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Le sentenze di accoglimento




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Le sentenze di accoglimento


Disponendo che le dichiarazioni d'illegittimità costituzionale di norme legislative ne fanno cessare l'efficacia, il primo comma dell'art. 136 Cost. lascia chiaramente intendere che tali decisioni sono efficaci erga omnes. Si tratta, perciò, di sentenze che producono, all'atto di accertare la presenza di una qualche ragione d'invalidità, un particolarissimo effetto costitutivo, tale da impedire ogni ulteriore applicazione delle norme stesse. Circa la natura e la portata di questo effetto si sono aperte, però, le più varie controversie dottrinali e giurisprudenziali. L'interpretazione letterale dell'art. 136 precisa che la norma illegittima "cessa di aver efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione". Senonché una tale soluzione del problema è stata ben presto superata. L'art. 136 continua a prescrivere che l enorme illegittime cessino di aver efficacia in conseguenza della pubblicazione delle sentenze di accoglimento, a conclusione dei rispettivi processi costituzionali e non del corso di essi. Ma quella cessazione non può non reagire sul passato. Di più: la cosiddetta retroattività delle sentenze di accoglimento non si risolve nel coinvolgere i rapporti all'esame dei giudici che hanno sollevato le relative questioni, ma incide su tutti gli altri rapporti del medesimo genere. La legge n. 87 dispone assai chiaramente che "le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione; senza dunque distinguere tra i fatti sopravvenuti e quelli pregressi. Le sentenze di accoglimento sono dunque operative ex tunc; ma non senza limiti rilevantissimi, che valgano ad escluderne l'incondizionata retroattività. Secondo una terminologia consolidata in dottrina bisogna cioè distaccare i rapporti pendenti, tuttora suscettibili di essere rimessi in discussione dinanzi ad una qualche autorità giurisdizionale, dai rapporti esauriti, giuridicamente definiti e non più modificabili. La linea distintiva non rientra, però, nel campo del diritto costituzionale. In particolar modo, è indiscusso che l'esaurimento di un rapporto derivi anzitutto dalla cosa giudicata, cioè dalle sentenze non soggette ad alcuna impugnazione. Inoltre, la stessa conclusione vale per i casi di prescrizione e decadenza, nei quali il decorso del tempo determina "la certezza definitiva del rapporto" ovvero esclude l'impugnabilità di dati atti, quand'anche applicativi di norme successivamente colpite dalla corte. Ma occorre ricordare che la distinzione non è sempre così chiara e pacifica. Per esempio, la corte di cassazione e la corte costituzionale si sono apertamente contrapposte nel qualificare l'incidenza delle sentenze di accoglimento sui procedimenti penali già in atto; soltanto al termine di accese controversie ha prevalso l'avviso della cassazione, onde il giudice penale non può fare "diretta applicazione" delle norme processuali dichiarate illegittime. Per tutt'altro verso si è dibattuto ed ancora si dibatte se la dichiarata illegittimità di una certa disciplina determini i meno la "reviviscenza" delle norme legislative da essa abrogate. Taluno sostiene che l'effetto abrogativo debba considerarsi istantaneo. Altri sono orientati nel senso che la "reviviscenza" si produca comunque, salvo il potere della corte di colpire contestualmente le stesse norme abrogate. Ma è preferibile, piuttosto, la tesi intermedia per cui la legge abrogata non potrebbe rivivere, se non quando la sentenza di accoglimento incida sulla clausola abrogativa inclusa nella legge sopravvenuta. Beninteso, tutto questo non toglie che una qualche retroattività si registri pur sempre. Ciò basta per escludere che le sentenze in esame debbano considerarsi abrogative. La circostanza che restino salvi i rapporti esauriti e che l'incostituzionalità non sia verificabile da qualunque giudice ma sindacabile esclusivamente dalla corte, dimostra invece che la corte stessa provvede in tal modo all'annullamento delle norme o degli atti ritenuti illegittimi. Qual è il vincolo che, conseguentemente, una legge illegittima produce a carico dei sottoposti, prima che la corte ne accerti e ne dichiari l'incostituzionalità? Il solo punto fermo riguarda i giudici, in ordine ai quali è pacifico che essi hanno l'obbligo di sollevare questione di legittimità e di sospendere i rispettivi giudizi. Qualche motivo di incertezza riguarda invece la situazione in cui si trovano i soggetti privati. Un'altra corrente dottrinale li considera facoltizzati alla disapplicazione, sia pure a proprio rischio e pericolo. Quest'ultima è l'intepretazione maggiormente persuasiva. Assai più discussa è la posizione dei funzionari pubblici a fronte di leggi illegittime, non pervenute all'esame dell'organo della giustizia costituzionale. I doveri gravanti su tali soggetti differiscono da quelli concernenti i privati. Alcuni cioè tornano a sostenere "il carattere non obbligatorio della legge incostituzionale". Altri ragionano di "esecutorietà" delle leggi, negando che il potere esecutivo possa distinguere fra quelle conformi e quelle difformi. Sembra preferibile la seconda impostazione.


Subito dopo aver sancito l'obbligo di emettere le sentenze di accoglimento "nei limiti dell'impugnazione", la legge n. 87 aggiunge che la corte "dichiara, altresì, quali sono le altre disposizioni legislative, al cui illegittimità deriva come conseguenza dalla decisione adottata". Ma anche per quest'ultimo profilo la portata delle sentenze medesime appare problematica; tanto più che la giurisprudenza costituzionale non è affatto concorde e costante nell'uso della cosiddetta illegittimità costituzionale delle leggi. Ciò che più conta, l'illegittimità derivata viene talvolta contenuta nei minimi termini, con riguardo a quelle norme strumentali o di dettaglio. Altre volte, la corte ha annullato norme applicative del medesimo principio già ritenuto costituzionalmente illegittimo.



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