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L'intervento del giudice penale nell'esecuzione della detenzione.
Fin dai tempi più remoti, l'esecuzione della pena è stata considerata un'attività puramente amministrativa, conseguente a quella giurisdizionale svoltasi durante la fase cognitiva del processo penale. In passato, infatti, si riteneva che il giudice non potesse intervenire come materiale esecutore del comando cristallizzato in una pronuncia giudiziale e che la relativa competenza dovesse essere, necessariamente, affidata all'organo esecutivo dello Stato
Con la pronuncia della sentenza di condanna, si passava, quindi, da una fase giurisdizionale, con tutte le garanzie sostanziali e processuali previste dalla legge, ad un'altra fase caratterizzata, invece, dall'operatività dell'amministrazione penitenziaria centrale e periferica, anche detta, "braccio secolare della giustizia"
Tali presupposti hanno sorretto l'intero sistema penitenziario fino a quando, non si è appurato che, la condizione giuridica del condannato dava luogo a contrasti con gli organi preposti all'esecuzione della pena detentiva e ciò si verificava tanto per ragioni legate alla sussistenza o ai limiti del diritto all'esecuzione di una condanna, quanto per ragioni attinenti alle modalità stesse dell'esecuzione
Per la soluzione del primo tipo di conflitto - che si riteneva potesse sorgere tra il diritto dello Stato di eseguire una condanna e quello del cittadino, al contrario, di subire la condanna nei limiti del titolo esecutivo e delle successive modificazioni dello stesso - fu necessario predisporre una tutela giurisdizionale; infatti, l'art. 628 del c.p.p. del 1930, introdusse, nell'ordinamento, i cosiddetti "incidenti di esecuzione" attraverso i quali, il giudice era legittimato a tutelare i diritti riconosciuti al condannato in sede esecutiva
Affermata, quindi, la necessità della tutela giurisdizionale per le questioni attinenti al diritto all'esecuzione, rimane da verificare se, anche rispetto ai contrasti che nascevano per effetto delle modalità di esecuzione, potesse essere previsto l'intervento del giudice. La soluzione è dubbia, proprio perché l'incidente d'esecuzione era predisposto solo per la tutela dei diritti subbiettivi dei condannati e, purtroppo, non traspare, dalla lettura delle modalità d'esecuzione, l'esistenza d'alcun diritto per i condannati , se non in tre casi specifici quali, appunto, l'esclusione della segregazione cellulare come elemento della pena, la remunerazione per il lavoro prestato dal condannato e la sospensione della pena per sopravvenuta infermità psichica
Tuttavia, successivamente, si ammise l'intervento del giudice anche in casi diversi da quelli sopraindicati; partendo dal presupposto che occorreva sorvegliare il rispetto della legalità durante l'esecuzione della pena detentiva, si affidò al giudice anche una funzione di controllo . Nacque, quindi, la figura del giudice di sorveglianza , il quale, sentito il direttore dello stabilimento penitenziario, deliberava, mediante <<ordini di servizio>>, i provvedimenti necessari e li trasmetteva alle autorità competenti ad eseguirli.
Nonostante l'entusiasmo in dottrina , occorre rilevare, innanzitutto, che la funzione ispettiva del giudice di sorveglianza, consisteva in una vigilanza generica , affidata, è vero, ad un organo diverso da quello competente all'esecuzione della pena detentiva (e, quindi, maggiormente garantista), ma limitata ad un mero accertamento delle mancanze verificatesi ed al riferimento delle stesse al Ministro competente; in secondo luogo, occorre considerare la limitatezza dell'oggetto del controllo, il quale non poteva eccedere dalle disposizioni che riguardavano, esclusivamente, l'esecuzione della pena detentiva . Pertanto, la funzione ispettiva, riconosciuta al giudice di sorveglianza finì per conferire a quest'ultimo, un ruolo del tutto marginale. Molto più rilevanti erano, infatti, le attribuzioni fissate dall'art. 585 c.p.p. relative all'applicazione delle misure di sicurezza - quindi di provvedimenti penali preventivi post delictum - tanto che hanno fatto diventare il giudice di sorveglianza, il giudice dell'applicazione delle misure di sicurezza
In tal senso PIERRO, Rapporti tra giudice dell'esecuzione e magistrato di sorveglianza, in Riv. Ita. Dir. e Proc. Pen., 1984, pag. 990.
La prova di quanto detto, si riscontra, ad esempio, nel fatto che prima dell'emanazione del codice di procedura penale del 1913, la fase esecutiva, non ebbe mai una specifica regolamentazione processuale. Soltanto con il codice del 1930 e con il regolamento degli istituti di prevenzione e di pena del 1931, la disciplina acquista valore giuridico riconoscendo ai detenuti e agli internati, alcuni strumenti di tutela giurisdizionale. DI GENNARO - BREDA - LA GRECA, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Milano, 1997, pag. 17.
Al congresso internazionale penale e penitenziario tenutosi a Berlino nel 1935, si discusse, propriamente, della competenza del giudice penale nell'esecuzione delle pene detentive, stabilendo che <<si affidassero le decisioni importanti concernenti l'esecuzione delle pene privative della libertà personale. a delle commissioni miste, presiedute da rappresentanti della magistratura giudiziaria e composte di tecnici in psichiatria, in criminologia e in politica criminale>>. Durante il congresso di Atene, invece, nel 1937, si giunge ad affermare che <<colui che priva, in nome della legge, un cittadino della sua libertà, deve anche invigilare che la sua sentenza non venga arbitrariamente né aggravata né attenuata e che il principio di legalità, posto a base del diritto penale e della procedura penale, deve formare anche la base del diritto penitenziario>>. In tal senso NOVELLI, L'intervento del giudice nell'esecuzione penale, in Riv. It. Dir. Penit., 1936, pag. 1067 e ss.
I casi che potevano essere oggetto di un incidente di esecuzione, erano i più vari ed andavano dall'identificazione delle persone da sottoporre ad arresto, alla liquidazione delle spese di mantenimento del condannato in carcere.
Ciò presupponeva che laddove il diritto non fosse stato riconosciuto, il giudice non poteva intervenire.
Si consideri che le modalità esecutive rappresentavano soprattutto delle regole interne per l'Amministrazione penitenziaria, ed erano ben lontane dall'assurgere a causa di autolimitazioni del potere esecutivo nel rispetto di situazioni giuridiche soggettive dei reclusi. NOVELLI, L'intervento del giudice nell'esecuzione penale, in Riv. Dir. Penit., 1936, pag. 1068.
Questo perché, la segregazione cellulare, rappresentava un'intensificazione del contenuto della pena, e, la rinuncia dell'applicazione della stessa da parte del legislatore, comportava il sorgere, in capo al condannato, del diritto subbiettivo a conservare un minimo di locomozione. La remunerazione per il lavoro prestato, invece, - pur partendo dal presupposto che fosse un elemento della pena e per tanto non capace di dar luogo al diritto alla ricompensa - fu riconosciuta, dal legislatore, quale elemento rieducativo e ciò comportò la nascita, a favore del detenuto, del relativo diritto. La sospensione della pena in caso di sopravvenuta infermità psichica, presupponeva di per se, un diritto subbiettivo del condannato a far riconoscere le sue vere condizioni mentali.
Tra il giudice dell'esecuzione e il giudice di sorveglianza c'erano molti elementi di differenziazione. In primo luogo il giudice dell'esecuzione era il giudice che aveva emanato la sentenza di condanna, mentre le funzioni di sorveglianza erano svolte dal giudice del posto in cui la pena detentiva doveva essere scontata. Inoltre, le competenze erano diverse: tutela degli interessi dei detenuti, il giudice di sorveglianza; tutela dei diritti dei detenuti il giudice dell'esecuzione. La differenza più schiacciante era rappresentata dalla natura delle funzioni svolte, perché, mentre il giudice dell'esecuzione provvedeva secondo regole giurisdizionali, il giudice di sorveglianza emanava atti amministrativi quali gli ordini di servizio. Infine, dal punto di vista sociale, il giudice dell'esecuzione garantiva il rispetto della legge, il giudice di sorveglianza doveva controllare che la pena svolgesse le sue funzioni risocializzante, quindi, mentre il primo poteva ignorare completamente il detenuto, l'attività del secondo doveva svolgersi prevalentemente nelle carceri.
<<Lo spazio riservato al giudice di sorveglianza. è assai modesto ed i poteri a lui conferiti non sono certo tali da assolvere alle esigenze fondamentali, alle quali la nuova magistratura avrebbe dovuto provvedere>>. PIERRO, I rapporti tra giudice dell'esecuzione e magistrato di sorveglianza, in Riv. Ita. Dir. Proc. Pen., 1984, pag. 983 e ss.
Ogni altra materia sfuggiva alla vigilanza del giudice di sorveglianza, bastando la normale vigilanza amministrativa. Volendo ricordare alcune dei casi di competenza del giudice di sorveglianza, si possono menzionare ad esempio le ammissioni del lavoro all'aperto, le assegnazione, i trasferimenti, i reclami relativi alla remunerazione e alle spese di mantenimento, ecc. (art. 4 Reg, Ist. di Prev. e di Pen. 1931)
Del resto, non può non rilevarsi che il procedimento di sicurezza rappresenta il primo tentativo legislativo di riprodurre in sede esecutiva i principi tipici della fase di cognizione. PIERRO, Rapporti tra giudice dell'esecuzione e magistrato di sorveglianza, in Riv. Ita. Dir. Proc. Pen., 1984, pag. 983 e ss.
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