvedimento è disposto senza l'acquisto di particolari pareri che devono comunque intervenire nei 10 giorni successivi. In tal senso FLORA, Le nuove norme sull'ordinamento penitenziario, Milano, 1989, pag. 45.
La comunicazione non assurge ad elemento di efficacia del provvedimento, ma risulta un adempimento fondamentale in vista del fatto che a partire da tale momento decorre il termine per proporre reclamo: infatti, sarebbe illegittimo dare esecuzione al provvedimento e non consentirne l'impugnazione da parte dell'interessato per mancanza della comunicazione; d'altro canto, ammettendo la possibilità di proporre reclamo sin dall'inizio, a prescindere dalla conoscenza del contenuto dell'atto, si darebbe luogo ad un'impugnazione che non ha presente lo scopo del gravame. In tal senso, PADOVANI, Regime di sorveglianza particolare, in AA. VV., L'ordinamento penitenziario dopo la riforma, Padova, 988, pag. 77.
Il controllo non segue un procedimento giurisdizionalizzata e si conclude con una "prospettazione" da rivolgere allo stesso organo che ha emanato il provvedimento. In tal senso CESARIS, Reclamo, in AA. VV. L'ordinamento penitenziario commento articolo per articolo, Padova, 2000, pag. 160.
Il contenuto che può avere la restrizione, adottata attraverso il regime di sorveglianza particolare, è indicato nell'art. 14-quater ord. penit In realtà nell'articolo non è presente un'elencazione delle materie che si possono restringere, ma indica quelle che non devono essere toccate dalla limitazione, quali, ad esempio, l'igiene e la salute, il vitto, il vestiario e il corredo, il possesso, l'acquisto e la ricezione di oggetti permessi dal regolamento interno, la lettura di libri, periodici, le pratiche di culto, l'uso di apparecchi radio, la permanenza all'aperto, i colloqui con i difensori, con il coniuge, il convivente, i figli, i genitori ed i fratelli.
In tal senso DI GENNARO - BREDA - LA GRECA, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Milano, 1987, pag. 110.
Del procedimento si parlerà ampiamente nel paragrafo n. 8., relativo al "Reclamo giurisdizionale", pag. 198.
In tal senso CESARIS, Situazioni d'emergenza, in AA. VV., L'ordinamento penitenziario commento articolo per articolo, Padova, 2000, pag. 339 e ss.
Il provvedimento ministeriale può comportare la sospensione <<in tutto o in parte>> delle <<regole di trattamento e degli istituti previsti>> dalla legge penitenziaria. Si tratta di una formula abbastanza ampia che consentirebbe l'adottabilità del provvedimento in esame, quasi in maniera perenne. Non vi sono, nel disposto normativo, dei parametri attraverso i quali individuare dei limiti alla discrezionalità del potere amministrativo. Anche la genericità dell'espressione <<regole di trattamento>> farebbe supporre l'intento del legislatore di introdurre uno strumento particolarmente incisivo sui diritti fondamentali della persona. Una interpretazione di tale natura sarebbe fortemente limitativa dei principi costituzionali espressi nell'art. 27, comma 3 Cost., pertanto, un limite a quel potere potrebbe essere individuato dalla previsione dell'art. 14-quater ord. penit. che individua le intoccabili condizioni di vita detentiva. Nella sentenza costituzionale n. 349 del 1993 la Corte afferma che<<l'amministrazione penitenziaria può adottare provvedimenti in ordine alle modalità di esecuzione della pena >> i quali <<rimangono soggetti ai limiti e alle garanzie previsti dalla Costituzione in ordine al divieto di ogni violenza fisica e morale o di trattamenti contrari al senso di umanità ed al diritto di difesa.
Corte Costituzionale sentenze n.° 349 del 1993; n.° 410 del 1993; n.° 351 del 1996; n. 376 del 1997.
La stessa S.C. si è prontamente adeguata all'insegnamento costituzionale affermando la sindacabilità e reclamabilità dei provvedimenti adottati ex art. 41-bis. Cass. pen., 4 febbraio 1994, in Foro it. 1995, II, pag. 236; Cass. pen. 7 aprile 1994, in Cass. pen. 1995, pag. 228; Cass. pen., 8 gennaio 1996, in A. n. proc. pen. 1996, pag. 639.
Riconosciuta la sindacabilità del provvedimento, assume un rilievo fondamentale la motivazione del provvedimento che sospende le regole di trattamento al fine di controllare il rapporto sussistente tra le esigenze di ordine e sicurezza scaturenti da una grave situazione e la concreta pericolosità addebitata al detenuto o all'internato.
Per autorità competente s'intende il magistrato di sorveglianza o l'autorità giudiziaria competente in merito in caso d'imputati. La differenziazione sussiste sulla base della posizione giuridica del detenuto e cioè se è definitivo o in attesa di sentenza irrevocabile. In tal senso CATALANI, Codice di diritto penitenziario, Roma, 2000, pag. 100.
La procedura è, infatti, finalizzata allo scopo di assicurare il rispetto dei tempi il più possibile ristretti: a tal fine non sono state previste solennità nelle forme di comunicazione del provvedimento; il termine di presentazione del reclamo è assai breve e non presuppone il rispetto di particolari formalità. ZAPPA, Il permesso premiale: analisi dell'istituto e profili operativi, in Rass. Penit. e crim., 1987, pag. 51.
La motivazione del provvedimento decisorio è necessaria al fine di consentire un vero e proprio riesame in sede di reclamo. In tal senso DI GENNARO - BREDA - LA GRECA, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Milano, 1997, pag. 179.
L'efficacia sospensiva dell'impugnazione è esclusa solo per i permessi concessi in caso di imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente, per i quali è obbligatoria la scorta come misura cautelare (art. 30-bis comma 8°).
Si veda LA GRECA, Provvedimenti e reclami in materia di permessi, in AA. VV., L'ordinamento penitenziario commento articolo per articolo, Padova, 2000, pag. 290 e ss.
La Corte Costituzionale, con sentenza n.° 235 del 1996, ha considerato tale termine esente da censure di illegittimità, nonostante la brevità dello stesso. In Foro It., 1997, I, Pag. 3083.
Non è chiaro che cosa si intende per <<comportamenti da cui risulta che il soggetto non si è dimostrato meritevole del beneficio>>.
La Corte di Cassazione sez. I, con la sent. del 20 gennaio 1997, ha, ad esempio, stabilito che il provvedimento del magistrato di sorveglianza, adito ai sensi dell'art. 35 ord. penit. non è soggetto ad alcun mezzo di impugnazione.
In tal senso COPPETTA, Diritto al reclamo, in AA. VV., L'ordinamento penitenziario commento articolo per articolo, Padova, 2000, pag. 322 e ss.
Perchè si differenzia dal modello ordinario previsto per il procedimento di sorveglianza, essendo caratterizzato da esigenze di speditezza. La dottrina più attenta ha ricavato l'impressione che il legislatore volesse far del procedimento atipico, un modulo processuale per tutte le decisioni relative ai reclami. In tal senso GUAZZALOCA - PAVARINI, Il procedimento di sorveglianza, in L'esecuzione penitenziaria, diretta da BRICOLA - ZAGREBELSKY, Torino, 1995, pag. 468.
L'articolo in questione non dispone nulla circa le modalità attraverso le quali presentare il reclamo. Alcuni autori, annoverando quest'istituto tra i mezzi d'impugnazione, ritengono che le formalità da rispettare siano quelle relative, contemplate nel codice di procedura penale. Si è già detto, invece, della non necessità dell'indicazione dei motivi di gravame.
Non è chiaro se entro tale termine debba fissare l'udienza e dare avviso della stessa, ovvero se debba, entro tale termine, provvedere alla trattazione del reclamo e all'emanazione del provvedimento conclusivo.
In dottrina si ritiene che la semplice previsione del contraddittorio tecnico non soddisfi in pieno l'esigenza costituzionale di garantire il diritto alla difesa. In termini critici circa la non completa garanzia offerta all'interessato si veda CANEPA - MERLO, Manuale di diritto penitenziario, Milano 2002, pag. 477; DELLA CASA, La magistratura di sorveglianza: organizzazioni, competenze, procedure, Torino, 1992, pag. 143; GIOSTRA, Innovazioni sistematiche, adeguamenti normativi e limiti tecnici nella disciplina del procedimento di sorveglianza, in AA. VV., L'ordinamento penitenziario dopo la riforma, a cura di GREVI, Padova, 1988, pag. 392; PADOVANI, Il regolamento di sorveglianza, in AA. VV., L'ordinamento penitenziario tra riforma ed emergenza, Padova, 1994, pag. 184; IOVINO, Il diritto alla difesa personale nel procedimento di sorveglianza, in Annali dell'Istituto di Diritto e Procedura penale, 1999, pag. 138 e ss.
Limitando il diritto alla presenza dell'interessato si contrasta la finalità rieducativa dell'esecuzione penale esercitata anche attraverso le funzioni giurisdizionali di un procedimento, incentrato, anch'esso, sulla valutazione del comportamento della personalità del condannato. Vedi KOSTORIS, Procedimento di sorveglianza, in AA. VV., L'ordinamento penitenziario tra riforma ed emergenza, Padova, 1994, pag. 561.
Ne consegue che fissata l'udienza in camera di consiglio, si debba comunicare l'avviso di fissazione al difensore e al pubblico ministero, perché possano partecipare e all'interessato e all'amministrazione penitenziaria affinché possano produrre le proprie memorie.
In tal senso, DELLA CASA, La magistratura di sorveglianza: organizzazioni, competenze e procedure, Torino, 1992, pag. 146.
Si veda DELLA MARRA, I procedimenti di reclamo, in AA. VV. Le impugnazioni penali, Trattato a cura di GAITO, Torino, 1998, pag. 1070.
Si veda DELLA CASA, La magistratura di sorveglianza: organizzazioni, competenze, procedure, Torino, 1992, pag. 146.
In merito si è pronunciata anche la Corte Costituzionale con la sentenza n.° 188 del 1990, la quale ha escluso che la rinuncia preventiva "a sentire", nel procedimento di reclamo, il detenuto o l'internato, ammesso invece ad interloquire nel procedimento di sorveglianza di cui al Capo II-bis Titolo II ord. penit. violasse il disposto dell'art. 24, co 2° Cost., e ciò in quanto sarebbero stati pienamente sufficienti a garantire la completezza dell'esercizio della difesa, la partecipazione all'udienza camerale del difensore dell'interessato e la facoltà riconosciuta a quest'ultimo di presentare memorie scritte.
Cfr. FERRARO - DE STEFANIS, Procedimenti e provvedimenti della magistrature di sorveglianza, Padova, 1995, pag. 118; DELLA CASA, Magistratura di sorveglianza: organizzazione, competenze, procedure, Torino, 1992, pag. 146; CESARIS, Reclamo, in AA. VV., L'ordinamento penitenziario commento articolo per articolo, Padova, 2000, pag. 16
Si veda BERNASCONI, Computo del periodo di permesso o licenza, in AA. VV., L'ordinamento penitenziario commento articolo per articolo, Padova, 2000, pag. 530 e ss.
Si veda DELLA MARRA, L'esecuzione penitenziaria, in AA. VV., Le impugnazioni penali, Trattato diretto da GAITO, Torino, 1998.
La dichiarazione d'illegittimità, pur avendo ad oggetto il reclamo ex art. 53-bis, si riferisce all'art. 14-ter ord. penit. in quanto contenente la disciplina che il legislatore ha previsto si adottasse per effetto del rinvio operato. Com'è noto, le sentenze che dichiarano l'illegittimità costituzionale, si riferiscono esclusivamente alle norme che sono oggetto del giudizio: nel caso specifico, la sentenza ha colpito l'art. 53-bis, pertanto la procedura dell'art. 14-ter, non trova più applicazione solo nei casi di reclamo operati avverso i decreti che non computano nella pena il periodo di tempo trascorso in permesso e in licenza. E' ovvio, in ogni caso, che se il provvedimento ha dichiarato l'illegittimità del procedimento disciplinato dalla norma contenuta nell'art.14-ter è da ritenersi, di fatto illegittima, così come sono illegittimi tutte le norme di diritto penitenziario che fanno rinvio a questa procedura, ma fino a quando non interverrà una sentenza della Corte Costituzionale e dichiararle illegittime, esse possono continuare ad esplicare liberamente i loro effetti.
In tal senso DI GENNARO - BREDA - LA GRECA, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Milano, 1997, pag. 110 e ss.
Cass. 7 ottobre 1998. Cfr. DELLA MARRA, L'esecuzione penitenziaria, in AA. VV., Le impugnazioni penali, Torino, 1998, pag. 1072; MARGARITELLI, I requisiti minimi della giurisdizionalità, in Giur. Cost. 1993, pag. 366; IOVINO, Contributo allo studio del procedimento di sorveglianza, Torino, 1995, pag. 10.Cass. 7 ottobre 1998.
La posizione della Suprema Corte è stata sempre categorica circa l'inammissibilità del ricorso in cassazione avverso i provvedimenti in seconda istanza attinenti alla materia dei permessi, in quanto, essendo provvedimenti relativi ad istituti di diritto penitenziario, non attengo alla materia della libertà personale. Tra i moltissimi precedenti si ricorda: C. 10-1-93, 196963; C. 16-6-93, 194619; C. 30-9-93 195442; C. 17-11-93, 196092; C. 2-2-94, 196693. Non si sono rilevata variazioni neppure in seguito all'emanazione della sentenza della Corte costituzionale n.° 53 del 1993 che ribadiva la necessità di adottare procedimenti giurisdizionali anche rispetto caratterizzati da procedura semplificate come nel caso dell'art. 53-bis, in materia di computo del periodo trascorso in permesso o licenza. Qualche mutamento si è avuto in seguito all'emanazione della sentenza costituzionale n.° 227 del 1995. In essa si dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 30-ter nella parte in cui non prevede l'ammissione al permessi premio dei condannati alla reclusione militare, per esaminare la questione, la Corte, ha dovuto ritenere la legittimazione a sollevarla da parte del magistrato di sorveglianza cui precedentemente era negata in considerazione del carattere amministrativo e non giurisdizionale del provvedimento. In tal modo il giudice delle leggi ha affermato la natura giurisdizionale del procedimento di concessione o diniego del permesso, ritenendo il magistrato di sorveglianza, legittimato a sollevare questioni di legittimità costituzionale. In tal senso si veda LA GRECA, Provvedimenti e reclami in materia di permessi, in AA. VV., L'ordinamento penitenziario commento articolo per articolo, Padova, 2000, pag. 295.
Cass. Pen., sez. I, 17 ottobre 1988. In tale sentenza si afferma che il provvedimento adottato in sede di reclamo contro il diniego di un permesso premio rientra tra quelli funzionali alla regolamentazione della vita carceraria e non è destinato ad incidere sugli effetti e la durata del rapporto esecutivo. Per tale ragione la legge non prevede una terza istanza di legittimità nella disciplina del reclamo de qua. In conformità Cass. Pen. Sez. I, 12 luglio 1989.
<<Da un diverso punto di vista, non essendo la procedura relativa ai permessi giurisdizionalizzata in nessuno dei due gradi di giudizio, viene a mancare una delle condizioni indispensabili per sollecitare un eventuale intervento del giudice delle leggi>>. DELLA CASA, Magistratura di sorveglianza, Dig. Pen., vol. VII, pag. 505.
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