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La perdita della libertà, le relazioni affettive e la produzione sociale di stigma




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La perdita della libertà, le relazioni affettive e la produzione sociale di stigma.

Uno degli aspetti principali che caratterizzano la vita di un detenuto rispetto ad un normale cittadino è la forzata totale scissione dall'ambiente di provenienza e dalla comunità affettiva nella quale era incluso, la perdita della libertà significa la rinuncia involontaria ad una serie di possibilità che vengono azzerate automaticamente dal momento dell'ingresso in un istituto di detenzione.

Il detenuto è inserito nel circuito istituzionale, la libertà individuale è sottoposta alla volontà istituzionale, il detenuto, volente o nolente, diventa un'espressione di questa volontà, uno strumento attraverso il quale, nella prassi, la Direzione afferma in ogni privazione la sua autorità morale assoluta. Il detenuto è isolato dal mondo all'interno dell'istituzione, in questo luogo deve attenersi ad un regolamento che prescrive formalmente e informalmente ciò che è concesso e ciò che è vietato, all'interno dell'istituzione il concetto di  libertà diventa un eco, il cui suono accompagna costantemente i pensieri dei detenuti.

Per fornire un'idea di quanto questa perdita sia sentita come drammatica dalla popolazione detenuta, vorrei sottolineare che su venti persone alle quali è stato domandato dopo la detenzione quale fosse la cosa che a loro avviso ritenessero più importante in senso assoluto, quattordici in base alla loro esperienza hanno risposto la libertà e la famiglia, intesa come nucleo affettivo di base: la libertà si declina come valore supremo, base di ogni diritto e la famiglia e le relazioni affettive primarie alle quali da luogo, diventano il punto salvo per il quale vale la pena rischiare una condanna o tenere duro in carcere in prospettiva della futura liberazione.

Porto a confronto la testimonianza di Angela, 44 anni, (intervista n. 9) detenuta nella Casa circondariale di Genova Pontedecimo per 2 anni e 5 mesi e nella Casa circondariale di Pavia per 6 mesi, Angela ha scontato un totale di 1060 giorni di detenzione: " La famiglia, tutto quello che ho fatto se sbagliato o non sbagliato l' ho fatto per aiutare la mia famiglia", la situazione che l'ha portata a commettere il reato per il quale è stata reclusa è scaturita all'interno delle dinamiche familiari, A. non mette che superficialmente in discussione l'erroneità o legittimità del reato commesso, questione che assume un peso del tutto secondario in relazione all'importanza della propria famiglia come unico indice di riferimento e propulsore fondamentale delle sue azioni. A. aggiunge di seguito che durante la detenzione era importante per lei: " poter aver contatto con i miei familiari e poter avere un lavoro remunerato per poter contribuire alle spese di casa", dunque la famiglia rimane il nucleo principale di appoggio e preoccupazione, con i soldi guadagnati lavorando in carcere A. supplisce alla sua mancanza e alla situazione di indigenza nella quale ha lasciato la propria famiglia.

Anche Gianfranco, 38 anni, (intervista n. 3) ritiene la mancanza della famiglia e delle relazioni affettive come un elemento importante nel contesto delle privazioni vissute in carcere, egli ha vissuto in carcere 12 anni e sette mesi della sua vita, per un totale di 4590 giorni. Questi sono gli istituti dove ha vissuto: Bosco Marengo, Alessandria. Genova, Marassi. Alba. Torino, Le Vallette. Cuneo, Cerealdo. La Spezia. Massa. Egli afferma la famiglia è la cosa più importante insieme al lavoro. Per me è importante aver chiuso con il passato. E' difficile, dura vivere oggi, bisogna stare nel proprio e bene con le persone che ti sono care[.]. La sofferenza non porta nessuna educazione, ti distrugge, perdi tutto, i valori, i tuoi cari, specialmente se sei giovane sei perso Gianfranco vede nel trauma causato dalla separazione dai propri cari un tratto inequivocabilmente doloroso dell'esperienza detentiva, la sofferenza di questo dolore porta alla distruzione dello sviluppo affettivo, è da credere che tanto più si protrae il periodo durante il quale perdura l'allontanamento, tanto maggiore sarà la probabilità che una volta libero l'ex detenuto, abituato alla prassi istituzionale, incontri serie difficoltà nell'instaurare una relazione affettiva naturale.

L'individuo sottratto involontariamente alla normalità dei rapporti sociali, viene inserito in un contesto onnicomprensivo e produttivo di significati morali totalizzanti, la perdita della libertà si somma alla sensazione più o meno esplicita che il proprio comportamento sia considerato moralmente inaccettabile.

Questo stigma il cui simbolo indiretto è la presenza degli agenti di custodia come gruppo superiore di riferimento costituisce un surplus punitivo significativo con il quale il detenuto deve confrontarsi lungo il percorso di detenzione e successivamente; l'immagine che di lui forniscono gli agenti di custodia, indiretti rappresentanti della società morale all'interno del sistema penitenziario, è un esempio di questo stigma come processo di condanna morale della società e dei suoi rappresentanti. Vorrei proporre in merito l'esperienza di Laura, 52 anni, ( intervista n.1), detenuta per 4 mesi e 15 giorni nella Casa circondariale di Vercelli e per un anno nella Casa circondariale di Genova Pontedecimo, per un totale di 500 giorni di reclusione, di Victor, 29 anni, (intervista n.2), detenuto presso la Casa circondariale di Busto Arsizio per 4 mesi e nella Casa circondariale di Genova Marassi per 3 mesi e 15 giorni e di Luis, 31 anni, (intervista n.8) detenuto presso la Casa circondariale di Genova Marassi per 6 anni ed un mese, un totale di 2220 giorni di detenzione; Laura: ". fra fuori e dentro c'è un cambiamento di trattamento profondo, sei allo zoo, ti guardano e ti trattano come un animale, il carcere è un mondo a parte [.].Il mio problema era di non identificarmi a fondo in quella realtà, ci sono persone che sono succubi del carcere, che fanno parte dell'arredo. Non ti identifichi a vari livelli prima riguardo gli agenti, perché non sei un animale e poi nella figura della detenuta", Victor aggiunge: " per gli agenti i detenuti sono come extra terrestri, come spazzatura."e Luis conclude: "Molta gente si sente discriminata dagli agenti che ti trattano male, ti fanno sentire una merda, in aggiunta alla libertà che ti tolgono ti trattano come se fossi senza dignità."

All'interno del carcere avviene dunque una trasformazione: i prigionieri hanno perduto quel di più che li caratterizzava come cittadini degni di rispetto perché riconosciuti a loro volta come portatori di rispetto: questa quota di dignità perduta, nell'enfatizzare la mancanza di "rispetto" (ad es. di una norma) in cui essi sono incappati, si cristallizza per l'immagine della persona nel suo esatto contrario, nello stigma: è sotto l'ottica dello stigma che è permessa o comunque considerata irrilevante la totale mancanza di tatto nel rapporto degli agenti con i prigionieri, ai detenuti viene proposta un'immagine, un'autorappresentazione che rasenta quella del non umano, o del sub umano; diventa davvero difficile confrontarsi costantemente con questo stereotipo senza ledere la propria concezione di sé, ed è proprio di questo stigma che parla Diana, 34 anni, (intervista n.3), detenuta per 5 mesi e 18 giorni presso la Casa circondariale di Genova Pontedecimo, per un totale di 168 giorni di detenzione: " perdi la dignità nei confronti delle altre persone, e sapere questo ti fa soffrire, ti distrugge, è una morte interiore.".

Questo stigma agisce indirettamente anche nel regolare i rapporti tra gli stessi detenuti; la rappresentazione degradante fornita dal corpo di custodia influenza l'immagine dei detenuti, ognuno rispetto agli altri e spesso in un circuito di abbrutimento reciproco; se Laura afferma di non identificarsi nella realtà e nel trattamento proposti è perché non si riconosce né nell'immagine che di lei hanno le guardie né nell'immagine che di lei hanno le altre detenute.

Anche Angela (intervista n.9) afferma " Mi sono sempre ritenuta un pesce fuor d'acqua, non mi sentivo una delinquente, non per arroganza, né presunzione, ma era difficile avere un dialogo con le altre detenute tossicodipendenti." ed è dello stesso avviso anche Stacy, 28 anni, ( intervista n. 8), detenuta per 11 mesi, 330 giorni, presso la Casa circondariale di Genova Pontedecimo: "la prigione non era il posto per una persona come me", le autorappresentazioni di se stessi, nelle quali il crimine commesso non lede la propria immagine del sé, spesso perché percepito come unica scelta possibile, non coincidono con le rappresentazioni stigmatizzanti proposte dall'ambiente circostante, e questo sfasamento ed il suo grado di incidenza nella totalità della vita del recluso acuiscono notevolmente la sofferenza vissuta dalla comunità dei detenuti.




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