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Le misure alternative alla detenzione costituiscono lo strumento più significativo nella prospettiva dell'attuazione del finalismo rieducativo della pena sancito dall'art. 27, 3°comma Cost..
Introdotte nel sistema dell'esecuzione penale e penitenziaria con la legge 26 Luglio 1975 n° 354 (c.d. ordinamento penitenziario), esse rappresentano l'espressione di quell' orientamento politico-criminale che mira a creare forme alternative di esecuzione della pena detentiva, le quali, agevolando il contatto del condannato con la realtà esterna, rendono più efficace la risocializzazione del medesimo.
Con la legge 26.07.1975, n° 354 si è determinata una radicale trasformazione dell'esecuzione penale: per effetto di tale legge si è assistito al superamento del modello tradizionale di tipo statico incentrato sulla figura della pena carceraria la cui inflizione costituiva un dato tendenzialmente immodificabile (salvi i limiti di applicabilità della liberazione condizionale), a favore di un modello di tipo dinamico che prevede la modificazione in itinere del trattamento sanzionatorio stabilito dalla sentenza di condanna mediante la possibilità di restituire anticipatamente il condannato alla vita libera.
Contestualmente il legislatore, onde assicurare la verifica giurisdizionale della eventuale progressiva modificazione degli atteggiamenti antisociali del reo, ha provveduto alla istituzione di un giudice ad hoc, la magistratura di sorveglianza, la cui giurisdizione si esplica mediante pronunce che non riguardano il fatto criminoso, bensì l'autore di esso, e che sono adottate sulla base di giudizi prognostici formulati sulla scorta di dati conoscitivi processualmente controllabili.
Il modello introdotto dalla legge 26.07.1975, n° 354 è stato perfezionato ed affinato della 10.10.1986 n° 633 (c.d. Legge Gozzini).
Infatti prima dell'entrata in vigore di tale legge, le uniche misure alternative previste dalla legge 26.07.1975, n° 354 erano l'affidamento in prova al servizio sociale ed la semilibertà. La predetta legge ha profondamente innovato il sistema delle misure alternative alla detenzione, intervenendo lungo due diverse direttrici: da un lato ha ampliato la gamma delle misure concedibili da parte del Tribunale di Sorveglianza; dall'altro ha esteso l'ambito di applicabilità delle misure già esistenti nell'ottica della progressione del trattamento penitenziario. Lungo la prima direttrice si colloca sia l'introduzione di una particolar forma di affidamento in prova al servizio sociale destinata ai condannati alcooldipendenti e tossicodipendenti (prevista illo tempore dall'art. 47 bis legge 26.07.1975, n° 354 ed attualmente disciplinata dall'art.. 94 del DPR 309/1990), che la previsione di una ulteriore misura alternativa costituita dalla detenzione domiciliare.
La misura era allora prevista in favore dei condannati che dovevano espiare una pena inferiore a due anni, ancorchè costituente residuo di maggior pena, e che appartenessero ad una delle categorie soggettive previste dall'art. 47 ter legge 26.07.1975, n° 354 (donna incinta, persona in condizioni di salute particolarmente gravi, ecc..) rispetto alle quali l'esecuzione in regime carcerario potrebbe risolversi in un trattamento contrario al senso di umanità.
Lo scopo dell'inserimento di questo nuovo istituto nel sistema dell'esecuzione penale va individuato, oltre che nella necessità di ampliare il quadro delle misure concedibili dal Tribunale di Sorveglianza e di realizzare il contenimento della popolazione carceraria, anche nella opportunità di consentire il passaggio dalla fase della custodia cautelare in regime di arresti domiciliari (istituiti con la legge 28.07.1984, n° 398) a quello dell'espiazione della pena inflitta con la sentenza passata in giudicato, senza modificare in peius la condizione del reo che in tal modo ha la possibilità di permanere in una situazione di custodia domestica. In quest'ottica appare quindi condivisibile l'osservazione secondo cui: "La detenzione domiciliare, che chiaramente costituisce una modalità esecutiva della pena si pone come lo sviluppo logico dell'analogo istituto degli arresti domiciliari previsto nella fase di giudizio di cognizione dall'art.. 284 c.p.p."
L'esigenza di contrastare il fenomeno del sovraffollamento carcerario è alla base degli ulteriori ampliamenti che la detenzione domiciliare ha subito, sia sotto il profilo dei presupposti di applicazione che della tipologia, ad opera della legislazione
successiva: così la legge 12.08.1993, n°296 ha aumentato il limite di pena da due a tre anni; ulteriormente incrementato dalla legge 27.05.1998, n°165 (c.d. legge Simeone-Saraceni) a quattro anni; mentre con le leggi 12.07.1999 n° 231; 13.02.2001, n° 45 e 8.03.2001, n° 40 sono state introdotte nuove forme di detenzione domiciliare aventi come destinatari particolari categorie di soggetti (rispettivamente condannati affetti dal virus HIV; collaboratori di giustizia e donne con figli di età minore degli anni 10).
Un cenno particolare relativamente al processo legislativo sommariamente delineato deve essere effettuato con riguardo alla legge 165/1998 con la quale si è determinato il superamento della funzione esclusivamente umanitaria della detenzione domiciliare. Tale risultato è stato raggiunto mediante la previsione della c.d. detenzione domiciliare generica di cui all'art. 47 ter, 1° comma bis applicabile nel caso in cui il Tribunale di Sorveglianza ritenga che non vi siano le condizioni per la concessione dell'affidamento in prova al servizio sociale.
La detenzione domiciliare risulta ad oggi la misura alternativa la cui disciplina sostanziale è stata più significativamente modificata. Originariamente istituita come pendant nella fase esecutiva agli arresti domiciliari, al fine di evitare la detenzione in carcere in ipotesi in cui ne sarebbero derivati gravi pregiudizi per beni diversi dalla libertà personale, come la maternità, la salute, la formazione della personalità o addirittura per soggetti diversi dal condannato, (come i figli in giovanissima età) rispetto a tale ipotesi si riscontra una comprensibile dilatazione fino a dieci anni del limite di età della prole convivente.
La detenzione domiciliare sembra pertanto muoversi tra un'ispirazione umanitaria, ed esigenze deflattive, proponendosi come misura ad ampio spettro a disposizione del Tribunale di Sorveglianza.
La detenzione domiciliare prevista con l'introduzione dell'art. 47 ter 1° comma ter cosiddetta umanitaria, viene a dare contenuto al differimento della pena regolato dagli artt. 146 e 147 c.p..
Per questa ipotesi poiché svolge una funzione servente, sostitutiva del differimento pena sia obbligatorio che facoltativo quando si ritiene opportuno che il condannato subisca le limitazioni proprie della misura alternativa, sorge il dubbio se introduca una diversa fattispecie di misura.[3]
La misura della detenzione domiciliare dunque, si offre oggi a svolgere sia ruoli legati alla sua originaria ispirazione umanitaria, sia, per la sua attitudine sostitutiva della pena, a risolvere problemi di sovraffollamento carcerario; deviando così dalla funzione originaria delle misure alternative - quella innestata nel contesto della pena risocializzativa - e lasciando nell'incertezza circa la sua collocazione rispetto alle altre due misure alternative alla detenzione.
Ciò premesso occorre procedere all'esame delle singole figure di detenzione domiciliare.
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