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Uno degli elementi della realtà carceraria che non può passare sotto silenzio e che deve anzi essere trattato almeno incidentalmente è la parallela, ma non troppo, situazione della Polizia penitenziaria, corpo che già dalla Riforma del '75, ma ancor più con la legge 395/90 c.d. di smilitarizzazione, merita un'attenzione particolare per funzioni affidategli dall'ordinamento.
Questi due mondi sono da sempre stati dipinti come due realtà antagoniste e naturalisticamente contrastanti: i carcerieri, i secondini da un lato, i condannati, i detenuti dall'altro. La categoria degli agenti di Polizia penitenziaria è recentemente salita sul palco delle polemiche nazionali per le vicende di cronaca ben conosciute, ma lo è sempre stata figurando all'opinione pubblica come soggetti dimenticati dalla Società, quasi in una sorta di ingiusta immedesimazione con i loro carcerati. Problemi ve ne sono e sono di varia natura, quale quello tristemente famoso dell'insufficienza di personale, con tutto ciò che comporta in ordine a turni di lavoro massacranti, come vengono definiti, ed imposti dalle autorità stesse come conseguenza normale della prestazione del servizio in carcere. Riporterò di seguito delle tabelle che illustrano l'attuale situazione dell'organico della Polizia penitenziaria e anche, per un confronto ovvio, il numero dei detenuti presenti nelle nostre carceri oggi. La fonte da cui prendo queste informazioni è il Ministero di Grazia e Giustizia[1]. La prima tabella illustra la popolazione detenuta negli ultimi anni, con un'interessante differenziazione, che non necessita di commenti, in ordine allo status processuale di coloro che chiamiamo detenuti, ma che non sono in gran parte condannati con pena definitiva:
DETENUTI |
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ANNO |
Attesa di giudizio |
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Altri gradi di giudizio |
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Condannati |
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TOTALE |
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1°sem. 1999 |
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al 31 dic. |
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Tab. 1
Discorso strettamente collegato e da cui non si può prescindere nella trattazione, è il problema del sovraffollamento. Riporto di seguito una tabella che illustra la condizione attuale delle nostre prigioni da questa visuale (Vedi pag. seguente):
Regioni |
Numero istituti |
Capienza |
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Regolamentare |
Reale |
Differenza |
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Piemonte |
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Valle d'Aosta |
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Lombardia |
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Trentino A.A. |
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Veneto |
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Friuli V. G. |
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Liguria |
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Emilia Romagna |
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Toscana |
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Umbria |
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Marche |
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Lazio |
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Abruzzo |
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Molise |
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Campania |
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Puglia |
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Basilicata |
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Calabria |
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Sicilia |
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Sardegna |
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Totale |
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Tab. 2
Per completare il quadro della trattazione, vediamo qual è il numero degli agenti di polizia penitenziaria sul territorio[2]:
Regioni |
Donne |
Uomini |
Totale |
Abruzzo |
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Basilicata |
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Calabria |
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Campania |
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Emilia Romagna |
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Friuli V. G. |
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Lazio |
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Liguria |
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Lombardia |
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Marche |
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Molise |
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Piemonte |
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Puglia |
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Sardegna |
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Sicilia |
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Toscana |
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Trentino A.A. |
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Umbria |
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Valle d'Aosta |
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Veneto |
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TOTALE |
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Tab. 3
Da queste tabelle emerge un dato tristemente noto: le carceri italiane ospitano novemila detenuti in più di quelli che possono effettivamente contenere, di cui peraltro i condannati a pena passata in giudicato sono poco più del 50%. Il numero degli agenti di polizia penitenziaria, pur rappresentando una presenza massiccia negli Istituti di pena, non sono sufficienti per l'espletamento dei compiti loro assegnatigli dalla legge. Come ricorda lo stesso A.Margara[3] il numero degli agenti attualmente presenti nelle carceri oggi è quasi il doppio di quello di una decina di anni fa, per cui facendo questo paragone la situazione di oggi non sembrerebbe così drammatica. In realtà quello che dovrebbe essere portato alla luce, e che non lo è abbastanza, è il fatto che nell'ultimo decennio si è ricorsi ad un rinforzo delle fila della polizia penitenziaria in modo talmente rapido da non permettere un contemporaneo adeguamento della qualità dei soggetti reclutati.
' Questa crescita molto veloce ha comportato che si sia ricorso nelle assunzioni a sistemi di reclutamento, propri di altre forze di polizia, che non sono stati il concorso pubblico. Quando si sono fatti dei concorsi pubblici, l'aumento della qualità è venuto subito in evidenza, perché emergono quelli che hanno un livello di cultura maggiore e quindi si ottengono gli elementi migliori. Ma se si attua un reclutamento, che si fa attraverso coloro che hanno fatto il servizio di leva o nella stessa polizia penitenziaria, o nell'esercito in questo modo si prende quel che c'è. Ci son sempre delle forme di concorso, ma non c'è una selezione che invece il concorso riesce a realizzare. La cosa tragica di questa situazione è che in questi anni si è pensato a potenziare la parte della polizia penitenziaria che ha sempre avuto il ruolo essenziale della sicurezza e di custodia, per motivi di necessità'[4].
Questa realtà ha portato alla luce un fattore che contraddice la volontà del legislatore e cioè quella di rendere, per motivi di emergenza, il 'carcere fortemente sicuritario' e poco o nulla interessato all'aspetto rieducativo, data la mancanza di un analogo incremento del personale deputato a questo compito. Infatti, dati alla mano, gli educatori in tutta Italia sono un numero irrisorio, come mi ha ricordato Margara, circa sulle seicentocinquanta unità[5], così da rendere palese l'indifferenza delle istituzioni nei confronti di quell'elemento tanto discusso che è il trattamento.
Risultato perverso di questa situazione così sbilanciata è che gli sforzi economici vengano fatti solo per l'area, chiamiamola, sicuritaria, sottovalutando, o comunque mettendo in secondo piano, quella rieducativo-trattamentale. La polizia penitenziaria risulta essere così praticamente l'unico vero contatto che il detenuto ha con l'istituzione e, non a caso, la principale fonte da cui si pretende la risocializzazione del detenuto, con tutto ciò che ne deriva in quanto a sfasamento di ruoli. In attuazione dell'art.27, comma 3 Cost. si è pensato di affidare questo ingrato compito, almeno in parte, proprio al disciolto corpo degli agenti di custodia, da cui si pretenderebbero prestazioni che oggettivamente non possono essere date. La stessa legge 15 dicembre 1990 'Ordinamento del Corpo di polizia penitenziaria' c.d. legge di smilitarizzazione, attribuisce un ruolo agli agenti che difficilmente potrà essere attuato. Ed è normale che sia così dal momento in cui si rinuncia ad investire fondi per migliorare l'ambito 'pedagogico' e si attribuisce formalmente tale ruolo in compensazione a chi non può sostenerlo. Non essendo gli agenti stati scelti, come ha fatto notare l'ex direttore del D.A.P., in modo particolarmente selettivo, non si è realizzato quindi ciò che il legislatore mostrava di volere o meglio che 'la custodia ed il trattamento devono essere affidati a soggetti esperti e capaci, che non soltanto, perciò, vigilino sui reclusi, ma che siano contemporaneamente in grado di sostenere il recupero e la risocializzazione dei medesimi'[6]. I compiti istituzionali del Corpo di polizia penitenziaria ridisegnati dalla legge 395/90 sono evidenziati dall'art.5 della legge, al suo 2° comma:
1)esecuzione dei provvedimenti restrittivi della libertà personale
2)garanzia dell'ordine interno e della sicurezza degli istituti
3)partecipazione, anche nell'ambito dei gruppi di lavoro, alle attività di osservazione e di trattamento rieducativo dei detenuti e degli internati
4)servizio di traduzione e piantonamento
Come si può notare tutti i compiti della polizia penitenziaria, eccetto quelli al n.3, hanno natura prettamente di garanzia della sicurezza e contenimento di fatti dannosi o pericolosi che possono verificarsi all'interno o all'esterno degli istituti. Un servizio di polizia[7], insomma, in linea con il ruolo naturale e tradizionale che da sempre ha avuto. La previsione di un ulteriore compito inerente alla funzione rieducativa della pena, se da un lato ha accresciuto i compiti della polizia sul piano della responsabilità e dignità delle sue funzioni, dall'altro ha creato uno scompenso e sovrapposizione di ruoli con il personale veramente deputato a tale compito, svuotando di significato tale attribuzione. Questa nuova attribuzione di ruolo agli agenti evidenzia la mancanza, non di elaborazione, ma di idea sulla funzione della pena, mancanza che si riflette inevitabilmente sugli operatori. Per usare le parole di Adriano Sofri , gli agenti di polizia penitenziaria 'sono in una situazione in cui la loro identità è molto più dubbia: qualcuno gli ha spiegato che non devono più essere dei carcerieri all'antica, con la barba lunga, le chiavi pesanti, che sbatacchiano. anche se continuano a sbatacchiare ininterrottamente ecc. né degli energumeni, delle bande di incatenatori di persone, ma senza neanche metterli in condizione di essere un'altra cosa, attraverso concorsi, selezioni, formazioni'.
Questo evidenzia una situazione non nuova e prevedibile in cui una legge dai buoni principi risulta troppo ambiziosa e, non trovando terreno fertile su cui svilupparsi, rimane lettera morta. La realtà del rapporto che si instaura fra detenuti e polizia penitenziaria non è questa, ma, come si è visto dalle ultime vicende, drammaticamente conflittuale. Il corpo della polizia penitenziaria rimane inserito, come lo è da sempre, in una logica di rigida gerarchia tipica dei corpi di polizia e delle forze militari (art.9 e 10 L.n.395/90). Ed è naturale che sia così, o perlomeno non è ipotizzabile un meccanismo di controllo che non si fondi su di un'anelastica disciplina degli istituti. La presenza di soggetti estranei a questo disegno, i detenuti, ma che tuttavia vi sono collegati a filo diretto, rende tutto estremamente complesso e favorisce l'insorgere di pericolose tensioni interne. La contraddizione diviene palese sol che si pensi a questa realtà: l'aver attribuito alla polizia penitenziaria un ruolo a lei innaturale di partecipazione al trattamento, ha fatto sì che si creasse uno squilibrio nel ruolo da sempre rivestito da questi soggetti. Da un lato si voleva sensibilizzare gli agenti ad un comportamento meno aggressivo, più in linea con le tendenze del carcere riformato; dall'altro si è voluto rinforzare l'area 'rieducativa' con l'attribuzione a persone poco qualificate in materia di compiti, proprio per questa ragione, difficilmente esigibili, per giustificare forse anche scelte palesemente unidirezionali del legislatore sul versante contenitivo-sicuritario. Sul piano pratico e realistico diviene conseguenza prevedibile il permanere sugli agenti del ruolo autoritario da sempre rivestito e connaturato alla stessa sussistenza della loro funzione. Difficile se non impossibile un ruolo trattamentale risocializzante, per il quale non vi è né predisposizione istituzionale, se non solo a livello teorico, né è esigibile nei confronti di soggetti deputati a ben altre funzioni, a parte le personali inclinazioni delle persone, su cui, però, lo Stato non può certo fare affidamento.
Le ragioni delle tensioni interne che sempre hanno caratterizzato la realtà carceraria e che ultimamente sono tornate gravemente alla luce non sono solo queste, ma risiedono in una molteplicità di fattori che posso solo provare ad evidenziare, senza velleità di completezza. Intanto è bene partire da un dato di fatto riscontrabile agilmente in tutte le prigioni: il rapporto tra agenti e detenuti è palesemente conflittuale e ciò è prevedibile ove si pensi che in uno stesso ambiente convivono a stretto contatto due mondi fortemente antagonisti e dunque facilmente infiammabili. Nonostante partano da due tipi di rapporto completamente diverso con il carcere, è interessante mettere a confronto le opinioni di A.Margara e A.Sofri, i quali pur muovendo da premesse diverse arrivano paradossalmente alle medesime conclusioni. A.Margara sottolinea criticamente come la politica adottata dallo Stato nel rinforzare la polizia penitenziaria tralasciando quell'ambito di rieducazione che tanto dovrebbe invece interessare alle istituzioni, porta ad uno sviamento dei fini propri della pena ed ad un cronicizzarsi di atteggiamenti ostruzionistici che ledono la sfera dei detenuti ed annullano i tentativi vanamente codificati: 'rafforzando il ruolo della polizia penitenziaria, si corre il rischio di rendere il carcere fortemente sicuritario, preoccupato quindi essenzialmente a questo aspetto, e indifferente ad un trattamento che effettivamente non si riesce a fare o che non si vuole fare. Il risultato è che la polizia penitenziaria, a parte gli elementi migliori, perché ce ne sono di molto bravi, tende a schiacciare il detenuto, a non farlo agire, ad incapacitarlo in qualche modo. Il detenuto deve stare fermo, buono, non dare noie e non far nulla. Questa è la cosa più tragica: questo è un quadro che produce inattività, inerzia. Il non lavorare diventa funzionale rispetto a questo sistema. E' meglio per tutti che stiano chiusi nelle loro celle, dove può succedere quello che si vuole, ma rimangono lì. C'è insomma questa forma di non-vita: dorme, televisione, passeggio, ogni tanto si picchiano e tanti saluti! Questo è funzionale ad un sistema costruito in tal modo e le cui distorsioni non vengono mai curate'[9].
Anche A.Sofri muove accuse nei confronti di questo stato di cose, criticando, con toni decisamente più accesi del magistrato, l'atteggiamento delle autorità e delle conseguenze dannose che derivano dall'incancrenirsi di posizioni, forse, volutamente conflittuali: 'ho distratto un inerte atteggiamento delle autorità per cui il conflitto a volte vivace e aggressivo, acuto tra agenti e detenuti e il modo di fatto di tenere a bada la situazione carceraria, cioè questa specie di tensione sotto pelle della violenza che attraversa la vita quotidiana diurna e notturna del carcere è un modo di gestire il carcere, insomma. E anche una delle sue esplosioni a fior di pelle sono comunque uno sfogo che rimane limitato, perché contrappone agenti a detenuti () Dunque, la permanenza di questo conflitto è semplicemente uno strumento, uno strumentum regni, in una situazione di emergenza in cui nessuno se la sente o è capace ad affrontare alle radici il problema'[10].
Dunque la situazione reale in cui si muove il carcere in queste forme, chiamiamole, relazionali è come al solito ben diversa dalle previsioni legislative. Gli avvenimenti di Sassari ne sono stati una preoccupante conferma, a prescindere dalla posizione che si voglia prendere sul caso. Sia che ci si ponga dalla parte dei detenuti, sia che si creda invece alla versione degli agenti, il risultato, a mio parere, non cambia. La violenza è una componente che si è evidentemente incrostata sulle mura delle prigioni ed è questo il dato veramente allarmante. Prendo quindi le distanze per una sospensione del giudizio che ritengo necessaria, da quanto affermato da A.Sofri nell'intervista resami nonché dalle posizioni estreme del Corpo di polizia penitenziaria che ha scioperato e protestato per l'accaduto.
Dal punto di vista di una persona che in carcere ci vive, come detenuto, quello di Sassari è solo stato un evento che si realizza continuamente e che come dato distintivo con gli altri ha solo il fatto di esser stato portato all'attenzione dell'opinione pubblica. A.Sofri spiega come vi siano state e vi siano tuttora un certo tipo di organizzazioni interne e tacite tra i secondini prima, gli agenti di custodia poi e gli agenti di polizia penitenziaria adesso, addetti ad eseguire ordini 'particolari'. Sono le c.d. 'squadrette'[11] su cui si fonderebbe la vera modalità di contenimento della popolazione detenuta: 'C'era una lunga tradizione manesca degli agenti di custodia, c'erano quelle che ci sono ancora chiamate 'squadrette', che arrivano, magari a viso coperto, pigliano la gente, la bastonano e così via'. A Sassari pare non vi sia stata un'esecuzione da parte di questi agenti picchiatori, ma da agenti professionisti contro detenuti 'non pericolosi', ovvero solo tossicodipendenti. Sofri dà spiegazione di questa stranezza con una palese 'componente di reciproca eccitazione di branco', tale da aver fatto perdere il controllo della situazione agli agenti. Dal punto di vista, invece, degli agenti di polizia penitenziaria, la situazione è rovesciata. Il S.A.P.Pe, Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, aveva indetto uno sciopero 'bianco' (cioè con l'astensione dal servizio di mensa e l'applicazione 'totale' del regolamento penitenziario) di solidarietà e protesta per gli arresti degli agenti di Sassari solo 'per aver compiuto il loro dovere' . La posizione degli agenti è ovviamente polemica e dura nei confronti delle aggressioni ricevute dall'opinione pubblica e dalla stampa, che così facendo svaluta il ruolo essenziale da loro svolto in favore della società tutta. Al grido di 'non siamo 'secondini', 'guardie carcerarie' o 'agenti di custodia', o peggio 'killer-aguzzini-picchiatori-boia' , si difendono gli agenti di polizia penitenziaria (che vogliono esser chiamati con il loro nome, attribuitogli dalla L.n.390/90) accusando l'opinione pubblica di conclusioni frettolose ed offensive.
E' vero che il ruolo ricoperto dagli agenti in carcere è di vitale importanza per la sicurezza nazionale; va stabilito però un limite entro il quale la loro attività delicatissima e di enorme responsabilità deve arrestarsi per non divenire illegittima e profittatoria.
Dunque, concludendo il discorso dalla nostra prospettiva, appurato che rieducazione e trattamento svolto dagli agenti in carcere è già di per sé un'ironica contraddizione, sorge il dubbio non risolto, e che mi astengo dal risolvere per oggettiva impossibilità, se vi sia effettivamente una politica interna alle carceri orientata in tal senso, il che darebbe una prospettiva ancora peggiore riducendo la volontà del legislatore ad un'onirica e sarcastica esercitazione verbale.
Il numero preciso del personale amministrativo c.d. Area pedagogica è di 655 unità, contro le 1.129 unità previste in organico. Fonte: ministero di Grazia e Giustizia.
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