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Malattie simulate e atti di autolesionismo




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MALATTIE SIMULATE E ATTI DI AUTOLESIONISMO


1. Simulazione e disturbi fittizi


La concessione di alcuni benefici, legati all'esecuzione effettiva della pena, è strettamente dipendente dalle condizioni di salute tanto che il detenuto, a volte, accentua o infine inventa una malattia per ottenerli.

La simulazione è l'intenzione cosciente di ingannare, infatti il DSM-IV esplicita che "La caratteristica fondamentale della simulazione è la produzione intenzionale di sintomi fisici o psicologici falsi o grossolanamente esagerati, motivata da incentivi esterni come evitare il lavoro o un procedimento penale, oppure ottenere farmaci. In alcune circostanze, la simulazione può rappresentare un comportamento adattivo - per es. simulare una malattia quando si è prigionieri del nemico in tempo di guerra".

Così si presentano le forme più varie, dall'esagerazione di un sintomo o dall'insincera accentuazione all'autoaggravamento o addirittura all'autolesione volontaria.

La simulazione delle manifestazioni cliniche più svariate può realizzarsi accusando una sintomatologia inesistente e ne sono state distinte tre sottospecie a seconda che trattasi di infermità:

che il simulatore non ha, né ha mai avuta;

che si è avuta, ma che attualmente è scomparsa - simulazione rievocatrice;

che esiste, ma in forma assai attenuata, essendo scomparsi i fenomeni che il soggetto tenta di far apparire tuttora in atto (simulazione fissatrice)".

Molti autori concordano sulla possibilità di un inizio cosciente e non coerente della sintomatologia psicotica e di un decorso che assume poco per volta una sua progressiva autonomia e stabilità, soprattutto nei deboli di mente, in cui la carenza di critica favorisce l'autosuggestione e l'autoconvincimento di essere veramente malati. Kaplan e al. sostengono che l'eziologia possa essere associata ad un disturbo antisociale di personalità.

La discriminazione fra malattia reale e simulata in una patologia organica si basa su accertamenti clinici e diagnostici "certi", nella malattia psichica è più difficile in quanto l'obiettività di disturbi per lo più comportamentali (confusione, disorientamento, alterazioni deliranti del pensiero, depressione dell'umore, autismo, alterazioni a carico degli istinti fondamentali), non è così clinicamente e facilmente distinguibile da una simulazione dei sintomi.

Il detenuto mette quindi in atto una "pantomima clinica", a partire dalla decisione cosciente sia di imitare sintomi patologici sia di proseguirla nel tempo, con uno sforzo continuo, fino al conseguimento dello scopo. Il tipo di simulazione è determinato da una serie di "abilità personali" del soggetto, ad esempio dal livello intellettuale, dal suo grado di autosuggestionabilità, dalla possibilità di mettere in atto meccanismi psicofisici riflessi e di controllarli con la volontà.

È quindi una rappresentazione scenica grossolana rispecchiante il concetto profano della follia. Tale rappresentazione è scenicamente presentata con la pseudodemenza, cioè visualizzando un grave decadimento psicofisico, e nella pratica rispondono in modo costantemente assurdo anche alle domande più semplici, e quindi clinicamente non patognomoniche, dimostrando un sorprendente deficit cognitivo non congruente al quadro clinico che volevano confermare.

Fornari ritiene che la reclusione da sola non produce un quadro psichico ma è un fattore patoplastico, precipitante o slatetizzante una pregressa condizione di precario equilibrio mentale, può innescare reazioni abnormi o aggravare l'esistenza di quadri psicotici preesistenti.

L'analisi psicopatologica è l'unica determinante per distinguere i malati da coloro che non lo sono, al fine di garantire ai primi il diritto alla cura e ai secondi il diritto all'ascolto del bisogno e alla prevenzione affinché la simulazione non si trasformi in un disturbo psichico conclamato.

Per quanto riguarda i metodi diagnostici per smascherare la simulazione presentiamo quanto proposto da Fornari in quanto, almeno nel periodo iniziale, l'autore ritiene possibile individuare il simulatore, in quanto manifesta:

imitazione di sintomi singoli, isolati, non legati da una correlazione patologica

esibizione ed elencazione dei disturbi, mentre il malato mentale tende a negare lo stato di malattia

minor coerenza e costanza rispetto al malato di mente

denuncia di stati crepuscolari di coscienza (dal semplice ottundimento allo stupore) e quadri pseudodemenziali (perdita completa o quasi di tutte le nozioni)

descrizione precisa e "scientificamente corretta" di deliri e allucinazioni

presenza di disturbi psicosomatici, con amplificazione del valore di malattia

refrattarietà ai trattamenti psicofarmacologici psicoterapeutici, ampiamente intesi

presenza di componente isterica, sia nel comportamento che nell'elenco dei disturbi

emissione di comportamenti puerili, ingenuità, drammatizzazione, variazioni dell'umore di tipo infantile, disegno di pupazzi, ricerca della madre

malattie e guarigioni rapide e prodigiose, correlate all'andamento del procedimento penale.

Di difficile interpretazione è la possibile situazione di un detenuto che presenta (o dichiara di avere) dei disturbi fittizi.

In questo caso i sintomi vengono simulati deliberatamente e coscientemente dal soggetto, si tratta di segni fisici o psichici allo scopo di assumere il ruolo di malato, in assenza di incentivi esterni come nella simulazione. È presente pseudologia fantastica cioè raccontano bugie esagerate e sintomatologie fantastiche.

Il disturbo fittizio quando presenta, in modo predominante, sintomi fisici è noto anche come sindrome di Munchausen per i reiterati tentativi di entrare o rimanere in ospedale. I sintomi lamentati sono nausea, vomito, dolore, crisi comiziali, eritemi diffusi, ascessi, febbri inspiegabili. Il soggetto può intenzionalmente mettere sangue nelle feci o nelle urine, aumentare artificialmente la temperatura corporea, assumere insulina per abbassare la glicemia, ematuria indotta da assunzione di anticoagulanti.

Il soggetto può produrre intenzionalmente, in modo predominante, sintomi psichici quali allucinazioni, deliri, depressione, comportamento bizzarro. I pazienti si giustificano spesso sostenendo di essere stati sottoposti a fattori stressogeni. Come fattori psicodinamici riconosciuti si segnala la repressione, l'identificazione con l'aggressore, la regressione, la simbolizzazione.

Quindi solamente il bisogno psicologico di mantenere il ruolo di malato è quanto lo distingue dal disturbo di simulazione e nella pratica clinica è difficile distinguere i due disturbi. Da sottolineare che nel disturbo fittizio i sintomi non sono causati da fattori inconsci o simbolici, ma il decorso è cronico in quanto anche, per definizione, una diagnosi di disturbo fittizio comporta sempre la presenza di una psicopatologia.

Altra questione di difficile interpretazione è riguarda le situazioni, che spesso si riscontrano in ambiente carcerario, di disturbo psicosomatico.

Si instaura un processo di "somatizzazione", con manifestazioni diverse per gravità, cioè dalle vaghe e mal definite sensazioni di malessere localizzato o diffuso, alle vere e proprie patologie organiche tipo l'asma bronchiale, gastro-duodenopatie ulcerose e non, ecc. In concomitanza i soggetti manifestano anche psichicamente il loro turbamento con manifestazioni emozionali a volte di difficile interpretazione in quanto oscillano dalle "variabili d'ansia" all'angoscia, fino alle "equivalenze di depressione". In questo caso la sintomatologia ha una componente simbolica o inconscia e i sintomi non sono prodotti volontariamente ed intenzionalmente. Sono i fattori psicologici che influenzano negativamente una condizione medica.

Il malessere di tipo somatico, a livello emotivo ed affettivo, è generalmente vissuto con uno stato di ansia intenso, tale da determinare lo sviluppo di preoccupazioni di tipo ipocondriaco (timore di essere affetti da gravi malattie somatiche anche in assenza di evidenze di tipo obiettivo). In questi casi assai frequenti, i detenuti chiedono assillantemente nuovi esami diagnostici e nuove visite mediche, nella "speranza" di avere dei riscontri oggettivi ai loro sintomi, per "ricavarne" se è possibile anche qualche privilegio. Questo ultimo punto differenzia il disturbo fittizio dal somatoforme in quanto nel primo non è presente la belle indiffèrence e l'ipocondriaco non desidera essere sottoposto ad interventi chirurgici.


2. Atti di autolesionismo


Gonin descrive il martirio del corpo incarcerato: parla degli ingoiatori, che usano il proprio intestino come ripostiglio; la vocazione diffusa per la bocca sdentata, a seguito di una domanda ossessiva per l'estrazione dei denti invece che per la loro cura; le proiezioni selvagge sulla pelle, dai rossori agli eczemi fino alle martorizzazioni volontarie (labbra e palpebre cucite con lo spago, tatuaggi deturpanti); autoamputazioni delle dita, delle orecchie e altro ancora; rischio suicidario e di contagio a malattie infettive. Un percorso sul/nel corpo recluso.

La ricerca di Gonin ha messo in evidenza che i comportamenti autoaggressivi sono rari al momento dell'incarcerazione (1,7%); dai sette giorni ai quattro mesi raggiungono il 9%; dopo i quattro mesi la tendenza volge alla rassegnazione, la percentuale si stabilizza sul 4,5% dopo circa sei mesi; si mantiene intorno al 3,5% per tutto il periodo della detenzione. Si evidenzia inoltre che alcuni detenuti moltiplicano i gesti autoaggressivi lungo tutto il periodo della detenzione, alternando automutilazioni, scioperi della fame, ingestioni di corpi estranei.

Anche in Italia è segnalato che l'ingresso in carcere, specie in persone giovani, tossicodipendenti, malati mentali, extracomunitari, soprattutto se per la prima volta, può arrecare traumi tali da determinare pratiche autolesionistiche o suicide. È necessario dunque accertare eventuali stati di fragilità fisica o psichica o qualsiasi indizio o inclinazione della persona suscettibile di sfociare in atti di auto o di etero aggressione.

Secondo alcuni studiosi la condotta autolesiva del soggetto recluso può avere tre origini soggettive diverse, così da potersi distinguere, tra:

autolesionismo con causa psichica: come sintomo di psicosi o nevrosi carceraria;

autolesionismo con causa emotiva: come atto istintivo di protesta nei confronti dell'operatore dell'amministrazione penitenziaria e/o dell'autorità giudiziaria;

autolesionismo con causa razionale, come atto deliberato diretto ad ottenere strumentalmente un beneficio giudiziario-penitenziario.

Distinguerne le cause è di estrema importanza perché gli effetti giuridici delle condotte autolesive sono in relazione alle cause soggettive motivazionali che giustificano una pluralità articolata di reazioni da parte delle autorità penitenziarie e giudiziarie.

Vi sono stati psicologici alla base del gesto autolesivo: uno dei più frequenti è la crisi ansioso-depressiva, che può manifestarsi con lo sciopero della fame, le lesioni da taglio multiple sugli avambracci o sull'addome o sul torace compiuti da detenuti di nazionalità italiana. Mentre, per i detenuti extracomunitari, specie se di religione mussulmana, l'atto di procurarsi enormi tagli con forti emorragie assume un valore purificatorio, quasi di catarsi. Generalmente nei soggetti che ricorrono a questi mezzi "ricattatori", in assenza di un evidente quadro psicopatologico, si riscontra un atteggiamento di tipo rivendicativo, ove risultino ipervalutati i "torti" subiti e trascurate le responsabilità personali. Talora, inoltre, si notano anche personalità rigide, diffidenti, scarsamente adattabili, che pongono in atto tali gesti con determinazione, spesso ripetendoli più volte anche sottoponendosi ad interventi chirurgici, se le loro rivendicazioni non fossero accolte.

Infine si può ricordare come la situazione ambientale particolare determini in soggetti facilmente influenzabili comportamenti imitativi, anche autolesivi, ritenuti necessari allo scopo di essere meglio accettati dal gruppo.

Nella realtà della popolazione detenuta, secondo i dati per il 1998 riportati dal Dip. Amm. Penitenziaria e AMAPI, i casi di autolesionismo sono 6.342.

Da interviste riportate su "Ristretti" sembra che la causa sia individuabile in un "disagio psicologico" non meglio identificato e in un modo per poter "parlare con il Direttore", molte volte gli stessi soggetti non riescono a spiegarlo. In Gonin si legge " i conflitti, le frustrazioni, le angosce, non potendo più essere sopportate psichicamente, sono trasformate, digerite, anche se parzialmente, nel momento in cui sono accolte sul corpo. Il solo spazio ricettacolo di cui disporrebbe il soggetto per gestire le sue pulsioni sarebbe il corpo". "E' un modo di agire spesso provocato da rabbia, esasperazione, rabbia repressa, dall'impotenza di fronte ai mille no.".

"Quel pomeriggio egli aveva inciso nella carne la semplice richiesta di un trasferimento. Ci vollero diciassette punti di sutura per ricucire il "sollecito" di una traduzione tardiva", in quanto "quelli solo così li smuovi, solo così", ovvero "di come l'istituzione manipola, mutila e distrugge l'identità per possedere il corpo del recluso e come il corpo del recluso si automutila per affermare la propria identità". Quindi una forma di reazione alla depersonalizzazione dell'istituzione, "il corpo che si mette in gioco per affermare un certo grado di libertà, [.] di libertà paradossale[.] una automutilazione liberatoria [.] contro questa società e le sue istituzioni totali, l'automutilatore si libera, vomitandole i suoi pezzi sulla faccia".

La mano del prigioniero che compie la "danza dell'ago" non compie un gesto autoerotico, è "la scelta di un linguaggio analogico per superare il brusio indistinto delle parole" e urlare la propria presenza "nel gioco brutale della reclusione". È la mano che mostra come "il corpo segregato è già cucito, ma l'ago che lo punge e il filo che lo insacca sono resi invisibili. Quel giorno la sua mano ruppe il silenzio", "prese ago e filo e si cucì i genitali e la bocca. Con questo gesto fece vedere ciò che l'istituzione abilmente occulta: il corpo recluso non ha alcuna possibilità comunicativa; la relazione sessuale gli è preclusa; il linguaggio verbale è ridotto a brusio solitario".

Una comunicazione viziata, "ristretta" o forse troppo urlata per essere ascoltata davvero.

Per tentare di contenere questo "problema" l'amministrazione penitenziaria ha emanato varie circolari raccomandando a tutto il personale il massimo impegno per prevenire il verificarsi di suicidi e di atti di autolesionismo da parte dei detenuti, sia rimuovendone, per quanto possibile, le cause, sia impedendone l'esecuzione. Infatti viene riconosciuto allo Stato il potere di intervenire coattivamente "quando l'atto autolesivo sia posto in essere secondo modalità tali da far sussistere un concomitante e prevalente interesse della collettività". Questo può avvenire in tre casi:

1. quando l'atto sia talmente grave da porre in pericolo la vita dello stesso attore,

quando l'atto sia il sintomo di una malattia mentale che limiti o escluda la capacità di autodeterminarsi;

quando all'atto seguano conseguenze sulla diffusione ed il contagio di patologie incidenti sulla pubblica incolumità, di cui l'autore sia portatore.

In altri casi la reazione giuridica è di tipo negativo, nel senso che lo Stato interviene semplicemente non concedendo quel beneficio che l'autore voleva raggiungere ponendo in essere strumentalmente un autolesione.

Il ripetersi di episodi di autolesionismo, può incoraggiare le direzioni a adottare regimi di stretta sorveglianza e a trasformare un istituto in una grande sezione speciale. La trasformazione sarebbe dettata da circostanza che si sono realmente verificate: evitare l'epidemia degli atti autolesionistici; diminuire i carichi di lavoro del personale di custodia attraverso la limitazione dei movimenti consentiti ai detenuti. L'autolesionista che non abbia successo pieno nel suo tentativo, può essere rimosso dall'istituto ordinario e affidato ad un istituto speciale.

Come si evince la comunicazione, anche estrema, fra detenuto ed istituzione non sembra cosa possibile!


3. Ingestione di corpi estranei


Un mezzo significativo a cui spesso fa ricorso il detenuto per poter richiamare l'attenzione sulle sue vicende è l'ingestione di corpi estranei.

Fra gli oggetti più frequentemente riscontrati, grazie all'ausilio delle radiografie, si trovano: tagliaunghie, chiodi, chiavi, viti, spilli, spazzolini da denti, manici di cucchiai, forchette, piccoli coltelli, catenine con crocifissi o medaglie, lamette, pile, lampadine, molle delle reti del letto, pezzi di vetro, pezzi di metallo in genere, cioè tutto quel materiale che è possibile recuperare in cella. Le lame di rasoio sono fra le cose che fanno più impressione, la tecnica consiste nel rompere a metà la lametta nel senso della lunghezza, sovrapporle e farle scivolare sul fondo della lingua. Dalle radiografie non si evidenziano particolari lesioni e l'espulsione anale avviene, di solito, senza dolore e a volte senza che il detenuto se ne accorga.

Agli "ingoiatori" viene programmata una dieta a base di cibi solidi (mollica di pane, patate, mele, verdure, crusca), al fine di favorire l'espulsione naturale dell'oggetto ingerito. La progressione dei corpi estranei nel tubo digerente viene favorita mediante l'ingestione di farinacei che avvolgendo il corpo, ne riducono anche la pericolosità per la parete gastro-intestinale e gli impediscono di restare impigliato nelle pliche della mucosa.

Ma che "risultato" ottiene l'ingoiatore?

Si potrebbe pensare ad un ricovero in un centro clinico dell'amministrazione penitenziaria o in un ospedale civile se si tratta di un intervento urgente d'emergenza. E quindi, anche se in modo traumatico, il detenuto, anche solo temporaneamente, "evade" dalla propria cella.

Per Gonin non è così in quanto i detenuti non sollecitano il ricovero in ospedale e il numero dei casi non è diminuito nonostante il mantenimento in stato di detenzione. Per l'autore è certamente un gesto di aggressione nei confronti di sé stessi ma nello stesso tempo "è altrettanto probabile che questo stesso gesto possa, talvolta, essere finalizzato a segnalare l'esistenza trascurata, lo sconforto o l'abbandono di un detenuto. [.] ma resta una zona oscura. Che il detenuto voglia dimostrare di essere posseduto anche nel suo spazio interno.il recluso non sarebbe più che un tubo digerente senza alcun rapporto con il vivente [.] scivola in un nulla d'esistenza, come pietrificato dal minerale o dal metallo che contiene. Egli è diventato la pietra, il ferro, il vetro, la plastica del suo stesso contenitore. Egli è ormai il muro della sua stessa prigione".


Sciopero della fame



Lo sciopero della fame rientra tra i vari gesti autolesivi che i detenuti possono compiere. A volte assurge l'accezione di un ricatto motivato la cui la posta in gioco è la perdita della vita intesa come prezzo da pagare per il rifiuto della istituzione a rispondere ad una richiesta.

Si definisce sciopero della fame il rifiuto volontario, totale dell'assunzione di cibo (in genere con l'esclusione del rifiuto dell'acqua), senza giustificato motivo medico, che duri da più di tre giorni. Dopo di che l'amministrazione penitenziaria provvede a trasferire il detenuto in una cella singola per monitorizzare le condizioni psico-fisiche, cioè dovrà essere visitato due volte al giorno con particolare attenzione al peso. Questa precauzione è resa necessaria per verificare se si tratta di un vero e proprio sciopero della fame oppure di una simulazione dello stesso. Se prosegue il digiuno per lungo tempo si possono verificare delle conseguenze con subentro di lesioni neurologiche e il soggetto può rifiutare, oltre gli alimenti, anche ogni intervento del medico penitenziario, sia a scopo diagnostico che a scopo terapeutico.

Di conseguenza si pone un altro problema ed è quello della legittimità o meno del trattamento coattivo posto in essere dai sanitari, il ricorso al quale può essere visto come necessario per il rischio di morte del digiunatore, evento evitabile soltanto con l'interruzione dello sciopero della fame o con il ricorso alla alimentazione artificiale, accettata volontariamente dal detenuto o imposta dall'autorità sanitaria.

Nel caso di sciopero della fame di persona detenuta si deve sottolineare l'obbligo giuridico dell'Amministrazione penitenziaria di tutelare la vita e l'integrità psico-fisica degli individui in custodia. In tale senso, non esistendo validi strumenti legislativi, l'amministrazione penitenziaria si avvale di quelle stesse norme applicabili per il trattamento dei cittadini liberi e, quindi, il cittadino detenuto, in quanto tale, ha il diritto di autodeterminarsi. Stando a queste norme, l'amministrazione può effettuare un t.s.o. solo quando "esistono alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici".

La competenza a decidere qual è il momento in cui le condizioni psichiche del soggetto sono tali da fargli venire meno la coscienza della realtà è del dirigente medico dell'istituto, il quale, per procedere ad un t.s.o., deve avere l'emissione del provvedimento dal Sindaco. Comunque è importante sottolineare che spetta ai servizi sanitari e alle strutture ospedaliere pubbliche l'accertamento per l'esecuzione di un t.s.o., non ai servizi penitenziari.

Quanto segue è la risposta del D.A.P., in data del 6.9.96, ad un direttore sanitario di un istituto penitenziario, che doveva decidere sull'esecuzione o meno del t.s.o.

" Nel caso del cosiddetto sciopero della fame del detenuto, oltre a porre in essere le forme trattamentali più idonee per far recedere il detenuto da tale comportamento di nocumento su se stesso, si ritiene che l'alimentazione forzata debba essere attuata dal momento in cui il detenuto sia pervenuto a condizioni tali da trovarsi in stato di alterazione della propria volontà a causa di anormalità psichica e, ciò nonostante, prosegua nel rifiuto dell'alimentazione. Il sanitario, pertanto, ha il compito di seguire lo svolgimento cronologico dello stato morboso del detenuto scioperante e di adottare con tempestività i necessari interventi terapeutici per tentare di prevenire il ricorso alle situazioni di estrema urgenza, come nel caso del trattamento sanitario obbligatorio. Così, oltre che per il personale sanitario, anche per quello direttivo degli istituti penitenziari vi è l'obbligo di garantire al ristretto l'incolumità personale e la sua salute, in considerazione anche del fatto che la scelta di lasciarsi morire in carcere per fame è libera fondamentalmente soltanto in apparenza, essendo il comportamento del detenuto scioperante influenzato dallo stato detentivo, che può portare a distorcere a livello essenziale la percezione della realtà. Fra gli interventi che gli operatori e i sanitari sono tenuti a porre in essere per prevenire la morte o i danni da denutrizione del recluso che volontariamente rifiuta di nutrirsi vi è anche quello del ricorso al trattamento sanitario obbligatorio, secondo le procedure e le modalità indicate dal legislatore con la normativa di cui alla legge n.833/78, istitutiva del servizio sanitario nazionale".


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