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La chiesa e il potere temporale




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LA CHIESA E IL POTERE TEMPORALE


Se la Chiesa non avesse un'estrema flessibilità e capacità d'adattamento alla realtà essa sarebbe rapidamente condannata alla sclerosi e alla sconfitta. È proprio in questo perenne fluire e rinnovarsi delle sue forme e dei suoi modi d'espressione, che consente di tenere aperto il dialogo con gli uomini di ogni tempo. Ciò che conta per la Chiesa è che nel variare dei modelli, delle formule, degli schemi restino inalterati e inalterabili i sommi principi: e quindi quello del primato dello spirituale, della sua distinzione dal temporale.

La legge di separazione tra Chiesa e Stato del 1905 aveva determinato, per la Chiesa di Francia, la necessità di una radicale conversione e modificazione dei modi tradizionali della sua presenza nella società: la Chiesa aveva capito che per sopravvivere in un clima di uguaglianza con le altre confessioni, doveva rivedere i modi di presentazione della sua dottrina. Il primo segnale di un mutamento si ebbe quando i nuovi teologi non parlavano più di potestà di giurisdizione della Chiesa sul temporale, sullo Stato, ma di un generico potere della Chiesa nella materia temporale. Per i nuovi teologi questo potere altro non era se non un potere di illuminazione morale delle coscienze.  Se la Chiesa è una Chiesa delle anime, osservano i nuovi teologi, se essa vuole parlare alle coscienze, il suo intervento non può produrre vincoli di carattere giuridico, ma deve saper affrontare il rischio del dialogo, il quale include la duplice possibilità dell'accettazione o del rifiuto da parte dei credenti. Il massimo vincolo che una Chiesa può tendere a creare è un vincolo morale, che induca i fedeli alla meditazione e alla riflessione (teoria di De Lubac e Congar). Un episodio che mise alla prova questa teoria, fu dato in Italia dallo scontro tra cattolici e socialisti nel 1948 e il decreto vaticano di scomunica dei comunisti. Con questo decreto venivano scomunicati i comunisti: ciò dimostra che la Chiesa interviene nella materia temporale e non si limita ad esortazioni morali, ma può applicare ai fedeli che disobbediscono, sanzioni giuridiche, come appunto la scomunica. Per questo i canonisti italiani tentarono una trasposizione di questa teoria, in modo da renderla più gradita all'autorità ecclesiastica, che non voleva rinunciare alle sue prerogative giuridiche. Così i canonisti italiani degli anni '50 parlano di una vera e propria potestà giuridica della Chiesa in materia temporale. Questa potestà non si esercita direttamente sullo Stato, ma sulle coscienze dei cittadini credenti, e grazie alla mediazione dei cittadini credenti essa fa sentire i propri riflessi sulla vita della comunità statale. Quindi spetta ai cittadini credenti creare quello stato di necessità che costringa i pubblici poteri ad uniformare il proprio comportamento con le direttive della Chiesa. La Chiesa, in uno stato democratico, non può arrogarsi alcun potere nei confronti dello Stato, ma può cercare di plasmare la vita della società impartendo direttive ai fedeli. La soluzione prescelta dai padri conciliari, dal Concilio, circa i rapporti tra spirituale e temporale, fu quella di dare delle indicazioni di massima che consentissero una pluralità di possibili forme di attuazione pratica in modo che si potessero adattare alle varie esperienze nazionali. Non si parla più di rapporti tra Stato e Chiesa ma di rapporti tra Chiesa e comunità politica. Se la Chiesa non s'indirizza più allo Stato, il punto di incidenza della sua azione sarà il popolo: e per esso la coscienza dei singoli cittadini credenti. La potestà della Chiesa, non sarà più una potestà di giurisdizione che si eserciti sulla vita civile, ma sarà un'autorità di Magistero volta al servizio e alla crescita delle anime dei credenti. Il compito della Chiesa sarà quello di fare in modo che il cristianesimo non cali dall'alto, ma fermenti dal basso, dal cuore stesso dei popoli della terra.

Il parametro di giudizio, in presenza di interventi nella sfera temporale (che si configurano tecnicamente come atti del Magistero ecclesiastico) , non può essere dato se non da un esame delle ragioni dell'intervento, delle motivazioni che l'autorità allega a sostegno delle sue pretese: motivazioni o ragioni che determinino di quegli interventi la legittimità o l'illegittimità.

può accadere che l'autorità ecclesiastica alleghi un principio di diritto divino naturale: in tal caso i cittadini credenti sono tenuti ad adeguarsi al contenuto dell'atto del Magistero ecclesiastico, che sarà per loro non solo fonte di un obbligo morale, ma anche di un obbligo giuridico cui dovranno uniformarsi nel loro agire politico. Le regole di diritto divino possono essere assunte a denominatore comune dell'agire di credenti e non credenti perché sono scritte nella ragione e nel cuore dei singoli, perciò possono esser assunte come vincolanti per tutti gli uomini di buona volontà. Sarà l'autorità ecclesiastica a determinare le sanzioni;

può accadere che l'autorità ecclesiastica richiami all'obbligo di far valere, sul terreno temporale, un principio di diritto divino positivo, ad esempio il principio dell'indissolubilità del matrimonio. In questo caso i fedeli non sono tenuti ad osservare la prescrizione ecclesiastica;

l'ultima ipotesi è quella che l'autorità ecclesiastica non invochi il diritto divino a legittimare il suo intervento nella sfera temporale, ma contingenti ragioni e valutazioni di opportunità politica. Ad esempio è acceduto che l'autorità ecclesiastica abbia sollecitato a votare per un dato partito. Di fronte a un simile intervento dell'autorità non sussiste alcun obbligo da parte del fedele, se non quello di prendere in considerazione le valutazione dell'autorità ecclesiastica.

Un altro discorso riguarda la possibilità per i credenti di costituire gruppi o partiti politici, tramite i quali promuovere la redenzione delle realtà secolari e profane. La prima possibilità è che costituiscano raggruppamenti o partiti politici che rivendichino esplicitamente la qualifica di cattolici o almeno di cristiani. La seconda possibilità è che si costituiscano gruppi di credenti che vogliono tener ferma la distinzione tra la loro azione e l'azione politica della Chiesa: questi non saranno partiti cattolici ma, bensì, partiti di cattolici.

Anche dopo il Concilio la Chiesa non rinuncia a intervenire nella sfera temporale, anzi, essa assume di possedere una vera e propria dottrina sociale, che è suo compito predicare. Le linee di questa dottrina sociale cristiana si sono venute formando attraverso gli atti del Magistero pontificio, che sono passati da una posizione di ripulsa delle ideologie moderne (liberalismo, socialismo, comunismo) ad un tentativo di risposta positivo, che non esclude la possibilità del dialogo e del confronto. 

L'orientamento del Concilio è quindi quello di concepire il rapporto tra spirituale e temporale non come rapporto tra Chiesa-istituzione e Stato-istituzione, ma come confronto di valori nella coscienza del popolo. Questo non è del tutto vero però; infatti, non manca l'attribuzione allo Stato di una precisa qualifica che ne connoti il comportamento in materia religiosa. Lo Stato appare come un'organizzazione che deve ispirarsi al principio di una sana laicità. Per la giuspubblicistica moderna lo Stato laico è la casa comune di tutti, credenti e non credenti, che pone tutte le fedi in una posizione d'uguaglianza nella libertà. Ciò non significa che non abbia un proprio patrimonio di valori. La Chiesa ha invece la concezione che lo Stato sia un organismo per la gestione dei servizi e per la realizzazione del bene comune. Il Concilio non esclude che lo Stato, riconoscendo libertà a tutte le confessioni, possa favorirne una: non c'è più una religione di Stato come religione del principe ma c'è una religione di Stato vista come religione della maggioranza dei cittadini, di cui lo Stato proteggerà le manifestazioni sociali. L'essenza che connota lo Stato laico è la difesa del valore della libertà.

Dato che la Chiesa è considerata l'unica depositaria della Verità che libera e salva, come poteva conciliarsi col mondo moderno ed ammettere il diritto dei dissidenti, il diritto dell'errore? Soccorrevano in proposito i due istituti canonici della dissimulatio e della tolerantia: quando dalla repressione di un movimento antigiuridico deriverebbe un male maggiore, la Chiesa finge di non vedere e rinuncia all'applicazione della sanzione. Il Concilio deve quindi salvaguardare il principio per cui la Chiesa è l'unica detentrice della Verità e l'esigenza di far posto al principio pratico della libertà degli erranti. La via d'uscita è stata nel senso di distinguere tra un piano teologico, nel quale gli antichi principi dogmatici conservano immutata la loro forza, e un piano giuridico nel quale la dignità della persona merita comunque di essere difesa, soprattutto dallo Stato che ha il compito di tutelare il bene comune, che non è altro che la casa comune di tutti, credenti e non credenti.

Alla Chiesa e allo Stato è riconosciuta reciproca autonomia ciascuno nel proprio campo. L'autonomia dello Stato è riconosciuta purché questi resti nel proprio campo; ma chi fissa i limiti dello Stato? E che cosa succede se la Chiesa giudica che esso ha esorbitato dai propri limiti? È necessaria ancora una volta una sana collaborazione, e le modalità di questa sono rimesse al prudente apprezzamento delle Chiese nazionali.



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